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Francia – Riflessioni sulle misure alternative al carcere

“La rottura nei confronti delle autorità giudiziarie”
Notizie da Mike, condannato a causa dell’esplosione di Chambéry del 1 maggio 2009. 

Nota per il lettore di lingua italiana.

Verso la mezzanotte del 1 maggio 2009, una bomba esplode in una fabbrica abbandonata vicino a Chambéry. Zoé vi perde la vita, Mike rimane gravemente ferito. La polizia dirà che i due stavano preparando un ordigno esplosivo ed in seguito Mike ammetterà di aver confezionato la bomba insieme a Zoé, sempre negando una qualunque intenzione sovversiva quanto al suo utilizzo. Visto che i due sono schedati come “anarchici” è l’antiterrorismo che viene incaricato delle indagini. Altre quattro persone vengono messe sotto inchiesta con l’accusa di aver “ripulito”, dopo l’incidente, il furgone di Mike ed il domicilio di Zoé da materiale “scottante” (in realtà, per lo più libri e scritti anarchici). La condotta di queste persone al momento dell’arresto varia molto: si va da un comportamento degno, al fare dichiarazioni su sé stesso ed altri (fornendo indicazioni su una persona ricercata, come fa J.), fino al limite di William, che inventa particolari su obiettivi immaginari della bomba ed altrettanto immaginarie scorte di clorato di sodio.
Alla fine il “caso” viene derubricato dall’antiterrorismo al diritto ordinario. Nel maggio 2012, Mike e tre suoi coimputati vanno a processo (il quarto non è giudicabile, grazie ad un cavillo tecnico). Anche in questa occasione, diversi sono gli atteggiamenti nel rapporto alla giustizia: c’è chi sottolinea il suo “reinserimento”, chi minimizza il proprio operato (a scapito di altri) e chi assume a pieno le proprie idee e scelte.

Chi volesse approfondire può leggere, in francese, il resoconto del processo, che contiene anche una ricostruzione dell’incidente:
http://cettesemaine.free.fr/spip/article.php3?id_article=5076

Il 16 ottobre 2012 sono stato convocato dalla JAP [Juge d’Application des Peines – ha funzioni simili a quelle del Magistrato di sorveglianza dell’ordinamento italiano, NdT], per discutere delle forme che prenderà la condanna ad un anno di carcere, di cui sei mesi passati in condizionale, pronunciata contro di me nel processo del 25 maggio 2012, in relazione all’esplosione del 1 maggio 2009 a Cognin (Savoia).
Dopo lunghe e numerose riflessioni, sono alla fine rimasto su una linea politica vicina alla rottura nei confronti delle autorità giudiziarie, situando questa rottura all’interno di un profondo conflitto con lo stesso concetto di autorità e le derive carcerali e statali che ne derivano.

Allo stesso tempo, ho rifiutato di entrare nelle categorie della sedentarizzazione e del lavoro salariato, confermando così la mia determinazione a non integrarmi nella loro miseria sociale.

Le conseguenze della mia posizione e la mia volontà di non entrare in qualche forma di dialogo e di pacificazione del conflitto che ci oppone hanno fatto sì che l’argomento delle pene alternative alla detenzione non sia stato nemmeno affrontato dall’AP (amministrazione penitenziaria) e che io sia convocato per il 7 gennaio 2013 alla Casa Circondariale di Chambéry, per espiarvi quello che mi resta della pena (4 mesi di prigione, 2 e mezzo tenendo conto degli ipotetici sconti di pena).

Al contrario di ciò che pretenderebbe la giustizia, che in vano ha cercato di farmelo controfirmare, non si tratta di una detenzione volontaria. Si tratta della messa a nudo di un rapporto di forza nel quale le armi sono ineguali ed il loro potere di nuocere alla mia vita è tale che io ho deciso (mantenendo la possibilità di cambiare idea) di recarmi in prigione. Malgrado tale rapporto di forze, il mio desiderio di un mondo senza dominazione non è che rinforzato e la mia determinazione a lottare contro tutte le forme di autorità non può che essere sempre più grande.

Ne approfitto, allo stesso tempo, per ringraziare i diversi gruppi ed individui che hanno condiviso le discussioni e le riflessioni che mi hanno aiutato ad arrivare alle mie attuali prese di posizione.

Al momento della mia incarcerazione, il mio indirizzo ed il mio numero di matricola verranno resi pubblici e le lettere saranno le benvenute.

Poiché, qui ed altrove, le nostre esistenze ed i nostri spazi di vita non sono gestibili, distruggiamo ciò che ci distrugge e facciamola finita con il concetto di autorità e di dominazione.

Che crepi questo mondo di merda!

Mike
Germogli di Libertà.
Riflessioni sulle misure alternative alla carcerazione
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In seguito alla sentenza ed alle diverse forme di reclusione che possono esserne le conseguenze, mi sembra importante cercare di mettere giù alcune delle mie riflessioni.

Considerando i due mesi di preventiva già fatti, mi restano da scontare quattro mesi di carcere, più sei mesi di condizionale (che restano in sospeso per i prossimi cinque anni). Spontaneamente, il mio primo riflesso è stato la voglia di fuggire questa situazione, ma sono stato rapidamente scoraggiato dall’isolamento, l’energia ed i mezzi tecnici che richiederebbe una latitanza come si deve e dalla paura di vedere il mio quotidiano, i miei progetti ed i miei legami sociali ritmati una volta di più dalla psicosi della reclusione. Nonostante la mia volontà politica di non sottomissione all’AP (amministrazione penitenziaria) ed il desiderio di rendere loro il lavoro il più duro possibile, ho comunque rapidamente concluso che la fuga causerebbe più disastri alla mia vita e a quella delle persone che mi circondano che i pochi mesi di prigione a cui sono stato condannato.

Ho quindi cercato di immaginarmi le diverse forme che la mia reclusione potrebbe prendere, per anticipare le conseguenze che questa condanna avrà sul mio quotidiano e su quello delle persone a me vicine.

Di fronte alle diverse forme detentive messe in atto dall’AP per le pene brevi o i fine pena (semi-libertà, braccialetto elettronico), numerose questioni a proposito di queste misure alternative alla prigione sono comparse e si sono affinate lungo le riflessioni individuali e collettive.
Il seguito di questo testo si snoderà quindi lungo la dualità fra  la “scelta” di pene alternative e quella della prigione.

Visto che la scelta di una pena alternativa al carcere classico, intesa come miglioramento del quotidiano, è valida solo all’interno di una logica carceraria, è primordiale per me pormi delle vere domande sulle forme che può prendere la reclusione durante questo periodo, affinché la mia “decisione” non sia condizionata dall’AP, ma sia il frutto di riflessioni collettive ed individuali che mirino a limitare le conseguenze delle restrizioni che ne derivano, sempre mantenendo una coerenza politica.

In una situazione in cui le pene alternative al carcere permettono di aumentare massicciamente il numero di persone sotto restrizioni carcerali, allo stesso tempo riducendo considerevolmente i costi di queste restrizioni, esse  introducono quotidianamente queste restrizioni nel seno stesso delle sfere pubblica e privata della popolazione e garantiscono una manodopera docile e sfruttabile a basso prezzo, grazie a mezzi di ricatto e restrizione ancora più forti che in una situazione salariale classica; mi è quindi impossibile non essere scettico di fronte a pratiche giudiziarie che mirano ad estendere la reclusione al di fuori delle mura delle prigioni.

È ciononostante vero che una pena alternativa al carcere può permettere di avere più legami sociali con i propri prossimi, visto che le possibilità di incontro e di comunicazione non sono sottomesse al formalismo ed all’arbitrio dei colloqui [in carcere, NdT], che senza l’intermediario e i limiti della spesina e con la possibilità di poter cucinare, procurarsi i propri alimenti, fare la doccia quando lo si vuole, mantenere una parte della propria vita sociale, affettiva e sessuale… si conserva una maggiore autonomia in quel che resta del quotidiano, in confronto a quello vissuto fra le mura di una prigione.
Ma tutto ciò è davvero rappresentativo della realtà di una pena alternativa al cercere?

Nella mia situazione personale di rifiuto della sedentarizzazione e del lavoro salariato, gestire questa pena significherebbe inevitabilmente partecipare all’elaborazione delle forme che prenderebbe la sanzione e di conseguenza entrare in una forma di partnership con l’AP.

Durante gli anni vissuti in libertà vigilata, ho avuto il tempo e le occasioni per affinare qualche riflessione sulle restrizioni carcerali al di fuori delle mura, ho potuto constatare che quando si è “rinchiusi fuori” le nostre attese si volgono automaticamente verso le persone che ci circondano e, quali che siano gli strumenti messi in atto, compaiono delle delusioni. Fare la scelta di una pena alternativa significherebbe quindi avere delle frustrazioni nei confronti delle persone a me vicine, invece che dirigerle contro lo Stato, che è alla base delle mie oppressioni.

Vivere una realtà carceraria all’esterno mi metterebbe in una condizione d’isolamento, poiché mi ritroverei ad essere il solo a vivere questa oppressione, in mezzo a persone avvantaggiate quanto alla propria libertà di movimento. Vivere una tale situazione d’isolamento causerebbe obbligatoriamente delle gerarchie nella ripartizione dei compiti e delle attese affettive nel seno delle mie relazioni sociali e, anche con una reale volontà e mettendoci un’attenzione particolare, mi sembra impossibile che le conseguenze non si incrostino nei miei legami sociali e nei confronti dei miei prossimi.

Essere rinchiuso in una cella la cui porta resta aperta mi obbligherebbe a rifare la scelta della reclusione ogni volta che sarei tentato di oltrepassarla; ciò significherebbe autodisciplinarmi di continuo, in modo da vietarmi ogni pulsione che miri alla mia emancipazione sociale, politica ed affettiva. In un modo di vita collettivo, ciò significherebbe condividere i ruoli del secondino e condurrebbe inevitabilmente a relazioni sociali in cui la repressione si mescolerebbe agli altri parametri che richiedono una gestione quotidiana.

Nel periodo della libertà vigilata, ho gestito il mio equilibrio sociale creando delle fessure nelle restrizioni impostemi ed accettare un braccialetto elettronico significherebbe sopprimere questi spazi di libertà, in assenza dei quali il mio equilibrio sociale non può che essere pesantemente danneggiato.
Ciononostante, la realtà carceraria attuale non permette di conoscere la data della propria scarcerazione, poiché ad ogni momento un’infrazione commessa durante la detenzione può portare ad una nuova condanna e significare quindi un prolungamento della durata della carcerazione.

