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Un algerino di 32 anni M.K. che sta scontando una pena a 1 anno e 5 mesi di carcere, ha ingoiato una forchetta per protestare contro il mancato trasferimento a Genova. L’uomo che finirà di scontare la pena tra meno di un anno, si trova a Buoncammino da 7 mesi essendo stato sfollato dal carcere ligure di Marassi”. Lo rende noto l’associazione “Socialismo Diritti Riforme” in seguito a un colloquio effettuato con il detenuto dai volontari.
Nel corso dell’incontro con il cittadino algerino è emerso che il grave gesto autolesionistico non è stato l’unico. L’uomo infatti ha ingoiato un’altra forchetta che però è riuscito ad espellere. “Si tratta – sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di SdR – di una persona privata della libertà che soffre particolarmente la distanza dai familiari. Sostiene infatti di avere un fratello a Genova ma le condizioni sanitarie, la conoscenza di un italiano approssimativo e la difficoltà a dare indicazioni precise sulla parentela rendono la sua situazione particolarmente difficile.
Nei giorni scorsi, in seguito alla nuova ingestione della forchetta, è stato ricoverato in Ospedale per provvedere alla rimozione della pericolosa posata. Giunto a destinazione però, forse perché non aveva compreso il motivo del ricovero, ha firmato il foglio di dimissioni ed è tornato a Buoncammino. Una dimostrazione palese del disagio in cui si trova”.
“La vicenda – evidenzia Caligaris – presenta tuttavia dei tratti che qualificano negativamente l’iniziativa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. È evidente che l’algerino è stato trasferito in Sardegna per alleggerire il numero di ristretti nella struttura di Genova ma la motivazione appare piuttosto punitiva anziché razionale. Una persona che mostra evidenti segnali di malessere non può essere considerata una patata bollente di cui disfarsi allontanandola laddove invece avrebbe potuto accedere a una pena alternativa tenendo conto della svuota carceri e della pena non particolarmente gravosa”.
“Purtroppo – conclude la presidente di SdR – l’amministrazione sembra dimenticare che spesso i cittadini extracomunitari in stato detentivo sono poveri diavoli che hanno bisogno soltanto di essere reinseriti in società attraverso iniziative rieducative e promuovendo azioni per consentire loro di avere un lavoro almeno per il sostentamento. Restando così la situazione, nonostante la buona volontà del Direttore, degli Agenti e dei Medici, non è possibile contenere la disperazione di queste persone. La speranza almeno per M.K. è che possa tornare a Genova e ritrovare i parenti per concludere positivamente la sua triste esperienza.
Fonte: Agenparl
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Nel carcere minorile di Catanzaro, all’ora di pranzo, e’ scoppiata una
lite tra detenuti minori, all’interno del refettorio; lite che non e’ degenerata in una vera e
propria rissa, da quanto ci riferiscono, solo grazie al pronto intervento degli agenti di polizia
penitenziaria, due dei quali hanno riportato ferite, anche alla testa, giudicate guaribili in dieci
giorni”. E’ quanto rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del
Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e Damiano Bellucci, segretario regionale.
”Da quanto abbiamo appreso uno dei minori coinvolti nell’episodio si era gia’ reso responsabile
di episodi analoghi – ricordano – cio’ testimonia la difficile realta’ operativa, anche negli istituti
per minori, proprio a causa del comportamento di molti giovani riottosi al rispetto delle regole
e spesso aggressivi e violenti. Riteniamo sia necessario intervenire con misure di rigore –
concludono i due sindacalisti – procedendo, se del caso, anche al trasferimento di coloro che si
rendono responsabili di episodi di violenza.
Fonte: Adnkronos
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Ci sono compagni che per le loro idee rischiano di proprio,sacrificando in primis la loro liberta’,
unica cosa realmente loro e realmente importante.
Dayvid non mette bombe.
Dayvid non stava organizzando nessun atto ecclatante, magari a spese altrui.
Dayvid e’ solo una persona che critica il sistema apertamente e attivamente, magari a volte
con troppa foga, ma sempre con coscienza e sempre forte della convinzione che un altro mondo
sia possibile.
Dayvid non ha santi in paradiso e tantomeno in parlamento.
Dayvid e’ un cane sciolto.
Dayvid e’ anarchico.
Per tutti questi motivi Dayvid e’ in carcere.
Il 28 ottobre 2012, senza palesarsi, degli agenti della digos lo traggono in arresto a casa sua,
dicendogli che devono notificargli qualcosa. Viene invece incarcerato immediatamente a S.Vittore.
Le circostanze che hanno condotto al suo arresto non sono del tutto chiare, e vengono
chiarite solo in parte qualche settimana dopo.La sua VERA colpa e’ essere un attivista NO TAV
e anarchico. Insomma, uno scomodo.
Seguendo schemi che ben conosciamo, un mese dopo dal suo arresto Dayvid viene trasferito
al carcere di Alba- Cuneo, pratica che vorrebbe farlo sentire ulteriormente solo e abbandonato.
Cosi’ invece non sara’, piu’ lo porterete lontano e piu’ i suoi amici urleranno forte.
Non dimentichiamoci di Dayvid e di tutti quelli nelle sue stesse condizioni.
Non lasciamoli soli,
Dayvid potresti essere tu!
CIGA LIBERO!!!
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8 gennaio 2013 – Un gruppo di detenuti ha appiccato il fuoco ad una ala di massima sicurezza di un penitenziario situato nel centro del Sudafrica. Lo si apprende da una responsabile delle carceri.
“Dei detenuti hanno dato fuoco ad una ala di massima sicurezza del penitenziario di Groenpunt”, ha dichiarato all’Afp Grace Molatedi, vice commissario regionale delle carceri nella provincia dello Stato Libero senza fornire dettagli su eventuali vittime o danni. Il numero dei detenuti non è stato comunicato. A novembre, due prigionieri avevano preso in ostaggio un medico e una infermiera in un carcere privato della stessa regione, nei pressi di Bloemfontein. L’infermiera era stata rilasciata rapidamente mentre il medito era stato tenuto in ostaggio per una ventina di ore.
Nove guardie e 50 detenuti feriti
Cinquanta prigionieri e nove secondini sono rimasti feriti ieri sera nel corso di una rivolta scoppiata in un carcere sudafricano. È quanto ha annunciato oggi la polizia. Le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nel penitenziario, utilizzando granate assordanti, per riprendere il controllo di una sezione di massima sicurezza della prigione di Groenpunt, nella provincia dello Stato Libero dove i rivoltosi avevano appiccato il fuoco e eretto delle barricate.
“Cinquanta prigionieri e nove secondini sono rimasti feriti ma non è morto nessuno e nessuno è stato colpito da proiettili”, ha dichiarato il portavoce della polizia, Peter Kareli. Questa sezione della prigione conta 750 prigionieri. Secondo gli investigatori, i detenuti hanno criticato la qualità del cibo e rifiutato di prendere i pasti a fine pomeriggio prima di attaccare i secondini e dare fuoco a delle celle. La rivolta ha causato ingenti danni alla prigione. A novembre, due detenuti avevano preso in ostaggio un medico e una infermiera in una prigione privata nella stessa regione, nei pressi di Bloemfontein. L’infermiera era stata rilasciata rapidamente mentre il medico era rimasto nelle mani dei detenuti per una ventina di ore.
Fonte: ristretti.org
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Uno dei tre albanesi che all’alba di lunedì hanno tentato la fuga dal carcere di San Giovanni di Alghero, lavorava in una officina all’interno della casa di reclusione,
Non è stato difficile per lui procurarsi alcuni seghetti con i quali nella notte tra venerdì e sabato hanno concluso il lavoro di segare le sbarre.
Poi con una corda realizzata unendo diverse lenzuola arrotolate, sono usciti dalla finestra della cella fino al cortile sottostante che si trova a una decina di metri di altezza .
Uno di loro è riuscito a salire sul tetto della direzione del carcere ma in quel momento è stato subito inquadrato dalle telecamere della sala di regia.
Da quell’istante ogni mossa dei tre albanesi è stata controllata. Il sottufficiale di servizio ha allertato gli uomini in turno notturno, tre agenti per 130 detenuti. Dopo un primo tentativo di saltare il muro di via Catalogna , oltre 15 metri, un’impresa a rischio di rompersi l’osso del collo, uno dei tre ha raggiunto il muro di cinta dalla parte di via Vittorio Emanuele, in corrispondenza del del passo carraio, dove l’altezza è inferiore.
Ma proprio sul muro è stato raggiunto da un agente di Polizia Penitenziaria che gli ha puntato la pistola d’ordinanza. L’albanese, e gli altri due compagni di fuga, hanno a quel punto capito che l’evasione era fallita.
Nel frattempo nel carcere di San Giovanni erano già arrivati gli uomini del Commissariato di Polizia e subito dopo i Vigili del Fuoco, allertati sempre dalla cabina di regia .
Nel giro di un’ora gli agenti del carcere, in collaborazione con i poliziotti, avevano rimesso le manette ai polsi dei tre e li avevano rinchiusi nuovamente in cella a disposizione della Procura della Repubblica per i reati commessi nel tentativo di evasione.
I tre stavano scontando condanne per reati di droga, contro il patrimonio ed estorsione. Uno di loro aveva soltanto qualche mese da scontare, gli altri due diversi anni. Nel corso della perquisizione personale a uno dei tre sarebbe stato trovato addosso un telefonino . Secondo gli agenti della Polizia Penitenziaria e gli uomini del Commissariato, i tre avevano dei complici all’esterno, si parla anche di una donna, che avrebbero dovuto accoglierli e proteggerne la fuga.
La mancata evasione dei tre detenuti dal carcere di San Giovanni testimonia l’efficienza del servizio di vigilanza interna nonostante una situazione a dir poco tragica per quanto riguarda l’organico in servizio attivo.
Fonte: buongiornoalghero.it
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E’ successo nel 1997 nel carcere di Arezzo riportando una lesione cerebrale, ora la sentenza. Il tribunale ha condannato il Ministero della Giustizia a 1 milione e 600 mila euro
Andò in coma nel 1997 per aver ingerito una dose di metadone mentre era nel carcere di San Benedetto ad Arezzo. Oggi il tribunale di Firenze ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire il detenuto, all’epoca dei fatti trentenne, con 1 milione e 600 mila euro. “Una sentenza – ha dichiarato l’avvocato Luca Fanfani, legale dell’uomo – che ha puntato ildito sul fatto che la struttura carceraria deve garantire l’incolumità del detenuto, evitando che ingerisca eroina o altre sostanze e, in caso di somministrazione di medicinali, ciò deve essere fatto in maniera corretta”.
Il trentenne, secondo quanto ricostruito nell’indagine, soffriva di tossicodipendenza e ingerì il metadone datogli dagli agenti penitenziari probabilmente assumendo anche dell’eroina che era riusciuto a portarsi in cella. Subito dopo il giovane andò in coma per un lungo periodo di tempo, riportando una lesione cerebrale che lo ha costretto sulla sedia a rotelle.
Fonte: repubblica.it
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14/01/2013 – Uno dei marocchini condannati a 17 anni per l’omicidio del pensionato torinese Sabino Lore’, ha tentato il suicidio impiccandosi con dei lacci a una finestra del carcere delle Vallette. L’uomo, 38 anni, e’ stato salvato dalla polizia penitenziaria e trasportato in ospedale. ”Gli agenti – dice Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo Osapp – hanno operato con professionalita’ nonostante la grave carenza di organico”.
Fonte: ANSA
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Riceviamo e diffondiamo una lettera di Santo, prigioniero entrato in contatto con Maurizio Alfieri nella sezione di isolamento del carcere di Saluzzo. Santo segnala gli abusi e l’abbandono sanitario che contraddistinguono la sua situazione, come quella di molti altri uomini e donne sequestrate nelle discariche sociali dello Stato. Apprendiamo che nel frattempo Santo è stato trasferito a Milano – San Vittore.
