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Sui tetti

Diffondiamo da Macerie

 

aaContinua lo sciopero della fame di tutti i reclusi del Cie di Torino, e i prigionieri raccontano che due di loro da diversi giorni stanno portando avanti anche lo sciopero della sete. Per sostenerli nella loro lotta, lunedì sera una ventina di solidali si è data appuntamento in corso Brunelleschi per un saluto con slogan, battiture e petardi. Come al solito, da dentro la risposta non si è fatta attendere. Inoltre, e questa è una novità, si sentivano chiaramente le urla delle donne prigioniere. Martedì mattina i reclusi dell’area gialla del Cie di Torino salgono sui tetti delle camerate: chiedono che siano liberati almeno quelli che hanno già passato sei mesi dietro le sbarre.

Cogliamo infine l’occasione per pubblicare un un video girato a febbraio dai reclusi di Torino, e tenuto nascosto per tutelarne l’autore. Nelle immagini si vedono chiaramente i pasti consumati sul pavimento a causa della rimozione dei tavoli, e lo stato delle latrine.

scarica il file in formato mp4.


Bologna – Aggiornamenti dal CIE

diffondiamo

cie-300x299Dai contatti degli ultimi mesi con alcune persone rinchiuse nel CIE di Bologna (via Mattei) emerge una situazione insopportabile.
Il CIE di Bologna, come quello di Modena, è passato tra agosto ed ottobre dalla gestione della cooperativa ‘La Misericordia’ (Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia) di Daniele Giovanardi (famiglia onorevole e intenzione di guadagnare soldi sulla pelle dei rinchiusi mascherata da misericordiosa vocazione cristiana) all’’Oasi’ (zoppicante cooperativa siciliana, che dalla gestione del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Cassibile chiuso dopo diverse interrogazioni parlamentari, oggi gestisce 3 CIE, quelli di Bologna, di Modena e di Trapani – loc. Milo). Come si è aggiudicata il bando l’Oasi, che da mesi non riesce a pagare gli stipendi a chi lavora per lei nei CIE di Trapani e di Modena? Con un bando al ribasso. Dai 70euro a rinchiuso dati alla Misericordia, si è passati a 28euro con l’Oasi.
Oggi sembra che i CIE non funzionino più: da fonte di guadagno questi lager sono diventati un peso economico difficilmente gestibile. Questo potrebbe spiegare perché, dopo anni che esistono e rinchiudono e torturano persone – colpevoli di non avere le carte che permettano loro di passare o vivere entro determinati confini statali – in un complice silenzio, oggi vengono additati da istituzioni e visitati da associazioni; dopo anni di silenzio menefreghista o di tiepido dispiacere, improvvisamente si riscopre che un CIE è un lager e ci si indigna, ci si commuove, si proclama la necessità di chiuderli.
Il CIE di Bologna è stato visitato nelle ultime settimane da Desi Bruno (garante dei diritti dei detenuti dell’Emilia Romagna), Virginio Merola (sindaco di Bologna), dall’associazione Medici per i Diritti Umani (che ha pubblicato delle foto dell’interno del CIE: http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/02/28/news/qui_peggio_che_stare_in_galera_cos_si_vive_all_interno_del_cie-30612725/ ).
Da dentro ci raccontano che da quest’autunno le condizioni sono peggiorate, anche prima dell’avvento dell’Oasi nella gestione. Il cibo è diventato ancora più scarso e immangiabile, le lenzuola e i vestiti non si riescono a far lavare per settimane, avere delle sigarette è un’impresa. Uno dei rinchiusi raccontava di una malattia alla pelle che lo tormentava, e che preoccupava molto il suo compagno di cella che temeva di essere infettato, ma non veniva mandato in ospedale né visitato seriamente; pochi giorni dopo, in seguito alla visita di Desi Bruno, sui giornali usciva la notizia di 4 casi di scabbia.
Abbiamo notizia di almeno un colloquio con gli avvocati saltato a causa della “mancanza di personale”, secondo quanto detto loro dal personale interno. Un prigioniero raccontava che il suo avvocato d’ufficio si era fatto rivedere solo due giorni prima della scadenza per presentare il ricorso contro il decreto di espulsione dall’italia.