Avendo delle rivendicazioni e cercando di avere delle pratiche antiautoritarie nel mio quotidiano, mi è difficile immaginare una realtà carceraria senza conflitti con l’AP e ciò significa proiettarmi in un periodo in cui sarei costantemente tentato di soffocare la mia coscienza ed i miei istinti di rivolta, nella prospettiva di non prendere delle pene supplementari durante la detenzione.

Fare la scelta di essere incarcerato significherebbe perdere il controllo sulle forme che prenderebbe questa condanna e lascerebbe la possibilità all’AP di organizzare il mio quotidiano durante il periodo della reclusione, scegliere il luogo di detenzione, poter vedere i miei legami sociali all’esterno attraverso i colloqui, le lettere etc. Questa scelta significherebbe ugualmente che le mie amicizie sarebbero colpite da una separazione fisica e si manterrebbero unicamente sulla fiducia esistente e quella che potrebbe essere creata ed intrattenuta attraverso la solidarietà, fatta di azioni, lettere o colloqui e la mia cerchia di relazioni fisiche sarà molto ristretta e limitata alle poche persone che avranno diritto ai colloqui. Senza fare particolare attenzione alle sensazioni di ogni persona a me vicina, mi sembra probabile che venga accentuata una certa gerarchizzazione fra le mie relazioni e che ciò possa essere fonte di conflitto, per persone già abbastanza colpite dalla situazione.

Ma questa scelta significherebbe ugualmente costruire dei nuovi legami sociali nel mio quotidiano, senza disequilibri, poiché li condividerei con persone che vivono la stessa realtà carceraria e ciò mi spingerebbe a dirigere le mie frustrazioni verso le cause della mia oppressione e non contro le persone a me vicine.

Nel periodo di carcerazione preventiva, ricordo, fantasmavo sul mondo esterno, sulla forza delle mie relazioni affettive, e avevo voglia di mordere la vita a pieni denti, appena fuori. Di fronte ai ricordi di depressione e di frustrazioni sociali provati all’inizio della libertà vigilata e delle difficoltà a ritrovare un pieno sviluppo sociale ed affettivo, mi sembra più facile progettarmi in una realtà carceraria, in modo da preservarmi dalle frustrazioni sociali, piuttosto che progettarmi in una situazione in cui numerosi eventi mi farebbero ricordare un periodo della mia vita particolarmente difficile. Ho anche coscienza che la morte di Zoé mi ha gettato in una realtà in cui tutto il mi equilibrio sociale ed affettivo è stato modificato. I pochi mesi di preventiva [già fatta, NdT] mi hanno permesso di vivere tutto ciò isolato in una specie di bolla e non ho avuto veramente percezione del vuoto causato dalla sua morte e dalle conseguenze che questa ha avuto sulla mia vita, che una volta uscito di prigione.

Dato che la mia detenzione preventiva si è aggiunta ad una situazione di ricostruzione fisica e psichica, ho vissuto quel periodo in un modo “di sopravvivenza”, non lasciando che poco spazio ai miei sentimenti e frustrazioni, e questi non hanno potuto emergere che una volta in libertà vigilata.

Scrivendo queste poche righe, mi rendo conto che è difficile per me essere razionale riguardo a quello che sento di fronte alla dicotomia braccialetto elettronico / prigione, poiché tutto ciò mi rimanda a periodi difficili della mia vita, dai quali non ho ancora preso abbastanza distanza per poter capire ed affrontare i ruoli della repressione, del lutto, delle ripercussioni fisiche dell’incidente, le numerose altre conseguenze affettive ed i loro legami con la mia situazione attuale.
Perché, alla fine, questa scelta non è la mia e mai farei spontaneamente la scelta fra essere rinchiuso in una prigione oppure essere sotto sorveglianza elettronica; la mia scelta si limiterebbe ad evitare le pene alternative o la detenzione.

Da un punto di vista personale, non riesco ancora a prevedere la posizione che terrò di fronte al JAP, se cercherò o meno di avere una pena alternativa al carcere, e trovo primordiale il fatto di avere la libertà di cambiare opinione tante volte quante sarà necessario. Ciononostante, la mia coscienza politica e le mie pratiche di lotta antiautoritaria fanno sì che, se cerco una coerenza, non posso che essere contrario alle pene alternative e che l’opzione che renderà il lavoro il più difficile ed il più costoso possibile all’AP è quella della detenzione in carcere. Ma allo stesso tempo mi sembra indispensabile essere attento al mio equilibrio affettivo e sociale nel momento in cui vi sarò confrontato, affinché non sia un dogma politico il solo parametro ad influenzare la mia posizione. La cosa più importante ai miei occhi non è quindi la decisione finale che sarà il frutto di questa situazione, ma gli strumenti che permettono di costruire e di affinare delle riflessioni attorno a questa questione, e fare in modo che essi possano alimentare delle discussioni e delle pratiche, collettive così come individuali, all’interno delle lotte anti-carcerarie e antiautoritarie di questa società.

Forza e coraggio a quelli/e che lottano contro tutte le forme di detenzione.

Mike
[ottobre 2012]

Per un contatto, critiche o altro: soutien25mai [a] riseup.net

Fonte:non-fides


Il caso Barchem 4: al via il processo

In una notte di fine ottobre 2009, in un allevamento di animali da pelliccia nella località di Barchem – Olanda, 5000 visoni si sono ritrovati liberi e la maggior parte di loro non sono mai stati ricatturati.

La polizia olandese ha successivamente arrestato 4 persone, accusate della liberazione dei visoni dall’allevamento. Tre abitazioni sono state perquisite, i computer, alcuni dispositivi digitali, scarpe e oggetti di altro genere, sequestrati.
Tre dei quattro imputati sono stati condotti in carcere dove hanno trascorso dalle 4 settimane ai tre mesi, con severe restrizioni e cibo inadeguato. In attesa del processo sono stati tutti e tre rilasciati. La quarta persona, dopo 3 giorni di custodia cautelare, è stata rilasciata.
Tutti gli imputati sono vegan.

Dopo due anni di attesa, il 25 e il 27 settembre si terrà il processo in Olanda.

Diffondiamo, e vi invitiamo a fare altrettanto, il comunicato rilasciato da alcune delle persone imputate del caso Barchem 4.

Queste parole sono per ognuno di noi che si è mai sentito impotente, contro un nemico mille volte più grande.

Negli ultimi anni la repressione, contro ogni lotta per la liberazione, è aumentata.In paesi diversi l’attenzione delle autorità si è concentrata sui movimenti diversi, ma la sostanza rimane la stessa: Stato e governi proteggono gli sfruttatori, non gli sfruttati. Proteggono gli oppressori, non le vittime.  Proteggono coloro che violentano, uccidono e schiavizzano. Non coloro che mettono in discussione l’esistenza stessa delle gabbie. Per fare questo, si stanno usando nuove leggi, unità speciali della polizia, un numero maggiore di migliorate tecniche di sorveglianza.

In questo recente caso contro il movimento di liberazione animale, quelli /e che scrivono sono stati accusati /e di un presunto crimine: aver liberato quasi 5000 visoni dalle loro gabbie, dove avrebbero vissuto una vita di paura, angoscia ed isolamento prima di essere uccisi per divenire cappotti di pelliccia, in un allevamento nel villaggio olandese di Barchem.

Per questo motivo saremo processati /e il 25 ed il 27 settembre in Olanda.

Non spenderemo altre parole su questo evento specifico, considerando che il processo deve ancora svolgersi, ma vorremmo offrire il nostro punto di vista al movimento, su ciò che la repressione sta facendo, su quello che la repressione significa veramente per noi.

La repressione deve essere affrontata con consapevolezza. Bisogna in un certo modo sapersela aspettare, dobbiamo essere preparati /e e pronti /e ad accettare le conseguenze del voler mettere in discussione lo stato attuale delle cose. Senza questa consapevolezza ci accingiamo a vivere la nostra vita nella paura e non essere in grado di portare avanti le lotte in modo efficace. La repressione nasce come risposta ad una lotta efficace. Ogni azione comporta una reazione, è per questo che i governi e la polizia intervengono per fermarci, perché stiamo trovando metodi che funzionano per ottenere dei risultati. Se non fossimo una effettiva minaccia, non avrebbero fatto nulla perché alle autorità non sarebbe importato.

Dobbiamo accettare l’idea dell’esistenza della repressione, se quello che vogliamo è che questa lotta generi un reale cambiamento. La repressione ed il costruire un cambiamento effettivo sono fondamentalmente due facce della stessa medaglia. La peggiore reazione che possiamo avere di fronte alla repressione è di timore. Questo è quello che da alla repressione il suo potere. Siamo noi, come movimento, che possiamo scegliere in che modo reagire davanti alla repressione, e decidere se vogliamo che influenzi il nostro agire o meno. Continuare le campagne che cercano fermare è il modo migliore in assoluto per sfidare, e combattere, la repressione. Rispondere in maniera più forte, migliore, più organizzata e  con maggiore preparazione. Prendere in considerazione che la repressione esiste significa diminuirne l’impatto sulle nostre vite quando colpisce. Imparare gli uni dagli errori degli altri per potenziare le nostre strategie. In caso contrario, daremo alle autorità repressive un modello che può essere utilizzato per calpestare qualsiasi altro tipo di dissenso, in qualsiasi altro movimento.

Questo è il modo in cui operano, colpiscono uno /a di noi per insegnare a mille. Questo è l’obiettivo stesso di arresti e perquisizioni, di isolamento e prigionia. E’ la loro migliore arma: instillare la paura nelle nostre teste per renderci innocui /e, per farci tacere.

Per questo motivo, mentre ci troviamo di fronte questo processo ci piacerebbe ricordare a tutti che anche noi abbiamo un’arma. Si tratta di un’ arma più forte delle loro, perché è costruita su compassione e rabbia, è basata sulla dedizione e la sincerità di persone che condividono lo stesso senso di urgenza: si chiama solidarietà.

Solidarietà significa sostenersi a vicenda nei momenti di bisogno, ma anche rispondere agli attacchi, non lasciare che la paura conquisti le nostre vite o fermi la nostra capacità di essere efficaci. Significa costituire insieme un movimento realmente unito, con tutte le nostre forze, competenze e abilità. Ed unirci in un nostro obiettivo comune: porre fine allo sfruttamento spietato dei nostri compagni /e esseri viventi e del pianeta che ospita ci ospita tutti /e.

La solidarietà è la chiave per mantenere viva questa lotta, e per creare un movimento che non saranno mai in grado di distruggere.

Perché nessuno è libero, fino a quando TUTTI /E sono liberi.

Alcuni /e imputati /e nel caso “Barchem 4”

Questo è uno dei tanti attacchi che la repressione sferra al movimento che si batte in difesa degli animali in ogni parte del mondo, noi esprimiamo agli imputati del caso Barchem 4 la nostra solidarietà ed il nostro sostegno.