UNA LETTERA DAL CARCERE DI SALUZZO
Ciao carissimi compagni,
chi vi scrive è un compagno di Maurizio Alfieri. Maurizio mi ha parlato molto bene di voi e allora mi sono sentito di prendere carta e penna e scrivermi la mia sofferenza.
Mi chiamo Santo, sono di Catania, vivo a Milano e ho 38 anni.
In questo momento sto passando dei momenti brutti e molto tristi per la morte di mio padre.
Ma questo mi dà più forza per combattere il mio problema e spero che la mia testimonianza spingerà qualcuno ad aiutarmi e a fare sentire la mia voce tramite voi compagni e Internet.
Io sono portatore di bendaggio gastrico, pesavo 188 kg, ne ho persi più di 80 e ho bisogno di controlli periodici specializzati presso il policlinico di Milano (padiglione Zonda, dottor Mozzi). Dovrei andare ogni 6 mesi per come hanno dichiarato i periti in sentenza. Ma è da giugno 2011 che non faccio controlli.
Sono stato accusato sulla base di “voci confidenziali” ritenute attendibili di essere mandante, capo sommossa e capo promotore di rivolte ecc. ecc. E mi trovo in isolamento da dicembre 2011 come un cane. Mi hanno sanzionato con gli articoli più gravi (art. 3,4,5 e 39 OP) e applicato la G.S.C. (Grande Sorveglianza Custodiale) da reato comune. Tutto ciò perché ho lottato per i mie diritti alla salute.
Ogni 6 mesi mi trasferiscono senza darmi cure né spiegazioni (da Catania a Caltagirone, Caltanisetta, Trapani, Favignana, Ucciardone, S. Vittore, Opera, Biella e ora Saluzzo).
Ora è da marzo 2012 che aspetto un’operazione all’epidermide cutea DX, è per questo che se ne lavano le mani perché abbiamo fatto denuncia per danni permanenti e si spaventano ad operarmi.
Ho scritto a Riccardo Arena (radio carcere) con tutta la documentazione ma siccome il tutto scotta non ha fatto niente perché c’è da combattere per gli abusi che sto ricevendo, ma io li affronto giorno per giorno sì che loro hanno paura perché io mi faccio rispettare.
Spero che avrò la solidarietà dei vari compagni così mi faranno compagnia e potremo combattere assieme per i nostri ideali che sono la libertà di uomini liberi.
Ora vi saluto con affetto e stima.
Il vostro compagno carcerato,
Santo Galeano
P.S. Maurizio ci informa che Santo (il quale aveva accluso alla lettera la documentazione medica e il cui stato di salute è ancora peggiore di quanto non emerga dalle sue parole) è stato di nuovo trasferito, questa volta a San Vittore.
Per scrivergli:
Santo Galeano
Casa circondariale di Milano San Vittore – Piazza Filangieri 2 – 20123 MILANO
Fonte: informa-azione
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Inoltriamo:
Testimonianze: Torturato e pestato in carcere
Desidero portare a conoscenza la mia vicenda di TORTURA DI STATO in CARCERE MEDIANTE PSICOFARMACI – con tanto di INDOTTA CRISI IPERTENSIVA – nel reparto “Il Sestante” di Le Vallette a Torino, guidato dal Dott. Elvezio Pirfo. Dovuta ad un palese scambio di cartelle anamnestiche col mio compagno di cella.
Il sottoscritto è un incensurato in attesa di giudizio. Tra l’altro invalido oltre i 2/3 (80%): con tale invalidità non sarei nemmeno dovuto entrare in carcere.
Ma anche se fossi stato colpevole lo Stato non ha diritto di tortura, ma obbligo di custodia.
Questa assieme alla successiva vicenda del mio PESTAGGIO SQUADRISTA COPERTO DAL SINDACO E DAL MARESCIALLO del paesino di MONASTERO BORMIDA, con tanto di Sindaco che è venuto a dichiarare in Tribunale che IO DOVEVO ESSERE RINCHIUSO perchè pazzo, non ha spiegato il perchè ma lo ha detto e ribadito!!!
QUESTA è una VICENDA che CONFERMA le storie di CUCCHI ed ALDROVANDI, in particolare quella di Cucchi: LO STATO NON TIENE IN NESSUN CONTO LA VITA di chi è sotto custodia.
SONO SOPRAVISSUTO, VOGLIO TESTIMONIARE ED HO TUTTO DOCUMENTATO! TUTTO!!!
Occorre mettere fine alla Giustizia Sudamericana ed all’impunità dei poliziotti e di certi personaggi che gravitano nel sottobosco dei Tribunali e delle carceri – Avvocati e Periti -.
Sono sopravvissuto perchè sono un bestione ed ho fatto arti marziali, ho un fisico che era d’acciaio, anche se ero già invalido all’80% per Depressione Maggiore ed attacchi di panico – causa incidente a 20 anni -.
La mia vicenda RIBADISCE QUELLA DI CUCCHI e conferma che la Giustizia Italiana ha 2 vie, una veloce e spietata, con maltrattamenti compresi, per i poveracci, una inconcludente che tutela i ricchi.
Massimo Gallo
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[15:36] Dalla mattina del 12 Gennaio, poche ore prima di una grande manifestazione di solidarietà che abbia avuto luogo nel centro di Atene, i 92 arrestati dalla rioccupazione di Villa Amalias sono stati portati davanti a un giudice di interrogazione nei tribunali di Evelpidon. Circa 25 compagni sono stati rilasciati fino ad ora, senza cauzione monetaria, ma con il termine restrittivo di presentarsi ad una stazione della polizia una volta al mese. Il procedimento giudiziario sarà lungo.
Nel frattempo, azioni di solidarietà per le occupazioni e gli spazi liberati hanno avuto luogo in diverse città greche, a Salonicco, Patrasso, Chania, Rethymno e Heraklion (a Creta), Mitilini (a Lesvos), così come a Naxos.
[18:55] Ad Atene, un totale di 42 arrestati sono stati rilasciati finora. Secondo le nuove informazioni, sono obbligati a presentarsi ad una stazione della polizia vicina alla loro residenza ogni mese, ma sono anche posti al divieto di uscire dal paese fino al loro processo.
[20:07] Altre 26 persone arrestate dalla rioccupazione di Villa Amalias sono ora rilasciate; 68 sono per le strade.
[22:28] Finalmente tutti i 92 compagni sono liberi
LA PASSIONE PER LA LIBERTÀ È PIÙ FORTE DA TUTTE LE CELLE
COMUNICATO: 11/01/2013
Dopo gli avvenimenti repressivi di ieri, dopo l’evacuazione della rioccupata Villa Amalias e l’arresto dei 92 compagni/e che abbiamo partecipato alla rioccupazione, dopo l’evacuazione dell’occupazione simbolica della sede centrale degli uffici della DIMAR (“Sinistra Democratica”) e il fermo dei 38 compagni/e dopo l’evacuazione dell’occupazione di Patission 61& Scaramanga e l’arresto di 8 compagni è arrivata l’ora della giustizia “imparziale” di mostrare i suoi denti.
Dopo la nostra detenzione per più di 24 ore in questura, i 92 arrestati occupanti di Villa Amalias, siamo stati presentati oggi al procuratore accusati di due reati minori e un crimine.
Nei tribunali di Evelpidon, il procuratore confermando il suo ruolo, visto che ha rifiutato di avviare il processo, con la scusa della mancanza delle prove accusatorie, ha rinviato per Sabato mattina. È chiaro che la mancanza di prove (o anche la mancanza di reato) viene cercata di essere recuperata con la nostra processione con gravi accuse, con qualsiasi sacrificio, in modo da guarire, il battuto dalla rioccupazione di Villa Amalias, morale della polizia
Dichiariamo apertamente che non faremo un passo indietro, che non ci terrorizziamo né dalla repressione della polizia, né dalle acrobazie giudiziarie.
Dalle celle di detenzione di GADA solleviamo i nostri pugni, salutando le migliaia dei solidali che negli ultimi due giorni e notti sono stati per le strade, al di fuori del quartier generale della polizia (GADA) e ai tribunali di Evelpidon inviando il messaggio della lotta e della resistenza.
Invitiamo tutte le persone del mondo della resistenza e della lotta di partecipare alla manifestazione di solidarietà alle 12:00 presso Propilea, Sabato 12/01, per dare un’altra risposta massiccia e dinamica all’arroganza del potere.
NEMMENO UN PASSO INDIETRO
TUTTO CONTINUA
I 92 arrestatI/e di Villa Amalias
PS. E un’altra cosa… Le uniche persone che possano parlare per i fatti della rioccupazione siamo i 92 arrestati, e certamente non i pappagalli dei media.
fonte
Commenti disabilitati su Aggiornamento Atene: Comunicato dei 92 arrestati di Villa Amalias dall’interno del quartier generale della polizia | tags: anticarceraria, arresti, atene, carcere, centro sociale, comunicato, CordaTesa, detenuti, grecia, occupazione, rioccupazione, rivolta, sgombero, villa amalias | posted in Comunicati, critiche e riflessioni, Tutti
AVELLINO- Tensioni stamani nel carcere di Bellizzi Irpino per la visita di una delegazione sindacale della Uil-Penitenziari autorizzata dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria (DAP) a scattare foto e girare video alle celle e alle sezioni detentive.
Una visita sgradita per i detenuti sottoposti al 41 bis (carcere duro), che non volevano essere ritratti: i carcerati, secondo quanto reso noto dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) hanno manifestato il proprio dissenso dando vita alla ”battitura”, cioe’ picchiando le sbarre con oggetti di metallo.
L’ok dell’amministrazione penitenziaria a fare entrare macchine fotografiche e cineprese nella casa circondariale e’ stata definita come ”una decisione importante verso la trasparenza”, dai due componenti la delegazione, Eugenio Sarno eMassimo Spiezia, rispettivamente segretario generale e componente della Direzione Nazionale della UIL Penitenziari.
”Oggi non abbiamo potuto fotografare le celle perche’ l’autorizzazione e’ stata ritenuta generica e il comandante di Avellino ci ha chiesto di soprassedere a fotografare ambienti detentivi”, ha detto Sarno. ”Pur non condividendo tale impostazione abbiamo voluto seguire le sue indicazioni anche se cio’ ci ha privato della possibilita’ di documentare come celle sovraffollate con letti a castello a tre piani non consentano al personale di effettuare quei controlli di sicurezza, come la battitura delle inferriate, che a volte sono determinanti per evitare evasioni eclatanti come e’ avvenuto recentemente a Busto Arsizio”, ha concluso il segretario generale della Uil Penitenziari.
Il parere della Uil non e’ condiviso, invece, da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE), che ha stigmatizzato la decisione dell’Amministrazione di concedere il nullaosta e chiesto le dimissioni di chi l’ha adottata: ”il carcere deve essere una casa di vetro, ma se non si rispetta il diritto alla privacy delle persone detenute e’ ovvio che queste si lamentano determinando tensione che solamente i poliziotti penitenziari devono poi fronteggiare”.
Fonte: eolopress.it
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La mannaia della crisi si è abbattuta inesorabilmente sugli autobus di Monza. La decisione di Net, l’azienda che gestisce il trasporto locale, di sopprimere tre linee ha avuto ricadute negative non solo sui pensionati e i tanti ragazzi abituati ad andare a scuola in pullman, ma anche sui carcerati.
E sì perchè a finire sotto i riflettori, in particolare, è stata la z266, linea che metteva in collegamento la città con la casa circondariale monzese.
A sollevare la questione è stato il consigliere della lista civica Cambia Monza Paolo Piffer «La z226 era l’unica linea di autobus in grado di creare un collegamento tra la città e il carcere di Monza – ha spiegato – I parenti dei carcerati che non hanno la possibilità di utilizzare un mezzo di spostamento proprio si trovano ora in grande difficoltà. Ma non solo: nella medesima situazione versano anche i medici e i volontari che si recano nella struttura per lavoro e utilizzano abitualmente questo autobus».