Un paio di settimane fa uno dei rinchiusi si è cucito le labbra. Per tre giorni è rimasto così. Il quarto giorno è stata mandata a parlargli una psicologa mandata da Desi Bruno, che lo ha fatto uscire dal CIE: aveva sette giorni di tempo per rimanere in Italia, prima di essere di nuovo “irregolare”.

Da questo sabato altre due persone si sono cucite le labbra: un uomo e una donna. Hanno tentato di mandarci le foto, ma non ci sono riusciti. Uno di loro ha la febbre alta.


I CIE sono dei Lager dei nostri giorni

Corrispondenza con un compagno recluso nel CIE di Bari e li’ deportato dopo le rivolte al CIE di Ponte Galeria a Roma


Dentro al Cie di Bologna tra freddo e sporcizia

CIE-BoCarta igienica che scarseggia, centellinata. Ragazze e donne costrette a pietire gli assorbenti. Porte divelte e vetri rotti non sostituiti. Una lavatrice sola, di seconda mano, per tutti. Una struttura logora e insana, come è stato ripetutamente denunciato dalle garanti dei detenuti, dall’onorevole Pd Sandra Zampa, da associazioni e Ausl e, di recente, anche dal sindaco Virginio Merola. Il cambio di gestione al Cie, l’ex caserma di via Mattei in cui vengono rinchiusi gli stranieri non regolari da identificare e espellere, si sta facendo sentire.
Il consorzio siracusano l’Oasi si è aggiudicato l’appalto al massimo ribasso bandito da Viminale e Prefettura, accettando un rimborso quotidiano pro-capire di 28,5 euro, contro i quasi 70 del passato. Con una media di 50-55 presenze – lo hanno calcolato operatori e patronati – le entrate non bastano nemmeno a coprire le buste paga. La Prefettura è stata costretta ad anticipare i contanti per saldare gli stipendi di dicembre.
Non ci sono attività ricreative. sebbene siano previste dal capitolato, così come la fornitura di biancheria e abiti, i corsi di italiano, la prevenzione dei conflitti. A breve verrà ridotto l’orario del medico interno. Da quello che si vede, girando per le stanze, si risparmia su tutto.
La stuttura, con una capienza complessiva di 95 posti, ha un’ala del maschile inagibile, distrutta durante le azioni di rivolta. Ma anche negli spazi utilizzati, 53 letti occupati a ieri, la situazione è pesante.
Nella struttura, in una coabitazione forzata, si mescolano le persone e le storie più disparate, in una promiscuità che pesa e che non fa distinzioni.  I trattenuti, chiamati “ospiti”, denunciano condizioni di vita insopportabili e non umane

Fonte


Presidio al CIE di Torino

Da Maceriepresidio_cie_16022013_web


Rivolta al Cie di Ponte Galeria Appiccato rogo sul tetto

Un gruppo di immigrati che devono essere espulsi ha dato vita alla protesta bruciando materassi e suppelletili

cieRivolta al centro di accoglienza di Ponte Galeria. Un gruppo di immigrati nigeriani, in attesa di espulsione, è salito sui tetti appiccando anche un incendio e dando alle fiamme materassi e suppellettili.

I vigili del fuoco sono intervenuti con tre squadre per spegnere l’incendio. La questura della capitale ha inviato alcuni contingenti del reparto mobile. Sul posto anche il commissariato di Fiumicino. Ci sarebbero due feriti: una funzionaria di polizia e un finanziere in servizio nel Cie

Fonte Repubblica

ROMA – Rivolta al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma, che ospita gli stranieri in attesa di essere rimpatriati. Alcuni immigrati sono saliti sul tetto, altri hanno dato fuoco a coperte, materassi e vestiti. L’incendio ha sprigionato una lunga colonna di fumo nero rendendo inagibile una parte della struttura. La rivolta non è che l’ultimo degli episodi di scontri interni al Cie romano, lo stesso dove nel marzo 2012 si tenne un lungo sciopero della fame per protesta contro il suicidio di un ex recluso catturato e picchiato dopo una fuga dal centro.