Repressione in Val Susa 2012

Su 160 mila agenti della Questura di Torino impegnati in attività per l’ordine pubblico ben 130 mila sono stati utilizzati per presidiare il cantiere della Maddalena di Chiomonte per lavori di realizzazione dell’Alta Velocità Torino-Lione. A rendere noti questi dati il questore Aldo Faraoni che ha tracciato un bilancio sull’operato della polizia nel corso del 2012.

Si scopre così che l’ottanta per cento degli agenti del capoluogo piemontese ha avuto almeno un turno tra le montagne della Valle. E non solo: “Abbiamo fatto in modo che tutti fossero informati sulla situazione in Valsusa e pronti ad intervenire”, precisa Faraoni aggiungendo come “è nostro interesse cercare di mantenere la situazione calma il più possibile ed evitare situazioni come il 2011, anno di grande conflittualità”.

Eppure, se per il questore il 2012 è sembrato un anno più tranquillo chissà che nel 2013 ormai alle porte la situazione non cambi e lo scenario non sia quello di una resa dei conti definitiva. Per Faraoni, infatti, c’è una data e un evento che potrebbero cambiare le sorti della Valle dove da vent’anni ci si oppone alla Tav. Il 9 gennaio, quando sarà presentato il progetto definitivo per la Torino-Lione. “Allora, prima o poi arriverà la trivella e lì i giochi arriveranno alla fine”. Così spiega Faraoni respingendo l’ipotesi di chi gli chiede se è pensabile che i No Tav spostino il conflitto tra Susa e Bussoleno, facendo passere in secondo piano il cantiere da più di un anno scenario di scontri. “Per il cantiere ci sono scadenze molto ravvicinate, e stiamo tenendo presente soprattutto quello”. Dunque non resta che aspettare e vedere quali saranno le prossime mosse di una partita che i No Tav non sembrano proprio intenzionati a perdere.


Benevento, 4 agenti penitenziari risultati positivi al test TBC

BENEVENTO- Si aggrava a Benevento il rischio di una epidemia di tubercolosi nel carcere di Contrada Capodimonte: “Dopo la scoperta il 23 dicembre di un detenuto straniero affetto da tubercolosi – riferisce il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria – erano stati disposti provvedimenti di profilassi per i poliziotti penitenziari in servizio in quella sezione detentiva e dagli accertamenti e’ risultato che quattro agenti sono risultati positivi al test della tbc.

Ma il numero potrebbe essere piu’ elevato, perche’ il detenuto era un lavorante, libero di muoversi nel carcere”. Per il segretario generale del Sappe Donato Capece, “quanto accaduto a Benevento e’ gravissimo e le responsabilita’ di avere ammesso al lavoro un detenuto con la tubercolosi sono ben precise: il direttore del carcere deve essere avvicendato. Non puo’ infatti costituire un alibi per l’amministrazione penitenziaria centrale l’assenza di un programma di prevenzione sui rischi di contagio, affinche’ si evitino ingiustificati allarmismi, con la sottoposizione periodica degli operatori penitenziari a vaccinazioni, la dotazione di kit di protezione, l’indicazione di una scrupolosa profilassi da eseguire. Tutto questo a Benevento non e’ stato fatto”.

Il Sappe auspica che “il ministro della Giustizia Severino assuma urgenti iniziative. Sono evidenti anche le responsabilita’ del capo del Dap Tamburino e del vicecapoPagano. La necessita’ di uno screening su scala nazionale risulta quanto piu’ utile e opportuno in considerazione dell’alto tasso di detenuti stranieri provenienti da Paesi dove patologie, che in Italia sono state debellate, sono assai radicate e diffuse, anche in considerazione che il sovraffollamento favorisce la possibilita’ di contagio”.

Fonte: eolopress.it


Sovraffollamento e personale all’osso, l’anno terribile del carcere leccese

Nemmeno di fronte ad alcune sentenze definite epocali, con l’amministrazione penitenziaria obbligata a risarcire alcuni detenuti, è cambiato nulla. E si sprecano gli appelli, anche dei sindacati di polizia penitenziaria nazionali

LECCE – L’anno appena trascorso ha evidenziato, ancora una volta, la situazione di degrado e profondo malessere che attraversa gli istituti penitenziari pugliesi e in particolare quello di Lecce, dove, a fronte di una capienza di 660 posti disponibili, si registra una presenza costante di oltre mille 300 detenuti.

Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, mancanza di supporto psicologico e la cronica insufficienza di personale, sono solo alcuni tra i mali che affliggono il penitenziario salentino. Quella dell’emergenza sanitaria e delle carenze legate all’assistenza medica dei detenuti, sono solo alcuni dei tanti mali con cui da tempo convive il carcere di Borgo San Nicola.

L’ultima inchiesta della magistratura, in ordine di tempo, riguarda il lavoro svolto dai medici dell’Asl in servizio presso l’istituto penitenziario. Degli oltre 800 i ricoveri presi in considerazione, tra il gennaio 2010 e il febbraio 2011, solo il 13 per cento di quelli definiti di estrema urgenza, in ospedale sarebbero stati riconosciuti come tali. In tutti gli altri casi, il trasferimento risulterebbe superfluo. Uno spreco di denaro pubblico che potrebbe essere utilizzato in altro modo.

Il grido d’allarme è giunto, ancora una volta, dal vicesegretario nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che ha evidenziato come in dodici mesi siano stati oltre mille 350 gli eventi negativi accaduti nel carcere di Lecce. Una situazione esplosiva che solo il grande lavoro della polizia penitenziaria, costretta a svolgere le proprie mansioni in situazioni difficili, ha evitato che portasse a conseguenze gravi. La sede di Lecce, infatti, necessita di almeno 150 agenti uomini e venti donne. La polizia penitenziaria, già in forte carenza, si è vista ulteriormente ridurre l’organico a seguito dei tanti pensionamenti di uomini e donne.

Quello del sovraffollamento delle carceri pugliesi è da tempo un dato di fatto, riconosciuto anche da alcune sentenze. I detenuti sono rinchiusi in tre dentro celle da circa 10 metri quadrati; dormono in letti a castello (il materasso più in alto è a 50 centimetri dal soffitto); in cella c’è una sola finestra ed un bagno cieco senza acqua calda; il riscaldamento funziona d’inverno un’ora al giorno; le grate sono chiuse per 18 ore al giorno; carta igienica, shampoo, bagno schiuma, detersivi solo per chi può comprarli nello spaccio interno.

Nei mesi scorsi il Tribunale di sorveglianza, con alcune sentenze definite epocali, aveva condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire alcuni detenuti, assistititi dall’avvocato Alessandro Stomeo. Nel 2012 è stata la stessa Asl di Lecce a certificare le carenze strutturali e igienico-sanitarie dell’istituto di pena alla periferia del capoluogo salentino. Nella relazione, a firma del direttore Alberto Fedele, è stato evidenziato come il gruppo docce “presenti carenze funzionali”. “In relazione al numero dei detenuti occupanti la cella”, è stato certificato ancora nella relazione indirizzata al magistrato di sorveglianza, “dovrebbe essere necessari 42 metri quadri, a fronte dei 9 disponibili”.

Un referto (nato come richiesta istruttoria presentata dall’avvocato Stomeo), che sottolinea ancora una volta la situazione di invivibilità all’interno del carcere. Tutto ciò in violazione della normativa italiana che regola il sistema penitenziario, della Costituzione (secondo la quale la limitazione della libertà dovrebbe avere come obiettivo la riabilitazione dell’uomo e il suo reinserimento in società) e gli orientamenti giuridici comunitari.

Per non dimenticare che, a poca distanza dalle nostre vite, ce ne sono altre racchiuse in un mondo parallelo, fatto di regole e ritmi assai diversi. Vite che, al di là del perché, scontano pene in maniera spesso disumana e degradante. Una lunga cinta muraria e un pesante cancello separano il mondo di fuori da quello di “dentro”, i sogni dalla realtà.

Fonte: lecceprima.it

 


“La direzione assicuri i diritti dei carcerati”

PALERMO – Il giudice ha ingiunto la direzione del carcere palermitano ad adottare gli opportuni provvedimenti per assicurare il rispetto della persona dei detenuti. Il garante Fleres: “E’ l’ennesima conferma delle generali condizioni di disagio vissute dai reclusi italiani e siciliani”.

Il magistrato di sorveglianza di Palermo ha ingiunto alla direzione del carcere Pagliarelli di assicurare condizioni di vita adeguate ai detenuti. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana, Salvo Fleres. “Il giudice – spiega Fleres – ha ingiunto la direzione ad adottare gli opportuni provvedimenti per rimuovere le violazioni dei diritti sul rispetto dello spazio vitale all’interno della cella, per assicurare il diritto di occupare una cella con compagni non fumatori, il diritto a fruire di adeguati periodi di tempo all’esterno delle celle, sfruttando la cosiddetta socialità, il diritto all’uso adeguato di bagni e docce e degli altri oggetti necessari alla cura ed alla pulizia della persona”.

Il provvedimento ha origine da una iniziativa promossa da un recluso che si è rivolto a Fleres e all’avvocato Vito Pirrone, presidente dell’associazione nazionale forense di Catania, con cui il Garante ha stipulato un protocollo di intesa. “La pronunzia del magistrato di sorveglianza di Palermo – ha detto Fleres – costituisce l’ennesima conferma delle generali condizioni di disagio vissute dai reclusi italiani e siciliani a causa del sovraffollamento e delle endemiche carenze di personale, sottoposto a turni estenuanti di servizio”. “Ulteriori iniziative giudiziarie – ha proseguito – sono in corso in altre carceri dell’Isola e puntano, oltre che al risarcimento del danno, anche al varo di interventi normativi, organizzativi e strutturali capaci di adeguare l’esecuzione penale ai dettati della legge”.

Fonte: livesicilia.it

Carcere di Foggia: 3 bimbi tra detenuti e suicidi

FOGGIA – Una bimba di 10 giorni nel carcere di Foggia: che ci fa? E’ con la sua mamma detenuta nella sezione femminile della casa Circondariale foggiana, in attesa di giudizio incensurata. E se da una parte è giusto che la bimba riceva il calore materno, dall’altro una infante non può crescere in un ambiente dove il riscaldamento è acceso per una sola ora al giorno.

Il 24 dicembre scorso, mentre tutti eravamo indaffarati con gli ultimi regali e con i preparativi del cenone di Natale, i radicali dell’associazione ‘Mariateresa Di Lascia’ ispezionavano il carcere di Foggia.

Una visita ispettiva, la seconda dall’inizio dell’anno, che non ha portato a evidenti miglioramenti rispetto alla precedente, avvenuta a marzo: “stesso sovraffollamento. Capienza del carcere 450 posti, detenuti presenti 680, stessa carenza di personale: 312 agenti previsti dall’organico, 294 agenti effettivi” sottolinea  Elisabetta Tomaiuolo Segretaria dell’associazione.

