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Diffondiamo da polvere da sparo
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
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Nabil Hadjarab, arrestato nel 2001 alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan, ha trentatré anni, dei quali gli ultimi undici trascorsi tra le strette mura della prigione americana di Guantanamo, nonostante, secondo il suo avvocato Cori Cride, non sia mai stato formalmente incolpato e in ogni caso risulti da ben sei anni discolpato dalla stessa amministrazione americana rispetto ai sospetti di terrorismo per i quali era stato imprigionato. La sua famiglia non lo ha abbandonato, ben lontana da Cuba, risiede in Francia ed è proprio dalla République che lo zio Ahmed, dopo ben sedici comunicazione inviate senza successo egli ultimi anni, ha lanciato l’ennesimo appello al riconoscimento dell’asilo politico, dopo aver promosso una petizione con una lettera indirizzata ad alcune alte autorità d’oltralpe (François Hollande, Presidente della Repubblica, Manuel Valls, Ministro dell’Interno, Laurent Fabius, Ministro degli Affari Esteri, Soria Blatmann, Consigliere tecnico alle relazioni con la società civile, François Zimeray, Ambasciatore per i Diritti dell’uomo).
Ma per lasciare Guantanamo Hadjarab deve prima trovare un paese pronto ad accoglierlo, e nato in Algeria rischia di essere rimpatriato in una nazione nella quale ha vissuto relativamente poco, abbandonato dalla madre dopo il divorzio e poi sballottato prima presso la nuova famiglia del padre e, dopo la morte prematura del genitore, presso innumerevoli altri nuclei, molti dei quali in Francia, dalla quale, non essendo riuscito ad acquisire la nazionalità, è passato in Inghilterra, dove per lunghi mesi si sono perse le sue tracce. Secondo un
documento rivelato da Wikileaks, è proprio oltremanica che avrebbe incontrato Abu Jafar Al-Jazairi, all’epoca principale coordinatore della logistica d’Al-Qaeda, che gli avrebbe finanziato un viaggio in Afghanistan con soggiorno a Jalalabad, prima di raggiungere il gruppo internazionale di 65 combattenti a Tora-Bora ed essere arrestato un mese dopo.Il problema è che tutte queste
informazioni sarebbero state estorte con la tortura e, secondo il legale Sylvain Cormier, Hadjarab nega totalmente il testo trascritto dal Dipartimento della Difesa USA. Restano ancora tre i criteri necessari per essere accolti oltralpe: la non-pericolosità, la volontà di stabilirsi nel paese e dei legami forti con lo stesso, condizioni che, secondo l’avvocato Cride, Nabil riempirebbe appieno. Resta da vedere se la Francia è dello stesso avviso e se Hadjarab avrà la stessa sorte di due ex-detenuti di Guantanamo accolti nel 2009.
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Bruxelles – (Adnkronos/Ign) – Il giovane di 26 anni, Jonathan Jacob, è stato pestato da un gruppo di agenti. E’ morto per un’emorragia al fegato. Il filmato mandato in onda dalla tv ‘Vrt’.
Attenzione, il video contiene immagini che possono urtare la sensibilità dell’utente

Il Belgio è sotto choc per le agghiaccianti immagini del pestaggio a morte di un detenuto in un commissariato nella provincia di Anversa, diffuse dalla rete televisiva fiamminga Vrt e ora visibili online. L’uomo ucciso è un 26enne, Jonathan Jacob, picchiato senza pietà da sei agenti in tenuta anti sommossa, con caschi, scudi e manganelli.
I fatti, avvenuti nel 2010, sono venuti alla luce solo ieri sera con la diffusione del video. Il giovane, che aveva assunto anfetamine, era stato arrestato a causa del suo comportamento sospetto. Inizialmente gli agenti lo avevano portato in un ospedale psichiatrico perché fosse internato, ma qui Jacob si mostra molto violento e il direttore respinge il ricovero. Il giovane viene riportato allora in cella, dove viene chiesto a un medico di somministrargli un calmante.
Jacob non si calma e in attesa del medico arrivano i poliziotti. La telecamera della cella del commissariato di Morstel lo mostra completamente nudo, mentre un nugolo di agenti vestiti di nero lo investe, picchiandolo senza pietà. Quando il medico arriva, il giovane è già morto per un’emorragia al fegato. A scioccare il pubblico è anche il fatto che uno degli agenti responsabili sia ancora in servizio. Il ministro degli Interni, Joelle Milquet, afferma oggi su Le Soir che quest’ultima circostanza è “inammissibile”.
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Il giudice istruttore francese aveva chiesto la chiusura delle indagini che hanno portato a essere indagati il medico e due infermieri del carcere francese
Viareggio, 22 febbraio 2013 – La Procura della Repubblica di Grasse, in Francia, ha chiesto un supplemento di indagini sul caso che riguarda la morte di Daniele Franceschi, l’operaio viareggino di 36 anni morto in circostanze ancora tutte da chiarire il 25 agosto mentre si trovava nel carcere di Grasse per una storia di carte di credito rubate. Lo ha reso noto l’avvocato Aldo Lasagna, il legale che cura gli interessi di Cira Antignano, madre del detenuto morto.
Il giudice istruttore francese aveva chiesto la chiusura delle indagini che hanno portato a essere indagati il medico e due infermieri del carcere francese. La Procura ha invece richiesto invece un supplemento di indagini, con il rischio che i tempi dell’inchiesta possano ulteriormente dilatarsi. L’udienza con la quale verra’ deciso se accettare o meno la richiesta di supplemento di indagini e’ prevista per il prossimo 28 febbraio.
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Il numero complessivo dei reclusi supererà le 400 unità, quasi il doppio della capienza considerata ottimale. E tra poco aprirà una nuova sezione di ‘alta sicurezza’
Nuovi arrivi È iniziato, come previsto, il trasferimento nel carcere ternano di una cinquantina di detenuti, provenienti da altri istituti e che andranno ad occupare l’ormai famoso nuovo reparto. In attesa che arrivino anche altri detenuti, definiti pericolosi e per i quali verrà ampliata la sezione di alta sicurezza. Ma mentre il numero dei reclusi aumenta – proteste o no – quello del personale sembra essere destinato, quanto meno, a restare inalterato: «Rispettare gli impegni – commentano gli agenti – sembra non essere tra le priorità della direzione, visto che sono arrivati meno della metà dei colleghi previsti».
Detenuti Prima di questo ulteriore contingente di detenuti in arrivo, il carcere ternano ospitava già 360 detenuti – tra i quali ce ne sono diversi sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis e altri a quello di alta sicurezza, mentre una sezione protetta è riservata a transessuali e detenuti per reati sessuali – a fronte di una capienza ottimale che veniva stimata tra le 200 e le 250 unità. Di norma ogni cella ospita due detenuti, poco meno della metà dei quali, circa 150, sono stranieri. Non esiste una sezione femminile, in quanto a Terni, in caso di arresto, le donne restano al massimo per pochi giorni.
Personale Quello che effettivamente presta servizio, al netto dei distaccati in altre realtà e assenti a vario titolo è un personale composto da circa 170 unità. Tanto che nel nuovo padiglione, quello che si sta popolando in questi giorni – 16 celle con tre detenuti ciascuna – l’amministrazione pensa di attuare la cosiddetta ‘vigilanza dinamica’: «Un’unica pattuglia che effettua i normali giri di controllo e una serie di telecamere che fanno il resto. In teoria – dicono gli agenti di custodia – è tutto perfetto, ma nella pratica di tutti i giorni la cosa non è poi cosi semplice».
