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Un Rapporto dell’Unione europea denuncia che le donne nelle carceri stanno aumentando più degli uomini. Lo “Sportello dei Diritti” impegnato a tutelare le detenute.
Sempre più donne si danno al crimine. Non è solo una percezione di come cambia in peius la società ma è un fenomeno studiato che purtroppo cresce giorno dopo giorno e impone di rivedere il sistema carcerario già inadeguato ai numeri che è costretto a sopportare.
Se è vero, infatti, che si è arrivati ad una parità formale nei diritti e l’uguaglianza è stata raggiunta in molti settori della vita quotidiana, è anche vero che le donne si avvicinano agli uomini anche in quelli negativi.
Le statistiche parlano chiaro: dal 2011, l’aumento del numero di donne che sono detenute a livello globale è aumentato di decine di volte più velocemente di quello degli uomini, secondo i dati nazionali così come è aumentato il livello della gravità dei reati che hanno commesso.
Mentre il numero di autori di reati di sesso maschile sono rimasti stabili sostanzialmente stabili negli ultimi dieci anni, i dati più recenti dimostrano un aumento del 15 per cento per il “gentil sesso”. Ciò quasi a denotare che anche l’aggressività nelle donne è aumentata costantemente negli ultimi 10 anni.
I ricercatori sono d’accordo, sostenendo che il comportamento violento da parte delle donne è in aumento e non mostra segni di rallentamento.
Anche un rapporto delle Nazioni Unite rivela che il tasso di crescita del numero di donne che entrano in carcere è superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante la ridotta percentuale del 4,9% sulla totalità dei detenuti rappresentata dal gentil sesso.
A dire il vero, in relazione alle 100mila donne che sarebbero detenute attualmente nelle carceri europee, il rapporto cambia da paese a paese. Solo per fare gli esempi estremi, si passa da Malta dove le detenute sono appena una decina, alla Spagna dove arrivano al numero di 5.000 rappresentando l’8,8% del totale della popolazione carceraria.
L’Italia, invece, si pone in linea con la media europea con una percentuale di detenute pari a circa il 4,7% del totale, che è anche, più o meno lo stesso dato che viene confermato anche su scala mondiale dalle Nazioni Unite.
A livello mondiale le cose quindi non cambiano con le donne che comunque costituiscono una porzione molto piccola della popolazione carceraria, che varia generalmente dal 2 al 9%. Solo 12 sistemi penitenziari superano questa soglia nel resto del pianeta, mentre una statistica del Regional Office of Europe ha individuato nell’Azerbaijan la quota meno elevata (1,5%).
Ciò non vuol dire che il fenomeno sia sotto controllo. Ed, infatti, la tendenza di cui parlavamo conferma una crescita dappertutto. Per tornare all’Europa basta verificare come in Inghilterra e in Galles il numero delle donne che per varie ragioni sono finite in istituti di detenzione è aumentato negli ultimi dieci anni della sorprendente percentuale del 200%, a fronte di una crescita del numero degli uomini pari al 50%.
L’Unione Europea, ha anche precisato che la maggior parte delle donne detenute scontano pene brevi, legate al possesso di stupefacenti. A ciò consegue un permanente ricambio della popolazione carceraria che ovviamente aggrava la già complessa situazione dei sistemi penitenziari. Altro problema rilevato dall’UE riguarda il fatto che il numero di detenute in attesa di giudizio è equivalente se non addirittura superiore a quelle che scontano una pena definitiva. Ciò comporta ulteriori questioni circa la gestione perché le donne in attesa di giudizio hanno opportunità ridotte di accedere ai programmi lavorativi, di mantenere contatti con le famiglie e anche con gli altri detenuti.
Tante, tantissime sono anche madri. Le statistiche conosciute in Europa sono sconvolgenti se si pensa che ci sono circa 10.000 bambini al di sotto dei due anni che hanno una madre in carcere. Mentre sono centinaia di migliaia i bambini di età superiore ed i ragazzi fino alla maggiore età che devono fare i conti con una mamma detenuta.
In tal senso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2003 ha approvato una risoluzione che invita “governi, autorità internazionali, istituzioni a tutela dei diritti umani e organizzazioni non-governative a impegnarsi per aumentare l’attenzione verso lo stato detentivo delle donne, compresi i figli di donne in prigione, in modo da identificare i problemi principali e impegnarsi a risolverli”.
Questo perché lo sviluppo psicosociale dei figli corre pericoli di gran lunga maggiori quando è la madre a finire in carcere piuttosto che il padre. Uno studio inglese del 2008 ha rilevato che quando le madri sono detenute, nell’80% dei casi i padri non si prendono cura dei loro figli. Anche alla luce di tali dati, ormai quasi tutti gli stati europei consentono alle madri di tenere con sé i figli piccoli scontano la loro pena. Permangono anche in tal caso divergenze fra le varie normative nazionali che passano da un limite minimo di zero a uno massimo di sei anni per la permanenza dei bambini negli istituti. Solo in Norvegia non è consentito ammettere bambini nelle carceri mentre la media nel resto d’Europa è di tre anni.
Un altro dato che dovrebbe far riflettere è quello dell’età delle detenute. Negli ultimi anni, infatti, è possibile evidenziare una costante crescita delle ragazze che finiscono negli istituti correzionali per minori. Un esempio lampante in tal senso sono gli Stati Uniti, dove le giovani rappresentano ormai il 25% della popolazione dei riformatori.
Questi dati in prospettiva dovrebbe far preoccupare ancora di più.
Le donne più anziane, ossia quelle che superano i 50 anni di età sono una categoria che richiede trattamenti particolari in ragione a problemi legati principalmente alla salute.
Molte, sono peraltro le straniere che costituiscono a livello europeo oltre il 30% delle donne rinchiuse negli istituti. La maggior parte hanno commesso crimini che riguardano la droga oltre a quelle detenute per ragioni concernenti il loro status illegale nel paese dove vivono.
Purtroppo, le detenute hanno molti più problemi di salute rispetto agli uomini. Molte di loro in genere arrivano in carcere in condizioni già complicate legate alla vita in povertà, all’uso di droghe, alla violenza familiare, a violenze sessuali e gravidanze giovanili. Nello specifico, le donne dipendenti da sostanze stupefacenti mostrano in proporzione maggiore degli uomini problemi come tubercolosi, epatite, anemia, ipertensione, diabete e obesità.Anche le malattie mentali sono molto diffuse negli istituti penitenziari femminili, e riguardano l’80% delle detenute. I due terzi, ad esempio, mostrano disordini legati a stress post-traumatico.