Ed è proprio per evitare che la soppressione della linea di pullman in questione rischi di tagliare i rapporti tra i detenuti e il mondo esterno che il comune e la provincia stanno vagliando delle ipotesi per risolvere la questione.
«Il taglio dei trasporti di queste linee non riguarda il comune bensì la provincia – ha detto l’assessore alla Mobilità di Monza Paolo Confalonieri – Due le ipotesi su cui si sta lavorando: la prima, di competenza provinciale, riguarderebbe il prolungamento della linea 202 cosicchè possa compiere parte del tragitto che prima veniva effettuato dalla 226. La seconda, e questa è un’ipotesi che stiamo valutando come Comune, è di istituire un servizio di bus navetta».
Fonte: mbnews.it
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Evade dai domiciliari e aggredisce un militare in borghese all’esterno della base logistica di Cecina.
Alla vista dei carabinieri ha minacciato e cercato di aggredire fisicamente anche loro
I carabinieri hanno rintracciato il responsabile, un trentaduenne di Cecina, e lo hanno arrestato poco dopo per evasione, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale. Il fatto è accaduto lo scorso mercoledì mattina, quando i carabinieri sono intervenuti a seguito di una chiamata della base logistica di Cecina.Secondo la chiamata un militare, in borghese e libero dal servizio, era stato aggredito fuori della base dal trentaduenne. L’aggressione, sia fisica che verbale, era avvenuta per futili motivi. L’uomo aveva minacciato anche altri militari accorsi in difesa del collega.I carabinieri, dopo aver raccolto le prime testimonianze hanno intuito di chi poteva trattarsi e si sono subito diretti presso l’abitazione del trentaduenne. Quest’ultimo, alla vista degli uomini dell’Arma ha minacciato e cercato di aggredire fisicamente anche loro. Portato in caserma è stato quindi dichiarato in arresto per evasione, visto che si trovava ai domiciliari, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale e trattenuto in camera di sicurezza. A seguito dell’udienza di convalida, l’uomo é stato trasferito nel carcere di Livorno.
Fonte: ANSA
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A poche ore una dall’altra le due carceri di Alessandria hanno vissuto ieri momenti di tensione. Nel
penitenziario Cantiello-Gaeta un detenuto romeno ha cercato di gettarsi dal tetto della struttura,
poco dopo in quello di San Michele altri due detenuti magrebini hanno provocato un incendio e
tentato di darsi fuoco. Lo comunica il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (SAPPE). I
detenuti sono stati salvati dal tempestivo intervento degli agenti. ”E’ evidente – dichiara Donato
Capece, segretario generale del SAPPE – che le costanti criticita’ quotidiane delle carceri italiane
sono il sintomo palese della loro invivibilita”’.”La situazione penitenziaria e’ sempre piu’
incandescente” sottolinea. Capece ricorda che ”ad Alessandria oggi ci sono complessivamente piu’
di 800 detenuti: 395 alla Casa circondariale Cantiello e Gaeta (che ha 260 posti letto
regolamentari) e 416 alla Casa di reclusione S. Michele, che ha anch’essa 260 posti letto
regolamentari. Insomma, 300 detenuti in piu’ rispetto al previsto”. Dal 1 gennaio al 30 giugno
2012 ad Alessandria ci sono stati 18 atti di autolesionismo e 4 tentati suicidi.(ANSA).
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Il compagno Alfonso Fernandez é stato scarcerato oggi alle 18, dopo aver passato piu di due mesi nel carcere madrileno del Soto del Real, sotto regime Fies ( Ficheros de Internos de Especial Seguimiento). É in libertá vigilata. La sua scarcerazione é una vittoria della solidarietá contro la meccanica repressione dello Stato bugiardo. Resistenza sempre!
Spagna – Cresce il numero di prigionieri politici in Europa. In seguito al primo sciopero paneuropeo del 14 novembre, c’è un compagno in carcere. Non una persona a caso, in quanto Alfonso Fernandez “Alfon”, così come sua madre, sono noti attivisti, antifascisti e anticapitalisti, particolarmente attivi nel quartiere proletario di Vallecas a Madrid. Alfon, un ragazzo di 21 anni, è stato arrestato la mattina del 14 novembre, a 100 metri dalla sua abitazione, mentre con la sua compagna si stava recando ad un punto informativo, con l’accusa di stare trasportando una tanica di benzina. Sono seguiti interrogatori continui da parte della polizia, uno ogni due ore, torture e minacce, anche di morte, nei confronti loro e della loro famiglia, da parte di sbirri con il volto coperto. Mentra la compagna è stata rilasciata, Alfon è tuttora prigioniero presso il modulo F.I.E.S. del carcere di Soto del Real a Madrid. Secondo gli ultimi aggiornamenti, oltre alle restrizioni su comunicazioni, colloqui e posta, pratiche afflittive tipiche del regime punitivo F.I.E.S., Alfon viene minacciato di trasferimento presso un carcere alle Canarie, lontano da compagni e affetti. I collettivi solidali invitano a non scrivere direttamente al prigioniero, onde evitare l’interruzione di comunicazioni prioritarie visto il limite imposto di 2 lettera a settimana.
Georges Ibrahim Abdallah è libero!
Giovedì 10 gennaio Georges Ibrahim Abdallah è stato finalmente liberato dopo oltre 28 anni trascorsi in detenzione in Francia.
Malgrado questa detenzione eccezionalmente lunga, la cui entità è a misura della complicità delle autorità francesi con lo stato sionista e imperialista USA, G.I. Abdallah è rimasto fedele al proprio impegno al servizio dei popoli arabi, libanesi e palestinesi contro il sionismo, l’imperialismo e la reazione araba. Georges I. Abdallah era divenuto contemporaneamente un esempio di accanimento della repressione imperialista e un esempio di resistenza e determinazione rivoluzionarie.
Il Soccorso Rosso Internazionale è fiero d’aver iniziato, oltre dieci anni fa, la campagna per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah. Da questo «calcio d’inizio» sono decine le iniziative fatte in una mezza dozzina di paesi da diverse organizzazioni partecipanti alla costruzione del Soccorso Rosso Internazionale e, nel corso degli anni, abbiamo visto la solidarietà verso Georges estendersi sempre più, con l’aggregazione di nuove forze, e trasformarsi infine in un grande movimento che denuncia il mantenimento in prigione di G.I.Abdallah. Il successo, dopo tanti anni di lotte, della mobilitazione per la liberazione di G.I.Abdallah ci invita a raddoppiare gli sforzi per strappare tutti i prigionieri rivoluzionari, comunisti, antifascisti, anarchici condannati dalla giustizia di classe e tenuti in ostaggio nelle carceri della borghesia imperialista.
Libertà per tutti i prigionieri rivoluzionari !
La Commissione per un Soccorso Rosso Internazionale (Zurigo-Bruxelles)
Soccorso Rosso Arabo (Parigi)
10 gennaio 2013
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Ci sono momenti in cui arriva il sole, attraversa le sbarre, filtra dal vetro, attraversa la bottiglia che hai sul tavolo, si allunga in stralci sul tavolo, ti scalda un po’ l’orecchio.
Ci sono momenti in cui di notte guardi il soffitto, ascolti il silenzio, senti il rumore del vuoto del corridoio, ascolti il sibilo di una porta chiusa.
Ci sono momenti in cui ti siedi a fumare una sigaretta all’aperto e guardi il cielo e pensi che se credessi in Dio lo ringrazieresti di poter godere di tanta bellezza anche da qui.
Ci sono momenti in cui cammini per i corridoi e pensi che non ti usciranno più dai polmoni.
Ci sono momenti, tanti momenti, in cui il tuo corpo è fermo e la tua mente ti sta immaginando mentre distruggi tutto quello che ti capita tra le mani.
Ci sono momenti in cui pagheresti oro per una bella birra fresca.
Ci sono momenti in cui ti arriva, da non sai bene dove, un odore di terra, di foglie, di autunno e ti ricordi.
Ci sono momenti in cui il sole del cielo d’autunno ti fa ripensare alle montagne e al fiato dei tuoi cani.
Ci sono momenti in cui finalmente tutte le parole vuote scompaiono, tutte le maschere cadono.
Ci sono momenti in cui cadono tutte quelle degli altri senza che loro lo sappiano.
Ci sono momenti in cui ti accorgi che questo posto ti ha cambiato e altri in cui pensi di essere sempre la stessa; e ti scopri e ti riscopri.
Ci sono momenti in cui riconosci l’oro della giornata dal rumore che senti nei corridoi e ti accorgi che sta diventando normale.
Ci sono momenti in cui di notte ti svegli di soprassalto perché una luce ti spia il sonno.
Ci sono momenti in cui vedi una madre piangere perché non può fare la cosa più naturale su questa terra: stare con i suoi figli.
Ci sono momenti in cui piangi per il pianto di quella madre, per gli abbracci negati, per i rapporti mutilati, perché pensi che per tanto dolore nessuno pagherà mai.
Ci sono momenti in cui pensi che potresti guardare per ore il viso delle compagne che sono con te, perché sai che è solo per quegli occhi che non hai mai avuto paura di questo inferno.
Ci sono momenti in cui pensi al dolore di chi viene a trovarti; alle loro facce che, tutte le volte che se ne vanno, sbigottite, dicono “la stiamo lasciando qui”.
Ci sono momenti in cui il sangue si gela al pensiero della libertà perché pensi che non potrai portare fuori con te le tue compagne.
Ci sono momenti, tanti momenti, in cui una risata irrompe come un tuono, come una cascata da un dirupo e si dipana fresca sulla pelle, sul viso, nella testa.
Ci sono momenti in cui vedi tornare il sorriso sul volto di una compagna e pensi di non voler altro dalla giornata.
Ci sono momenti in cui ti arriva la voce che qualcuno è uscito o evaso e le sbarre si incrinano e il sorriso è beffardo.
Ci sono momenti, tanti, costanti, ripetuti in cui pensi ad un cumulo di macerie, a chiavi spezzate, a divise bruciate e senti la freschezza dei piedi nudi sull’erba e il respiro è profondo.
Commenti disabilitati su Momenti nel carcere, di Giulia | tags: anticarceraria, carcere, cella, compagna, CordaTesa, giulia, lettera, momenti, riflessioni | posted in Comunicati, critiche e riflessioni, Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Prosegue la protesta del palestinese, detenuto in carcere a Gerusalemme e condannato da una Corte militare israeliana a scontare 20 anni di prigione.
E’ cominciato oggi il suo 167esimo giorno di sciopero della fame. E lo ha promesso: non smetterà finché non sarà liberato. Anche a costo di morire. Continua la battaglia di Samer al-Issawi, detenuto in carcere a Gerusalemme e condannato da una Corte militare israeliana a scontare 20 anni di prigione. La battaglia è anche quella dei suoi familiari, che da qualche settimana denunciano vessazioni e violenze da parte dell’esercito israeliano nei loro confronti. Una vendetta, dicono, perché Samer, dopo più di cinque mesi, ancora non cede.
I familiari insistono che l’arresto di al-Issawi, nel luglio scorso, è avvenuto in piena violazione degli accordi relativi allo scambio di prigionieri tra esercito israeliano e Hamas del 2011. Catturato nel 2001 durante la seconda Intifada e condannato a 30 anni di carcere per aver sparato contro i soldati di Tel Aviv davanti al suo villaggio di origine, al-Issawiya – incluso dalle autorità israeliane nella municipalità di Gerusalemme – Samer al-Issawi era stato liberato assieme a oltre un migliaio di palestinesi in cambio di Gilad Shalit.
Poco più di sei mesi dopo è stato arrestato nuovamente in una zona, a detta dell’esercito israeliano, “non appartenente al governatorato di Gerusalemme”, ovvero in Cisgiordania. Per aver violato i confini entro i quali avrebbe dovuto restare, è stato condannato a scontare i restanti 20 anni della pena condonatagli con lo scambio. Confini “labili, che cambiano continuamente a seconda dei decreti delle autorità israeliane” a detta del padre di Samer. Il tutto nella tristemente famosa “detenzione amministrativa”, pratica quasi standard per i prigionieri palestinesi: nessun capo d’accusa, nessuna difesa, nessun processo. Solo una sentenza della corte militare.