Tensione Tra i motivi di apprensione, per le persone che lavorano in carcere, c’è il crescente «aumento del numero delle aggressioni» nei loro confronti, ma anche il rischio di «inquinamento criminale del territorio ternano». Senza dimenticare che, in carcere, c’è anche chi decide di ammazzarsi e, una vigilanza ridotta, non permette di impedire che questo avvenga, come dimostra l’ultimo episodio: a gennaio un uomo di nazionalità marocchina, si è impiccato alle sbarre della cella. Lo hanno trovato quando ormai era troppo tardi.
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Monza – E’ morto all’ospedale lunedì pomeriggio dopo quattro mesi di carcere. La vittima è un monzese e l’ospedale è nell’isola di Giava. Lui è Andrea Sorteni, artista apprezzato, 49 anni, figlio del noto avvocato Paolo. Ne dà notizia oggi il quotidiano Il Corriere della Sera.
Ex studente del liceo Zucchi a vent’anni Sorteni si trasferisce a Parigi dove frequenta l’Ecole nationale supérieure ses Beaux-Arts. Torna in Italia, abita con i genitori nel centro di Monza, in un appartamento a poca distanza dalla Villa Reale, poi nel ’97 si trasferisce a Milano, o meglio, a Brera. Andrea «Arde» Sorteni a fine del anni Novanta inizia un viaggio intorno al mondo e si stabilisce a Bali.
Nel 2002 viene coinvolto nelle indagini su un attentato di Al Queda che aveva provocato 202 morti. In quel periodo Sorteni gestisce una discoteca, arrestato per un visto scaduto dice di conoscere un uomo che nelle prime fasi dell’indagine viene ritenuto tra gli autori della strage. Il padre Paolo e il fratello Luca, ingegnere, gridano allo scandalo: «Mio figlio coinvolto con il terrorismo internazionale? E’ assurdo» dice l’avvocato. «Tutta la vicenda è solo un grande equivoco».
Trascorsa qualche settimana viene rimandato in Italia come clandestino poi torna a Bali dove con Maya, un’indonesiana bellissima, la sua futura sposa, inizia una nuova vita. Per lei apre una gelateria mentre lui continua a dipingere.
Tutto va a gonfie vele finché un episodio assurdo fa precipitare tutto: il 14 ottobre del 2012 Sorteni e la moglie, che fa la modella, si devono imbarcare su un aereo. C’è un disguido sul biglietto di Maya che non può partire. Lui si arrabbia, briga per sistemare tutto. Inutilmente. Poi, secondo la versione della polizia, Sorteni avrebbe fatto una telefonata alla compagnia aerea del volo annunciando la (falsa) presenza di una bomba sul velivolo. Trascorrono tre giorni e il monzese viene arrestato. Uscito dal carcere è ammalato e disidratato. Lunedì muore.
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Il caso di Chico Forti, condannato per omicidio ma senza prove
In questo articolo voglio far conoscere un caso che, come l’omicidio di Meredith Kercher, ha collegato le giurisdizioni di Paesi differenti, divenendo un fatto di cronaca internazionale. È la storia di un italiano, Enrico Forti, detto “Chico”, da tredici anni rinchiuso in un carcere di massima sicurezza a Miami, condannato all’ergastolo per omicidio.
Il giovane Forti, originario di Trento, campione internazionale di windsurf, si trasferì nel ’92 negli Stati Uniti, dopo aver vinto una importante cifra nel famoso gioco televisivo chiamato “TeleMike”.
Con questa vincita, Forti iniziò la sua nuova vita a Miami, dove intraprese la carriera di filmaker e produttore, attività che gli permisero di accumulare una piccola fortuna. Sposò una giovane modella, Heather Crane, dalla quale ebbe tre figli.
Il ragazzo di Trento sembrò aver realizzato il sogno americano. Ma il suo spirito intraprendente e il suo fiuto per gli affari non lo ripagarono adeguatamente. La fortuna presentò ben presto il conto.
Thomas Knott, tedesco, malfattore, arrestato per droga e varie truffe in Germania, era il vicino di casa di Forti a Williams Island, Miami.
Tramite Knott, Forti conobbe Anthony Pike, un australiano, proprietario di un famoso albergo di Ibiza, in Spagna, il Pikes Hotel.
Tony Pike era in una situazione economicamente difficile, la sua attività era in passivo, il suo albergo, che all’inizio degli anni ’90 era frequentato da gente dello spettacolo, lo portò ad indebitarsi fortemente.
Perciò a Forti venne offerto di acquistare il Pikes. Intanto il figlio di Tony, Dale, di ritorno dalla Malesia, venne invitato a Miami, dove sperava di intraprendere una nuova carriera nel mondo del cinema grazie all’aiuto di Chico.
Il giovane Pike arrivò a Miami il 15 febbraio 1998 e dopo un incontro con Forti, che andò a prelevarlo dall’aeroporto, i due si separarono nel parcheggio di un ristorante a Key Biscayne, dandosi un appuntamento il 18 febbraio, quando si sarebbero incontrati con il padre di Dale.
Il giorno successivo, il 16 febbraio, Dale venne trovano morto e denudato in un boschetto a Sewer Beach, una spiaggia molto conosciuta dai surfisti.
Il 18 febbraio Forti, che si trovava a New York, venne a conoscenza della morte di Dale e rientrò a Miami. Si presentò alla polizia, dove gli confermarono della morte di Dale e gli comunicarono la scomparsa, non vera, di Anthony.
Ed è qui che Forti commise il suo grande errore. Terrorizzato dalla notizia della morte di due delle persone a lui più vicine, affermò di non aver mai incontrato il giovane Pike.
Il 20 febbraio si ripresentò alla polizia, senza l’assistenza di un legale, per consegnare alle autorità i documenti riguardanti i suoi affari con il padre della vittima. Dopo un estenuante interrogatorio durato 14 ore, dichiarò di aver incontrato Dale poche ore prima della sua morte e di averlo accompagnato al ristorante in Virginia Key.
Forti venne arrestato in un primo momento con l’accusa di frode, circonvenzione di incapace e concorso in omicidio.
Assolto successivamente da ogni accusa di frode, tornò libero per venti mesi, ma con una cauzione da record: un milione di dollari.
Le indagini sulla morte di Dale continuarono. La macchina di Forti venne minuziosamente controllata, finché 45 giorni dopo l’omicidio i periti trovarono sul gancio di traino dell’auto alcuni granelli di sabbia, che secondo l’accusa provenivano da Sewer Beach, la spiaggia dove venne trovato il corpo senza vita di Pike. Secondo la perizia della difesa quei granelli non ricollegavano direttamente l’auto alla spiaggia, essendo comune alla sabbia di molte altre spiagge della zona.
L’arma del delitto, mai ritrovata, risultò compatibile con una pistola, che fu acquistata da Tom Knott (ve lo ricordate?) con la carta di credito di Forti.
Secondo l’accusa Forti aveva un movente. Temeva che Dale potesse interferire con le trattative per l’acquisto dell’albergo. Forti intendeva comprarlo a basso costo da Tom Pike, ormai vecchio e demente. Così invitò Dale a Miami e “lo condusse verso la morte”.
Il 15 giugno del 2000 i dodici giurati della contea di Miami Dade emisero il verdetto: COLPEVOLE!
“La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”!
Una sensazione, quindi. Una sensazione che ha prodotto la morte civile di un italiano, per molti assolutamente innocente.
Con gli anni il movimento dei sostenitori di Chico è cresciuto notevolmente, soprattutto grazie alla rete e ai numerosi gruppi che sono sorti sui social network e che hanno svolto un’intensa opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul caso Forti.