Ma sono tante le problematiche connesse alla detenzione delle donne ed all’aumento del fenomeno che per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, richiedono una revisione profonda dei sistemi carcerari a partire da quello nostrano che serva non solo per porre un limite a quella che appare come una vera e propria emergenza ma anche per gestire un problema in crescita ed adeguarsi a necessarie esigenze di civiltà, umanità e tutela dei diritti.
Se è vero, infatti, che di fronte a tale grave situazione le istituzioni europee hanno dato input a politiche per arginare il fenomeno e migliorare le condizioni delle donne in carcere è altrettanto vero che il processo di adeguamento dell’Italia procede a rilento.
Tra gli obiettivi fissati dall’UE ed ancora non del tutto realizzati nel nostro Paese vi è da segnalare in primo luogo la richiesta di ricorrere il più possibile alle misure alternative, soprattutto per le donne incinte e per quelle che hanno figli piccoli. In secondo, di assicurare un servizio sanitario efficiente e capace di rispondere ad ogni tipo di esigenza. Ed in ultimo di considerare come primario l’interesse del bambino quando questo è coinvolto nella detenzione della madre.
In quest’ottica, come “Sportello dei Diritti”, siamo impegnati a tutelare tutte le donne a partire dalle madri ed i loro bambini che subiscono trattamenti degradanti e non corrispondenti ai dettami delle linee guida europee all’interno delle carceri italiane.
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Negativo il quadro che emerge dalle visite di Alessandra Naldi a San Vittore e Opera. Appuntamento per dibattere la questione il 16 marzo a “Fa la cosa giusta”, la fiera degli stili di vita sostenibili.
Nelle carceri di Milano non solo si sta stretti, ma si mangia malissimo e l’igiene è in condizioni pietose. È quanto emerge dalle visite effettuate da Alessandra Naldi, nuovo garante dei detenuti del Comune di Milano, negli istituti penitenziari di San Vittore e Opera. Il problema del sovraffollamento è quindi aggravato da altre carenze. “Ho ricevuto molte segnalazioni sullo stato dei materassi, sulla scarsa pulizia delle lenzuola – spiega la garante. Inoltre i detenuti si lamentano del fatto che non possono procurarsi disinfettanti per pulire le celle”.
Anche il cibo è pessimo: per legge dovrebbe esserci una cucina che sforna i pasti ogni 200 detenuti, ma in realtà ce ne sono molte di meno. “C’è sicuramente un problema di qualità delle forniture -aggiunge la Naldi-, e dobbiamo capire anche se ci sono problemi di organizzazione. Alcuni detenuti si arrangiano comprando generi di prima necessità dallo spaccio interno, ma i prezzi spesso sono più alti che all’esterno e non tutti possono permetterselo”.
La Garante parlerà delle condizioni delle carceri milanesi a “Fa la cosa giusta!”, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo e che si terrà a Fieramilanocity, dal 15 al 17 marzo. Il suo intervento è previsto per sabato 16 marzo, dalle ore 12 alle 13, insieme a Lamberto Bertolè (presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano) e di don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile Beccaria) durante l’incontro “La paladina degli invisibili”.
Fonte: dire
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La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali
Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354. Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono ‘empirici’) ma è anche un’opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d’opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E’ un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano.
La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall’associazione Antigone, ‘Senza dignità’, il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: “Nel primo semestre 2012” recita il report “a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi”. Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario.
“Quello che si tende a dimenticare” spiegano dall’osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane “è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio”.
Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese.
La mercede viene calcolata da un’apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria.
“Questa è la teoria” continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti “la pratica è un po’ diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro”.
Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all’interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministraizone Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012.
Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante.
Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa.
Un silenzio difficile da scalfire. “Solo da poco siamo riusciti a penetrare l’ambiente del carcere” conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano “Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione”. Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un’industria metalmeccanica. “Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l’azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l’orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi”.
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“Momenti di alta tensione ieri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove un detenuto ha prima aggredito un ispettore di Polizia penitenziaria e poi ha fomentato una rivolta in sezione”. Lo denuncia il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) facendo notare come l’episodio rappresenti “l’ennesimo sintomo di criticita’ del penitenziario toscano, a tutt’oggi senza un Comandante di reparto della Polizia”.
“Un nostro ispettore e’ stato violentemente colpito da un detenuto ristretto per reati comuni che, con altri 4-5 reclusi aveva messo in atto una violenta protesta – spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe – Le condizioni operative del personale di Polizia penitenziaria di Pisa sono sempre piu’ precarie e l’inquietante regolarita’ con cui avvengono eventi critici al Don Bosco, specie contro gli agenti, impone una ferma presa di posizione dei vertici regionali e dipartimentali”.
Ma non e’ solo la situazione del carcere di Pisa a destare preoccupazione. “Cosi’ non si puo’ piu’ andare avanti – denuncia Capece – Le gravi carenze di organico della Polizia penitenziaria ed il pesante sovraffollamento carcerario condizionano irrimediabilmente i livelli di sicurezza dei servizi all’interno delle sezioni detentive e durante le traduzioni dei detenuti”. Da qui il grido d’allarme lanciato dal segretario del Sappe: “I nostri agenti devono quotidianamente far fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti. Servono tutele e garanzie”.