Il prigioniero, in condizioni critiche, non accenna a mollare lo sciopero della fame. Ha accettato da poco la somministrazione di vitamine e liquidi per via endovenosa dietro minaccia israeliana di iniettargli a forza del glucosio che, visto il suo stato di salute, probabilmente l’avrebbe ucciso. Una determinazione che, secondo sua sorella Shireen, spaventa Israele, memori dello sciopero della fame di massa avvenuto lo scorso anno, quando l’esempio di Khader Adnan e Hana Shalabi portò più di duemila detenuti palestinesi a rifiutare il cibo per 66 giorni, costringendo le autorità carcerarie israeliane a concedere un miglioramento delle condizioni dei prigionieri e trascinando le carceri dell'”unica democrazia del Medio Oriente” sotto i riflettori della comunità internazionale.
La famiglia al-Issawi denuncia una serie di violenze subite nelle ultime settimane. Più precisamente dal giorno in è stato diffuso in rete un video che mostra sette soldati israeliani picchiare selvaggiamente Samer – in sciopero della fame da oltre 150 giorni e su una sedia a rotelle – nell’aula della Corte dei Magistrati di Gerusalemme sotto gli occhi impassibili di un giudice. Per aver tentato di salutare sua madre prendendole le mani. Da allora, sua sorella Shireen è stata arrestata nella sua casa e tenuta 24 ore in carcere per “attività sovversiva”, ossia l’organizzazione di manifestazioni, in Palestina e fuori, per sostenere il fratello e la sua battaglia. E la sua licenza di avvocato è stata sospesa per sei mesi.
La tenda piantata all’ingresso del villaggio, un luogo di discussione e un simbolo del sostegno a Samer da parte degli abitanti del suo villaggio, è stata smantellata dall’esercito più volte. Il primo gennaio la casa del fratello Ra’fat è stata demolita. E qualche giorno fa i soldati israeliani hanno tolto l’acqua alla casa della famiglia al-Issawi, presentando un fantomatico conto di 50.000 dollari – decine di anni di uso quotidiano, dollaro più dollaro meno – per gli arretrati. Nonostante le bollette regolarmente pagate. “Questa – ha dichiarato Shireen – è la loro vendetta contro la nostra famiglia”.
Secondo l’organizzazione Addameer, che si occupa del supporto e dei diritti umani dei prigionieri, circa il 40% della popolazione palestinese maschile è passata per le carceri israeliane a un certo punto della propria vita. Spesso senza capi d’accusa né processo.
di Giorgia Grifoni
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Pomeriggio di tensione al carcere Don Soria per la plateale protesta di un detenuto rumeno salito sul tetto dell’edificio.
All’indomani della sentenza della Corte Europea di Strasburgo che condanna lo Stato italiano a risarcire centomila euro a sette detenuti per i danni morali derivanti dal trattamento disumano subito nelle celle sovraffollate dell’istituto di pena di Busto Arsizio, un’altra triste storia sempre collegata con il regime carcerario e con i guasti del sistema giustizia guadagna l’attenzione dei media.
Per fortuna, almeno in questo caso, si tratta di una storia a lieto fine anche se per decine di minuti si è temuto il peggio. Un uomo di nazionalità rumena di 26 anni, del quale non sono ancora state rese note le generalità, rinchiuso nella Casa Circondariale di Piazza Don Soriaad Alessandria, nel primo pomeriggio di quest’oggi si è arrampicato sul tetto della struttura detentiva proclamando la sua innocenza. Come abbia fatto il rumeno a raggiungere il tetto non è ancora stato chiarito.
La questione è attualmente al vaglio delle forze dell’ordine. Fatto sta che il detenuto ha attirato l’attenzione degli agenti della polizia penitenziaria. Dopo un primo attimo di smarrimento le guardie carcerarie hanno allertato i Vigili del Fuoco di Alessandria, prontamente intervenuti sul posto. A quel punto è iniziata una trattativa tra il detenuto ed il responsabile dell’ufficio di Polizia Giudiziaria dei Vigili del Fuoco Roberto Pascoli il quale, assistito anche da un dirigente della struttura penitenziaria e da una educatrice, intorno alle ore 16, ha convinto il rumeno a scendere a terra. Secondo quanto si è appreso, il detenuto, padre di un bambino in tenera età, sarebbe in carcere con l’accusa di furto e rapina, ma protesta la sua innocenza che, a quanto pare, non riuscirebbe a dimostrare poiché non può permettersi di assumere un avvocato di fiducia.
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Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha previsto 94 reclusi pericolosissimi a Sassari e altri 94 a Uta, mentre nella struttura di Badu ’e Carros ne resterà solo uno: il boss Antonio Iovine
SASSARI. Saranno 189 i detenuti di altissima pericolosità, quelli reclusi con il rigido regime del 41 bis, che arriveranno in Sardegna durante l’anno. A ospitarli saranno le nuove carceri di Sassari-Bancali e Cagliari-Uta e anche il vecchio ma ristrutturato penitenziario nuorese di Badu ’e Carros. Per i reclusi in regime di 41 bis sono infatti in fase di ultimazione 94 celle singole a Bancali e altre 94 a Uta. Celle molto particolari e superattrezzate, realizzate rispettando tutti i requisiti di sicurezza previsti per quel tipo di detenzione dura riservata ai criminali più pericolosi: soprattutto mafiosi e camorristi.
Il detenuto numero 189, ma sarebbe più logico definirlo numero 1 vista la sua altissima pericolosità, è il boss dei Casalesi Antonio Iovine: é l’unico recluso con il 41 bis a Badu ’e Carros da due anni.
Nelle due carceri di Bancali e Uta dove saranno reclusi i 41 bis non sono invece previsti detenuti identificati con il regime di alta sicurezza: questa è una misura preventiva fondamentale predisposta dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per evitare che i boss possano entrare in contatto con più facilità con la loro manovalanza e quindi mantenere rapporti con l’esterno. Una condizione necessaria anche per garantire la sicurezza del territorio sul quale gravita tutta l’attività legata ai penitenziari.
Il pericolo di infiltrazioni della criminalità organizzata è il rischio maggiore di un carcere che ospita tanti detenuti di altissimo spessore criminale, ma il Dap e il ministero della Giustizia hanno sempre escluso, per quanto riguarda la Sardegna, questa possibilità con la spiegazione che la Sardegna sarebbe assolutamente impermeabile a eventuali collegamenti con questo genere di criminalità. Una valutazione confermata dagli studi fatti proprio in funzione della nuova dislocazione della popolazione carceraria sul territorio nazionale e su quello regionale.
Il ministero della Giustizia ha previsto per i detenuti con il 41 bis, che in tutta Italia sono oltre 600, l’isolamento. Un termine che però è molto più ampio di come viene solitamente inteso: isolamento per il ministero e per il Dipartimento carcerario significherebbe anche portare più criminali pericolosi possibili in penitenziari dai quali sia quasi impossibile la fuga e ancora più difficili i collegamenti con l’esterno. Quindi, quale posto migliore di una terra con il mare intorno come la Sardegna?
Proprio partendo da questa idea-base, era stata prospettata dal ministro della Giustizia, Paola Severino, la possibile riapertura del carcere nell’isola-parco dell’Asinara. Un penitenziario di altissima sicurezza, comunque inserito nell’isola-parco. Idea morta sul nascere, ma non sepolta visto che il progetto sarebbe comunque in cima alla lista delle misure da adottare in caso di inasprimento dell’attività della criminalità organizzata. Nel frattempo, in Sardegna stanno continuando ad arrivare detenuti dalla penisola. Anche durante il periodo natalizio ne sono stati trasferiti alcune centinaia, immediatamente accompagnati nei due nuovi penitenziari appena entrati in attività: quello di Nuchis, in Gallura, che ha sostituito la vecchia “Rotonda” di Tempio e quello di Massama, nell’Oristanese, che ha sostituito la fatiscente struttura di “Piazza Mannu”.
Tra i nuovi arrivati non ci sarebbero sardi, neppure quelli considerati di alta pericolosità, e sarebbero pochissimi quelli riportati in questi mesi nell’isola per scontare le loro pene. Nonostante le richieste dei reclusi e dei familiari, costretti a lunghe trasferte e ad affrontare spese sempre più impegnative per potere vedere anche solo per pochi minuti i loro cari. Una scelta che risulta inspiegabile, quella del Dap, che non avrebbe finora fornito alcuna spiegazione ufficiale sul mancato trasferimento di sardi in Sardegna, trascurando così anche la petizione con migliaia di firme a sostegno della cosiddetta “territorialità della pena”: cioè che i detenuti debbano scontare le condanne all’interno della loro terra di origine.
Sul futuro delle carceri isolane la situazione sarebbe comunque ancora in fase di studio da parte del ministero della Giustizia e del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. L’unica certezza, almeno per il momento, è soltanto sul numero dei detenuti con il 41 bis visto che nei due nuovi penitenziari di Bancali e Uta sono in fase di ultimazione le 188 (94+94) celle singole nei quali dovranno trascorrere i loro giorni fino all’espiazione della pena. Per il resto della popolazione carceraria ci sono soltanto ipotesi, ma senza numeri precisi. Sembra comunque certo che a Massama-Oristano e a Nuchis-Tempio saranno destinati in gran numero reclusi di alta-altissima sicurezza. Nuchis è stato infatti classificato dal Dap come As3, che significa alta sicurezza. A regime può ospitare 150 detenuti e la metà di loro (già arrivati) sono criminali molto pericolosi: mafiosi e camorristi di notevole spessore criminale, alcuni dei quali ergastolani. A Massama sono invece previsti 250 detenuti, oltre la metà dei quali dovrebbero essere di altissima sicurezza.
Ma i penitenziari isolani, nuovi e vecchi, oltre che ai detenuti sardi sembrano vietati anche alle guardie carcerarie. Nonostante l’inizio dell’attivita di due nuove strutture e l’imminente apertura di Sassari e Uta, sono stati pochissimi gli agenti sardi riportati a casa a fronte di oltre 650 richieste presentate e le carenze di personale un po’ ovunque.
Fonte: lanuovasardegna.gelocal.it
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Come una buona vecchia tradizione vuole, alcuni di noi hanno trascorso la notte di Capodanno sotto un carcere.
Quest’anno il carcere non poteva che essere quello di Tolmezzo. Anche se a poche settimane dalla fine dell’anno, intorno al 20 dicembre, Maurizio Alfieri è stato trasferito a Saluzzo (CN), abbiamo deciso di mantenere l’appuntamento a Tolmezzo perché lì rimangono le decine di detenuti che ci scrivono e con i quali vorremmo allacciare rapporti per poterli supportare nella lotta.
Di sicuro l’allontanamento di Maurizio è un tentativo di affievolire il percorso intrapreso a Tolmezzo, un carcere in cui è nata una conflittualità condivisa da più detenuti e che non deve tornare ad essere la tomba dove prevaricazioni di ogni tipo vengono perpetrate nel silenzio e nella connivenza di tutti gli “organi preposti”.
Questa volta, considerando i vari presidi sotto le mura per la notte di Capodanno- Bergamo, Cosenza, Como, Monza, Roma, Torino e altri- possiamo dirci contenti di come sia andata l’iniziativa: eravamo una cinquantina di persone; da dentro c’è stata una buona risposta ed è stato possibile comunicare con i detenuti delle celle più in alto – in particolare durante un intervento in cui si è nominato Massimo Russo, aguzzino particolarmente distintosi per le minacce, i pestaggi, i dispetti , i detenuti hanno fatto sentire bene cosa pensano di questa merda di uomo; abbiamo salutato in modo particolare chi ci ha scritto invitandoli a farlo ancora.
E’ stato un saluto caloroso per ricordare che siamo solidali con i detenuti in lotta, un saluto la notte di capodanno per dire che non ci dimentichiamo dei detenuti di Tolmezzo.