Da Jovanotti a Fiorello, fino ad arrivare alla criminologa Roberta Bruzzone, che nel suo ultimo libro, “Chi è l’assassino – Diario di una criminologa”, sostiene la tesi dell’innocenza di Chico e della presenza di un complotto. Le motivazioni dell’accusa cedono davanti al ragionamento della criminologa, che in un dossier diretto all’ex ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi, chiede che venga riaperto il caso e che giustizia sia fatta.
Il finale di questo giallo è ancora tutto da scrivere e forse, con l’intervento delle autorità italiane, si potrà far luce su questa storia e portare alla liberazione di Chico o alla conferma della condanna ma “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
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Una grossa (A) in ghisa è caduta in strada. Vigili a lavoro per verificare che non ci siano altri rischi
PALERMO – È caduta in strada una delle lettere della scritta che campeggia all’ingresso del carcere Ucciardone di Palermo. I vigili del fuoco sono intervenuti per mettere in sicurezza l’insegna.
Sono in corso verifiche per controllare che le altre lettere della scritta non siano state danneggiate dalle abbondanti piogge delle ultime settimane. Ad allertare i pompieri gli agenti di polizia penitenziaria.
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Nella notte tre detenuti di origine romena sono evasi dal carcere dei Miogni, a Varese, “segando le sbarre della cella e guadagnando la fuga con modalità in corso di accertamento”. Ne ha dato notizia Angelo Urso, segretario nazionale Ulilpa penitenziari. Si tratta di Mikea Victor Sorin, nato nel 1983, detenuto per sfruttamento della prostituzione, condannato definitivamente a due anni con fine pena giugno 2013; Marius Georgie Bunoro, nato nel 1989, imputato in attesa di giudizio per furto aggravato, e Parpalia Daniel nato nel 1984, imputato in attesa di giudizio per furto aggravato.
Secondo le ricostruzione della squadra mobile di Varese i tre uomini, che dormivano nella stessa cella, hanno segato le sbarre della finestra e sono riusciti a calarsi dal muro di cinta utilizzando lenzuola legate. Ad accorgersi dell’evasione sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, che nel corso della notte non hanno più visto i tre uomini nella loro cella. La polizia ha allestito dei posti di blocco anche sulle strade che conducono al vicino confine con la Svizzera, nell’ipotesi che i tre evasi possano tentare la fuga all’estero.
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Riportiamo l’articolo dei fatti del 2009, dove i servi dei padroni hanno attaccato con la solita violenza chiudendo in un’angolo i compagni e aggredendo quello che adesso vogliono far passare per l’aggressore! Rompendogli la testa! Mai un passo indietro!
naturalmente Solidali e vicini a Scimmio!
Secondo l’accusa aggredì un poliziotto durante una manifestazione
MONZA, 14 Febbraio 2013 – Sei mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna e 2000 euro di risarcimento alla parte civile.
E’ la condanna inflitta dal Tribunale di Monza per resistenza e violenza a pubblico ufficiale a uno dei giovani che il 20 luglio del 2009 aveva partecipato alla manifestazione di protesta di un gruppo di anarchici contro lo sgombero del Centro sociale Boccaccio dall’ex cinema Apollo in via Lecco a Monza. Ad essere aggredito era stato un assistente capo della Polizia di Stato, che aveva subìto delle lesioni e si è costituito parte civile al processo per ottenere un risarcimento dei danni.
Davanti al giudice ieri è stato chiamato a testimoniare il vicequestore Francesco Scalise, dirigente del Commissariato di polizia di Monza allora come ancora adesso. “Il Questore di Milano aveva disposto lo sgombero dall’ex cinema Apollo degli occupanti del Centro sociale Boccaccio e di altri anarchici – ha ricordato Francesco Scalise – Avevo 60 uomini tra il personale della Digos e del Commissariato di polizia di Stato di Monza. Abbiamo sempre cercato di evitare lo scontro con i manifestanti, ma ad un certo punto però una quarantina di loro si sono messi in corteo non autorizzato. Ho mandato una trentina di poliziotti a seguirli sapendo che i manifestanti si sarebbero diretti in Comune per esprimere il loro disappunto. Non ho assistito personalmente all’aggressione contestata, ma so che si è arrivati all’identificazione dell’imputato dai fotogrammi del filmato delle telecamere del Comune”.
Il pm ha chiesto per l’imputato la condanna a 6 mesi di reclusione, confermata poi dal giudice, mentre la difesa dell’imputato sosteneva che non vi era prova che l’aggressore del poliziotto fosse proprio lui.
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Magrebini minacciano con spranghe i vigilanti e scappano dal Cie di Gradisca
Altri ospiti hanno incendiato un cumulo di materassi nel tentativo di danneggiare tutta la struttura. Situazione sempre più grave e ormai insostenibile nel Centro
Tentata fuga e rivolta al Cie di Gradisca. Ennesima conferma della situazione infernale che si vive nel centro immigrati di Gradisca.
Primo episodio. Secondo fonti della polizia una trentina di trattenuti servendosi delle chiavi, hanno tentato la fuga uscendo dall’ingresso principale e poi dividendosi in tutte le direzioni.
Per cinque magrebini il tentativo è riuscito dopo avere affrontato il personale di vigilanza armati di spranghe.
Secondo episodio. Un gruppo di immigrati ha dato fuoco ai materassi all’interno delle camere nel tentativo, non riuscito, di incendiare la struttura.
La situazione diventa ogni giorno più esplosiva e mette a repentaglio l’incolumità del personale che gestisce il centro-prigione. Anche le forze dell’ordine sono sotto pressione. Così il pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia costantemente invaso da immigrati rinchiusi al Cie e che si producono in atti di autolesionismo nel tentativo di scappare.
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diffondiamo da informa-azione un nuova lettera di Santo Galeano prigioniero nel carcere di San Vittore:
Ciao carissimi compagni, spero che questo mio scritto vi trovi bene e in ottima salute come potrei dire forse di me.
Vedo le cose cambiate, pare che temono quello che potrebbe succedere, boo!!!
In anzi tutto ringrazio tutti i compagni anarchici per la voce che fate sentire, pure un avvocato di Antigone mi ha scritto vi rendete conto? Hahaha
Cari compagni, vi racconto la mia sofferenza nei carceri che tramite voi sto riuscendo a fare sapere.
Vedo le cose in TV, da Lele Mora a Fabrizio Corona e incomincio a dire che la legge è bastarda, infame e indegna e non è uguale per tutti.
Ma voi questo lo sapete già.
Io nei vari trasferimenti quando lo facevo con l’aereo funziona così:
Si entra prima che i passeggeri entrino, ti fanno sedere all’ultimo posto. In anzi tutto i bagagli, che sarebbero due sacchi di 12 Kg in totale, teli devi portare tu con tutte le manette ai polsi. Renditi conto tutto ciò l’ho vissuto per l’ennesima volta il 25\11\2012 quando mi hanno chiamato partente trasferito per il funerale di mio padre.
Pietà non ne hanno, perché loro parlano solo di trasferte e di straordinari per farvi capire.
Le manette te le tolgono quando l’aereo decolla, se vuoi andare in bagno devi pisciare con la porta aperta ecc…
Non solo, quando ho avuto il permesso da Saluzzo a Roma Sigonella, poi da Sigonella a Piazza Lanza a Catania.
Nel permesso per il funerale di mio padre il 26\11\2012 nel permesso 30 OP per motivi di morte famigliare c’è scritto: In abiti borghesi e senza manette, guardato a vista.