Adnkronos
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Carceri liguri sovraffollate: è ancora allarme,. A denunciarlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e lo fa dati alla mano: sono 1.850 persone le persone detenute, quasi il doppio dei posti letto disponibili (1000). E la tensione resta alta.«Nelle sovraffollate carceri liguri – osserva Martinelli – i detenuti si sono resi protagonisti di 92 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) e 29 tentativi di suicidio». Secondo i dati resi noti dal Sappe hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati casi di suicidio. Sono state, infine, 93 le colluttazioni (7 a Imperia, 19 a Pontedecimo, 9 a Chiavari, 2 a La Spezia, 53 a Sanremo e 3 a Marassi) e 19 i ferimenti (12 a Marassi, 5 a Savona e 2 a Imperia). Sono state infine 5 le evasioni in Liguria da parte di altrettanti detenuti che non sono rientrati in carcere dopo aver fruito di permessi premio e semilibertà. Secondo il Sappe ad alimentare le tensioni nelle carceri è anche il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità).«In Liguria – spiega Martinelli – lavora solamente 1 detenuto su 5, e per di più per poche ore al giorno. Sul tema del lavoro in carcere c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti (circa il 20% dei ristretti). Peraltro, il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Stare invece 20 ore al giorno chiusi in cella favorisce una tensione detentiva fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni
(La Stampa.it)
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diffondiamo da nexus co.
da Periodico El Libertario
Tocorón, El Rodeo, La Planta, Tocuyito, Uribana. I massacri che si sono susseguiti nel corso degli ultimi due anni, con la creazione di un ministero specifico per le questioni carcerarie, non ha comportato alcun miglioramento in materia di diritti umani per i detenuti. La popolazione carceraria (più di 50.000 persone nel 2011) ha triplicato la capacità delle carceri (18.000 persone). Per Uribana, con una capacità di 750 persone, sono state ospitate ben 2498 persone al momento della strage. Due terzi dei detenuti del paese non sono stati condannati. La corruzione della polizia e le mafie militari, rendono il traffico di armi e droga in carcere un settore fiorente da cui ricavano svariati milioni di dollari.
La strage del carcere Uribana del 25 gennaio, è stata la più grave degli ultimi anni. Sono morti tra i 56 e i 63 detenuti, con un centinaio di feriti. E’ stata messa nuovamente in evidenza la farsa crudele dell’ “umanizzazione delle carceri”, slogan tanto decantato dal governo, ma così lontano dalla realtà, con un sovraffollamento e una violenza paurosa nelle prigioni venezuelane.
La povertà e l’esclusione sociale che caratterizzano il capitalismo venezuelano, continuano a spingere migliaia di giovani al crimine per sopravvivere e aspirare a una qualche forma di riconoscimento sociale. L’impunità assicura questo modus vivendi e questa cultura violenta che permea le comunità urbane sempre più popolari. Le vittime e gli autori di queste violenze sorse, sono per lo più giovani provenienti dalle classi inferiori. Poi, i carceri diventano un altro anello della catena di degrado sociale, chiudendo qualsiasi possibilità di reinserimento produttivo nella società.
Per tutti questi, i criminali dal colletto bianco che gestiscono questo sistema disumano, raramente percorrono una prigione. Ora più che mai è attuale quel che diceva Elio Gómez Grillo: “Il delinquente ricco è ricco, il deliquente povero è un deliquente”.
(tradotto da NexusCo)
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Un ordine di servizio impone, nel penitenziario cagliaritano, una conta numerica notturna, alle 3 del mattino. “Un inutile dispendio di energie” in un carcere “sovraffollato”, dove un centro clinico ospita una trentina di ammalati e anziani, (tra cui diverse persone con gravi disturbi psichici) e dove più di un terzo dei detenuti (oltre 200) sono tossicodipendenti. E’ la denuncia di Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che contesta l’ordine di servizio, assunto per riaffermare il principio della massima sicurezza negli Istituti Penitenziari.
“Sorprende”, afferma la Caligaris , “che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa ritenere di risolvere il problema della sicurezza con irruzioni notturne dentro le celle nel cuore della notte, senza considerare invece che l’Istituto conta oltre 540 detenuti anziché 345, secondo quanto stabilisce la capienza regolamentare, e che non è stato ancora colmato il deficit di circa 60 Agenti di Polizia Penitenziaria. Sembra inoltre che si voglia ignorare che dalla Casa Circondariale è quasi impossibile evadere”.
Secondo il consigliere regionale un’iniziativa di questa portata rischia di esasperare gli animi dei reclusi, costretti a condividere uno spazio ridottissimo anche in 6 persone. Potrebbe infatti suscitare reazioni finora scongiurate grazie ad un clima, improntato al dialogo e alla responsabilità dei detenuti “nonché incentrato sulla professionalità degli operatori”.
La conta numerica avviene in diverse momenti del giorno, come al mattino alle 6, e della sera e contempla spesso anche delle perquisizioni nelle celle. “Un tale controllo sistematico, nel cuore della notte, sarebbe inoltre impossibile senza un rafforzamento dell’organico”, aggiunge la Caligaris, “altrimenti si verificherebbe un’esposizione a rischio degli Agenti nel servizio notturno quando sono presenti soltanto 11 operatori per altrettante sezioni ciascuna delle quali è strutturata in più celle con letti che arrivano ai soffitti. Il Dipartimento”, conclude, “dovrebbe impegnarsi a favorire la territorialità della pena e ad attivare tutte quelle iniziative utili a ridurre il numero di detenuti, anziché continuare ad ammucchiarli e pretendere di fare nozze con i fichi secchi”.
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L’occasione è buona perché resti chiuso per sempre. Il Cie di Bologna è stato svuotato la scorsa settimana per lavori di ristrutturazione e molte voci ora chiedono che non venga più riaperto. Il ministero dell’interno ha stanziato 150mila euro dopo la visita dell’Ausl e un rapporto agghiacciante che conferma che nell’ex caserma Chiarini non vengono rispettati neanche gli standard minimi di dignità umana: chi ha visitato il Cie in questi mesi ha parlato di mancato rispetto di diritti umani.
Il sindaco Virginio Merola, entrato nel Cie a fine gennaio, ha parlato di “un cuore di tenebra”, “un settore speciale di punizione che non ha alcun senso” che, più che un centro di identificazione ed espulsione dall’Italia, è un luogo di “espulsione alla condizione umana”. L’ultima voce chiederne la chiusura definitiva in questi ultimi giorni è stata quella della Cgil che denuncia anche che gli operatori di Cie di Bologna e Modena non vengono pagati per mesi.
“Mancati interventi strutturali di natura idraulica, muraria, elettrica e igienico-sanitaria” si legge nel rapporto Ausl e significa che chi stava nel Cie era senza riscaldamento, con le finestre rotte che non vengono riparate e quando deve andare in bagno deve immergere camminare in una fogna a cielo aperto. A questo vanno aggiunti 4 casi di sospetta scabbia e la la mancata consegna regolare di indumenti, biancheria e prodotti per l’igiene da parte del nuovo ente gestore, il consorzio Oasi.