A tal proposito però pensiamo che questo carcere avrebbe avuto ed ha bisogno di iniziative più incisive. Ben vengano ad esempio le iniziative come quella organizzata a Roma davanti al DAP. Auspichiamo che non siano iniziative isolate. Detto questo non possiamo non chiederci quale trattamento avrebbe ricevuto Maurizio se il presidio organizzato per lo scorso 24 novembre avesse visto la partecipazione richiesta da una situazione come quella di Tolmezzo in quel momento: dalla aggressione contro Mohamed commissionata dal comandante ed effettuata da un detenuto, ai 115 giorni di isolamento a Maurizio a cui sono seguiti altri 45.
Il presidio era stato pubblicizzato con largo anticipo e con l’attenzione a non sovrapporsi alle altre iniziative di solidarietà che erano state organizzate per Maurizio, per Nicola e Alfredo, per Alessio… era stata rimarcata più volte la necessità di una iniziativa grossa e determinata che facesse capire alla direttrice, al comandante e scagnozzi che non potevano più permettersi le continue angherie, vere e proprie pratiche di tortura.
La solidarietà arrivata da tanti compagni e da tante persone che si occupano di carcere ai detenuti di Tolmezzo, le informazioni circolate in rete su informa-azione, su Radio Black Out di Torino, Radio Onda Rossa di Roma, le iniziative fatte a Trento e Rovereto hanno sicuramente influito sull’andazzo in carcere, tant’è che non ci sono pestaggi da un po’. Alcuni detenuti ci hanno scritto che in altri tempi Maurizio sarebbe stato massacrato.
Ma le rappresaglie della direttrice e del comandante non sono finite, si sono fatte più subdole: il già citato ferimento di Mohamed, i mesi di isolamento a Maurizio e l’ultimo trasferimento di Maurizio a Saluzzo passando da …Trani! Maurizio ha subito 18 ore di viaggio con i secondini che continuavano a provocarlo, che l’hanno trasferito attirandolo fuori dalla cella con l’inganno, portandolo via senza lasciargli il tempo di recuperare le sue cose, tra cui l’abbigliamento pesante, e facendogli credere che l’avrebbero lasciato a Trani, dove lui non voleva assolutamente rimanere avendo i suoi fratelli più cari a Milano.
E ora che Maurizio è stato trasferito, tra l’altro proprio vicino Cuneo, pensiamo sia importante tenere alta l’attenzione su ciò che accade tra quelle mura, supportare maggiormente le iniziative che verranno costruite a Udine e dintorni e portare a casa il messaggio che i detenuti di Tolmezzo hanno lanciato con la loro determinazione, con l’iniziativa di solidarietà agli anarchici rinchiusi ad Alessandria: dentro nessuno, solo macerie!
Anarchici di Trento e Rovereto
Commenti disabilitati su Carcere – Resoconto del capodanno sotto il carcere di Tolmezzo | tags: anticarceraria, capodanno, carcere, CordaTesa, cuneo, maurizio alfieri, resoconto, situazione carceraria, solidarietà, tolmezzo | posted in Comunicati, critiche e riflessioni, Contro carcere, CIE e OPG, Presidi, cortei, saluti e iniziative, Tutti
Un’azienda americana responsabile delle torture nel carcere iracheno:
5 mln di dollari per 71 ex prigionieri.
Un’azienda appaltatrice, la cui filiale era stata accusata di cospirazione per le torture subite dai detenuti del carcere iracheno di Abu Ghraib, ha raggiunto un accordo pari a 5 milioni di dollari per risarcire 71 ex prigionieri.
LA SOMMA DALLA L-3 SERVICES.Secondo quanto ha riferito la Bbc online, a versare la somma è previsto sia l’americana Engility Holdings, per conto della L-3 Services.
Quest’ultima era quella che ha fornito traduttori all’esercito americano dopo la guerra in Iraq.
Nel 2006, L-3 Services aveva più di 6 mila traduttori in Iraq con un contratto di 450 milioni di dollari, come riferì all’epoca uno dei dirigenti durante una conferenza di investitori.
PRIMO STORICO RISARCIMENTO. Il pagamento della Engility ha segnato il primo tentativo riuscito da parte degli avvocati degli ex prigionieri iracheni contro appaltatori della difesa nei processi relativi alle torture subite.
Un avvocato per gli ex-detenuti, Baher Azmy, ha detto che ciascuno dei 71 iracheni ha ricevuto una parte della liquidazione per aver sofferto «vaste e feroci torture e abusi».
L’avvocato Azmy ha detto che anche se alcuni soldati hanno affrontato la corte marziale per il loro ruolo negli abusi ad Abu Ghraib, l’esercito americano non ha perseguito gli appaltatori privati.
Commenti disabilitati su Carcere Abu Ghraib, risarciti i detenuti torturati | tags: abu ghraib, abusi, americani, anticarceraria, baghdad, carcere, CordaTesa, detenuti, guerra, iracheno, iraq, prigionieri, risarcimento, torturati, torture | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Tutti
“Questo non è un carcere ma un lager creato per spersonalizzare il detenuto non per prepararlo a un graduale reinserimento nella società. Si parla tanto di regimi duri per mafiosi, ma qui il regime punitivo lo subiamo noi”. Sono le parole di trentacinque detenuti del carcere di Oristano – Massama “Salvatore Soro” che hanno fatto pervenire una lettera all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” rappresentando la realtà nella struttura penitenziaria inaugurata alla fine di novembre e già sottoposta a pesanti lavori di restauro.
CAGLIARI – “Qui – viene precisato dai firmatari della missiva – si trovano persone che devono scontare 10 giorni, alcuni mesi o qualche anno insieme ad altre che hanno alle spalle oltre 35 anni di reclusione. Non esiste la socializzazione né nelle celle né nell’apposita saletta. Non funziona la palestra né il campo sportivo né è possibile svolgere alcuna attività ginnica. Perfino il cibo è scarso e per dotarsi di qualche tegame si devono fare acrobazie. La situazione è ancora più critica relativamente al vestiario che è ridotto allo stretto necessario e chi non ha colloqui con i familiari non può neanche lavarsi i panni in quanto è vietato stenderli. Le porte delle celle sono sempre chiuse e spesso vengono chiusi gli spioncini. Anche le docce funzionano solo a tratti e così il riscaldamento. Insomma è vero che il carcere è aperto da poco tempo ma noi non abbiamo colpa e non abbiamo chiesto noi il trasferimento a Oristano. E’ assurdo infine – conclude la lettera – che non si possano acquistare prodotti per la pulizia delle celle. Se queste sono le condizioni in cui siamo costretti a sopravvive allora è meglio che venga ripristinata la pena di morte”.
“Le nuove strutture penitenziarie hanno necessità – osserva la presidente di SdR Maria Grazia Caligaris – di un opportuno periodo di rodaggio durante il quale testare i dispositivi di sicurezza e quelli relativi alla vita comune come le cucine, le docce, i servizi igienici, i dispositivi elettrici e l’organizzazione interna con un numero adeguato di Agenti di Polizia Penitenziaria e di operatori. Per mettere in moto e gestire una struttura così complessa e delicata sono necessarie progettualità e gradualità che poco si conciliano con un’assurda approssimazione che crea soltanto gravi difficoltà. La pretesa urgenza di aprire la struttura per rimediare ai danni del sovraffollamento e della vetustà del carcere di piazza Mannu ha determinato gravi disagi non solo ai detenuti e a tutti gli operatori ma anche ai familiari dei ristretti doppiamente penalizzati dalle difficoltà per raggiungere un carcere costruito volutamente in una zona isolata. La macchina quindi non funziona e nascondere la realtà non giova”.
Fonte: sardegnaoggi.it
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Nell’aprile 2012, alcuni prigionieri inviano al magistrato di sorveglianza ed al direttore della casa di reclusione di Roanne [dipartimento della Loire, regione Rhône-Alpes, NdT], in forma anonima, una lettera di rivendicazione nella quale esigono un certo numero di misure, che rimettono in questione il funzionamento e l’esistenza stessa della prigione, in particolare: la fine dell’isolamento, del tribunale interno alla prigione, del quartiere disciplinare, dei regimi chiusi, che sono i mezzi di pressione e repressione di cui dispone l’Amministrazione Penitenziaria. Menzionano anche il sistema del racket della spesina, lo sfruttamento nelle officine di lavoro, le restrizioni per ciò che riguarda i colloqui, etc.1 Questa lettera ha larga diffusione e viene volantinata davanti a questa prigione e ad altre. C’è anche un presidio solidale, fuori.
Quello stesso weekend, la stampa riporta diverse notizie: il tentativo di suicidio di un prigioniero, un altro che è accusato di aver buttato un frigo sui sorveglianti. Chiedeva spiegazioni sul perché gli era stato impedito, diverse volte, di uscire al passeggio. Viene duramente pestato da molti secondini, si becca un mese d’isolamento, poi passa in processo al tribunale di Roanne. Vi è condannato a due anni di prigione supplementari.2
Poco tempo dopo, una lettera pubblica scritta da un prigioniero spiega meglio com’è la vita quotidiana nella casa di reclusione. Nel novembre 2011, questo stesso prigioniero era stato all’origine di alcune petizioni che criticavano, fra l’altro, le perquisizioni ai colloqui e lo sfruttamento nelle officine di lavoro. Come conseguenza, la direzione lo aveva messo in isolamento per 3 mesi, poi lo aveva tenuto 5 mesi in regime chiuso. Per finire, quando il rumore fatto intorno alla sua situazione è diventato scomodo per l’amministrazione penitenziaria e viene a mescolarsi ad altre vicende, è stato trasferito.3 La sua lettera spiega, fra l’altro, come l’amministrazione penitenziaria e le guardie ci si mettono per cercare di isolare e spezzare i prigionieri recalcitranti.
Nonostante ciò, la resistenza si manifesta sotto diverse forme.
Il 4 luglio c’è un blocco del cortile, che è seguito da un pestaggio da parte dei secondini che intervengono. Alcuni detenuti filmano la scena, altri gettano oggetti sui secondini, solidali con quelli che si sono rifiutati di tornare in cella. Queste ultime persone erano confinate in regime chiuso ed il blocco arriva quando l’AP ha deciso l’ennesimo cambiamento per quanto riguarda gli orari del passeggio.
Qualche giorno dopo, il video viene largamente diffuso su internet, accompagnato da una lettera esplicativa scritta dai prigionieri.4
Qualche volta, la stampa ufficiale ha parlato di questi avvenimenti, pubblicando anche una parte della lettera di rivendicazione ed il video del blocco, cosa, questa, che ha fatto circolare di più le informazioni. La stampa ha però sempre messo in avanti il punto di vista dei sindacati dei sorveglianti e dell’amministrazione penitenziaria.
Pochi giorni dopo, in città vengono incollati dei manifesti che raccontano del blocco e, in particolare, fanno i nomi dei secondini che hanno pestato i prigionieri. Ciò fa scandalo, i giornali riprendono questa storia, quindi tutti i prigionieri ne vengono a conoscenza, visto che il giornale viene distribuito gratuitamente in prigione (anche se proprio quel giorno viene censurato).
Il giorno dopo, i secondi dichiarano che si sentono in stato d’insicurezza. Gli ERIS [i GOM francesi, NdT] prendono il loro posto; i prigionieri restano chiusi in cella tutto il giorno, passeggio ed attività vengono soppressi, i colloqui sono ritardati e per qualcuno soppressi, i pasti serviti in ritardo, etc.
I sorveglianti vengono insultati e minacciati da numerosi prigionieri arrabbiati, ci sono diversi tentativi d’incendio, il blocco di un piano, la casa di reclusione è in ebollizione. Poi la routine riprende il suo corso.