Erano più di dieci agenti penitenziari, Falchi della polizia di Stato di Catania, con una camionetta sono arrivato con sei agenti penitenziari in divisa e quattro agenti penitenziari in borghese, pare che doveva arrivare non so chi!?
Ma lasciamo stare tutto ciò, e poi devo vedere in TV le interviste sull’aereo di Corona senza manette ecc. ecc. Ma dove la legge non dovrebbe condannare prima quelli che fanno fare queste cose?
Io sono stato giudicato da 1, 2, 3 grado di processo, sto pagando la mia pena ingiustamente e loro lo sanno. Ma va bene Dio vede e provvede solo lui può aiutarci. Perché pure la Chiesa oggi ha gli occhi bendati per come si è visto in questi anni.
Per tanto compagni miei io sono e sarò uno di voi perché la verità delle carceri italiani la deve sapere tutto il mondo, costi quello che costi, perché oggi io ho dei fratelli compagni anarchici.
Ora giungo al mio saluto con tutto il cuore e combatterò sempre queste ingiustizie perché grido vendetta e libertà di opinione, e essere un uomo libero.
Vi voglio bene vostro compagno
Santo Galeano
* * * * *
Vi sto facendo scrivere pure da un altro detenuto che è in pericolo di vita giornaliera, fa un giorno si e uno no la dialisi e ha il fine pena nel 2017.
Dove la legge dei benefici prevede:
Sotto i quattro affidamenti, sotto i tre anni sospensione pena o pena sospesa.
Deferimento cella ecc.
Ma dov’è la giustizia ragazzi, ma dobbiamo essere famosi per essere trattati diversamente?
Io che sono seguito dal CAM per tossico dipendenti da cocaina, prevede che posso andare in una comunità di cura. Ho fatto tantissimi colloqui con Cristina Coopes della comunità Gabbiano Colico, Cristina Giovanardi di A.I.S.E., tutte e due mi danno picche, posto non c’è ne per me.
Poi dal 21\12\2012 che mi hanno trasferito al carcere di San Vittore non ho fatto nessun colloquio con gli operatori del SERT.
Ragazzi combatto ma le braccia cadono sole dalla tristezza che ha il mio cuore, perché l’ingiustizia è troppo grande per colmarla.
Ma non per questo mollo, mi sento forte perché oggi ho voi, fratelli miei grazie grazie con il cuore vostro compagno anarchico.
Santo Galeano
Per scrivergli:
Santo Galeano
C.C. S. Vittore
P.zza Filangeri 2
20123 Milano
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CONTRO CARCERE, ISOLAMENTO E DIFFERENZIAZIONE,
Sempre di più all’interno delle carceri, quali strumenti di coercizione per eccellenza, i prigionieri vengono sottoposti a misure punitive, trattamenti differenziati e carcere duro, che la legge di lorsignori prevede tramite articoli quali il 14 bis e il 41 bis dell’op, volti sia a isolare e sottomettere la volontà di chi alza la testa e si ribella a questo marcio sistema sia ad attaccare l’identità politica del detenuto. Contro tutto ciò è possibile resistere e lottare, come molti prigionieri ci dimostrano ogni giorno continuando a fare sentire la loro voce, a difendere la loro identità e i diversi percorsi di lotta a cui appartengono. Dall’esterno dobbiamo sostenere le lotte dei detenuti e amplificare la loro voce, perché la solidarietà è quel filo rosso che rompe l’isolamento e lega chi lotta dentro a chi lotta fuori le galere. Nessuno dei loro stratagemmi piegherà la determinazione di chi alza la testa.
Contro la logica punitiva: no a 14 bis, no al 41 bis!
Solidarietà a tutti i detenuti in lotta!
Madda libera!
Dalle ore 20.30 buffet solidale
a seguire concerto con GANTEMACI – neovelvet blues
Piazzetta Toselli, via Varese 10
Capolinea autobus 9
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Compagni/e per la Costruzione del Soccorso Rosso in Italia
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Da ieri, a Pentone (Cz), Rosario Citriniti (centro di documentazione sulla Palestina) ha avviato uno sciopero della fame per le condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e, in particolare, per lo stato di salute di Samer Issawi. L’iniziativa risponde all’appello di Amnesty International. Una tenda è stata montata a Pentone, paese della presila catanzarese che ospita il centro, nei pressi della chiesa (non è stato possibile sistemarsi nella chiesa stessa).
Il prigioniero palestinese Issawi, scambiato con il caporale israeliano Shalit nell’ottobre 2011, in sciopero della fame da 204 giorni, rischia di morire.
L’iniziativa a Pentone è cominciata ieri perché gli organismi nazionali e/o internazionali prendano provvedimenti per la garanzia dei diritti dei detenuti palestinesi, la scarcerazione dei prigionieri in carcere senza accuse né processi, la salvaguardia dei detenuti in sciopero della fame. Da mesi, infatti, i detenuti palestinesi hanno adottato questa forma di protesta per richiamare l’attenzione sulla loro condizione. Lo sciopero della fame nel centro presilano è stato avviato in risposta agli appelli di Amnesty International, dell’Arcivescovo Atallah Hanna e delle organizzazioni palestinesi.
Le condizioni dei detenuti palestinesi – 4520 detenuti nelle carceri israeliane di cui 10 donne, 164 bambini (16 hanno meno di 21 anni) e 8 parlamentari palestinesi. Dal 67 ad oggi più di 800mila palestinesi sono stati arrestati: il 20 % della popolazione palestinese – il 40% della sola popolazione maschile – è stato in carcere. Ogni anno 700 bambini vengono arrestati. Sono i dati, aggiornati a novembre 2012, presentati da Grazia Careccia, capo dipartimento di Ricerca Legale e Advocacy internazionale Al-Haq-Ramallah, a Padova alla giornata ONU per i diritti del popolo palestinese. Restituiscono il dominio di Israele nei territori occupati della Palestina e l’oppressione subita dai palestinesi.
Arrestati nel cuore della notte, sottoposti a umiliazioni e misure degradanti, tenuti in custodia (quindi «senza che si sappia perché una persona sia in carcere») fino a un anno, i palestinesi vivono assoggettati dal regime militare di Israele e sono sottoposti alle regole di Israele. Che sono, però, diverse per i palestinesi e per gli israeliani. Ad esempio, se un processo per un israeliano dura 9 mesi, per un palestinese si protrae per 18 mesi. Se i palestinesi sono trattenuti senza accuse per interrogatori fino a 90 giorni, gli israeliani lo sono per 64 giorni.
Grazia Careccia, lo scorso dicembre, si è soffermata sulla pratica dell’internamento o – come viene chiamata dagli israeliani – “detenzione amministrativa”: «è un caso di privazione della libertà degli individui molto particolare perché avviene in mancanza di accuse e di un vero e proprio processo – ha spiegato – la potenza occupante dice: c’è un pericolo di sicurezza, però questa persona non ha commesso nessun reato, tuttavia l’unico modo che ho per proteggere la mia sicurezza è internare questa persona». Secondo il diritto internazionale, l’internamento è un provvedimento di carattere eccezionale e deve essere limitato nel tempo. Ma Grazia Careccia precisa che Israele ricorre costantemente all’internamento e lo reitera in modo illimitato. Inoltre viola i diritti alla presunzione di innocenza, alla difesa e a un equo processo.
Fonte
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Diffondiamo da Polvere da sparo
La notizia circola da un’ora in rete, attraverso il sito Nena News (qui l’articolo).
Una notizia che a me non fa male per niente, perché una riduzione pena, un annullamento di un ergastolo non può crearmi amarezza…
non avrei questo logo a marcare il blog e non lo avrei tatuato nel cuore.