IMMIGRATI ASSERRAGLIATI – Sono intervenuti i vigili del fuoco, che stanno ancora tentando di farsi strada nel Centro dove gli immigrati si sarebbero asserragliati. Sul posto anche alcuni contingenti del reparto Mobile della Questura e del commissariato di Fiumicino. Per ora non risultano feriti ma la situazione è tesa e i dirigenti di polizia stanno tentando una mediazione con gli ospiti rivoltosi.

«SITUAZIONE PRECARIA» – Il Cie di Ponte Galeria, situato tra Fiumicino e la Magliana, ospita centinaia di immigrati irregolari in attesa di esplusione «in precarie condizioni di vita – spiega il Garante dei Detenuti, Angiolo Marroni -. Una situazione estremamente complessa e precaria dove basta poco per scatenare la miccia della protesta e della contestazione». Il 14 settembre del 2011 alcuni gruppi di ospiti del Cie romano furono protagonisti di una serie di fughe : evasioni di massa che portarono ad una modifica degli apparati di sicurezza del centro.

Fonte Roma online


Guantanamo non chiuderà

Cessa l’attività l’ufficio incaricato della chiusura del carcere
 
noNEW YORK – Il Dipartimento di Stato ha chiuso l’ufficio incaricato della chiusura di Guantanamo, il carcere statunitense nell’est di Cuba. Daniel Fried, l’alto funzionario che aveva il compito di studiare attuare la promessa fatta dal presidente americano Barack Obama all’indomani del suo primo insediamento, è stato assegnato ad altri incarichi e non sarà sostituito.
Le responsabilità di Fried sono state assunte dall’ufficio legale del Dipartimento di Stato. Lo ha appreso il New York Times e secondo il giornale la decisione lascia presumere che l’amministrazione Obama non considerà più una priorità realisticamente realizzabile la chiusura della base-prigione per sospetti terroristi nell’isola di Cuba.
L’annuncio ha coinciso con la prima apparizione in tribunale da ottobre di Khalid Shaikh Mohammed e di altri quattro detenuti di Guantanamo che rischiano la pena di morte per il loro ruolo nelle stragi dell’11 settembre. L’udienza a Guantanamo è stata ritrasmessa a circuito chiuso a Fort Meade.
 
Fonte: ANSA

Resistere alle espulsioni

Diffondiamo da macerie

rabbia (1)Jamal e’ da un mese prigioniero nel Cie di corso Brunelleschi a Torino. Non ha i documenti in regola, ma a Torino ha una moglie incinta di 8 mesi, tant’e’ che il suo avvocato aveva immediatamente presentato ricorso contro l’espulsione, e Jamal era in attesa fiducioso di essere liberato. Ma all’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino sono furbi, e ieri pomeriggio chiamano Jamal fuori dalla sezione per “notificargli qualcosa”. Negli uffici del Cie, Jamal capisce che quello che devono notificargli non e’ ne’ la liberazione, ne’ la proroga della reclusione, ma un biglietto di sola andata per il Marocco. Solo contro una decina di poliziotti, isolato dai suoi compagni di reclusione, Jamal capisce che e’ il momento di lottare: chiama la moglie, che lancia l’allarme all’avvocato e ad alcuni solidali.