L’estate, c’è una piccola manifestazione selvaggia a Lione, in solidarietà con le lotte dei prigionieri. Viene distribuito un volantino, la sede locale dello SPIP (quelli che si occupano della re-inserzione) viene vandalizzata.5
Alla fine dell’estate, sul tribunale di Roanne compare una scritta, con il nome di un graduato dei secondini, seguito da: “vuoi degli infami, non avrai che il nostro odio, fuoco alle prigioni”.6
Qualche tempo dopo, davanti al tribunale vengono ritrovati dei dispositivi incendiari; uno ha danneggiato la porta d’entrata del tribunale, l’altro non ha funzionato. Questi fatti compaiono nel giornale locale, che li mette in relazione con quanto successo nella casa di reclusione.7
Sempre in settembre, uno dei prigionieri che aveva partecipato al blocco del passeggio durante l’estate esce di prigione.8 Parla del blocco, di come poi i secondini gli hanno fatto trovare lungo. Spiega anche che, a fine estate, è stato nominato un nuovo maggiore, che ha irrigidito la gestione della prigione. Ciò, vigilando sull’applicazione letterale del regolamento interno, cosa che ha come conseguenza che molti prigionieri passano in commissione disciplinare (oppure davanti al tribunale interno della prigione) per delle stupidaggini come fumare o mangiare nei corridoi. Vengono anche fatte delle perquisizioni di massa delle celle, cosa che ha grosse conseguenze. Tensione permanente, perdita di fiducia nei legami fra prigionieri, rinvii davanti al tribunale interno che generano pene che vanno da alcuni giorni d’isolamento con la condizionale, fino a mesi di prigione che si aggiungono alle vecchie condanne; ciò a causa di un po’ di fumo, dei telefoni o dei caricabatterie, delle chiavette USB od altri oggetti trovati in cella e vietati all’interno della prigione.
Ne è un esempio la situazione di una donna che si è presa 10 mesi di galera supplementari, più 14 mesi con condizionale, per il possesso di un cellulare.9
L’amministrazione penitenziaria ha certamente altre armi dalla sua per cercare di far regnare la paura e la sottomissione. Cercare ed utilizzare degli infami, far vedere la carota (permessi di uscita, possibilità di libertà condizionata, sconti di pena), oltre al bastone, che usa bene.
Nell’autunno, nella città di Roanne, viene attuato un blocco stradale in solidarietà con i prigionieri in lotta e 500 volantini vengono distribuiti nelle cassette delle lettere della città. Essi precisano, in particolare, chi sono quelli che fanno funzionare la casa di reclusione e quale posto essa ha nella città.10 Ad inizio dicembre, un furgone della Eiffage [la grande impresa di costruzioni che è proprietaria dell’edificio della prigione; si tratta del primo caso in Francia di cogestione pubblico-privato delle carceri, NdT] viene incendiata e dell’olio per motori viene versato davanti alla prigione, prima dell’ora del cambio mattutino dei secondini.11
L’amministrazione penitenziaria vuole isolare le persone che resistono e soffocare le informazioni che potrebbero uscire dalle mura. Per questa ragione, essa vieta l’ingresso di alcuni giornali, o quello del quotidiano locale in funzione delle informazioni che contiene.
Ma le testimonianze e le informazioni varie che arrivano da dentro e fuori la prigione circolano, per quanto possibile, sui media alternativi e vengono in particolare ripresi da emissioni radio anticarcerarie.
L’amministrazione penitenziaria cerca con ogni mezzo di schiacciare quelli che non chinano la testa, moltiplicando gli attacchi, dentro. Isolare nel quartiere disciplinare oppure attraverso dei trasferimenti, pestare, mantenere in stato di carenza, aggiungere mesi o anni di prigione, essi fanno il loro sporco lavoro e ne hanno tutto i mezzi. In questo modo, vogliono spaventare e sottomettere tutti i prigionieri. Nonostante ciò, la resistenza si manifesta quotidianamente, in maniere diverse (rifiuti di tornare in cella, rifiuti di obbedire agli ordini, sabotaggi vari, come la cassetta delle lettre dei secondini, che serve per raccogliere i buoni spesa della Eurest, che si trova riempita di escrementi), etc.
Siamo solidali con coloro che resistono e vogliamo renderli più forti!
Per distruggere tutte le prigioni, per non lasciare in pace i bastardi!
Perché quelli che resistono (ed i loro boia) sentano che hanno del sostegno fuori.
Per influire su questo rapporto di forze in tensione permanente, ogni iniziativa è la benvenuta!!!
da non-fides.fr
Fonte: informa-azione.info
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Sei anni di carcere per gli autori dell’assalto al blindato in Piazza San Giovanni a Roma durante gli scontri del 15 ottobre del 2011 in occasione della manifestazione degli indignados. E’ questa la decisione del gup Massimo Battistini che ha condannato Davide Rosci, Marco Moscardelli, Mauro Gentile, Mirko Tomassetti, Massimiliano Zossolo e Cristian Quatraccioni per reati di devastazione e resistenza a pubblico ufficiale. Oltre agli anni di carcere i sei ragazzi dovranno pagare un risarcimento di 30mila euro a testa per il carabiniere aggredito e per il ministero della Difesa che si è costituito parte civile.
ALEMANNO: SENTENZA È RISARCIMENTO MORALE AD ARMA E A CITTÀ – “Giusta la sentenza che colpisce gli autori del vergognoso assalto al blindato dei Carabinieri del 15 ottobre 2011 e che rappresenta un risarcimento morale all’Arma e a tutti i cittadini romani – ha commentato il primo cittadino della Capitale -. Sei anni sono un giusto monito per tutti coloro che scambiano il diritto di manifestare con quello di indirizzare le propria violenza contro le forze dell’ordine nella città di Roma”.
DA INFOAUT
Dure le condanne inflitte dal tribunale di Roma per gli scontri avvenuti il 15 ottobre del 2011 in Piazza San Giovanni: 6 anni di reclusione per l’attacco al furgone dei carabinieri. Bisognerebbe forse dar meno ascolto ai “consigli” degli avvocati…
Dopo la grande giornata di rabbia esplosa in piazza San Giovanni a Roma contro il governo dell’austerità e contro le politiche del debito, nella quale il protagonismo di studenti/esse, precari/e, disoccupati/e, lavoratori/rici, facevano sentire la loro indignazione ai politici romani, arrivano le sentenze per l’attacco al furgone dei carabinieri: 6 anni di reclusione ciascuno per i sei compagni di Azione Antifascista di Teramo.
Dure le condanne inflitte a termine del rito abbreviato dal gup di Roma Massimo Battistini (la Procura aveva chiesto 8 anni) che per l’occasione, oltre ai reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravata e un risarcimento di 30 mila euro per il carabiniere ferito, rispolvera il reato di devastazione e saccheggio ereditato e ancora presente nell’ordinamento giuridico dal codice penale fascista, il cosiddetto “Codice Rocco”. Sono le stesse condanne già comminate ai/le compagni/e già condannat* per le giornate del G8 2001 a Genova.
”L’attribuzione agli imputati del delitto di devastazione e saccheggio – ha commentato l’avvocato Maria Cristina Gariup, che difende alcuni degli imputati – non è condivisibile. Si tratta di una responsabilità oggettiva della quale manca la prova materiale. Non c’è la prova di quanto contestato agli atti”. Infatti, durante quella giornata in piazza san Giovanni eravamo in tanti/e, stanchi/e di subire le politiche dei tagli lacrime e sangue solo per coloro che ogni giorno devo fare i conti con una quotidianità sempre più attaccata dalla casta politica. Una buona parte della generazione che sta pagando tanto ha risposto in modo determinato all’attacco dei politicanti e dei “tecnici”, contribuendo a praticare una giornata di conflitto sociale.
Proprio per questo motivo sembra chiaro come questa condanna provi ad intimidire le lotte sociali all’interno di una fase politica sempre più in difficoltà a trovare un’uscita dalla crisi economica. Una punizione esemplare,politica, confermata, da quanto si legge anche nella dichiarazione del sindaco Alemanno che, oltre a considerare giuste le condanne, dichiara: “Sei anni sono un giusto monito per tutti coloro che scambiano il diritto di manifestare con quello di indirizzare le propria violenza contro le forze dell’ordine nella città di Roma”. In risposta alla pesante condanna, gli avvocati degli imputati fanno sapere che faranno ricorso.
Una condanna così dura fa pensare. O meglio, rende opportuna una valutazione costruttiva, umile, riguardo a quanto siano opportune le scelte alternative al rito ordinario: se da un lato non si discute la scelta personale dei compagni sulla decisione del rito abbreviato, dall’altro lato vala la pena valutare quanto possano influire le indicazioni, dettate dalla forma mentis degli avvocati di turno. Quasi sempre per essi l’uso alternativo al rito ordinario, magari da tramutarsi nello scontare il più a lungo possibile la pena nel proprio domicilio, sembra essere il più opportuno per gli/le assistiti/e. Alla luce di queste condanne, considerando che ad oggi i compagni si trovano ancora ai domiciliari dallo scorso aprile, pensiamo che qualche domanda valga la pena porsela per il futuro…
Ad ascoltare i “consigli” degli avvocati si rischia spesso di imboccare sentieri la cui utilità ci appare dubbia. Percorsi che sull’immediato sembrano essere più convenienti, rischiano di tramutarsi in condanne esemplari che si iniziano a pagare da subito. Nell’affrontare processi di questo tipo, molti avvocati (fortunatamenti non tuttt*) affrontano la contesa mossi dall’obiettivo della minimizzazione della pena (intento lodevole ma cui raramente corrsiponde un ritorno reale), convinti che il tramutare grosse pene in arresti domiciliari sia il risultato migliore ottenibile. L’approccio (con tutto il rispetto) è un po’ quello di ridurre il reato politico a incidente tra ultras. Accade così che molt* compagn* deleghino agli specialisti del Diritto scelte che riteniamo più proficuo elaborare collettivamente con le proprie realtà politiche di riferimento (che permetteono anche di costruire e vivere politicamente i processi). Non intendiamo con questo sostenere che esistono ricette per eludere la repressione. La repressione esiste e lo Stato lo esercita ogni qualvolta ne ha la possibilità, mosso dalla paura che giornate come quella del 15 ottobre (e del 14 dicembre, e infinite altre…) possano ripetersi. Queste note non pretendono insegnare niente, vogliono solo mettere qualche pulce nelle orecchie. Soluzioni belle e pronte non ce ne sono ma la secolare esperienza delle lotte dei/le proletari/e insegnano che il rito ordinario e l’allungamento dell’iter processuale sono spesso preferibili e permettono, se non altro, di elaborare nel tempo strategie ulteriori e più meditate, fuggendo alle pressioni molteplici della contingenza.
I compagni di Azione Antifascista di Teramo terranno giovedì una conferenza stampa al club Gagarin di Teramo, in via Capuani 61, alle ore 11, per fare il punto della situazione e per illustrare anche il processo che si terrà il 10 gennaio a Teramo contro 13 suoi militanti accusati di associazione a delinquere dalla Procura teramana.
Nel frattempo Davide Rosci, uno dei compagni condannati inizierà a breve uno sciopero della fame per protestare contro il reato di devastazione e saccheggio
A loro, ei/le detenut* del G8 va il nostro più sincero e fraterno saluto!
www.infoaut.org
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Nelle carceri italiane il 1971 è stato l’anno della riscossa del proletariato prigioniero. Una definizione che solo allora assume un senso pieno e politico del termine. Il vento della rivolta che attraversò il paese sul finire degli anni Sessanta, scavalcò le alte mura delle carceri ed entro nelle celle. I detenuti si presentarono sulla scena sociale con un grande spessore politico, organizzando una stagione di rivolte che percorse la penisola da nord a sud, producendo anche un’analisi del regime penitenziario, del codice penale, deisistemi concentrazionari e della stessa filosofia punitiva, un’analisi che ha entusiasmato giuristi di grande spessore. Con la loro lotta-organizzazione hanno messo in crisi uno dei capisaldi del sistema capitalista: i detenuti sono diventati un soggetto politico rivoluzionario!
Vedi i post delle rivolte dal 1971 e quelle del 1972.