Quando parlo di abolizionismo del carcere,
ma sopratutto quando parlo di abolizionismo dell’ergastolo,
quello che sulle carte del DAP è catalogato con il fine pena datato99/99/9999,
quello che in francia è detto la ghigliottina secca,
non faccio distinzioni, non posso farle.
Non chiedo l’abolizione dell’ergastolo ad intermittenza, lasciando crepare in cella gli assassini dei miei compagni.
Avreste gioito se gli assassini di Vik fossero stati impiccati in pubblica piazza,
con metodologie iraniche? Io sarei stata sommersa dal mio stesso vomito.
E allora non vedo perché dobbiamo commentare con parole come “scandalo” o “buttate le chiavi cazzo” il fatto che questi ergastoli siano stati commutati in 15 anni di pena.
Certo fa pensare, certo brucia l’idea di non saper perché, di non aver chiaro motivazioni e metodologie usate per uccidere un compagno caro, che mandava avanti una battaglia in un modo straordinario, con una forza e un sorriso che ci hanno insegnato tanto.
Il suo slogan era “restiamo umani”…
bhè provateci allora quando parlate di ergastolo, a capire cosa intendeva per “restare umani”.
Non credo che chi sostenga il “FINE PENA MAI” abbia tutto ‘sto diritto di ritenersi essere umano, lo reputo più simile a chi c’ha strangolato Vik,
lontano anni luce dal messaggio che ha urlato fino al secondo della sua morte.
Non esiste più grande aberrazione del carcere a vita.
Nessuno mi farà mai cambiare idea a riguardo.
– A Vik, tornato a casa dalla sua amata Palestina
– Hanno giustiziato Ippocrate
– I gattini di Gaza
– Che nessuno pianga, una dedica a Vittorio
lo so che mi odierete….pazienza.
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Nelle ultime ore si è parlato molto, negli Usa e non solo, della condanna a morte inflitta in Georgia, a un 52enne con problemi mentali, Warren Hil, detenuto da 20 anni nel penitenziario di Jackson. Ebbene, all’1, ora italiana, a sorpresa, è stata sospesa l’esecuzione della pena capitale. I legali hanno asserito che Hill, condannato a morte per aver ucciso un suo compagno di cella, ha 70 di quoziente intellettivo.
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Sequestrati dalla Polizia Penitenziaria del carcere di Vasto (CH) due telefonini con relative schede SIM e caricabatterie e circa 14 grammi di hascisc.
Questo è il “bottino” dell’operazione di controllo e prevenzione sui colloqui tra detenuti e loro familiari, messa in atto dai colleghi della Penitenziaria di Vasto. L’espediente utilizzato per occulatere il materiale e la droga questa volta sono state le suole delle scarpe (in questo caso le Hogan che hanno la suola alta) scambiate durante il colloquio.
Il fatto è avvenuto nei giorni scorsi e sono stati messi in atto tutte le operazioni di polizia giudiziaria.
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Gli Stati Uniti, lo Stato che più publicizza sè stesso come esempio di libertà e democrazia ha consolidato oramai da tempo un primato tutto a stelle e strisce. Qui si imprigionano più persone che in qualsiasi altro Paese del mondo. Le persone residenti negli Stati Uniti rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale: di queste, 2,4 milioni “vivono” nelle carceri degli Stati Uniti, ossia il 25% dei prigionieri di tutto il mondo.
Tra il 1970 e il 2005 la popolazione carceraria è aumentata del 700% ma la crescita più significativa riguarda i profitti dell’industria legata al settore delle prigioni private: tali profitti sono infatti cresciuti del 1600% nel periodo 1990 – 2009.
Prima del 1980 non esistevano prigioni gestite da società private per fini di lucro; nei tre decenni successivi tali società hanno usato i loro enormi profitti per guadagnare peso politico e accelerare la crescita di questo settore di mercato.
Le dichiarazioni rilasciate dalla ‘Corrections Corporation of America’, la più grande compagnia di carceri private al mondo, rivelano gli interessi della compagnia per il mantenimento delle misure economiche draconiane del governo che contribuiscono al crescente tasso di incarcerazione di massa: “La nostra crescita generalmente dipende dalla nostra capacità di ottenere nuovi contratti … Qualsiasi variazione (legislativa) rispetto a droga o immigrazione clandestina, potrebbe far variare il numero di persone arrestate e condannate, riducendo quindi la domanda ai nostri istituti penitenziari per accoglierle. ”
In un articolo di qualche anno fa (1), il New York Times adduceva tra le cause del tasso continuo di carcerzione, pene non commisurate per reati minori, come il compilare assegni a vuoto o legate all’uso di droghe, reati che in altri Paesi, raramente producono pene detentive. Inoltre la carcerazione di chi le sconta è molto più lunga.
Nel 2010, quando il sistema economico era in piena crisi , le due più grandi società private carcerarie, la CCA e il gruppo GEO hanno ottenuto 3 miliardi di dollari di profitti. Questo denaro, come quello per i salvataggi dei banchieri di Wall Street, sono stati presi dai contribuenti per volere dei politici federali e statali e messi nelle tasche di un numero relativamente basso di capitalisti che gestiscono il sistema carcerario privato.
L’incarcerazione di massa viene mantenuta come fonte di enormi profitti, la repressione che si esprime in arresti e condanne da parte dello Stato,ne è una pre-condizione. Lo Stato si dimostra come il vero artefice di una realtà economica che emargina settori interi di popolazione per poi lucrare sulla loro pelle.
Segregazione di Stato
La repressione colpisce più duramente i settori più emarginati della società. I numeri parlano chiaro, è ovunque evidente la sproporzione di persone di colore che riempiono le carceri. Negli Stati con la quantità più numerosa di detenuti, le persone di colore costituiscono oltre l’89 per cento della popolazione carceraria in California, il 71% in Texas e il 65% in Arizona. Quasi la metà sono immigrati privi di documenti detenuti dal governo degli Stati Uniti in buona parte arrestati dalla famigerata ICE, il corpo di polizia di frontiera a guardia dei confini con il Messico.
Un articolo di Micromega di inizio 2012 (2), riportava la definizione che lo scrittore Adam Gopnick, ha dato al sistema carcerario americano: “la dentenzione di massa ha influenza sulla società contemporanea come avveniva per la schiavitù nel 1850″, rifacendosi a studi che dimostrano come il sistema penitenziario americano di oggi sia “la continuazione con altri mezzi (neanche tanto diversi) del regime segregazionista”.
Il carceriere è il capitale
In queste prigioni qualsiasi programma di “riabilitazione” è esplicitamente considerato non-economicamente conveniente, in modo tale che al momento del rilascio gli ex prigionieri sono stati essenzialmente privati di ogni capacità di trovare un posto di lavoro. Questo fattore alimenta l’emarginazione sociale aumentando le probabilità che gli ex detenuti tornino in breve tempo nell’infernale sistema carcerario, a tutto vantaggio delle lobby della detenzione.
La crescita dei profitti dell’infame sistema carcerario rivela tutto lo sfruttamento della parte più debole della classe operaia americana; nonostante gli enormi profitti, le condizioni all’interno delle prigioni private sono spesso peggio di quelle pubbliche, con più alti tassi di violenza contro i prigionieri,suicidi, celle sporche infestate dai topi e che odorano di urina.
Nessuna legge nè riforma cambierà mai questo stato di cose. Perchè le leggi le fa il padronato per servire il capitale. E il capitale è il sommo capo di tutti i carcerieri.
K.B.