La notizia rimbalza su Radio Blackout 105.250 Fm, e nel giro di poco si forma un presidio di fronte all’ingresso principale su via Mazzarello, e con slogan e battiture si attira l’attenzione dei passanti e dei reclusi, alcuni dei quali salgono sui tetti. L’avvocato manda un fax urgente in Questura per evitare l’espulsione, e attende la risposta. Poco dopo arriva a difendere il Centro arriva la celere, e arriva anche la notizia che Jamal per evitare l’espulsione si e’ tagliato su tutto il corpo. Il presidio si trasforma in blocco stradale per intasare il traffico davanti all’ingresso, e la Celere quasi carica i manifestanti. Nel frattempo, arriva al Cie anche la moglie di Jamal, che riesce ad entrare per un colloquio. Verso le sei di pomeriggio, dal retro del Cie esce una camionetta a sirene spiegate con due reclusi: dovevano espellerne tre, e tra di loro Jamal non c’e’, e’ ancora a colloquio con la moglie.

Quando la moglie esce e arriva la conferma che Jamal e’ stato medicato e riportato nella sezione e non in isolamento, il presidio si scioglie, con l’amaro in bocca per non essere stati abbastanza per riuscire a bloccare entrambe le uscite e tutte e tre le espulsioni, ma con la conferma che resistere alle espulsioni e’ possibile davvero, quando alla determinazione dentro si aggiunge la solidarieta’ vera e rapida fuori. E questa e’ una cosa su cui tutti i nemici delle espulsioni dovranno riflettere nei prossimi giorni.

macerie @ Gennaio 31, 2013

 


Presidio al CIE di Torino

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Immigrazione: nei Cie molti tentativi di suicidio… e non è garantito il diritto alla salute

cie-1-1-2-4b2732437e7ceAl di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come da capitolato d’appalto del ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che però non è più adeguato ad un trattenimento dilatato fino a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e le cure di medio – lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 13 Cie operativi in Italia. 7.735 persone, per le quali un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’Ong Medici per i diritti umani (Medu), non è stato sempre garantito. All’ingresso in quell’istituzione chiusa, il check-up iniziale è superficiale. Il personale sanitario delle Asl non ha accesso.

I medici che ci operano sono privati, “chiamati” dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt Standards).

Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende sanitarie locali (Asl), in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste alcun regolamento per l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come Tbc, Hiv o epatiti.

Per una visita medica fuori dal Cie è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro il timore delle simulazioni. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere – sorvegliato.

OER MURI IMBRATTATIDetenzione peggiore del carcere

Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa… Dall’indagine dell’International University College sul Cie di Torino emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche, avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu e raccontato qui a fianco, i ritardi nella corretta diagnosi, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure potrebbero essere ancora per lo più sconosciuti e più numerosi.

Quando non è il corpo, in quelle “gabbie”, è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita anche. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’Ue (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi che hanno esigenze diverse. La prospettiva di 18 mesi separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei famigliari, è un incubo.

Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti “ospiti”, per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio – temporale che il Rapporto della commissione diritti umani del Senato non esitava a definire “peggiore del carcere”, per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita. Il profondo e diffuso malessere è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate pur di essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011, nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile è poi denunciato dalle dirompenti perdite di peso, dall’insonnia, dalla depressione, dalle patologie ansiose e mentali.

Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti Violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino sono stati introdotti degli psicologi, ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio ricorso ai psicotropi a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc..

Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. “Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera”, confessa una detenuta nel Cie di Torino. 0 come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: “Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua”. Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire tutti i casi. Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche.