Di fronte a questo inferno il 2 marzo due internati hanno messo in atto l’ultima di una serie di proteste ed atti di autolesionismo che hanno contrassegnato il centro di via Mattei nei suoi 11 anni di vita: si sono cuciti le labbra con del filo per iniziare un estremo sciopero della fame. Un uomo e una donna, che non si conoscono, che erano detenuti in zone separate del Cie, ma che contemporaneamente prendono la stesa decisione perché, dicono chiaramente “Qui non ci dovrei stare”. Lei è malata e al Cie non ha l’adeguata assistenza, lui è finito al Cie dopo la detenzione in carcere, un supplemento di pena per il fatto di essere in terra straniera. Entrambi sono stati trasferiti, insieme a tutti gli altri detenuti, per lasciare vuoto il Cie di bologna.
Bastano 150mila euro per mettere a nuovo il Cie? La risposta, lampante, è no.
La cifra è esigua se confrontata con i 775mila euro stanziati nel 2006. Il 6 ottobre di quell’anno la Commissione di inchiesta e monitoraggio dei CPT italiani, istituita dal Ministero dell’Interno e presieduta da Stephan De Mistura, aveva visitato l’ex Caserma Chiarini e, nel rapporto che ne è scaturito, il CPT veniva “bocciato” perché risultava essere “il più invivibile d’Italia”. La motivazione, in quel caso era la presenza di “troppe sbarre” che rendevano il luogo claustrofobico: allora le sbarre del centro coprivano il cielo anche degli spazi aperti, con effetto “pollo in batteria”.
I 150mila euro non andranno inoltre ad intaccare la nuova gestione del centro: il consorzio Oasi è subentrato a fine 2012 alla Misericordia di Giovanardi con una gara al massimo ribasso: 28 euro per ogni detenuto, contro i 72 della vecchia gestione, e i 115 circa del carcere. Un taglio che colpisce direttamente la vita quotidiana dei migranti a cui non vengono consegnate coperte, biancheria intima, prodotti per la pulizia e che consegna le loro vite alla costrizione del nulla. Non ci sono attività all’interno del Cie, di nessun tipo, e per affrontare i mesi di attesa inutile molti migranti finiscono per diventare dipendenti dagli psicofarmaci. Finestre riparate e autospurghi per i bagni non miglioreranno la vita di chi, se dovesse riaprire il cie, per 18 mesi è costretto a dormire su letti di muratura, con lenzuola ignifughe con la certezza, poi, della deportazione o del foglio di via.
Dopo l’assegnazione dell’appalto in via provvisoria da parte del provveditorato alle opere pubbliche oggi, lunedì 11 marzo, nel Cie di Bologna dovrebbe partire il cantiere. La speranza di molti sta tutta nelle parole della garante regionale dei detenuti Desi Bruno: “I tempi potrebbero allungarsi” e “mai occasione come questa per chiudere definitivamente questa fallimentare gestione dell’immmigrazione”.
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In carcere dal 16 novembre scorso, con l’accusa di aver promosso e fatto parte di un gruppo che aveva tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, non rinuncia a propagandare, dalla sua cella di isolamento, a Regina Coeli, idee negazioniste sull’Olocausto. E ad offendere la memoria di Shlomo Venezia, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, ma anche ad insultare Luca Tescaroli, il pubblico ministero del processo, che viene definito “ignorante”. Mirko Viola, 42 anni di Como, legato agli ambienti di Forza Nuova, è stato arrestato in seguito alle indagini della Polizia postale e della Digos, che hanno permesso di smantellare, dopo attente intercettazioni telefoniche e telematiche, il forum neonazista Stormfront. Insieme a lui sono finiti in carcere altri tre neonazisti, che saranno processati con rito abbreviato: la prima udienza è stata fissata a Roma il prossimo 28 marzo.
NEGAZIONISMO
Ma se alcuni degli imputati hanno fatto una parziale retromarcia, arrivando anche a scusarsi con alcune delle personalità (tra queste il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il ministro Andrea Riccardi) che avevano insultato a più riprese sul forum, Viola, meglio noto sul forum con il nickname “biomirko”, ha continuato a diffondere, dal carcere, le sue folli tesi neonaziste. E a sostenere di essere vittima di una persecuzione. Nelle quattro lettere diffuse, tramite un avvocato, su alcuni forum neofascisti e blog, il militante di Forza Nuova – già autore, tra le altre cose, di un documentario in cui negava la Shoah – oltraggia la memoria di Venezia (scomparso nell’ottobre dello scorso anno), definendolo un “bugiardo” e tentando di contestare i dati ufficiali relativi allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
“I ricercatori revisionisti hanno dimostrato che la testimonianza di Venezia è una ridicola panzana”, sostiene Viola, che parla di una “patetica glorificazione mediatica di un bugiardo”, che non serve a “rendere vere le sue menzogne”. Offese che vengono condite anche da considerazioni antisemite. Sarebbe stata, infatti, una fantomatica lobby ebraica, d’intesa con la magistratura, ad averlo perseguitato, per aver “dimostrato che i vari Shlomo Venezia, ElieWiesel e Simon Wiesenthal sono stati dei truffatori”.
Viola, che si definisce “compiutamente fascista, ovvero nazionalsocialista”, lascia anche intendere di volere continuare ad occuparsi di teorie negazioniste, una volta che i giudici gli avranno concesso gli arresti domiciliari: “I miei ideali si sono rafforzati durante la carcerazione: onestà, onore, rispetto per me stesso e ricerca della verità non ce l’hanno fatta a togliermi tutto questo. Non basta privare la libertà ad un uomo per trasformarlo in una pecora”. Del pm Tescaroli scrive che preferisce sorvolare “sulla sua macroscopica e crassa ignoranza”.
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diffondiamo da informa-azione
Carcere come punizione. Che sia per ammonire chi ancora non dissuaso dall’idea del “crimine paga”, che sia per stroncare i riottosi alle pubbliche leggi, che sia semplicemente perché così funziona un’istituzione che rinchiude. Il carcere quello fatto di soprusi, angherie, umiliazioni è fatto di vetri che dividono affetti, minuti di incontro, per chi può, strappati alla costruita monotonia quotidiana, di burocrazia, di censura della posta, di isolamento, di botte.
In questi giorni Sergio, un compagno detenuto in AS2 e trasferito da pochi giorni da Alessandria a Ferrara, è in sciopero della fame da settimane per essersi visto negare i colloqui con la sua compagna.