(1) NYT 23/04/2008
(2) MicroMega “Gulag America” Giuliano Santoro 31/12/2012
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(ANSA) – LA SPEZIA, 19 FEB – Frode ai danni dello Stato, falso materiale e ideologico nei lavori di ristrutturazione del carcere spezzino: con queste accuse la gdf ha arrestato 4 persone. Sono un imprenditore locale, due funzionari del provveditorato alle opere pubbliche di Genova, e un professionista. Certificavano lavori che non erano stati compiuti. Il loro comportamento ha causato allo Stato un danno di 1 milione e 700 mila euro. Il costo finale dei lavori e’ stato di 21 milioni.
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Con un’ordinanza senza precedenti, il Tribunale di Sorveglianza di Padova ha deciso di sollevare innanzi alla Corte Costituzionale una questione di incostituzionalità sulla sistematica violazione dei diritti umani perpetrata all’interno delle carceri italiane.
L’obiettivo dell’ordinanza redatta dal giudice Marcello Bortolato – secondo quanto riporta il Corriere della Sera – è quello di chiedere alla Consulta una sentenza “additiva”, cioè che conferisca ai giudici la facoltà di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto in presenza di grave infermità fisica (come previsto dall’art. 147 del codice penale), ma anche nel caso in cui la detenzione verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in “trattamenti disumani e degradanti”.
L’iniziativa del Tribunale segue alla richiesta di sospensione della pena avanzata da un detenuto costretto a vivere per 9 giorni in una cella con 2,43 mq a disposizione e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio nella casa circondariale di Padova.
Meno, quindi, della soglia minima di 3 mq prevista dalle due sentenze del 2009 e del 2013 con le quali la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia e il suo “strutturale sovraffollamento carcerario”. Secondo il tribunale il fatto che la pena non possa consistere in un trattamento contrario al senso di umanità significa che “la pena inumana non è legale, cioè è “non pena”, e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato”.
Per questi motivi al giudice dovrebbe essere riconosciuta la facoltà di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un “congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena, e dall’altro di difesa sociale”.
L’idea delle carceri “a numero chiuso”, come ribattezzata da alcuni organi di stampa, rappresenterebbe per il tribunale “l’unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena”, a conferma del perenne stato di illegalità antidemocratica in cui versa lo Stato italiano.
La decisione di sollevare la questione di incostituzionalità, oltre a rappresentare una svolta nella gravissima emergenza carceraria e giudiziaria in cui si trova immerso il nostro paese, cerca di colmare il grande vuoto lasciato dalla politica, che imperterrita continua ad ignorare uno scandalo ormai di dimensione internazionale.
Fonte
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In Italia i detenuti si tolgono la vita 9 volte di più rispetto al resto della popolazione. La media italiana è di un suicidio ogni 20mila abitanti. Nelle prigioni come dimostrato da “l’Espresso” c’è un suicidio ogni 924 reclusi. Questo dato dimostra ‘l’ invivibilità’ del nostro sistema penitenziario e delle pessime condizioni in cui i carcerati sono costretti a vivere.
Oggi un detenuto extracomunitario ha tentato di impiccarsi in cella, ma il tempestivo intervento di un assistente capo di Polizia penitenziaria ha evitato il peggio.
Il triste episodio si è verificato nella Casa circondariale di Sciacca,in provincia di Agrigento. Lo ha riferito in una nota la segreteria regionale Osapp congratulandosi con il personale del carcere saccense.
La situazione, però, può essere cambiata: formando gli agenti, lavorando in rete con le Asl, migliorando le condizioni di vita tra le sbarre e combattendo il sovraffollamento. Tutte queste soluzioni possono aiutare a non far esplodere questa bomba a orologeria che è già stata azionata.
Fonte
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Sette persone sono state giustiziate nelle ultime ore in Iran, nell’ennesima ondata di esecuzioni a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Tra i detenuti saliti al patibolo ci sono anche tre omosessuali, impiccati in pubblico a Shiraz, nella regione centro – meridionale della Repubblica Islamica, per i reati di sodomia e rapina. A riferirlo è il sito ufficiale della magistratura della provincia di Fars, secondo cui le esecuzioni dei detenuti, identificati solo con le iniziali H.A., Y. F. e M.V. sono avvenute in una delle piazze centrali della città. Un altro giovane di 29 anni è stato giustiziato, sempre a Shiraz, con l’accusa di stupro e rapimento. Stando all’agenzia d’informazione “Irna”, inoltre, quattro trafficanti di droga sono stati impiccati nel carcere di Arak ieri mattina. I giustiziati erano tutti stati condannati a morte per traffico di oppio ed eroina. Omicidio, stupro e traffico di droga sono alcuni dei reati punibili con la pena di morte nella Repubblica Islamica.
Fonte Aki
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Oltre 700 carcerati sono morti in Georgia tra il 2005 e il 2012 durante la detenzione e la Procura generale ha avviato un’indagine per verificare le “informazioni preliminari su molte uccisioni”. La notizia, scioccante, arriva direttamente dal procuratore generale della Georgia e minaccia di aprire un nuovo fronte di tensione politica, già alta nel Paese caucasico, dopo la sconfitta elettorale del partito del presidente Mikheil Saakashvili e l’arrivo al governo del miliardario Bidzina Ivanishvili. Un cambio di guardia, tra l’altro, avvenuto sulla scia dello scandalo scoppiato con la diffusione lo scorso settembre di un video in cui si vedono funzionari di un carcere maltrattare e violentare dei carcerati.
“Stiamo indagando sulle reali ragioni delle morti, in quanto secondo informazioni preliminari molti (carcerati, ndr) sono stati uccisi”, ha dichiarato oggi il procuratore capo Archil Kbilashvili, come riporta Interfax da Tbilisi. “Se queste informazioni saranno confermate, allora saremo di fronte a crimini commessi dallo stato”, ha precisato. I primi risultati dell’indagine avviata, secondo il procuratore, saranno disponibili e resi noti già a marzo.
La questione del trattamento dei detenuti nelle carceri georgiane si è saldata nei mesi scorsi con quella delle incarcerazioni, quindi dei processi, in uno dei filoni più delicati del braccio di ferro tra Saakashvili e il nuovo premier Ivanishvili. Il 21 dicembre il parlamento di Tbilisi ha approvato un’amnistia che promette la scarcerazione anticipata a circa 3.500 carcerati e una riduzione di pena per altri 5.500.
Il provvedimento di amnistia prevede la creazione di una speciale commissione incaricata di rivedere ogni singolo caso, ma raccomanda la grazia per i condannati per tradimento, per aver partecipato in disordini militari, per attività di spionaggio a favore della Russia, per furto e frode. Secondo il governo, infatti, questi articoli raccolgono un alto numero di persone vittime di persecuzioni politiche negli anni di potere di Saakashvili. Il presidente si è rifiutato poi di firmare l’amnistia e al suo posto l’ha vidimata il capo del parlamento, David Usupashvili.
Fonte Tm News
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Adriano Sofri descrive su Repubblica l’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, uno dei sei che dovrebbero chiudere entro marzo
Repubblica ha pubblicato oggi un reportage di Adriano Sofri sull’Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Si tratta di uno dei sei OPG che entro il 31 marzo dovranno chiudere. Nell’OPG di Barcellona ci sono 183 internati e 18 detenuti che lavorano lì. Alcuni internati – che non sono imputabili per quello che hanno fatto, ma sono dichiarati socialmente pericolosi – sono difficili da gestire per le comunità di recupero e potrebbero essere trasferiti in carceri normali, quando l’OPG sarà chiuso.