“Gli agenti presenti – continua la segretaria – non sarebbero sufficienti nemmeno a gestire il numero di detenuti regolamentare di 450, figuriamoci sostenere una situazione di emergenza di questo tipo. Stessi problemi strutturali: gli impianti sovracaricati si guastano e non è possibile nemmeno fare una doccia tiepida”.

In condizioni simili, difficilmete riescono a sopravvivere gli adulti, figuriamoci come possa farlo una bambina di 10 giorni in luogo simile. Il 12 dicembre scorso, infatti Arcangelo Navarrino, 44enne originario di Fasano (Br) condannato a 20 anni di reclusione (ossia fino al 2029), per l’omicidio del 41enne Giuseppe Fragasso, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo. Nella casa Circondariale di Foggia, nel corso del 2012 ci sono stati 5 episodi di ingerimento di sostanze nocive, 12 colluttazioni, 14 episodi di autolesionismo, un decesso per morte naturale e 10 tentativi di suicidio.

I detenuti hanno commesso reati per i quali scontano una pena, ma restano persone che hanno bisogno di cure e attenzioni. “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettano che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa” scriveva Cesare Beccaria ne ‘Dei delitti e delle pene’. E nei penitenziari, dove sono le leggi?

Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini sotto i 3 anni, ma poche sono dotate di nido. Tra queste c’è la Casa Cicondariale di Foggia: “Ma possiamo definire una stanza con una culla malconcia, priva di qualsiasi suppellettile e genere di conforto riscaldata da una stufetta, una struttura nido? Quale società civile permetterebbe ad un’innocente di 10 giorni di vivere in queste condizioni?” dice la Segretaria radicale. Insieme alla bimba di 10 giorni, ci sono altri 2 bambini.

“Per farli sentire meno abbandonati abbiamo portato loro in regalo dei giocattoli, perché in fondo è Natale anche per loro. Ma questo non è che un gesto simbolico e certo non basta a restituire loro gioia e serenità. Occorre trovare delle soluzioni alternative, per tutelare questi bambini” ha affermato Tomaiuolo.

di Doriana Davenia

Fonte: foggia.ilquotidianoitaliano.it


Presidio di capodanno a Tolmezzo

Già nei presidi dell’ 8 settembre e del 24 novembre scorsi, portando fuori dalle mura carcerarie le voci dei detenuti, abbiamo denunciato i pestaggi delle “squadrette speciali”, l’isolamento punitivo, le minacce fisiche e psicologiche, le pessime condizioni igienico-sanitarie, il vitto scarso e immangiabile, lo sfruttamento del lavoro, l’insabbiamento delle denunce inviate dai detenuti alla procura di Udine e al magistrato di sorveglianza,

Le azioni di rappresaglia della direzione verso chi non piega la testa e ha deciso di rompere il muro dell’omertà, non riescono a fermare la protesta collettiva dei prigionieri, che valica le mura dell’inferno tolmezzino, a cui fanno eco le azioni dei/delle solidali fuori dalle carceri.
Percorsi di vita che si intrecciano: iniziative anticarcerarie di fronte alle mura di Tolmezzo; uno sciopero del vitto in solidarietà con Maurizio Alfieri, un prigioniero che per il suo coraggio e determinazione nella denuncia degli abusi è tenuto in regime di isolamento e nonostante ciò trova la forza, assieme ad altri detenuti, per appoggiare la lotta dei compagni anarchici detenuti ad Alessandria nella sezione AS2 contro le finestre a bocca di lupo; un presidio solidale a Roma davanti al ministero di grazia e giustizia;…

Per dare forza a questi percorsi di liberazione nella notte di capodanno saremo ancora a Tolmezzo.
Saremo presenti con le nostre voci ed i nostri corpi per dire ai prigionieri che non sono soli e che la loro lotta è la nostra lotta.
Alla direzione del carcere diciamo che il silenzio è rotto e che il tempo dell’impunità è finito.


Presidio di capodanno al carcere di Bergamo


Presidio di capodanno al Bassone, Como


Niki Aprile Gatti: il nuovo “tassello” mancante

La menzogna non può durare per sempre, e soprattutto quelli che si credono invincibili, potenti perché coperti dallo Stato, dovrebbero ben sapere che quest’ultimo non è mai “buono”, non si fa scrupoli, non possiede l’anima e ne coscienza. Lo Stato, in qualsiasi forma sia (o dittatoriale, democratico o in forma diretta), per determinati meccanismi decide ad un certo punto di non coprirli più. I motivi possono essere molteplici: un passo falso, un riequilibro degli assetti (e molto spesso, non sempre, le inchieste giudiziarie servono proprio per quello visto che anche la Magistratura è un Potere dello Stato), un cambiamento di linea o semplicemente una lotta tra “bande”.

Sapete che sono oramai ben quattro anni che ci si sta occupando della maledetta storia della morte di Niki Aprile Gatti. Un giovane informatico che lavorava presso una società di San Marino. Si chiamava OSCORP e fu coinvolta, assieme ad altre società e loschi personaggi, in un’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze: l’operazione Premium.

Ad oggi non si sa che fine abbia fatto: da una parte abbiamo la chiusura a riccio dei coinvolti(ovviamente) e dall’altra abbiamo la Procura di Firenze che non ha fatto trapelare nulla e la cosa è alquanto fuori dal normale visto che di solito, se pensassimo alle altre inchieste massmediatiche, sappiamo tutto. Perfino cose che non dovrebbero interessarci visto che è puro gossip per distrarre le masse.
Sappiamo solo che Niki Aprile Gatti, nel lontano giugno del 2008, fu ritrovato a soli quattro giorni dall’arrestoimpiccato nel bagno della sua cella. Secondo il Magistrato che ha archiviato tutto, non ci sono dubbi: con il suo peso di più di 90 kg (era anche alto), avrebbe utilizzato un solo laccio delle scarpe per impiccarsi.
Inutile che i familiari abbiano denunciato le innumerevoli contraddizioni come le testimonianza dei due detenuti che erano in cella con Niki (una cella super controllata perché erano detenuti con problemi di autolesionismo). Inutile aver denunciato l’avvenuto furto (c’è un processo in corso ad Avezzano) nell’appartamento di Niki a San Marino e a pochi giorni dell’arresto. E c’è da chiedersi anche il perché della non avvenuta perquisizione del materiale informatico.
Ma come, arrestano Niki e non gli hanno nemmeno sequestrato il computer? Se pensassimo agli arresti degli anarchici nelle ultime assurde operazioni! Hanno sequestrato perfino i chiodi pur di trovare un pretesto per accusarli di terrorismo. Ma c’è una novità importante, e qui ritorniamo alla falsa convinzione di “onnipotenza” dei tanti personaggi coinvolti direttamente o indirettamente in questa maledetta storia.

San Marino, lo si sapeva da tempo, è un luogo diriciclaggio di denaro sporco che avviene tramitesocietà finanziarie che pullulano come funghi. E’ un luogo dove le banche, ad esempio, servivano per depositare i fondi neri del SISDE (gli ex servizi segreti italiani), dove le mafie (in particolar modo la ‘ndrangheta e la camorra) portano il loro sporco denaro. E dove i politici (come da noi) ne sono le marionette e tramite ricatti e intimidazioni ne rimangono coinvolti. In tutte le inchieste come la Premium, il caso Eutelia, la “Telecom-Fastweb” e via discorrendo ci sono sempre San Marino e Londra.
Sì, avete capito bene, la capitale dello Stato inglese sempre presa ad esempio dai vari nuovi reazionari e legalitari come l’osannato Travaglio (ove i politici si dimettono anche per una stupidaggine, dice sempre quest’ultimo) è un’altra oasi per i criminali organizzati in combutta con la finanza e società telefoniche (questo è uno dei migliori business).
Ora si dirà che questo è un problema di legalità e i paradisi fiscali appartengono ad una finanza criminale. Niente di più falso.

In realtà sono organismi politici perfettamente “legali” nei quali vengono ammassati i fondi, il denaro accumulato dalle criminalità organizzate insieme a Banche, imprenditori senza scrupoli e vari Istituti finanziari. Non esiste il capitalismo pulito: questo è un ossimoro e non lo si combatte tramite la “legalità”. Ritorniamo a San Marino e a Niki Aprile Gatti perché il nesso con quello che ho appena detto c’è, esiste.
A Niki, mentre era in cella di isolamento, fu recapitato un telegramma (all’insaputa dei familiari), ove in maniera fredda gli si consigliava di cambiare avvocato: una donna avvocatessa che era dipendente dello studio legale di un facoltoso avvocato di Bologna. Il titolare di questo studio è un uomo sul quale, nel passato, aleggiavano sospetti riguardo la sua condotta come difensore dei familiari delle vittime della Strage di Bologna. Secondo un’informativa di un giudice, pare che avesse intrattenuto rapporti con alcuni esponenti dei servizi segreti (fonte). Il suddetto avvocato era anche Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società finanziaria di San Marino (la SOFISA) che aveva rapporti anche con l’OSCORP (la società coinvolta nell’inchiesta Premium).
In questi giorni a San Marino c’è stata per la prima volta una commissione parlamentare sui rapporti criminalità organizzata e politica. Ma non solo, si sono occupati anche del ruolo delle società finanziarie e hanno parlato della FINCAPITAL laddove intratteneva rapporti con esponenti della camorra (qui potrete scaricare il documento della commissione).
Pochi giorni dopo, la Banca centrale di San Marino mette sotto commissariamento la società finanziaria SIBI, nome cambiato della originaria SOFISA. Sì, la società del cui Cda il noto avvocato di Bologna era Presidente.

Vogliamo conoscere il motivo del commissariamento. Cosa c’era di poco chiaro? E soprattutto confidiamo sui nuovi amministratori affinché facciano chiarezza su una storia cupa e piena di muri di gomma come la morte di Niki Aprile Gatti.
Non ho finito, avevo parlato di Londra. Non la dimentico. Tutto legale per carità (sopra ho spiegato bene questo concetto non a caso), ma è curioso vedere che l’avvocato abbia aperto, recentemente, una società proprio a Londra: la SOSISA UK LTDNon proprio originale come nome, visto che ricorda l’ex SOFISA, appena commissariata. 
Fonte: agoravox.it

Firenze, al carcere di Sollicciano piove nelle celle

L’avevano annunciato alla vigilia che la mattina di Natale avrebbero visitato il carcere fiorentino di Sollicciano. E infatti una delegazione dei radicali si è presentata ai cancelli per controllare lo stato di questa struttura: “Una struttura fatiscente con infiltrazioni di acqua”, “in diverse celle piove anche sui letti dei detenuti” ha spiegato Matteo Mecacci, parlamentare radicale eletto nelle file del Pd, che stamani, insieme a una delegazione composta anche da Maurizio Buzzegoli e Rosa Marca, ha compiuto una visita ispettiva all’interno del penitenziario.
“La situazione è molto critica ormai da anni, ma le diffuse infiltrazioni di acqua – ha spiegato Mecacci al termine della visita, durata alcune ore – rendono invivibili non solo le celle ma anche i locali per la polizia penitenziaria. La mia impressione è che quel carcere deve essere abbattuto e ricostruito interamente”.