Si impone a tutto il movimento di solidarietà un salto. Alla metà del 1972, il Soccorso Rosso divenne Soccorso Rosso Militante per rispondere in modo adeguato alle crescenti esigenze di sostegno legale ed economico. L’intervento solidale si estese a tutti i cosiddetti “detenuti comuni”, si crearono comitati di sostegno nei territori e nei circondari di ogni carcere, comitati che organizzavano manifestazioni di solidarietà e sostegno alle lotte interne, scrivevano, inviavano pacchi viveri, libri e giornali, spedivano denaro e premevano per ottenere colloqui con i detenuti più attivi. Oltre diecimila persone furono coinvolte nell’attività dei comitati di sostegno, soprattutto nelle grandi città.
Nel carcere “Le Nuove” di Torino nel1971 i “compagni delle Nuove” producono questo documento:
“A cosa serve il carcere?”
Nei fatti oggi è un brutale strumento a carattere unicamente repressivo, esclusivo, e terroristicamente punitivo. L’uomo nel carcere non è più tale, ridotto alla condizione di miserevole oggetto, completamente plagiato, annientato, esasperato, la sua personalità annullata. Ridotta a completa soggezione fisica e mentale.
“Tutto il discorso sulla “rieducazione” è una truffa”: qual è allora l’effetto del carcere sul detenuto? Il carcere è una vera “università del delitto” mantenuta dallo stato, educa all’egoismo, all’individualismo, ad essere ruffiani, spie, lacché, a tradire i propri compagni, a leccare i piedi alle autorità, alla pratica dell’omosessualità, all’alcoolismo e all’uso della droga. Al detenuto vengono negati i diritti fisiologici e sessuali che non vengono negati neppure agli animali, rendono perciò vittime della stessa repressione le mogli e le fidanzate.
“Noi detenuti denunciamo” la vergogna della sopravvivenza del codice fascista “Rocco”che venne promulgato in momenti in cui “Mussolini” voleva consolidare il potere dittatoriale del fascismo, costituiva già allora un passo indietro rispetto al codice liberale “Zanardelli”.
“Noi vogliamo l’abolizione” in blocco, non un rifacimento, del codice Rocco, e lo vogliamo tanto più pressantemente in quanto sperimentiamo quotidianamente sulla nostra pelle le conseguenze aberranti della sua applicazione. Ne vogliamo l’abolizione anche perché è in antitesi conla Costituzionenata dalla vittoria sul fascismo nonché con la Convenzione internazionale dei Diritti dell’Uomo, oltre che non rispecchiare lo spirito di maturità e progressista della realtà sociale italiana. Se da venticinque anni non si è provveduto ad abrogare il codice Rocco non è perché sia mancato il tempo necessario ma solo per una precisa volontà politica di mantenerlo in vigore al fine di utilizzare gli aspetti più repressivi, soprattutto contro le lotte popolari.
Tutti i partiti se ne sono fregati e se ne fregano, parlano di riforme del codice solo in periodo elettorale per opportunismo, e sotto la spinta di sanguinose rivolte. Una volta per tutte vogliamo parlare chiaro. “Queste che seguono sono le esigenze più elementari, pressanti, irrimediabili”:
1) “Abolizione della carcerazione preventiva”.
2) “Limitazione della durata dell’istruttoria”.
3) “Trasformazione tempestiva del processo da inquisitorio ad accusatorio. E abolizione del segreto istruttorio”.
4) “Abolizione della chiamata di correo”.
5) “Abolizione della recidiva” (è sufficiente spesso a farci condannare. Visto che il problema è trovare il colpevole la cosa più comoda per la polizia è di trovarlo tra i recidivi. È sommamente ingiusto che uno abbia un aumento di pena perché recidivo, dal momento che ha già scontato la pena inflittagli per il reato commesso in precedenza).
6) “Abolizione delle case di lavoro” (è il più tipico residuo del retaggio fascista: in realtà è di fatto una aggiunta arbitraria alla pena stabilita dal codice).
7) “Abolizione del confino e delle misure di sorveglianza”.
8) “Abolizione dei reati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale” (in realtà sono sempre i poliziotti a oltraggiare e a minacciare impunemente senza essere poi perseguiti. Anche questa è una norma in vigore solo nei paesi fascisti).
9) “Abolizione dei reati di stampa e d’opinione”.
10) “Regolamentazione degli articoli concernenti il furto” (il furto è il tipico e più diffuso reato contro il patrimonio. Il codice non fa distinzione fra chi ruba una mela e chi ruba un milione. Il furto semplice di fatto non viene applicato mai perché il giudice trova sempre aggravanti).
11) “Distinzione tra consumo e spaccio di stupefacenti”.
12) “Diritto effettivo alla difesa gratuita”.
13) “Abolizione dello sfruttamento del lavoro nelle carceri”.
14) “Funzionale servizio di assistenza per i familiari dei detenuti” direttamente controllato dagli interessati, ma che non sia affidato ad istituzioni religiose in quanto, di tutte le donazioni e beneficenze, non viene mai consegnato altro che le caramelle a Natale.
15) “Estensione del permesso di colloquio ad amici e conoscenti”.
16) “Abolizione delle celle di punizione e letto di forza”.
17) “Istituzione dei consigli di rappresentanza” dei detenuti aventi funzione consultiva di portavoce della volontà delle popolazioni carcerarie e di contrattazione nei confronti delle direzioni.
18) “Abolizione della censura” sulla corrispondenza e libera circolazione di stampa e letteratura varia.
19) “Possibilità di avere periodicamente rapporti sessuali”.
20) “Responsabilizzare penalmente i magistrati” (quando un ingegnere sbaglia i calcoli di una progettazione viene denunciato e processato, quando un medico sbaglia un’operazione e il paziente muore viene perseguito penalmente: perché quando un giudice sbaglia non viene processato? Noi non crediamo nell’infallibilità del giudice: pertanto chiediamo che il suo operato sia vincolato come quello di qualsiasi professionista perché egli decide la nostra sorte).
21) “Nei processi chiediamo che vengano esaminati”, e tenuti in debito conto nel giudizio, non solo gli aspetti tecnici ma soprattutto le cause economiche, sociali, i fattori ambientali in cui l’imputato si è trovato ad agire.
22) “Chiediamo vengano aboliti, o ridotti al minimo, i poteri discrezionali del giudice” democratizzando il suo operato, in quanto tali poteri finiscono per essere applicati quasi sempre arbitrariamente, e sempre a sfavore dell’imputato.
Fonte: contromaelstrom.com
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Per tentare di ottenere l’estradizione del giovane basco arrestato a Roma e da 7 mesi ai domiciliari, Madrid ha deciso di farsi rappresentare da uno degli avvocati più noti d’Italia. Franco Coppi, difensore di Andreotti e poi di Gianni de Gennaro.
“La Spagna non molla l’osso”. E’ con questa colorita ma efficace espressione che Marco Lucentini, uno degli avvocati del collegio di difesa di Lander Fernandez, ha descritto la principale novità emersa dall’udienza che si è tenuta oggi, al tribunale di Roma, sulla richiesta di estradizione avanzata dal governo spagnolo nei confronti del giovane cittadino basco arrestato a Roma il 13 giugno e da 7 mesi ormai agli arresti domiciliari nel suo domicilio di Garbatella.
La principale novità all’interno di una riconfermata strategia di accanimento e persecuzione nei confronti di Lander, da parte delle autorità spagnole, si chiama Franco Coppi, classe 1938, avvocato di fama nazionale. E’ lui che hanno scelto a Madrid per affiancare e potenziare l’accusa rappresentata dal pm, in nome delle difesa diretta del punto di vista e degli interessi del governo di Madrid. Non è un caso, spiega l’avvocato Lucentini, che se il pm si è limitato a poche battute, nel chiedere che la terna di giudici si pronunci a favore dell’estradizione, la vera e propria requisitoria l’abbia fatta proprio il legale nominato dal governo spagnolo. Non un avvocato a caso: fu infatti Coppi a difendere personaggi come Giulio Andreotti, Don Pierino Gelmini, Antonio Fazio nel processo per lo scandalo all’Antonveneta, e poi due imputati nel caso della scuola di Rignano Flaminio, e poi ancora Sabrina Misseri, Vittorio Emanuele di Savoia e non ultimo l’ex capo della polizia Gianni de Gennaro nel processo sui fatti della scuola Diaz di Genova, nel 2001.
In aula oggi c’era anche un funzionario dell’ambasciata spagnola a Roma, a dimostrazione dell’interesse prioritario che Madrid ripone in una vicenda che dal punto di vista puramente giudiziario è assai relativo, viste le accuse sostanzialmente banali rivolte a Lander – accusato di aver incendiato un autobus vuoto e senza produrre danni o rischi per le persone, nel lontano 2002 – ma che evidentemente ha un alto valore politico per un paese ancora fortemente impegnato nella caccia al basco.
E’ chiaro che Madrid non vuole sorprese, e vista l’inconsistenza assoluta delle argomentazioni a favore della richiesta di estradizione di Lander Fernandez – oggi nessun ulteriore elemento probatorio è stato portato in aula dall’accusa – punta ad investire tutto sul peso del nuovo pezzo da novanta. “Coppi rappresenta le ragioni dello stato richiedente – spiega Lucentini – ed in quanto tale ha sottolineato l’elemento che il governo spagnolo utilizza per dimostrare che Lander Fernandez agiva con finalità di terrorismo e all’interno dell’attività di un non meglio precisato gruppo violento, motivo per il quale il reato di danneggiamento che altrimenti sarebbe già ampiamente prescritto si trasforma improvvisamente in qualcosa di molto più grave e tuttora punibile”. Accusa che, come più volte spiegato dai legali e dagli attivisti del comitato di solidarietà con Lander, Un caso basco a Roma, è priva di qualsiasi fondamento e si basa esclusivamente sui teoremi che la magistratura e il potere politico utilizzano da alcuni anni per mandare in galera centinaia di attivisti sociali e sindacali, esponenti dell’associazionismo e dei centri sociali, ed oggi più in voga che mai visto l’aumento della conflittualità dovuto ad una situazione sociale di crisi verticale e insostenibile da settori sempre più ampi non solo della popolazione basca ma di tutto lo stato spagnolo. D’altronde, spiega il legale, se l’accusa non facesse riferimento alla pretesa finalità di terrorismo dell’episodio contestato all’imputato non ci sarebbero gli estremi per la suddetta consegna alle autorità di Madrid, visto che secondo la nostra legislazione ma anche quella spagnola il reato sarebbe prescritto.
“Se la Spagna arriva a conferire un mandato difensivo ad uno dei penalisti più noti d’Italia per perorare la causa della richiesta di consegna a proposito di un episodio minore e oltretutto avvenuto più di dieci anni fa è evidente che esiste un interesse e un investimento politico importante” spiega Lucentini, secondo il quale si è assiste ad una insistenza spropositata da parte spagnola affatto giustificata dalla caratteristiche del procedimento in corso a carico di Lander. D’altronde, già al momento dell’arresto del giovane a Roma, i media spagnoli fecero un gran battage, inventandosi anche che il giovane era in possesso di documenti falsi e di una pistola, circostanze completamente false e strumentali a dimostrare all’opinione pubblica nazionalista spagnola l’importanza della richiesta di estradizione e del mandato di cattura spiccati nei confronti di un ragazzo che viveva a Roma da un anno e mezzo alla luce del sole, senza nascondersi.
Conclusa l’udienza occorrerà attendere alcuni giorni per il pronunciamento della terna di giudici. Dopodiché il ricorso in Cassazione bloccherebbe comunque una eventuale estradizione in attesa del pronunciamento del massimo organo giudiziario. Non finisce quindi comunque qui il percorso di iniziativa e solidarietà iniziato immediatamente dopo l’arresto e coagulatosi all’interno della campagna ‘Un caso basco a Roma’: decine di manifestazioni, presidi, assemblee e seminari all’interno di facoltà universitarie, sedi politiche, centri sociali. E un appello, sottoscritto da decine tra parlamentari e giuristi che smaschera e contesta il carattere vendicativo ed emergenzialista della legislazione spagnola scritta ad hoc per giustificare una persecuzione politica prima ancora che giudiziaria contro gli attivisti baschi.