Maddalena, una compagna detenuta ad Agrigento, subisce da mesi le pressanti attenzioni dei secondini di turno, senza piegare la testa ed è anche lei in sciopero della fame per il continuo regime d’isolamento a cui è sottoposta.
“Normale amministrazione” per chi distribuisce anni di galera e per chi quelle galere le gestisce. Noi che vogliamo vedere radere al suolo ogni forma di reclusione e ogni spasimo di autorità non ci abitueremo mai alla normale amministrazione.
Rinnoviamo la nostra solidarietà e la nostra complicità per i compagn* rinchiusi in AS2 e a tutt* i prigionier* che non piegano la testa di fronte a questo esistente.
Cassa antirepressione Alpi occidentali
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Como, 10 marzo 2013 – Lenzuola annodate e nascoste sotto una branda, all’interno di una cella dellasezione Alta Sicurezza della casa circondariale Bassone di Como. La scoperta è stata fatta nei giorni scorsi dagli agenti di polizia penitenziaria, che hanno immediatamente messo sotto sequestro quanto ritrovato.
Otto metri di lenzuola già annodate, occultate in un angolo, sotto una branda, al terzo piano della struttura penitenziaria. La cella è occupata da tre albanesi, che, evidentemente, stavano programmando da tempo l’evasione. Approfittando anche del fatto, particolarmente favorevole in questo momento, che l’impianto di illuminazione perimetrale del Bassone è fuori uso e che, quindi, l’intera struttura nelle ore notturne è avvolta nel buio. La finestra della cella si affaccia sulla parte laterale del carcere, sopra il campo da calcio interno. Una volta scesi in quella zona, i tre evasi avrebbero raggiunto l’esterno con estrema facilità. Arrivare a collezionare tre o quattro lenzuola è un’impresa lenta e non facile, perché tutto ciò che riguarda la dotazione dei detenuti è attentamente sorvegliato. L’unica possibilità di fare sparire e accantonare biancheria è approfittare delle scarcerazioni, quando un detenuto abbandona la cella e si crea l’unico momento in cui la sua dotazione può essere distratta.
Evidentemente, i tre erano riusciti ad approfittare di questa stratagemma in tre o quattro casi, forse già sufficienti a coprire l’altezza dalla loro finestra fino a terra. Difficile, ma non impossibile, è anche recuperare delle lime per tagliare le sbarre. Finora sono stati utilizzati dei sistemi di indebolimento delle sbarre molto classici: lime molto fini, chiamate “capelli d’angelo”, che possono arrivare al detenuto durante i colloqui, approfittando di momenti di distrazione dell’agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza o quando l’agente è concentrato su altri detenuti.
Infatti, un solo effettivo ha il compito di osservare più postazioni di colloquio e trovare un momento nel quale passarsi un oggetto non è impossibile. Con un pezzo di nastro adesivo, il sottile ma resistente filo metallico viene attaccato alla pelle sotto gli abiti, fino ad arrivare in cella. Da quel momento in avanti, incomincia un lentissimo lavoro di limatura delle sbarre, svolto in orari notturni quando la sorveglianza è meno pressante, che tuttavia devono rimanere al loro posto fino all’ultimo momento. Una fase che, nella cella in cui sono state trovate le tre lenzuola, pare che non fosse già iniziata. Nessun reato può essere contestato ai 3 albanesi occupanti la cella.
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REGGIO EMILIA – Caccia all’uomo oggi pomeriggio in via Cella all’Oldo dove un clandestino tunisino, fuggito dall’auto di servizio della polizia durante un trasferimento da Novara al Cie (Centro di identificazione e di espulsione) di Modena, è stato catturato dagli agenti dopo un concitato inseguimento. Erano circa le 17 quando il tunisino, clandestino e con precedenti di polizia, fingendo un malore ha fatto fermare la macchina su cui viaggiava in una piazzola di sosta sulla A1 e poi, dopo aver finto uno svenimento, ha dato un calcio a un poliziotto ed è fuggito per le campagne circostanti.
I due agenti della polizia penitenziaria di Novara hanno chiamato la questura di Reggio e, insieme agli agenti reggiani arrivati sul posto, hanno circondato la zona. Dopo circa mezz’ora sono riusciti a localizzare il fuggiasco che si era nascosto in un porcile dietro un cumulo di letame alto due metri di altezza, usato per concime agricolo, e sono riusciti a bloccarlo. L’immigrato è stato portato in questura e poi ha continuato il suo viaggio verso il Cie di Modena con i poliziotti reggiani, mentre gli agenti di Novara sono stati accompagnati al pronto soccorso del Santa Maria per le lievi ferite riportate nel corso della colluttazione. Il clandestino sarà quindi denunciato per resistenza a pubblico ufficiale.
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Nel marzo 2013 George è stato condannato a 12 mesi di carcere per danneggiamenti alla pista per levrieri dello Stadio di Coventry e per un tentativo di liberazione di topi dall’Università di Warwick. Mandiamogli una lettera di supporto!
George House #A5822CW
Werrington YOI
Werrington
Stoke-On-Trent
ST9 0DX
UNITED KINGDOM
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Sale la tensione ed il rapporto polizia-detenuti si fa ogni giorno più difficile. Al Bassone di Albate, lo denunciano i sindacati del settore, la situazione è più che mai esplosiva e lo conferma anche l’ultimo episodio: tra giovedì e ieri, infatti, un ispettore è finito all’ospedale perchè aggredito da un detenuto al collo. Quasi strangolato per essere intervenuti, in una cella di sua competenza da curare, a riportare la calma dopo una rissa tra detenuti. Per l’agente è stato necessario il ricovero al pronto soccorso del Sant’Anna: ora è a casa in convalescenza.
«Questo episodio – per i rappresentanti sindacali della Cisl – dà l’idea dell’esplosività della situazione. Basti pensare che, stando alla pianta organica, gli agenti in servizio dovrebbero essere quasi 400 e invece ne mancano 80. In compenso, i detenuti sono 530 in questi giorni: il loro numero massimo, secondo quanto stabilito dal Ministero, non dovrebbe superare i 300″. Squlibrio evidente con inevitabili ripercussioni.
Ad aggravare la situazione anche un giovane albanese che, approfittando di un permesso premio in questi giorni, non ha fatto più rientro in carcere alla sera. Lo stanno ancora aspettando. Di fatto è diventato un latitante.