Mecacci, che è stato accompagnato nella visita anche dal cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, ha riferito che attualmente il carcere fiorentino ospita 935 detenuti a fronte di una capienza di 450 persone. Tra i reclusi anche 88 donne e due bambini, uno di 3 e l’altro di 5 anni. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 480 ma la pianta organica – ha spiegato il parlamentare – ne prevede 620.


Maxirissa alla Dozza

Provocazione e alcol alla base dei diverbi e della rissa nel carcere di Bologna

Nel tardo pomeriggio una decina di detenuti del reparto penale del carcere della Dozza, un gruppo di albanesi dopo un diverbio tra due detenuti sono entrati nella cella di uno di essi e lo hanno malmenato. Il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe riferisce che: “Solo grazie al pronto intervento degli agenti la rissa è stata sedata e sono state evitate conseguenze peggiori”. L’aggredito è stato trasportato in ospedale e avrebbe un polso rotto.

L’ABUSO DI ALCOL. Secondo il segretario generale aggiunto del Sappe Giovanni Battista Dutante, a scatenare l’aggressione il diverbio tra i due detenuti e “l’uso eccessivo di sostanze alcoliche. Sarebbe opportuno che l’amministrazione vietasse la consumazione di bevande alcoliche, anche nel reparto penale, così come è stato già fatto nel reparto giudiziario”.

Sempre nel carcere di Bologna, ha reso noto ancora il Sappe, questa mattina c’é stata una colluttazione tra due detenute nel reparto femminile. Un’agente intervenuta per sedare la rissa ha riportato lesioni guaribili in dieci giorni.

Fonte: bolognatoday.it

 

Conversazioni di comuni cittadini sul carcere

Carcere, pena, condanna, rieducazione, sovraffollamento…l’immaginario comune diffuso relativo alla realtà carceraria, alle sue condizioni e implicazioni sociali si sviluppa spesso a partire dalla percezione di una distanza profonda dall’oggetto in questione. Ciascuno di noi si sente in grado di esprimere un’opinione, ma difficilmente conosciamo davvero problematiche nascoste e recluse lontano dagli occhi e dalle orecchie della cittadinanza.


Rivolta al Cie nella notte di Natale

MODENA – Materassi gettati nel cortile interni e ore di tensione per gli ospiti della struttura ingannati da alcuni messaggi che annunciavano la liberazione per il giorno di Natale

Una rivolta al Cie di Modena dalla dinamica inusuale per lo meno per quel che riguarda “l’innesco”: nella giornata di ieri, alcune palline da tennis sono state lanciate da mani ignote dentro la struttura di via La Marmora e al loro interno erano presenti bigliettini recanti la dicitura “Liberi tutti” un numero di telefono. Sta di fatto che il messaggio giunto agli ospiti era quello di un’imminente liberazione, di un’apertura dei cancelli prevista per il giorno di Natale. Peccato però che la notizia fosse privo di ogni fondamento. La cosa ha quindi provocato malumore generale e la rabbia delle persone rinchiuse nel Cie è esplosa con una rivolta: decine di ospiti hanno gettato nel cortile interno del centro e hanno iniziato a inveire contro il personale e le forze dell’ordine presenti sul posto. Tre ospiti, colti dalla disperazione, hanno addirittura tentato il suicidio impiccandosi. La situazione, se così si può dire, è rientrata nei binari della normalità a notte fonda. Non sono stati registrati danni né feriti a personale e forze dell’ordine.

“C’è un forte clima di stress e disagio, sia per gli ospiti che per il personale che lavora in quella struttura”, ha raccontato Cécile Kyengé, portavoce nazionale Rete Primo Marzo e consigliere provinciale Pd. “La situazione è intollerabile e peggiora nei periodi di festa, momento in cui si sente maggiormente la lontananza dai propri cari”. Assieme a Paola Manzini, Cécile Kyenge stamattina presto si è recata in via La Marmora, dopo essere stata informata ieri sera dell’accaduto da parte degli attivisti Medici per i Diritti Umani: “Per denunciare le difficoltà del Cie – ha aggiunto la portavoce della Rete Primo Marzo – gli ospiti della struttura di Modena hanno iniziato un nuovo sciopero della fame. Per quanto riguarda le persone che hanno tentato il suicidio, gli operatori sono riusciti a intervenire in tempo per soccorrerli e a condurle in infermeria”. Anche Desi Bruno è stata subito informata della rivolta: nei prossimi giorni, la garante regionale dei detenuti giungerà a Modena per un sopralluogo e verificare le condizioni degli ospiti.

Fonte: Modenatoday.it

 

 


Quei natali in carcere a contare milioni di passi

Il pallone, la messa e i milioni di passi dei Natali in carcere.
La festa dietro le sbarre tra soprusi e speranze

È una ragazza rom, ha un bambino di neanche due anni, ed è incinta. Ci sono altri due bambini nella sezione femminile che hanno meno di tre anni. Nel corridoio c’è un albero di Natale finto coperto di stagnola e di strisce di cotone. C’è un albero artificiale anche nel corridoio della sezione maschile, con dei pendagli di cartone colorato.

Vengono sua madre, sua moglie e la bambina, che ha 11 anni. Hanno fatto la coda per quattro ore, in strada, e pioveva, ma non glielo diranno. Lui si è preparato fin dalle sette, benché le celle vengano aperte solo alle dieci. Ha fatto la doccia, anche se le caldaie sono guaste e l’acqua è fredda, ma non glielo dirà. Ha fatto una domandina per portare dei cioccolatini alla bambina. Lei ha imparato una poesia e gliela reciterà: “Il campanile scocca / la mezzanotte santa”.
La ragazza rom incinta incontra suo marito, un ragazzo anche lui, e un altro suo bambino che avrà quattro anni. Il ragazzo a un tratto la insulta, lei piange, anche i bambini piangono, poi passa. I colloqui finiscono dopo l’una. Quelli, la maggioranza, che non ricevono visite, sono chiusi già da più di un’ora. Alcuni erano andati all’aria, non tanti, fa freddo. Chi era al colloquio mangerà freddo, tanto non ha fame. Chi ha ricevuto posta sta sdraiato in branda e la legge per un’ennesima volta. Anche chi non l’ha ricevuta sta in branda, perché non c’è altro posto in cui stare.
Alle due si può tornare all’aria. Oggi alla sezione penale spetta il campetto di terra, dove si può giocare a pallone se si trova un pallone, e poi si sentono le voci del femminile. A Natale le voci dei bambini incarcerati fanno più impressione. C’è un tubo da cui esce un filo d’acqua rugginosa. C. raccoglie il filo d’acqua nel cavo di una mano, tiene l’altra appoggiata al muro. Ha posato in terra gli occhiali da miope, con la montatura tenuta da un nastro adesivo. Avrà una sessantina d’anni, è tarchiato.
Arriva N., uno di pochi anni e pochi muscoli, istoriato di tatuaggi da strapazzo, vuole il posto. “Scansati, pezzo di merda!”, intima. L’altro è chinato e fa finta di non sentire, o davvero non sente. Il ragazzo gli sferra un calcio nel fianco, e lo manda a sbattere sul muro. L’uomo si volta e mostra i denti, ma solo per un momento, poi si allontana piegato com’è, con una specie di guaito. Il ragazzo dà un calcio agli occhiali e si prende il suo filo d’acqua sporca, poi torna alla partita.
Il pivello è nessuno, uno scapparifero da-casa. L’uomo è un assassino. Ha ucciso sua moglie, due anni fa, con un coltello da cucina. Quarantatré coltellate, secondo la perizia. Erano una coppia di paese, non più giovane, la cosa è sì e no arrivata alle cronache locali: “Tragedia della gelosia”. Gli altri vanno e vengono. Tengono gli occhi bassi, per lo più, sembrano assorti in qualcosa di essenziale. Forse, semplicemente, contano i passi. Non è appropriato, per la verità, dire “semplicemente”, per un’operazione impegnativa come contare i passi. È come pregare coi piedi. Fuori la gente dice, alla leggera: “Conto i minuti”, “Conto le ore”, “Conto i giorni” — “Conto gli anni no”, non lo dice — e vuol dire che non vede l’ora che qualcosa succeda.
Qui contano davvero gli anni, e anche le notti e le ore e i minuti, ma soprattutto, per vendicarsi del tempo che ti passa addosso a fondo perduto, contano i passi. Migliaia, centinaia di migliaia, milioni di passi.
Su e giù all’aria, da un muro all’altro, quaranta all’andata e quaranta al ritorno, e anche in cella, se la ressa lo permette, tre dal muro al blindo e ritorno, come se i passi accumulati avvicinassero la meta. Ma sono passi davvero perduti, come chiamano futilmente il corridoio di quel parlamento dove due giorni fa, alla vigilia di Natale, hanno cancellato i pochi fondi per il lavoro in carcere e la misera legge sulle pene alternative. Se i giudici sapessero di che cosa parlano, farebbero alzare in piedi l’imputato e gli direbbero: “Per questo e quest’altro, caro signore, la Corte la condanna a quattordici milioni e seicentotrentaset-temilacinquecentododici passi”.
M. è un ergastolano cui è vietata la speranza, lui non conta i passi, e nemmeno i Natali che gli mancano: tutti i Natali della vita. Alle quattro di pomeriggio sono tutti chiusi di nuovo, passa la conta e la battitura ferri, e poi la terapia. J. prende il metadone e finge di inghiottire: lo fa benissimo. Poi lo risputa in un bicchierino di carta, lo venderà a uno del secondo piano per un rotolo di
igienica. R. ingoia sul serio il suo Tavor — è obbligatorio prendere i farmaci davanti a infermiere e agente, anche se è un analgesico e il mal di denti arriverà fra cinque ore. R. ha un solo desiderio: addormento-
tarsi e risvegliarsi quando le feste saranno passate. Le celle restano chiuse dalle sedici alle dieci del giorno dopo.
A mezzanotte lo scampanio arriva fin qui dentro. P. è polacco e si tiene sveglio perché sa che a casa preparano anche per lui e suo padre versa anche nel suo bicchiere e beve per suo conto.
La mattina di Natale quasi tutti si preparano per la messa, anche quelli che non ci vanno mai. Viene il vescovo oggi, poi andrà a dire la messa solenne per la brava gente in Duomo. Vengono anche i musulmani — solo qualche duro se ne astiene. I musulmani hanno una devozione per Maria e per Gesù, e poi la messa del Natale è la più grande occasione per incontrarsi. Il vescovo dice che è questo il posto giusto per il Natale, che le celle sono il luogo più somigliante alla grotta al freddo e al gelo. Dice che c’è una differenza fra la giustizia e Dio, e che Dio non può farli uscire dalla galera, ma può liberarli dalla schiavitù del peccato, perché li ama.
Qualche vescovo dice che Dio ama loro specialmente. L’idea che un Dio bambinello appena nato in una stalla ami specialmente loro fa venire le lacrime agli occhi, e anche certi gran farabutti sono un po’ sinceri, come ragazzini presi in fallo. I detenuti sono devoti soprattutto alla Madonna, e il Natale in carcere è una festa della mamma. Quando l’officiante esorta a scambiarsi un segno di pace, i detenuti vorrebbero darla e prenderla a tutti i presenti, mano di carcerato con mano di carceriere, mano di nigeriana con mano di romeno, finché maresciallo e appuntati non mettono fine a quell’allarmante viavai.
E comunque C., che ha accoltellato la sua anziana moglie, avrà dato la mano al pivello N. e alla suorina, e per un momento tutti i debiti saranno rimessi a tutti. Intanto, approfittando della ridotta vigilanza, il giovane B., all’isolamento, che aveva fatto il matto per essere portato alla messa anche lui, si è impiccato con la sua canottiera a un calocarta freddo: se muoia o si salvi, non lo diremo.
Dopo la messa gli agenti incalzeranno i fedeli che indugiano come scolari alla fine della ricreazione. Passerà però ancora la suora con qualche regaluccio. C’è un pranzo speciale, oggi, e chi può ha fatto una spesa da festa. (Ognuno dei 67 mila detenuti costa 250 euro al giorno allo Stato, il quale spende 3 — tre — euro per il mantenimento quotidiano del detenuto, colazione pranzo e cena…). Così uno strascico di euforia dura ancora, nonostante una sequela di cancelli blindati si sia richiusa su ogni rapporto col mondo di fuori. Volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne sono andati, ciascuno a fare Natale con i suoi. È come se si fossero portati dietro l’aria bianca e rossa del Natale.
Per due giorni — anche domani è festa — si resterà soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Senza. Si capisce che la vera aria del Natale, l’aria triste, si insedi ora sovrana nelle celle.
Una volta si dava a Natale un bicchiere di cattivo spumante a ogni detenuto, e un piccolo mercato moltiplicava le dosi di chi anelava al sonno o alla rissa. I propositi di bontà della mattina scadevano prima del tramonto: bontà e cattività vanno male assieme. Ma anche a spumante abolito — “Economia, Orazio, economia!” — non c’è niente di più triste di un pomeriggio di Natale. Fra poco, si sentirà russare, gemere, urlare. E i televisori a tutto volume, non guardati da nessuno, finché un agente arriverà a dire di spegnere. Poi andrà a sedersi al suo tavolino, in quei rumori di zoo umano. È un giovane agente che prova a studiare perché si è iscritto a legge, è in servizio perché non ha una famiglia propria, e i suoi stanno ad Avellino, così ha sostituito volentieri un collega padre di famiglia. Ha una radiolina accesa e l’auricolare, per ascoltare i racconti dei radicali che hanno passato Natale in carcere.
Dietrich Bonhoeffer era un pastore luterano, fu impiccato dai nazisti. In un Natale, dalla prigione, aveva scritto una lettera ai suoi: “Che Cristo sia nato in una stalla perché non trovava posto negli alberghi, è una cosa che un carcerato può capire meglio di altri”.