Ci avviciniamo al Terzo Reparto, e uno grida, rivolto prima al direttore, poi a tutti noi: «Me lo merito? Non me lo merito! Non me lo merito! ». Abbiamo già visitato il Primo Reparto, il direttore ci ha avvertiti: «Al Terzo è più dura». È il vecchio Reparto Agitati. Non ci sarà nessun atto inconsulto, solo facce e gesti gentili e ansiosi e tristi. C’è un giovane chiuso, con lui bisogna stare attenti, avvertono; è lui stesso a sbattere la porta blindata della cella addosso al cancello già chiuso. Le altre camere sono aperte, grandi e luminose, sei persone, niente letti a castello. Pochi stanno in branda: meno di quanti se ne troverebbero, a qualunque ora, in una galera “normale”. Sta passando il carrello del vitto, portato da due giovani signore dall’aria cordiale. Gli internati (si chiamano così) raccontano di sé succintamente, devono aver fatto l’abitudine ai visitatori e imparato a usare il minuto che può toccar loro. «Venivano come al giardino zoologico».
(continua a leggere in PDF sul sito zeroviolenzadonne.it)
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Il nuovo ‘store’ dedicato ai servizi e ai prodotti di aziende nate all’interno delle case circondariali milanesi sarà inaugurato martedì in via dei Mille 1
Niente made in China o made in qualsiasi altro paese, da martedì 19 febbraio a Milano arriva il made in Carcere.
Alle ore 11.30, infatti, in via dei Mille 1, sarà inaugurata dall’assessore alle Politiche del lavoro, Cristina Tajani, la nuova sede dell’Acceleratore imprese ristrette.
Il nuovo ‘store’ dedicato ai servizi e ai prodotti di aziende nate all’interno delle case circondariali milanesi.
In totale, 200 mq e 5 vetrine su strada messi a disposizione dal comune di Milano per promuovere un’iniziativa nata dalla cooperazione tra l’assessorato alle Politiche del lavoro, il Provveditorato alle carceri e 15 realtà imprenditoriali.
Fonte
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Teramo. Torna in cella Davide Rosci, l’esponente di Azione Antifascista Teramo condannato a sei anni di reclusione per gli scontri di Roma del 15 ottobre del 2011.
I carabinieri del nucleo informativo del reparto operativo del comando provinciale di Teramo questa mattina gli hanno notificato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per violazione degli obblighi dell’autorità giudiziaria. In sostanza Rosci è accusato di essere “evaso” dagli arresti domiciliare, beneficio che gli è stato concesso prima del processo romano e attraverso il quale sta scontando la pena detentiva.
I carabinieri hanno rimesso una informativa all’autorità giudiziaria romana all’esito di un controllo, due settimane fa, in cui Rosci era stato sorpreso fuori dalla sua abitazione: era un sabato e il giovane teramano, contrariamente al resto della settimana quando gli è consentito di recarsi al lavoro, doveva trovarsi a casa. Ciò non è stato e da qui la decisione del tribunale di Roma di revocargli il beneficio dei domiciliari. Rosci è uno dei giovani condannati a Roma, in solidarietà dei quali sabato 19 febbraio, a Teramo, è stato organizzato un partecipato corteo.
Fonte
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Il primo febbraio il giudice ha chiuso per sempre il caso Castrogno. L’inchiesta sul pestaggio di un recluso e sull’audio shock con la frase «un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto» è stata archiviata dal gip Giovanni de Rensis che ha respinto la seconda opposizione presentata dal detenuto che accusava di essere stato pestato in carcere. Nell’inchiesta erano indagati l’ex comandante Giuseppe Luzi e quattro agenti di polizia: Donatello Pilotti, Giampiero Cordoni, Roberto Cerquitelli e Augusto Viva (difesi dagli avvocati Nicola De Cesare, Raffaella Orlando, Filomena Gramenzi, Renzo Di Sabatino, Carla Vicini, Antonio Valentini). Quella arrivata a de Rensis era la seconda richiesta di archiviazione. La prima era stata respinta dal gip Marina Tommolini (ora in servizio alla Corte d’appello di Ancona) che aveva disposto ulteriori indagini al pm Irene Scordamaglia . Il detenuto ha sempre sostenuto di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria di Castrogno come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un agente.Va detto inoltre che il detenuto finì a processo (poi assolto) con l’accusa di lesioni e resistenza ad un agente di polizia penitenziaria. L’ex comandante, subito dopo l’esplosione del caso, aveva ammesso che era sua la voce che si sentiva nel colloquio shock registrato sul cd. E lui che diceva: «Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perchè il negro ha visto tutto». Quel testimone era Uzoma Emeka, detenuto nigeriano morto in carcere un mese dopo i fatti, stroncato da un tumore al cervello non diagnosticato. Qualche giorno dopo la notizia tre compagni furono denunciati per delle scritte in città contro sbirri e politici. Sbirri che oggi sono dichiarati innocenti dalla giustizia statale e, soprattutto, ancora una volta non hanno trovato alcuna opposizione.
Fonte
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Un gruppo di immigrati che devono essere espulsi ha dato vita alla protesta bruciando materassi e suppelletili
Rivolta al centro di accoglienza di Ponte Galeria. Un gruppo di immigrati nigeriani, in attesa di espulsione, è salito sui tetti appiccando anche un incendio e dando alle fiamme materassi e suppellettili.
I vigili del fuoco sono intervenuti con tre squadre per spegnere l’incendio. La questura della capitale ha inviato alcuni contingenti del reparto mobile. Sul posto anche il commissariato di Fiumicino. Ci sarebbero due feriti: una funzionaria di polizia e un finanziere in servizio nel Cie
Fonte Repubblica
ROMA – Rivolta al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma, che ospita gli stranieri in attesa di essere rimpatriati. Alcuni immigrati sono saliti sul tetto, altri hanno dato fuoco a coperte, materassi e vestiti. L’incendio ha sprigionato una lunga colonna di fumo nero rendendo inagibile una parte della struttura. La rivolta non è che l’ultimo degli episodi di scontri interni al Cie romano, lo stesso dove nel marzo 2012 si tenne un lungo sciopero della fame per protesta contro il suicidio di un ex recluso catturato e picchiato dopo una fuga dal centro.
IMMIGRATI ASSERRAGLIATI – Sono intervenuti i vigili del fuoco, che stanno ancora tentando di farsi strada nel Centro dove gli immigrati si sarebbero asserragliati. Sul posto anche alcuni contingenti del reparto Mobile della Questura e del commissariato di Fiumicino. Per ora non risultano feriti ma la situazione è tesa e i dirigenti di polizia stanno tentando una mediazione con gli ospiti rivoltosi.
«SITUAZIONE PRECARIA» – Il Cie di Ponte Galeria, situato tra Fiumicino e la Magliana, ospita centinaia di immigrati irregolari in attesa di esplusione «in precarie condizioni di vita – spiega il Garante dei Detenuti, Angiolo Marroni -. Una situazione estremamente complessa e precaria dove basta poco per scatenare la miccia della protesta e della contestazione». Il 14 settembre del 2011 alcuni gruppi di ospiti del Cie romano furono protagonisti di una serie di fughe : evasioni di massa che portarono ad una modifica degli apparati di sicurezza del centro.