Fonte
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Padre Giorgio Gamba, un missionario monfortiano da anni in Malawi in cui si occupa in particolare della dignità dei detenuti, lancia l’allarme sulla condizione in cui versano le carceri del Paese, dove da giorni non arrivano viveri. Notizie sulla situazione – riportate dalla Misna – sono state diffuse anche sui giornali locali. I media hanno ricordato come la società nazionale che gestisce la distribuzione interna dei prodotti agricoli si fosse impegnata per la consegna nelle carceri di settemila sacchi di grano che non sono mai arrivati, mettendo a rischio la sopravvivenza di 13 mila reclusi. Secondo il direttore del sistema carcerario del Paese africano, Kennedy Nkhoma, se le scorte dovessero arrivare, sarebbero appena sufficienti a colmare un deficit legato, da una parte, a una riduzione delle consegne governative, e dall’altra al forte aumento dei prezzi che le derrate hanno registrato sui mercati. In un anno, infatti, le consegne sono diminuite del 57% e contemporaneamente, a causa dei cattivi raccolti, il prezzo di un sacco da 50 kg di grano è passato da 4500 a 10 mila kwacha, più o meno da 9 a 20 euro.
Commenti disabilitati su Malawi. Emergenza carceri: 13 mila detenuti a rischio per mancanza di cibo | tags: anticarceraria, carcere, CordaTesa, detenuti, emergenza cibo, malawi, mancanza di cibo | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Attentato Adinolfi: restano in carcere i due anarchici insurrezionalisti
Genova. Restano in carcere Nicola Gai e Alfredo Coppito, i due anarchici insurrezionalisti accusati dell’attentato all’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, del 7 maggio scorso a Genova.
La seconda sezione penale della Cassazione ha infatti rigettato il ricorso della difesa dei due.
Gai e Coppito sono detenuti nel carcere di Sanremo dopo l’arresto avvenuto il 14 settembre dello scorso anno.
Repressione – Nuovo 270 bis per Anna Beniamino
AGGIORNAMENTI SU REPRESSIONE – 7 marzo. Mi è stato notificato stamattina, da quattro ceffi di Ros e Digos di Genova, l’ avviso di garanzia per
”270 bis c.p.p. (partecipazione ad una associazione che si propone atti di violenza contro persone, quali Roberto Adinolfi ed istituzioni con finalità di terrorismo ed eversione del’ ordine democratico )” oltre all’ accusa di porto in luogo pubblico o aperto di armi da fuoco (accertato il gennaio 2013 ).
In questo nuovo procedimento siamo indagati Alfredo, Nicola ed io. Contestualmente è stato notificato il sequestro delle armi da fuoco di proprietà del padre di Nicola, regolarmente denunciate e già presenti nel corso delle scorse perquisizioni. L’acrobazia inquisitoria è la seguente: in sede di incidente probatorio su due caschi sequestrati a casa di Nicola, è stato verificato che erano presenti tracce di polvere da sparo non compatibili con il munizionamento utilizzato nel ferimento Adinolfi, tali tracce presupporrebbero che i caschi fossero utilizzati con altre armi ovvero quelle in disponibilità del padre che verranno ora fatte oggetto di perizia. Traduzione di tutto questo: che le perizie hanno avuto esito negativo, visto che sto continuando ad aggiornare sulla situazione repressiva in corso e a solidarizzare con i compagni in carcere ad Alessandria ed altrove , visto che il procedimento x 280 cp. per Nicola ed Alfredo è in procinto di chiudersi per fine indagini, quindi dovrebbero finalmente concedermi i colloqui con Alfredo, arriva puntuale questa ennesima forma di pressione dalla procura genovese. Se il tentativo è quello di spezzare la solidarietà tra noi sappiano che non ci riusciranno ,ne ora ne mai .Solidarietà ad Alfredo, Nicola ed a tutti i compagni in carcere, in Italia e ogni dove…
Per l’ anarchia.
Anna Beniamino
per contatti: nidieunimaitres@gmail.com
Prigionieri – Sergio, Stefano e Alessandro trasferiti da Alessandria a Ferrara
Sergio, Stefano e Alessandro , per iniziativa della Procura di Milano (seppure la stessa non abbia ancora emesso un mandato di cattura nei confronti di quest’ultimo ),sono stati trasferiti oggi 6 marzo nel carcere di Ferrara. Sembra che il senso sia quello di evitare rapporti tra loro tre e Alfredo e Nicola, detenuti anche loro nella sezione AS2 di Alessandria.
Sergio Maria Stefani,
Stefano Gabriele Fosco,
Alessandro Settepani
C.C. Via Arginone, 327
44122 Ferrara
La competenza per il processo è passata per Stefano, Elisa, Sergio e Giuseppe alla Procura di Milano. Per i primi tre c’è già stato il riesame (per Giuseppe ci sarà a fine mese) che ha dato esito negativo per la loro scarcerazione.
Per Sergio al Tribunale della Libertà di Milano è caduto il punto B dell’ordinanza di custodia cautelare (attentati alla Bocconi e al direttore del Cie di Gradisca) ed è stato introdotto il reato di istigazione a delinquere adducendo come prova gli scritti, i comunicati, le lettere diffuse dal compagno durante la precedente carcerazione per l’operazione Shadow. Ieri c’è stata anche l’udienza per decidere se potrà avere finalmente i colloqui con Katia, cosa per cui è ancora in sciopero della fame.
Per Stefano ed Elisa in sede di riesame è caduto il 280 mentre sono rimasti il 270 e l’istigazione a delinquere. Le motivazioni addotte in sede di riesame per tenerli in carcere riguardano principalmente l’attività del blog Culmine, attraverso il quale gli inquirenti sostengono di aver riscontrato il “contributo ideologico” alla presunta associazione sovversiva, il “superamento dei limiti di comunicazione e conoscenza” oltre a mettere sotto accusa la solidarietà e il supporto ai prigionieri.
Per Paola, Giulia, e Alessandro è arrivata la notifica di chiusura delle indagini per quanto riguarda il 270 avente base in Perugia.
La Cassazione per Alessandro ha stabilito che per entrambe le associazioni la competenza territoriale è della procura di Perugia.
In attesa di ulteriori aggiornamenti.