Adriano Sofri  24/12/2012.


Evasi dal carcere grattacielo di Chicago

una fuga incredibile avvolta nel mistero

CHICAGO (USA) – La domanda sorge spontanea: come può verificarsi una fuga da un carcere grattacielo statunitense, senza che nessuno se ne accorga?! Questo è un vero quesito: non è chiaro se ciò sia merito dei due detenuti che sono riusciti a fuggire, di nome Jose Banche, 37 anni, e Kenneth Conley, 38 anni, o se sia semplicemente colpa degli agenti penitenziari, che non si sono accorti proprio di un bel nulla.

La vicenda, come avrete capito, si è svolta in quel di Chicago, negli Stati Uniti d’America. La fuga dei due detenuti è stata davvero rocambolesca: sono riusciti a scappare da un grattacielo di ben 27 piani utilizzando il classico metodo visto nei film, ovvero formando una corda fatta di lenzuoli e corde. Ora, ovviamente, è stato dato il via alla caccia all’uomo.

La prigione federale della città, dalla quale i due sono riusciti ad evadere, è chiamata Metropolitan Correctional Centre. Il mistero più grande, ora, è: come avranno fatto i detenuti ad uscire dalla finestra della cella?! Si tratta infatti di una feritoia senza sbarre, con un’apertura di poco più di 15 centimetri. I due erano in prigione in seguito ad una rapina in banca, ed erano stati visti per l’ultima volta lo scorso lunedì notte, per il solito appello.

 Fonte: curiosone.tv

Massama, scoppia la rissa in carcere Due agenti finiscono al pronto soccorso

Tensione nel nuovo carcere di Massama, vicino a Oristano, dove un detenuto marocchino è stato protagonista di una colluttazione con due poliziotti.

L’episodio risale ai giorni scorsi. Le due guardie sono finite in pronto soccorso con ferite giudicate guaribili in sette giorni. L’episodio si sarebbe verificato durante l’ora d’aria, con due soli poliziotti che stavano controllando una trentina di detenuti, tutti solidali col marocchino, arrivato da poco dal carcere di Macomer. L’episodio è stato denunciato dall’Ugl. Secondo il sindacato, a Massama permangono problemi legati alla carenza di personale, anche in vista dell’arrivo di altri 125 detenuti pericolosi.

Fonte: Unionesarda.it


CAOS CARCERI: 69mila carcerati per 49mila posti letto, una vergogna

Questa volta l’hanno chiamata “legge di stabilità”, termine un po’ accademico e anche un po’ pomposo rispetto alla vecchia “finanziaria”. Un tempo si diceva che tutte le “finanziarie”, nel rush finale della votazione, diventavano una sorta di “assalto alla diligenza” dove corporazioni, enti tra i più strani e conturbanti, altre iniziative “tipicamente italiane” riuscivano ad aggiudicarsi un pezzetto della “torta” in discussione. E’ forse per questa ragione che il “governo dei tecnici”, presieduto da Mario Monti, ha scelto una discontinuità lessicale per distinguersi nell’innovazione anche sui conti e sui programmi dello Stato. Solamente che, anche da una prima spulciata, qualche milionata (in euro) finisce sempre ad alcuni annuali abbonati e nello stesso tempo ci si dimentica di reali bisogni, di ottime iniziative che sembravano ormai acquisite. C’era la “legge Smuraglia”, ad esempio, che riguardava direttamente il lavoro che svolgono i detenuti sia all’interno del carcere, sia all’esterno, quando godono del regime di semilibertà. Un percentuale consistente della popolazione carceraria italiana.

Cosa prevede la legge Smuraglia ? Che le imprese che assumono, fanno lavorare i detenuti hanno oneri sociali ridotti, in termini più semplici il costo del lavoro è inferiore. Ora, proprio in questi giorni, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha ricordato lo scandalo delle carceri italiane. Marco Pannella continua il suo sciopero della fame e della sete di fronte a questo scempio. Non è una stravaganza. Per la condizione delle sue carceri e per il modo in cui si è costretti a vivere in carcere, l’Italia è stata più volte richiamata e additata come pessimo esempio dall’Onu, dalla Corte di giustizia europea, dalla stessa Unione europea. Per avere solo un indicatore, basti pensare che far vivere una persona in meno di tre metri quadrati è considerato una tortura. Detto questo, il lavoro per i detenuti è ancora qualche cosa di più, un autentico valore aggiunto per recuperare una persona, per ridarle una speranza di vita e di reinserimento nella vita sociale. Patrizio Gonnella è il presidente dell’Associazione “Antigone” e da anni si batte e opera attivamente per di diritti di chi ha sbagliato ed è recluso in carcere.

Che cosa è successo, Gonnella?
Con la legge di stabilità hanno definanziato la “legge Smuraglia”. In altri termini, le agevolazioni che avevano le imprese sociali, le cooperative soprattutto, nell’assumere e fare lavorare i detenuti, sia quelli all’interno del carcere, sia quelli che sono in semilibertà, non avranno più oneri sociali ridotti, non godranno più di facilitazioni e quindi assumere una persona in stato di detenzione avrà un costo del lavoro uguale a quello di una persona libera. Si può immaginare e prevedere quale conseguenza avrà un simile provvedimento. Con la crisi che si sta vivendo, con tutte le imprese in difficoltà, molti non saranno più assunti, alcuni verranno licenziati e resteranno senza lavoro.
E’ molto importante il lavoro per un detenuto?
Guardi, il lavoro per una persona che sta in carcere è una specie di “ponte” con il mondo esterno. Spesso è di importanza fondamentale. Sia chiaro, c’è lavoro e lavoro. Chi fa solamente lavori generici, le pulizie ad esempio, occupa il più delle volte il suo tempo in qualche modo. Ma in questi anni, molti detenuti hanno imparato un mestiere. C’è chi ha insegnato loro come fare i pasticceri o altri mestieri artigianali. In questo caso si hanno dei lavori qualificati, di ottima qualità e nello stesso tempo si innesta un processo di formazione che dà veramente un ruolo e una speranza a tanta gente che ha sbagliato e vuole riscattarsi. E’ questo l’aspetto più bello che si è visto in questi anni pur nella sofferenza e nella paurosa carenza delle strutture carcerarie italiane.

E’ una buona percentuale quella dei detenut i lavoratori?
Sì, possiamo dire che si stava migliorando. Certo che se lei definanzia la legge che agevola di fatto, che favorisce questo tipo di contratto particolare di lavoro, scoraggia non solo le imprese per le agevolazioni che avevano, ma scoraggia gli stessi detenuti, la stessa popolazione carceraria, per le difficoltà che crea e perchè si sente del tutto emarginata.
Come si può giudicare la condizioni dei carcerati e delle carceri italiane?
In questo caso è inutile fare tanti giri di parole e fare discorsi complessi. Basta fornire solo un dato indicativo: a fronte di una popolazione carceraria di 69mila persone, ci sono 49mila posti letto. Che cosa si può aggiungere di più di fronte a una simile emergenza, anzi a una simile vergogna?