I dati sanitari sono gravemente carenti – per assente raccolta e sistematizzazione – e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del ministero dell’Interno di rendere disponibili a Medu o a Msf, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza. Oltre quelle mura, le veridicità delle condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe – raddoppiate rispetto all’anno precedente in quasi tutti centri visitati da Medu. Senza nominare le denunce di abuso – punizioni, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali – che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana. “Qui è peggio di un carcere” è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. “Vorrei che questo centro scomparisse e basta”, dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come “corpi a disposizione totale della struttura”. In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo si esce in generale con condizioni peggiori di salute.

di Flore Murard-Yovanovitch

Fonte: L’Unità


Oristano: lettera di un detenuto; il carcere di Massama è nuovo di zecca, ma sembra un lager

fabbricato-inagibileUn carcere nuovo di zecca dove piove dal tetto, il cibo è scarso, le porte delle celle rimangono sempre chiuse e la palestra è inagibile. A pochissimi giorni dalla condanna di Strasburgo che definisce “inumane e degradanti” le condizioni dei detenuti nei penitenziari italiani, la lettera di 35 condannati descrive la situazione nel carcere “Salvatore Soro”, inaugurato da una manciata di settimane nella frazione Massama di Oristano, descritto sulla carta come “carcere modello” e invece già sottoposto a interventi di ristrutturazione.
Il taglio del nastro è avvenuto negli ultimi giorni di novembre 2012, in fretta e furia per rimediare al sovraffollamento degli altri istituti sardi. Eppure sembra andare quasi tutto storto. Così un gruppo di detenuti ha preso carta e penna per descrivere quello che succede: “Non esiste la socializzazione né nelle celle né nell’apposita saletta. Non funziona la palestra né il campo sportivo né è possibile svolgere alcuna attività ginnica. Perfino il cibo è scarso e per dotarsi di qualche tegame si devono fare acrobazie. La situazione è ancora più critica relativamente al vestiario che è ridotto allo stretto necessario e chi non ha colloqui con i familiari non può neanche lavarsi i panni in quanto è vietato stenderli”.
Costretti e rimanere dietro le sbarre, senza alcun programma di rieducazione, i firmatari sono preda della depressione: “Le porte delle celle sono sempre chiuse e spesso vengono chiusi gli spioncini. Anche le docce funzionano solo a tratti e così il riscaldamento”. La fretta con la quale il ministero della Giustizia ha voluto aprire il nuovo edificio carcerario, accusano anche i sindacati di polizia penitenziaria, è la ragione del malfunzionamento degli impianti tecnologici che dovrebbero aprire e chiudere automaticamente le celle – senza dunque l’intervento degli agenti.
La missiva è arrivata nelle mani di Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale della Sardegna e presidente dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme: “Sappiamo che quando apre un nuovo penitenziario ci vogliono tempi lunghi per mettere in funzione i servizi, ma questo disagio è scandaloso”.
Per il provveditore regionale del Dap, Gianfranco De Gesu, le condizioni del carcere di Oristano-Massima sono invece “quasi alberghiere”: “Ogni cella ospita due detenuti e se l’acqua calda è erogata secondo fasce orarie è per risparmiare”. Non nega, De Gesu, che la struttura abbia dovuto essere parzialmente rifatta a causa di difetti di costruzione: la ditta non aveva previsto una guaina di impermeabilizzazione nelle docce e sotto il tetto e così, dopo nemmeno 24 ore, si sono verificate vistose infiltrazioni nelle celle. Un assurdo difetto di progettazione, ancora più grave visto il costo della costruzione del penitenziario: 40 milioni di euro.
Delle quattro nuove case circondariali volute dall’allora ministro della giustizia Roberto Castelli, oltre a Oristano-Massama è stata aperta una struttura a Tempio Pausania mentre attendono quella di Uta (Cagliari) e Sassari.
Quello che preoccupa maggiormente i detenuti – coloro che hanno firmato la lettera sono 35 su 161 presenti – è comunque la qualità della vita. Pessima. Alcuni di loro provengono dal carcere che sorgeva nel centro di Oristano, ospitato da un edificio di origine medievale e fatiscente dove topi e scarafaggi erano ormai abituali compagni di cella. Con il trasferimento nella nuova struttura avevano sperato di trovare un sistema migliore: “Non possiamo nemmeno acquistare prodotti per la pulizia delle celle. Se queste sono le condizioni in cui siamo costretti a sopravvivere allora è meglio che venga ripristinata la pena di morte”.

di Laura Eduati

Huffington Post, 21 gennaio 2013


Torino – rivolta e fiamme al Cie di corso Brunelleschi

14 Gennaio – Momenti di fuoco e rivolta stasera al Centro di Identificazione ed Espulsione di Corso Brunelleschi a Torino.

cie 2Scintilla della rabbia: la mancanza di riscaldamento in una delle sezioni del lager, con gravi conseguenze sui prigionieri più anziani.