Cassa di solidarietà Aracnide
Lettera e aggiornamenti da Madda
Petrusa,19/02/13
Ciao Compà,
scusate il ritardo nel confermarvi l’arrivo del materiale richiesto, è perchè ho finito le buste e solo oggi mi sono arrivate! Beddi, vedete che qui mi stan facendo troppo incazzare. Di ciò che vi avevo richiesto, han lasciato entrare solamente il codice, il mio scritto impaginato e alcuni fogli di giornale, mentre il resto è fermo in direzione, in attesa di una decisione. Stessa cosa vale per l’opuscolo di OLGA.
A causa del procedimento aperto dal carcere palermitano (per ciò che è accaduto negli ultimi mesi), ci sono indagini in corso, e ho capito che con questo pretesto han bloccato tutto. Come se bloccare dei libri potesse essere“utile alle indagini”, o “prevenire reati” o garantire la “sicurezza interna”! Ora, io ho fatto richiesta di parlare con chi me li ha bloccati (il direttore) e vediamo… Se a giorni non si presenta mi muoverò in altri modi… Con calma utilizzo le loro fottute formalità (che tanto so già che mai portano a qualcosa) solo perchè così non possono dire che non ci ho provato… Anche perché in nessun altro carcere mi han mai trattenuto libri (neanche sotto le varie censure) […]
Comunque, oltre a tutto questo, ancora sto in isolamento… Mi han dato altri dieci giorni dopo i quindici accollatami appena finito il 14 bis, per una zuffa con le guardie a Palermo (che ha portato a questo trasferimento. Pensare che avevo sperato che cambiando aria avrei preso un attimo di respiro, e invece…)… Inutile pensare a queste cose in certi luoghi! Qua non la vedo tanto differente da Palermo… Già se inizia così! Ma…
Comunque, il giorno 25 febbraio ho udienza a Trapani e chiederò i domiciliari in Sardegna. Quindi aspetto a vedere che deciderà ‘sto giudice! […] Ora mi pare di essere nuovamente al 14 bis, non avendo, oltre al fornellino, nemmeno la tv, che per un incidente è da sistemare ( e mi vogliono pure far pagare il danno!). […]
Qua la struttura è piccola, poche detenute (le ho viste solidali però!) il freddo costante come in ogni carcere e il trattamento riservatomi è il medesimo da AS2, con le solite dinamiche interne di minaccia di rapporto. Me ne hanno accollato uno per una stronzata che se ve la racconto non si sa se ridere o piangere! […]
Ah, in questo carcere non fanno entrare i bolli per corrispondenza, così se volete rigirare questo fatto oltre alla situazione esposta sopra mi fareste un piacere. […]
Chiudo con una forte stretta sempre colma d’odio per chi reprime
e d’amore per la completa Libertà
Madda
Da una successiva lettera, datata il 4 marzo, apprendiamo che si trova attualmente in sciopero della fame. Dopo essere stata trasferita dal Pagliarelli di Palermo al carcere di Petrusa, sta scontando ancora un ciclo di 8 giorni di isolamento, dopo averne già fatti prima 15 e poi in 10 (in tutto ormai un mese!). Due settimane fa ha chiesto di parlare con il direttore, al fine di ricevere chiarimenti circa questo prolungarsi della misura punitiva: vuole accertarsi di non essere ancora in isolamento per fatti già scontati, visto che i procedimenti sono tutti partiti da Palermo. Non avendo ancora ottenuto la possibilità di parlare con il direttore, è entrata in sciopero della fame dal giorno 28 febbraio.
Cassa Antirepressione delle Alpi Occidentali
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AVELLINO – Colpito da arresto cardiocircolatorio, un detenuto del carcere di Bellizzi è stato salvato dalla Polizia Penitenziaria. L’episodio a poche ore dalla violenta aggressione ad una agente. Apprezzamento è stato espresso dal Sappe ai colleghi del reparto «che con il loro tempestivo intervento hanno salvato la vita ad un detenuto, intervenendo immediatamente». Un intervento determinante, che ha consentito al medico e al personale infermieristico del presidio ospedaliero di attivare il defibrillatore e rianimare l’uomo, permettendo al cuore di tornare a battere.
«Nell’istituto è immediatamente giunto il personale del 118 e l’uomo, poco più che quarantenne, è stato condotto all’Ospedale Moscati di Avellino, in pronto soccorso per essere sottoposto ad un delicato intervento al cuore e adesso, seppur le condizioni sono gravi, si trova fuori pericolo di vita».
Donato Capece, segretario generale del Sappe chiederà all’Amministrazione penitenziaria di Roma una adeguata ricompensa (lode o encomio) al Personale di Polizia che è intervenuto per salvare la vita al detenuto. «Si è trattato di un gesto eroico, da valorizzare, che nelle carceri italiane accade con drammatica periodicità: si pensi che nel 2011 e 2012 la Polizia Penitenziaria ha sventato oltre 2.000 tentativi di suicidio di detenuti e impedito che più di 10mila atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze».
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Roma, 5 mar – «Nel 2012 la polizia penitenziaria ha effettuato 176.836 servizi di traduzione per un totale di 358.304 detenuti tradotti per un costo complessivo che si può prefigurare tra i 40/45 milioni di euro».
Lo dichiara Eugenio SARNO, Segretario Generale della UILPA Penitenziari, che illustra nel dettaglio l’enorme movimentazione di detenuti.
«I detenuti tradotti per motivi di giustizia sono stati 214.980, quelli tradotti per motivi sanitari 82.422, per assegnazione di sede 56.307, per permessi con scorta 4.595. Le traduzioni effettuate in ambito extraregionale sono state 22.309, in ambito regionale 57.024, in ambito locale 97.773. Le traduzioni con autoveicoli 169.308 , quelle per via aerea 4166, per via mare 444, pedonali 2919. I detenuti tradotti classificati comuni o a media sicurezza – prosegue SARNO – sono stati 272.839, quelli classificati ad Alta Sicurezza 76.644, i detenuti tradotti e sottoposti al 41-bis sono stati 1.293, i collaboratori di giustizia o loro familiari 3.647, gli internati 3.876».
Dalla comparazione dei dati emergono aspetti particolarmente inquietanti, sia in relazione alla sicurezza che in relazione ai costi di gestione.