Di: Gianluigi Da Rold


Tentativo d’evasione con corda sventato nel carcere di Busto Arsizio

Purtroppo,

Sventata evasione dal carcere di Busto Arsizio: la Polizia Penitenziaria ha fermato un sudamericano che aveva già progettato la fuga come nel più classico dei film polizieschi. Durante i controlli notturni le guardie si sono accorte che il detenuto non prendeva mai sonno. Da qui i primi sospetti: la Polizia Penitenziaria ha così deciso di trasferire di cella l’uomo, in modo da perquisire quella dove alloggiava con un altro carcerato. In effetti, i sospetti erano fondati: una volta entrati nella stanza i poliziotti hanno trovato tutto quello che cercavano.

Lo straniero aveva nascosto sotto il letto a castello una lunga e solida corda rudimentale realizzata con ritagli di lenzuola e coperte, una corda molto resistente. La componente di metallo posta al lato del letto come protezione si prestava inoltre ad essere utilizzata come gancio per tenere ben salda la corda alla finestra del bagno, già divelta: con un seghetto l’uomo aveva realizzato anche due piccole fessure in una delle sbarre protettive di ferro. Per non farsi scoprire aveva inoltre riempito le fessure con del sapone. Anche la battitura sulle sbarre eseguita dai poliziotti non consentiva di avvertire l’anomalia.

La finestra è affacciata su un piccolo cortile non molto distante dal muro esterno dell’istituto penitenziario. Per il carcerato sarebbe stato quindi facile, una volta calatosi dalla finestra, scalare la cinta e fuggire dalla casa circondariale. L’uomo è ora tenuto in stretta sorveglianza: sarà trasferito in un altro istituto.

Fonte:  poliziapenitenziaria.it


Tre agenti accusati di aver ucciso a badilate quattro cuccioli di cane della colonia agricola di Is Arenas

Una storia assurda arriva dall’Unione Sarda: tre agenti penitenziari hanno massacrato a badilate i cani di alcuni detenuti nel carcere di Is Arenas, alle porte di Cagliari. I cuccioli bersaglio della loro ferocia quattro meticci adottati e accuditi dagli ospiti della colonia penale.

Sono quindi finiti sotto inchiesta il sovrintendente G. D., 45 anni, e gli assistenti I. P., 45, e A. S., 49. Dovranno rispondere di uccisione di animali, omessa denuncia e atti persecutori.

E’ stato un testimone a far partire l’indagine, un cittadino marocchino detenuto a Is Arenas, A. C. Ha assistito alla strage. Stando al suo racconto, nel 2011 A. S. disse di aver ricevuto l’ordine di uccidere i cani. Le proteste dei detenuti non sortirono nessun effetto e S. massacrò a badilate tre dei quattro cuccioli. Il quarto fu ritrovato qualche giorno dopo da P. che completò l’opera.

Il detenuto C. a questo punto si sarebbe rivolto al sovrintendente D. per denunciare l’accaduto; quest’ultimo gli avrebbe risposto: “Stai zitto o ti trasferiamo in un altro istituto”. Ancora non si conosce il movente della mattanza, forse la tensione tra agenti e reclusi. Il direttore della colonia penale di Is Arenas, Pierluigi Porcu, invita alla prudenza: “Aspettiamo l’esito delle indagini, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura. Non mi era giunta alcuna notizia di un fatto del genere e sono piuttosto scettico visto che si tratta di tre poliziotti assegnati al distaccamento a questure che amano molto gli animali. Non li ritengo capaci di un simile gesto”.

Fonte: cronacaeattualita.blogosfere.it

 


Proteste carceri, 3 agenti feriti a Foggia

Foggia – “COME se non bastasse il sovraffollamento cronico detentivo delle Carceri Pugliesi a quota 4.400 presenze in solo undici strutture penitenziarie contro una regolamentare tolleranza di posto letto pari a 2.450 persone stipate su letti a castello che toccano il più delle volte ed in quasi tutte i penitenziari il soffitto di alcune celle, una situazione di convivenza e promiscuità forzata bastevole, da ieri 19.12.2012 manifestano in modo collettivo attraverso il rifiuto del vitto dell’amministrazione e la terapia sanitaria tutte le 42 detenute presenti nel Super Carcere di Borgo San Nicola a Lecce, una manifestazione che si è protratta per tutta la giornata”. Lo dice Domenico Mastrulli, Vicesegretario Generale Nazionale sindacato OSAPP.

La protesta delle recluse di Lecce è stata attivata per solidarietà al leader del Partito Radicale On.Marco Pannella per lo sciopero della fame e della sete in atto al fine di sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sul dramma carceri e richiesta di AMNSTIA si è sviluppata con il dichiarato rifiuto del vitto dell’amministrazione penitenziaria e quello della Terapia Sanitaria a cui sarebbero assoggettate le ristrette.

Foggia invece, ieri mattina tutti i detenuti ristretti nella Sezione Reclusione hanno dato vita ad una protesta, consistente nel rifiuto del vitto dell’amministrazione(latte e frutta),per l’insufficiente erogazione di acqua calda che non permette la fruizione della doccia alla maggior parte dei ristretti e la scarsa erogazione del sistema di riscaldamento dei reparti.

Intanto,nel pomeriggio di ieri 19.12.2012 ,dopo la protesta mattinale dei reclusi verso le ore 18,20 chiamati ad intervenire come pronto intervento nei Reparti tre appartenenti ai Baschi Azzurri in giunti nella “Sezione Particolare” dove sono ristretti 37 reclusi per sedare una accesa diatriba quasi violenta innescatasi tra reclusi in una cella occupata da tre persone, mentre uno di questi(l’aggressore dei poliziotti) voleva la meglio su uno degli occupanti e negava l’entrata al quarto detenuto in via di sistemazione nella cella gettando ogni indumento di proprietà di quest’ultimo fuori dalla stanza del Nuovo Complesso I destra cella n. 3 ,ha aggredito i tre Poliziotti di cui un sovrintendente procurandogli prognosi da tre a sei giorni a testa.

“Da informazioni assunte trattasi di un detenuto violento dedito alle aggressioni ai danni della Polizia Penitenziaria e di altre forze dell’ordine tale L.G. di Lecce condannato definitivo fine pena 16 maggio 2014 per resistenza e violenza a P.U., evasione dagli arresti domiciliari, concorso in tentata rapina.Uno dei tre agenti aggrediti in quel momento Vigilava ben due Sezioni Contemporaneamente una di 37 e l’altra di 13 per un totale di 50 detenuti tutti elementi a Sorveglianza particolare”.

Mastrulli: “Il problema carceri,il problema violenza ed aggressioni sui poliziotti,il problema Foggia si ripresenta sempre più invasivo ma soluzioni ed interventi benché richieste e sollecitate al Capo e Vice Capo Dipartimento tardano ad arrivare mentre altri poliziotti,come il caso di ieri sono vittime inconsapevoli di un sistema arrugginito penitenziario”.


Detenuto trans non avrà permessi

Vergognoso

Vallese: condannato a 11 anni, voleva uscire dal carcere per diventare donna

LOSANNA – Voleva uscire dal carcere (maschile), cambiare sesso e tornare poi in carcere, questa volta femminile, e continuare a scontare la pena di 11 anni inflittagli per aver ucciso la moglie. Ma il Tribunale federale ha confermato il veto emesso dal Tribunale cantonale alla richiesta di rilascio con la condizionale.

Nel febbraio 2002 l’uomo uccise la moglie nel loro appartamento a Sion, dopo che la donna gli aveva annunciato di volersi separare. Quattro anni dopo il Tribunale cantonale vallesano lo aveva condannato per omicidio intenzionale. Nel 2010 la richiesta di sospensione della pena per potersi sottoporre all’operazione che lo avrebbe fatto diventare una donna; uno psichiatra del CHUV – l’ospedale universitario vodese – aveva diagnosticato che l’uomo era affetto da transessualismo, la condizione in cui l’identità sessuale fisica non corrisponde a quella psicologica e aveva affermato che a causa della sofferenza psichica del soggetto, non era più possibile differire il trattamento ormonale. Avendo nel frattempo scontato metà della pena, l’uomo – in carcere a Martigny senza contatti con altri detenuti – nel settembre 2011 chiese di poter beneficiare di un rilascio su condizione, eccezionalmente anticipata. A marzo di quest’anno la Camera penale del tribunale cantonale ha però detto di no e ora il verdetto è stato confermato dai giudici federali.  Il TF rileva che il rilascio su condizione a metà della pena deve rimanere l’eccezione, considerando che il transessualismo non è una malattia così grave da comportare la liberazione dal carcere per ragioni umanitarie. La vicenda tuttavia non è conclusa. Il detenuto aveva nel contempo chiesto anche di poter beneficiare di una interruzione della pena. Il dipartimento vallesano della sicurezza ha risposto di no, ma è stato inoltrato ricorso alla Corte di diritto pubblico del Tribunale cantonale, che dovrebbe pronunciarsi prossimamente.

Fonte: corriere del ticino


Presidio carcere a Cremona 22/12/12


Messico,scontri in carcere:17 morti

Le violenze sono scoppiate a seguito di un tentativo fallito di evasione da un penitenziario a Gomez Palacio, nel nord del Paese.

Secondo tentativo di evasione dal carcere di Gómez Palacio, in Messico, nel giro di due mesi. L’ultima volta la tentata evasione era stata bloccata sul nascere e due detenuti erano rimasti uccisi negli scontri. Ieri, invece, la situazione è degenerata in pochissimo tempo, tanto da richiedere l’intervento dei militari dell’esercito, e 17 persone – 11 detenuti e 6 guardie –sono rimaste uccise.

 

La rivolta è scoppiata intorno alle 17 di ieri, all’indomani di un’ispezione della struttura che aveva portato al sequestro di numerosi telefoni cellulari, armi e piccoli elettrodomestici introdotti illegalmente dai detenuti. Evidentemente non tutte le armi sono state sequestrate: un gruppetto di detenuti ha cominciato a sparare contro le torri di guardia e gli altri militari presenti nella struttura, mentre un altro gruppetto di carcerati ha tentato di fuggire passando attraverso un tunnel e cercando di superare la recinzione posteriore.

 

Nel panico generale, scrive El Pais, i militari hanno esploso diversi colpi in aria a scopo di avvertimento. Non avendo sortito alcun effetto, hanno preso a sparare contro i detenuti in fuga, uccidendone undici. A questi morti si aggiungono le sue guardie rimaste uccise nel conflitto, prima che intervenisse l’esercito e ristabilisse l’ordine.