Stamattina, in contemporanea con l’udienza, un centinaio di attivisti e attiviste di diverse realtà sociali e politiche della capitale e non solo hanno manifestato a Piazzale Clodio, esponendo bandiere basche e striscioni di solidarietà con Lander e tutti i prigionieri politici baschi, gridando slogan e informando i passanti sulle ragioni della mobilitazione. Un ulteriore appuntamento dopo il blitz di ieri di fronte al Ministero della Giustizia, per investire del problema i rappresentanti del governo Monti. Perché, qualsiasi cosa decideranno i tribunali, l’ultima parola spetta comunque al Ministero di Via Arenula e da qui l’importanza di una mobilitazione che finora ha investito migliaia di persone e ha permesso la pubblicazione dell’appello su ben quattro quotidiani nazionali.
Fonte: contropiano.org
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La Corte europea dei diritti umani «invita l’Italia a risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri, incompatibile con la convenzione Ue». Con queste parole la magistratura di Strasburgo condanna il belpaese per il trattamento inumano e degradante (violazione dell’articolo 3) di 7 carcerati detenuti nell’istituto penitenziario di Busto Arsizio e in quello di Piacenza.
I detenuti erano rinchiusi in gruppi di 3 in celle di 9 metri quadrati, ovvero scontavano la loro condanna in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati, senza acqua calda e in alcuni casi privi di illuminazione insufficiente, ha denunciato la Corte, invitando l’Italia a porre rimedio alla questione entro un anno e a pagare ai sette carcerati un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali. La Corte ha infine osservato che nella fattispecie le due carceri, in grado di accogliere non oltre 178 detenuti, nel 2010 ne ospitarono 376, toccando un picco massimo di 415 detenuti.
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Si chiamava Mohamed Abdi, aveva 38 anni, di origine somala. Era detenuto da circa un anno nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce per reati contro il patrimonio. Si è impiccato in una cella dell’Infermeria del Carcere. La salma è stata trasportata presso l’Ospedale “Vito Fazzi” e le Autorità Locali hanno avvisato il Consolato perché sembra che l’uomo non abbia parenti in Italia. “Anche se immediati, i soccorsi dei pochi Agenti lasciati nella programmazione dei servizio nella serata festiva di ieri, non sono serviti”, così ha dichiarato il Vice Segretario Nazionale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Agenti Polizia Penitenziaria) Domenico Mastrulli il quale sottolinea che “il carcere leccese è vessato da vari problemi, fra cui un sovraffollamento mai risolto”. Ieri nella struttura erano reclusi in 1.400. Mastrulli parla della carenza di uomini e donne nell’organico nei Reparti detentivi delle carceri e dei Nuclei traduzioni e piantonamenti che operano sotto scorta nell’accompagnamento dei detenuti nelle aule di Giustizia e per trasferimento di sede e per urgenti ricoveri esterni. Lecce – sottolinea il sindacato – ha “il primato delle ‘vittime’ le cui responsabilità o le colpe non devono e non possono ricercarsi sull’anello più debole del sistema penitenziario italiano, ma vanno ricercate nel fallimento di un sistema dove ministro e capo dipartimento poco fanno nonostante la drammaticità dei penitenziari e della situazione del personale di polizia dipendente”. Mastrulli aggiunge che l’Osapp è pronto “a dichiarare lo stato di agitazione, proteste su tutto il territorio con l’astensione dalla mensa di servizio” e si accinge a organizzare manifestazioni in strada “per attirare la sensibilità dell’opinione pubblica se non saranno da subito rafforzate gli organici nelle carceri togliendo il personale da compiti e servizi che poco ci appartengono in questo drammatico momento”. Tra questi, Mastrulli cita “esecuzione penale esterna”, vigilanza a procura della Repubblica, tribunali, e, in genere, edifici giudiziari, scorte a politici, magistrati e funzionari e incombenze varie negli uffici amministrativi.
Nel Carcere di Lecce, a fronte di una capienza regolamentare di 680 posti, sono rinchiuse in condizioni disumane ed illegali 1.400 persone detenute. Una situazione insostenibile, che vede il 90 per cento dei detenuti che assumono ansiolitici per tirare avanti. Vede le attività ricreative all’interno del carcere come una chimera per la stragrande maggioranza. Vede il campi da calcio inutilizzabili perché privi dei requisiti di sicurezza necessari. E se a tutto ciò si aggiunge che Borgo San Nicola è un carcere di recente costruzione (ha poco più di vent’anni), tutto suona come una beffa. Una beffa da cui scaturiscono le vicende che hanno portato il Magistrato di Sorveglianza a condannare lo Stato per aver ristretto un individuo in una cella di 3,39 metri quadri (compresi gli arredi), sistemandolo in un letto a castello che dista solo 50 centimetri dal soffitto.
Dal 1° Gennaio ad oggi sono già 2 i decessi avvenuti nelle sovraffollate ed illegali Carceri Italiane ed entrambi sono stati dei suicidi. Dal 2000 invece sono 2.089 i detenuti “morti di carcere” dei quali ben 753 si sono suicidati.
di Emilio Quintieri
Fonte: clandestinoweb.com
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Centinaia di prigionieri del Carcere Numero 6 di Kopeisk, nella regione degli Urali della Russia, hanno combattuto feroci battaglie contro le forze di sicurezza e hanno lanciato una occupazione sul tetto per una protesta contro le condizioni draconiane, oltre che di torture, estorsioni e l’uso dell’isolamento. Quattro detenuti sono morti in carcere negli ultimi anni in seguito alle percosse usate dal personale. La protesta è durata per due giorni prima che la polizia e le forze speciali dell’esercito riuscisseo a riprendere il controllo.
La rivolta è iniziata quando circa 250 prigionieri hanno rifiutato di seguire le regole e la routine della prigione, chiedendo la liberazione immediata di quelli che erano in isolamento, oltre la fine di un trattamento barbaro e l’estorsione usata dai loro aguzzini. Sul tetto, i prigionieri esponevano cartelli con scritto “Aiutateci” e “Siamo migliaia in sciopero della fame”
Circa 300 familiari e amici dei prigioniri, così come molti ex detenuti, si sono raccolti al di fuori del carcere, e hanno messo in scena una protesta. Gridavano oscenità e lanciavano bottiglie contro la polizia e il personale penitenziario. La polizia ha percosso i manifestanti e ne hanno 39 arresti prima che la protesta si concludesse.
Un giornale locale ha riferito che:
“L’attivista per i diritti umani, Oksana Trufanova, ha detto alla stazione radio Ekho Moskvy che le truppe dell’OMON (polizia anti-sommossa) hanno attaccato il gruppo al di fuori del carcere. Ci hanno picchiato con bastoni, ha detto Trufanova. “I loro occhi brillavano.” Non sono mai stato in tale caos”
Alla sorella di un prigioniero, Olga Belousova, è stato permesso l’ingresso in carcere insieme ad un piccolo numero di parenti. Ha dato una breve intervista dopo aver lasciato il carcere:
“C’erano 60 persone nella stanza, tutti erano in piedi in silenzio. Ho detto loro che li sosteniamo e sono venuti per assicurarci che tutto va bene e che vogliono fare in modo che le loro voci siano ascoltate al di fuori della prigione.”
Le denunce, che sono stati lette dai detenuti, sono esempi esaurienti di estorsione, uso improprio ed eccessivo della forza e continue umiliazioni. Belousova ha aggiunto che:
“Essi non toccano coloro che gli danno i soldi, e spesso percuotono gli altri per costringere i parenti a pagare”
La madre di un ex prigioniero afferma che suo figlio è stato torturato innumerevoli volte e che gli agenti di polizia penitenziaria hanno sessualmente abusato di lui al carcere Numero 6.
Il padre di un altro ex prigioniero ha detto ad una agenzia di notizie locale che ha dato i suoi risparmi al personale del carcere in due occasioni:
“Ogni mese … se portavo i soldi, non c’erano problemi. I pagamenti in carcere sono spesso indicati come contributi volontari ”
Un mediatore che ha indagato sulle denunce precedenti, ha riferito che il denaro richiesto dal personale del carcere può essere fino a 200.000 rubli ($ 6.400). In confronto, il salario medio in Russia è di soli $ 10.000.
Il direttore del carcere non nega l’estorsione del suo staff. Ha incontrato i parenti e ha annunciato che è disposto a sopprimere i “contributi volontari”. I parenti sono preoccupati che una mossa del genere porterebbe portare ritorsioni da parte di costoro.
Dopo due giorni di disordini e di controllo del carcere da parte dei detenuti, la polizia, l’esercito e le forze speciali sono riusciti a riprendere il controllo della struttura. Ci sono 250 poliziotti in tenuta antisommossa all’interno del carcere.
Fonte: Libcom traduzione: ienaridensnexus.blogspot.it
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L’Algeria è stato tra i paesi meno toccati dalle rivolte del Medio Oriente e dell’Africa del Nord. Nel 2011 il governo ha accettato di abolire lo stato d’emergenza, in vigore nei precedenti 31 anni, ma con vecchie e nuove limitazioni alla libertà di manifestazione, di associazione e di stampa è riuscito a tenere sotto controllo l’informazione e la protesta sociale, che nel paese prende forma di lotta contro la corruzione, le politiche economiche e l’impunità che ha dominato la fine del “decennio nero”, dal 1992 al 2002.
Il 2013 potrebbe riservare delle novità, affatto positive. Da un lato, la possibile escalation degliscontri con Al Qaeda nel Maghreb islamico, anche rispetto a come evolverà la situazione nel vicino Mali, i cui territori del nord sono controllati da gruppi armati islamisti e su cui il Consiglio di sicurezza ha recentemente autorizzato una forza militare internazionale.
Dall’altro, la repressione nei confronti degli attivisti per i diritti umani pare aumentare. Il 2 gennaio Taher Belabès, coordinatore del Comitato nazionale per la difesa dei diritti dei disoccupati, è stato arrestato a Ouargla, nel sud del paese, per “ostacolo al flusso della circolazione” e “incitamento a manifestare”, reati per i quali sono previsti fino a cinque anni di carcere.
Come a Siliana, in Tunisia, a Ouargla le forze di polizia sono intervenute in massa per disperdere una manifestazione pacifica convocata per chiedere lavoro e le dimissioni delle autorità locali, incapaci di affrontare la crescente mancanza d’impiego in una zona ricca di giacimenti e nella quale operano numerose compagnie petrolifere. In questo centro dell’Algeria meridionale, le proteste vanno avanti da tempo.
Non si è trattato del primo arresto nei confronti di chi manifesta per il diritto al lavoro: nel 2012 era accaduto allo stesso Belabès e ad altri cinque attivisti. In passato, però, quasi tutte le persone fermate venivano trattenute per poche ore, interrogate, “ammonite” a stare calme e poi rilasciate. Con la rilevante eccezione di Abdelkader Kherba, arrestato lo scorso agosto mentre guidava una protesta per il diritto all’acqua e protagonista di uno sciopero della fame lungo quasi un mese, prima di essere prosciolto e scarcerato.
A dare uno status legale a questi arresti arbitrari è la legge 19 del 1991 sugli incontri pubblici e le manifestazioni, che obbliga gli organizzatori a chiedere l’autorizzazione otto giorni prima del loro svolgimento. L’autorizzazione può essere negata se l’iniziativa “è contraria ai valori nazionali o pregiudica i simboli della Rivoluzione del 1° novembre (del 1954, Ndr), l’ordine pubblico o la morale”.
Amnesty International e il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà d’espressione continuano a chiedere l’abrogazione della legge o, come minimo, la sostituzione dell’obbligo di autorizzazione con quello di notifica e la fine dei poteri discrezionali di diniego del permesso di svolgimento.
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