Fonte Roma online
Commenti disabilitati su Rivolta al Cie di Ponte Galeria Appiccato rogo sul tetto | tags: anticarceraria, centro di identificazione ed espulsione, CIE, CordaTesa, detenuti sul tetto, fiamme, incendio, lager, Ponte Galeria, rivolta, rogo, roma | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Diffondiamo da Contromaelstorm
Dal Corriere della Sera abbiamo saputo che, qualche giorno fa, si è svolta una cena con personaggi altolocati. Non ci è dato sapere quali e quanti partecipanti abbiano condiviso le libagioni. Conosciamo però gli argomenti di discussione degli onorevoli commensali. Ce ne racconta il contenuto e il senso tale Giovanni Iudica, ordinario di diritto civile dell’Università Bocconi di Milano.
Abbiamo esperienza di professori della prestigiosa Università Bocconi. Tredici mesi del governo Monti ci hanno insegnato che, colui che era stato presentato come valente statista, si è destreggiato nel ruolo di tagliatore delle già magre entrate di proletari e pensionati.
Stavolta il tema però era la “giustizia”, così definiscono la loro “voglia di galera”. Già perché volenterosi di metter mano alla riforma del Codice penale fascista di Alfredo Rocco che, a 68 anni dalla “liberazione” dal fascismo, sanziona ancora i nostri comportamenti, ne hanno tratto la convinzione che il buon fascista Rocco (guardasigilli di Mussolini) sia statotroppo garantista. Ohibò!, qualcuno dirà; e che cazzo! altri. Eppure è proprio così, la lettera inviata dal sommo giurista al CdS conclude così: «Tutti d’accordo nel ritenere che questo codice penale, così come è, non va. Tutti hanno preso atto che, dal codice Rocco a oggi, si è verificata una lacerante divaricazione tra norma penale e comune sentire. La gente sta dalla parte dei deboli, delle vittime, dalla parte di Abele. La legge penale attuale dalla parte di Caino».
Potete leggere l’intero contenuto della lettera pubblicata a pag.51 del CdS del 15/2/2013

Alcune forze politiche, in queste elezioni, hanno inserito nel loro programma la revisione del Codice penale Rocco, del quale la magistratura utilizza, da un po’ di tempo e sempre più, le parti più grottesche come “devastazione e saccheggio” per sbattere in galera chiunque protesti.
A questo punto ci chiediamo e chiediamo loro: «Scusate, ma in che direzione volete cambiarlo?». Non vorremmo proprio che questo nuovo secolo ci costringa a scendere in lotta per…udite!, udite! “difendere il Codice fascista Rocco”. Sarebbe una tremenda beffa
A proposito di “beffe” c’è qualcosa in questa lettera che ci ricorda il triste epilogo dell’arrogante e spaccone Neri Chiaramantesi (interpretato dal bravo Amedeo Nazzari- «Chi non beve con me, peste lo colga!») dello spledido film di Alessandro Blasetti, “La cena delle beffe”(1941). Guardare per credere…..
eheheh…eheheh
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Trascrivo (spostando il video alla fine) dal sito Movimento Revolution, precisando 2 cose, una inerente una cosa scritta nel post e una di carattere generale. La prima è che per il TSO si può fare ricorso o richiesta di revoca anche se la procedura è stata rispettata, e inoltre non per forza si deve fare entro 48 ore, si può fare anche dopo. La seconda è che, come ho già scritto nella e-mail di risposta a questa notizia, tanto di cappello a chi ha fatto ciò, ma mi preme il dire che ciò di cui si parla non succede solo a Parma, succede ovunque, in ogni parte, luogo e posto d’Italia. Per cui, non lo si consideri (al solito…) un caso isolato ed eccezionale, qualcosa che è accaduto a Parma ma che non succede altrove.
Nel contempo, invito a partecipare a
CAMPAGNA PER L’APPLICAZIONE DELLE NORME DI TUTELA E DI DIFESA DEI DIRITTI CIVILI DEI SOGGETTI SOTTOPOSTI A TSO
La Campagna può essere sottoscritta tramite invio di e-mail solamente da gruppi, associazioni, ecc., sia formali che informali. Inoltre, riguarda solo la Regione Sicilia, però chi vuole può farla nella propria Regione.
Natale Adornetto
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Riceviamo richiesta di aiuto per ipotesi di Abuso T.S.O Trattamanto Sanitario Obbligatorio,sembra che a Parma questo metodo venga utilizzato con troppa facilità.
Abbiamo raccolto delle testimonianze scioccanti da parte sia dei “pazienti” rinchiusi sia dei parenti .
I familiari ci informano che è stata richiesta l’avvio di un’indagine .
Ribellarsi all’abuso dell invadenza della psichiatria
Mi hanno legato al letto per due settimane
Mi hanno impedito di telefonare
Mi hanno impedito di ricevere visite
Mi hanno costretto a prendere i farmaci dopo il ricovero
Mi hanno impedito di uscire anche se mi sono ricoverato volontariamente
Mi hanno tenuto in trattamento coatto per due mesi …
E’ TUTTO ILLEGALE!
E’ ora di conoscere i tuoi diritti, di porre un argine
allo strapotere della psichiatria, alla sua invasione
nelle nostre vite, nei nostri corpi e nelle nostre menti
… e allora CONOSCI I TUOI DIRITTI!
IL TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) DEVE ESSERE UN’ECCEZIONE
Il TSO è per legge un PROVVEDIMENTO ECCEZIONALE da applicarsi solo nel caso in cui una persona non solo presenti “alterazioni tali da necessitare di urgenti interventi terapeutici” ma si rifiuti inoltre di seguire le cure prescritte. Perché sia valido il TSO sono necessari due certificati medici più la firma del sindaco. Se il TSO viene fatto contravvenendo a queste norme è da considerarsi ILLEGALE e si può fare ricorso entro 48 ore. Entro 48 ore deve pure avvenire la convalida da parte del giudice tutelare. Per questo motivo Il TSO deve inoltre essere notificato al giudice tutelare e in mancanza di questa notifica il provvedimento decade automaticamente; alla mancata notifica del TSO può seguire una denuncia al comune per omissione di atti d’ufficio.
IL DIRITTO ALLA COMUNICAZIONE NON SI TOCCA
Nessun medico può vietare a nessuna persona di entrare nel reparto psichiatrico in orario di visita, a nessun paziente può essere impedito di telefonare dal reparto (il diritto alla comunicazione è riconosciuto dalla legge).
LA TERAPIA È OBBLIGATORIA SOLO IN CASO DI TSO
Nessuno può obbligarti a seguire una terapia a meno che sia stato emanato un provvedimento di Trattamento Sanitario Obbligatorio, in caso contrario sei libero di rifiutare qualsiasi cura e puoi diffidare il medico che ti importuna con i suoi pressanti inviti a seguire una certa terapia: fuori dal TSO ogni persona è LIBERA DI FARE QUELLO CHE VUOLE con le terapie consigliate dai medici.
DIRITTO ALLA SCELTA E ALL’INFORMAZIONE
Anche durante il TSO il paziente dovrebbe poter scegliere la terapia che preferisce e quantomeno essere informato sulla terapia stessa e sui suoi effetti diretti e collaterali.
NESSUNO PUÒ ESSERE LEGATO
Nessuno può essere legato, nessun mezzo di contenzione può essere usato (se non per il tempo strettamente necessario a somministrare una terapia); ogni violazione di questa norma è solo un atto di violenza, è un MALTRATTAMENTO PERSEGUIBILE A NORMA DI LEGGE.
IL RICOVERATO VOLONTARIO PUÒ USCIRE QUANDO VUOLE
Chi è ricoverato in regime di ricovero volontario deve essere DIMESSO DAL REPARTO NON APPENA LO DESIDERA. I pazienti ‘volontari’ trattenuti forzatamente nel reparto sono vittime di SEQUESTRO DI PERSONA, reato duramente perseguibile a norma di legge
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