Al di là di quest’ultimo episodio di violenza e del precedente, la struttura Gómez Palacio, nello stato di Durango, è stata oggetto anche in passato di scontri e scandali. Nel 2010, ad esempio, l’ex direttore del penitenziario era finito in manette per aver autorizzato alcuni detenuti vicini al cartello degli Zetas ad uscire dal carcere per regolare i conti con alcune persone all’esterno.

Si stima che le carceri messicane, e questa non fa eccezione, siano controllate per il 60% dalla criminalità organizzata e non è escluso che la rivolta di ieri sia collegata proprio ai gruppi criminali che da anni stanno dilaniando il Messico. Il fatto che il giorno prima fossero stati sequestrati armi ed altri oggetti potenzialmente pericolosi, ha spinto le autorità a credere che qualcuno dall’esterno – o forse addirittura qualche guardia corrotta – abbia contribuito a reintrodurre a tempo di record un nuovo arsenale.

Le indagini sono ancora in corso.

 Fonte: Crimeblog

 

 


Corteo contro la repressione

Il corteo finirà sotto il carcere di S.Vittore
Il 27 ottobre a Cusago un rave party viene duramente represso con un
violento attacco della celere. Il bilancio dell’operazione riporta una
ragazza in coma per diversi giorni, un cane ucciso e decine di ragazz*
feriti, diversi dei quali gravi. Nel sostanziale silenzio dei media, che
si sono limitati a riportare il comunicato della questura, si è
realizzato uno degli atti di polizia più violenti e insensati degli
ultimi anni. L’operazione evidenzia chiare responsabilità da parte della
Questura di Milano con l’avallo del DPA (Dipartimento delle Politiche
Antidroga), responsabile di una dura politica repressiva e
proibizionista. Le violenze di quel giorno, giustificate con motivazioni
ipocrite sulla tutela della salute dei partecipanti, hanno avuto il
chiaro intento di criminalizzare e reprimere un’esperienza libera ed
auto-organizzata.

L’attacco si inquadra in un contesto più ampio di crescita delle azioni
repressive, dalle quali si evince chiaramente quale sia la risposta
messa in campo dalle istituzioni nella gestione del diffuso clima di
conflitto sociale che stiamo respirando in Italia, come in tante altre
parti di Europa. In questi mesi si assiste ad un inquietante aumento
delle azioni violente da parte delle forze dell’ordine, con cariche a
freddo contro persone, siano queste studenti, lavoratori o appartenenti
a qualsiasi altro soggetto sociale politicamente attivo, “colpevoli” di
manifestare dissenso per le politiche governative o per la difesa dei
propri diritti, sgomberi di spazi sociali e di case occupate,
perquisizioni, arresti e disparate misure restrittive a carico di
attivisti, nel corso di operazioni repressive studiate a tavolino per
delegittimare i movimenti di lotta.

Non possiamo accettare questa deriva violenta e autoritaria, in cui lo
Stato usa il proprio braccio armato, le forze dell’ordine, ma sempre più
spesso anche l’esercito, come in Valsusa, in difesa degli interessi di
un sistema economico che ha dimostrato da tempo la propria
inadeguatezza.

E’ in questo scenario che quanto accaduto a Cusago non può restare
senza risposta: tutt* ci sentiamo chiamati in causa per difendere spazi
di libertà, temporanei o stabili, nei quali continuare a coltivare la
nostra opposizione al sistema vigente, attraverso lo sviluppo di
pratiche controculturali vecchie e nuove, pratiche con cui affermiamo la
nostra alterità rispetto alla mercificazione dell’esistenza che
contraddistingue il modello sociale in cui stiamo vivendo.

Riteniamo quindi indispensabile riportare all’attenzione collettiva
temi fondanti come autogestione e autoproduzione; riaffermiamo con forza
la legittimità delle pratiche di riappropriazione di spazi, tempi e
saperi. Rivendichiamo l’attualità dell’occupazione come atto in grado di
ridare vita, temporaneamente o in maniera stabile, a zone autonome e
liberate. Sfruttando gli sprechi e l’abbandono ci sottraiamo alle
logiche del potere e del profitto, creiamo spazi pubblici di socialità
in grado di autoregolarsi, sperimentiamo nuove modalità di relazione tra
le persone.

Su questi presupposti si è costruito un percorso di confronto, aperto
ed eterogeneo, tra soggetti di tutta Italia che in veste differente
hanno a cuore la creazione di nuovi ragionamenti e pratiche comuni:
tribe, spazi sociali, singole persone hanno popolato assemblee pubbliche
durante le quali si è sancita la necessità di dare una prima forte
risposta di piazza a tutte queste esigenze latenti, dando forma anche a
interconnessioni tra differenti percorsi politici e sociali.

Il 22 dicembre manifesteremo per rivendicare le nostre azioni e
denunciare questo clima di tensione attraverso una presenza consapevole
nelle strade e nelle piazze, in grado di spezzare il meccanismo
recriminatorio che ci circonda e portare la nostra voce e il nostro
pensiero. Il corteo si concluderà con un presidio davanti al carcere di
San Vittore, luogo simbolico e spina nel cuore del tessuto urbano
milanese, per portare la nostra solidarietà a tutti coloro che subiscono
l’oppressione dello stato e far sentire la nostra presenza attraverso la
musica.

Concentramento h 14.30 – Piazzale Cairoli
Per info o adesioni: reclaimthestreets2k12@inventati.org


Due detenuti evasi dal carcere di Reggio Emilia

Non rientrano dal lavoro esterno

Reggio Emilia, 15 dicembre 2012 – Doppia evasione al carcere di Reggio Emilia. Ieri sera, due detenuti di origine marocchina, condannati per droga, di eta’ compresa fra i 30 de i 32 anni, con una pena da scontare fino al 2017, non hanno fatto rientro nel penitenziario. Lo riporta in una nota il segretario del Sappe, Giovanni Battista Durante.

I due erano fuori, perche’ ammessi al lavoro all’esterno. Verso le 23 di ieri e’ scattato l’allarme e sonoiniziate immediatamente le ricerche da parte delle Forze di polizia.
Tale evento, riflette Durante, “non deve comunque scoraggiare la concessione delle misure di recupero e reinserimento sociale, come il lavoro all’esterno e le misure alternative alla detenzione”. Sarebbe “forse opportuno che anche in Italia, come in molti altri paesi europei, si iniziasse ad usare il braccialetto elettronico per il controllo dei detenuti che lavorano all’esterno del carcere, ovvero che usufruiscono di misure alternative alla detenzione, considerato che in 10 anni sono stati spesi 110 milioni di euro per il contratto con la Telecom e che tale contratto e’ stato recentemente rinnovato per un ulteriore costo di 9 milioni di euro”.

Fonte: Il resto del carlino


Per uscire dal Cie di Gradisca ingoiano vetri, medicinali e batterie

12.12.2012 | 9.46 – Gravi atti di autolesionismo si susseguono nel Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca. Alcune persone trattenute nella struttura, disperate per la loro situazione di prigionia temporanea, ingeriscono infatti cocktail di farmaci, pezzi di vetro e batterie dei telecomandi per protesta e per uscire dal centro. Questi episodi si verificano per lo più di sera o di notte, quando l’oscurità rende il controllo dei sorveglianti più difficile. Una volta compiuto questo grave gesto di protesta e iniziati i primi dolori, gli ospiti del centro attirano l’attenzione degli addetti alla sicurezza, che non posso fare altro che chiamare il 118.

Se il fatto si è verificato prima delle 19, il ferito, insieme a due agenti, viene portato all’ospedale di Gorizia. Ma se il gesto viene compiuto dopo le 19 l’ambulanza, con i 3 paramedici, i due agenti e l’ospite del centro, deve viaggiare fino agli ospedali di Trieste o di Udine perché ilreparto di gatroenterologia di Gorizia chiude alle 19.

Ecco perché in queste settimane spesso accade che arrivino a Cattinara ambulanze da Gradisca con a bordo irregolari del Cie che devono essere operati per estrarre vetri o batterie dallo stomaco.

Continua intanto la protesta della politica regionale nei confronti della situazione creatasi nella struttura di Gradisca. Dopo le denunce di Codega e Brussa del Partito democratico e di Pustetto di Sinistra arcobaleno – Sel, che hanno messo in evidenza le condizioni intollerabili in cui vengono tenuti gli immigrati, l’ultimo in ordine di tempo a protestare è stato, alcune settimane fa, Federico Razzini della Lega Nord. «La situazione del Cie e Cara di Gradisca in appena un anno di governo Monti è diventata a dir poco incresciosa: chiederò lumi in Regione sull’atteggiamento del ministero competente». Il consigliere regionale denuncia quello che considera una sorta di stato di abbandono, in spregio alla leggi Bossi/Fini sull’immigrazione «con conseguenze negative anche sul nostro territorio e sugli operatori che svolgono un’opera preziosa in condizioni difficili e vengono bistrattati».

Secondo Razzini vi sarebbe un progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza all’interno della struttura gradiscana: «da mie informazioni – precisa – gli incidenti e le intemperanze, le aggressioni di soggetti stranieri pericolosi ospitati, le fughe, sono all’ordine del giorno e nessuno interviene in modo adeguato. Da quando Maroni non e più ministro la situazione è degenerata e pare che non si faccia un rimpatrio che sia uno e gli addetti, cosa intollerabile, sono senza paga da mesi».

«Una vergogna – conclude Razzini – che chi lavora di fatto per lo Stato e la comunità in un settore delicato come quello che fronteggia la piaga dell’immigrazione clandestina non solo non sia adeguatamente tutelato, ma neppure pagato a fine mese, mettendo i difficoltà decine e decine di famiglie».

di Emanuele Esposito

Fonte Trieste all news


Suicidio nel carcere di Foggia

Foggia, 12 dicembre, detenuto s’impicca in carcere: si chiamava Arcangelo Navarrino
avrebbe dovuto scontare una pena di 20 anni

Ennesima tragedia nel carcere di Foggia. Un detenuto di 44 anni originario di Fasano si è impiccato in cella con un lembo del lenzuolo legato alla finestra. La notizia è stata data dal sindacato degli agenti penitenziari Osapp.

E’ il secondo dopo quello del detenuto di Polignano a Mare avvenuto a febbraio

Fonte FoggiaToday

 


Detenuto suicida a Catanzaro

  • In attesa di giudizio per tentato omicidio si e’ impiccato

CATANZARO – Un detenuto di origine marocchina si e’ suicidato l’11 dicembre nel carcere di Catanzaro. A dare la notizia e’ il sindacato Sappe. L’uomo, in attesa di giudizio per tentato omicidio, si e’ impiccato all’interno della cella dove si trovava da solo. Nonostante l’intervento della polizia penitenziaria per l’uomo non c’e’ stato nulla da fare.

Fonte ANSA