Alcuni rivoltosi si sono arrampicati sul tetto della struttura e lì hanno dato fuoco a dei materassi. Altri hanno incendiato masserizie in un’altra parte dell’edificio.

Fonte: Radioblackout

Ore 1.00 – Riportiamo anche che alcuni compagni sono stati fermati fuori dal lager dai servi di stato.

ore 1:42 – Quattro macchine ancora fermate dalla polizia in piazza Sabotino. Chi può vada a portare solidarietà ai fermati.

ore 1:52 – Tutti liberi i compagni precedentemente fermati. Buonanotte.


Oristano. Lettera choc dei detenuti: “Il carcere di Massama è un lager meglio la pena di morte”

“Questo non è un carcere ma un lager creato per spersonalizzare il detenuto non per prepararlo a un graduale reinserimento nella società. Si parla tanto di regimi duri per mafiosi, ma qui il regime punitivo lo subiamo noi”. Sono le parole di trentacinque detenuti del carcere di Oristano – Massama “Salvatore Soro” che hanno fatto pervenire una lettera all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” rappresentando la realtà nella struttura penitenziaria inaugurata alla fine di novembre e già sottoposta a pesanti lavori di restauro.

carceri3CAGLIARI – “Qui – viene precisato dai firmatari della missiva – si trovano persone che devono scontare 10 giorni, alcuni mesi o qualche anno insieme ad altre che hanno alle spalle oltre 35 anni di reclusione. Non esiste la socializzazione né nelle celle né nell’apposita saletta. Non funziona la palestra né il campo sportivo né è possibile svolgere alcuna attività ginnica. Perfino il cibo è scarso e per dotarsi di qualche tegame si devono fare acrobazie. La situazione è ancora più critica relativamente al vestiario che è ridotto allo stretto necessario e chi non ha colloqui con i familiari non può neanche lavarsi i panni in quanto è vietato stenderli. Le porte delle celle sono sempre chiuse e spesso vengono chiusi gli spioncini. Anche le docce funzionano solo a tratti e così il riscaldamento. Insomma è vero che il carcere è aperto da poco tempo ma noi non abbiamo colpa e non abbiamo chiesto noi il trasferimento a Oristano. E’ assurdo infine – conclude la lettera – che non si possano acquistare prodotti per la pulizia delle celle. Se queste sono le condizioni in cui siamo costretti a sopravvive allora è meglio che venga ripristinata la pena di morte”.

“Le nuove strutture penitenziarie hanno necessità – osserva la presidente di SdR Maria Grazia Caligaris – di un opportuno periodo di rodaggio durante il quale testare i dispositivi di sicurezza e quelli relativi alla vita comune come le cucine, le docce, i servizi igienici, i dispositivi elettrici e l’organizzazione interna con un numero adeguato di Agenti di Polizia Penitenziaria e di operatori. Per mettere in moto e gestire una struttura così complessa e delicata sono necessarie progettualità e gradualità che poco si conciliano con un’assurda approssimazione che crea soltanto gravi difficoltà. La pretesa urgenza di aprire la struttura per rimediare ai danni del sovraffollamento e della vetustà del carcere di piazza Mannu ha determinato gravi disagi non solo ai detenuti e a tutti gli operatori ma anche ai familiari dei ristretti doppiamente penalizzati dalle difficoltà per raggiungere un carcere costruito volutamente in una zona isolata. La macchina quindi non funziona e nascondere la realtà non giova”.

Fonte: sardegnaoggi.it


La mappa dei CIE d’Europa

Da decenni gli Stati membri hanno implementato azioni legislative, amministrative e politiche per arginare il fenomeno dell’immigrazione illegale. Tra queste, la decisione del 1990 di creare dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE).Migreurop pubblica una mappa per identificarli in Europa e rendere la loro esistenza nota. Nel 2012, circa 420 luoghi di detenzione sono stati registrati per una capacità totale di 37 000 posti. Dall’ultimo censimento, risalente al 2009, la durata massima del fermo dei migranti è cresciuta ben oltre il tempo necessario per l’esecuzione delle espulsioni: da 32 a 45 giorni in Francia, da 40 a 60 giorni in Spagna, da 2 a 18 mesi in Italia, da 3 a 18 mesi in Grecia.

BASTA LAGER

 


Per uscire dal Cie di Gradisca ingoiano vetri, medicinali e batterie

12.12.2012 | 9.46 – Gravi atti di autolesionismo si susseguono nel Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca. Alcune persone trattenute nella struttura, disperate per la loro situazione di prigionia temporanea, ingeriscono infatti cocktail di farmaci, pezzi di vetro e batterie dei telecomandi per protesta e per uscire dal centro. Questi episodi si verificano per lo più di sera o di notte, quando l’oscurità rende il controllo dei sorveglianti più difficile. Una volta compiuto questo grave gesto di protesta e iniziati i primi dolori, gli ospiti del centro attirano l’attenzione degli addetti alla sicurezza, che non posso fare altro che chiamare il 118.

Se il fatto si è verificato prima delle 19, il ferito, insieme a due agenti, viene portato all’ospedale di Gorizia. Ma se il gesto viene compiuto dopo le 19 l’ambulanza, con i 3 paramedici, i due agenti e l’ospite del centro, deve viaggiare fino agli ospedali di Trieste o di Udine perché ilreparto di gatroenterologia di Gorizia chiude alle 19.

Ecco perché in queste settimane spesso accade che arrivino a Cattinara ambulanze da Gradisca con a bordo irregolari del Cie che devono essere operati per estrarre vetri o batterie dallo stomaco.

Continua intanto la protesta della politica regionale nei confronti della situazione creatasi nella struttura di Gradisca. Dopo le denunce di Codega e Brussa del Partito democratico e di Pustetto di Sinistra arcobaleno – Sel, che hanno messo in evidenza le condizioni intollerabili in cui vengono tenuti gli immigrati, l’ultimo in ordine di tempo a protestare è stato, alcune settimane fa, Federico Razzini della Lega Nord. «La situazione del Cie e Cara di Gradisca in appena un anno di governo Monti è diventata a dir poco incresciosa: chiederò lumi in Regione sull’atteggiamento del ministero competente». Il consigliere regionale denuncia quello che considera una sorta di stato di abbandono, in spregio alla leggi Bossi/Fini sull’immigrazione «con conseguenze negative anche sul nostro territorio e sugli operatori che svolgono un’opera preziosa in condizioni difficili e vengono bistrattati».

Secondo Razzini vi sarebbe un progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza all’interno della struttura gradiscana: «da mie informazioni – precisa – gli incidenti e le intemperanze, le aggressioni di soggetti stranieri pericolosi ospitati, le fughe, sono all’ordine del giorno e nessuno interviene in modo adeguato. Da quando Maroni non e più ministro la situazione è degenerata e pare che non si faccia un rimpatrio che sia uno e gli addetti, cosa intollerabile, sono senza paga da mesi».

«Una vergogna – conclude Razzini – che chi lavora di fatto per lo Stato e la comunità in un settore delicato come quello che fronteggia la piaga dell’immigrazione clandestina non solo non sia adeguatamente tutelato, ma neppure pagato a fine mese, mettendo i difficoltà decine e decine di famiglie».

di Emanuele Esposito

Fonte Trieste all news