«A regolamento vigente quei circa 360mila detenuti tradotti avrebbero dovuto prevedere un impiego di non meno di 800mila unità di polizia penitenziaria (almeno 2 unità per i comuni, almeno 3 per gli Alta Sicurezza, almeno 4 per i 41-bis) con una media di 2,2 unità per ogni detenuto tradotto. Invece le unità di polizia penitenziaria impiegate in servizi di scorta sono state 554.354 con una media di 1,5 unità di polizia penitenziaria per detenuto tradotto. Va segnalato, però, che tale media (già penalizzante) si riduce notevolmente in alcune realtà territoriali. In Campania (terra di camorra) la media risulta essere di 1,2 unità per detenuto; Nel Lazio 1,3 ; In Calabria (terra di ndrangheta) 1,4. Tra l’altro ci pare poter affermare – sottolinea il Segretario Generale della UILPA Penitenziari – che una adeguata politica di investimenti e di gestione potrebbe abbattere considerevolmente i costi, a partire da un piano carceri che consegua l’obiettivo di abbattere le traduzioni a lungo percorso. Per questo non possiamo non ribadire il nostro convincimento che occorrerebbe prevedere la costruzione di nuove carceri nelle macro-aree di Milano, Napoli, Roma e Palermo. Purtroppo del piano carceri abbiamo perso ogni traccia, anche perché inopinatamente assegnato ad un Commissario Straordinario esterno all’Amministrazione Penitenziaria. Considerato che circa il 60% delle traduzioni viene effettuato per motivi di giustizia sarebbe opportuno prevedere l’implementazione dei servizi di video-conferenza. Servizi, oggi, previsti solo per i 41-bis ( ma non sempre funzionali ed attivi)».
«Analogamente – sottolinea Eugenio SARNO – una qualche considerazione va svolta sull’esorbitante numero di detenuti tradotti per motivi sanitari. Se è vero, come è vero, che circa 71mila detenuti sono stati movimentati per visite ambulatoriali e che in moltissime realtà penitenziarie gli ambulatori (pur attrezzati) sono stati chiusi, forse sarebbe il caso di rivedere tali decisioni ed affermare un modello per cui è lo specialista a recarsi in carcere e non il detenuto ( con conseguente movimento di uomini e mezzi ) a recarsi in strutture esterne replicanti i laboratori già presenti in istituto. In questo quadro desolante ed allarmante è doveroso informare che circa l’85% degli automezzi della Polizia Penitenziaria destinati alle traduzioni è da considerarsi illegale perché privo dei collaudi di affidabilità o perché quei collaudi non sono stati superati. Nonostante ciò i baschi blu continuano ad assicurare, a loro rischio e pericolo, i servizi per garantire il diritto alla difesa ed alla salute dei detenuti. Per questo condividiamo il giudizio del Ministro Severino, che più volte ha definito eroi le donne e gli uomini della polizia penitenziaria. Ma agli eroi, prima o poi – chiosa polemicamente SARNO – devono anche essere assicurati mezzi, strumenti e diritti».
Commenti disabilitati su Carceri: nel 2012 tradotti 358mila detenuti, per un costo di 40 milioni | tags: anticarceraria, carcere, CordaTesa, costi detenuti, detenuti, economia carceraria, situazione carceraria, sprechi, trasporto detenuti | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Genova. Il Tribunale di Sorveglianza di Genova dal 10 aprile prossimo sarà chiamato a decidere le modalità con le quali i 17 alti funzionari della Polizia di Stato condannati in via definitiva per falso e calunnia nel processo Diaz dovranno scontare la pena (dagli otto mesi all’anno, per effetto dell’indulto che ha cancellato tre anni).
Le alternative teoriche sono la detenzione in carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare.
La Corte di Cassazione, nella sentenza emessa il 6 luglio scorso, aveva usato espressioni molto dure contro di loro, negando la concessione delle attenuanti generiche e sottolineando “l’assenza di qualunque segno di resipiscenza”, cioè di pentimento rispetto al reato commesso.
Se è vero che essendo i funzionari tutti incensurati sembra piuttosto probabile che la misura prescelta dal Tribunale di sorveglianza sia l’affidamento in prova, una recente decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha disposto il carcere per gli agenti condannati per l’omicidio colposo di Federico Aldovrandi (comunque non espulsi dalla Polizia) costituisce un recente precedente che può preoccupare i condannati.
Le udienze (non pubbliche) davanti al Tribunale di Sorveglianza potrebbero essere anche l’occasione per sapere, in assenza di ogni comunicazione da parte del Ministero dell’Interno, se i funzionari condannati sono stati espulsi dalla Polizia o solo sospesi con la possibilità di farvi rientro, come è stato finora per tutti gli altri nove poliziotti condannati in via definitiva in altri processi del G8 di Genova, che hanno conservato il loro posto di lavoro, nonostante la sospensione imposta per via giudiziaria (interdizione temporanea dai pubblici uffici) dalle sentenze di condanna.
Inoltre, per quanto riguarda il processo Diaz gli altri 8 agenti condannati solo per lesioni gravi con pena poi prescritta (tutti appartenenti al disciolto settimo nucleo del I reparto mobile di Roma, quello comandato da Vincenzo Canterini) molto probabilmente non hanno subito né subieranno alcun procedimento disciplinare (facoltativo, in questo caso) e continueranno quindi il loro servizio in Polizia senza alcuna conseguenza per la mattanza di quella notte.
Le parti civili del processo Diaz lamentano la assoluta mancanza di assunzione di responsabilità e di scuse da parte dei condannati. A livello istituzionale c’è stata solo la frase dell’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli, dopo la sentenza di Cassazione (“ora è il tempo delle scuse”), bilanciata però dall’espressione di personale solidarietà per i condannati espressa dall’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Le parti civili sottolineano anche come tutti i risarcimenti siano stati pagati dal ministero e vi sia la concreta possibilità , vista una legge approvata dal 2010, che non vengano mai richiesti ai condannati.
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Commenti disabilitati su Diaz, carcere o pene alternative per i poliziotti condannati: ad aprile la decisione, ma dalla polizia silenzio sui provvedimenti disciplinari | tags: anticarceraria, carcere, CordaTesa, diaz, g8 genova, genova, genova 2001, mattanza, processo contro polizia, scuola diaz | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Tutti
Che la situazione nelle carceri pugliesi e nazionali stia diventando sempre più preoccupante lo stanno a dimostrare i fatti che si susseguono in maniera impressionante e che svelano un malessere che ormai non è più possibile arginare, se non grazie all’eroico sacrificio della Polizia Penitenziaria lasciata sola dall’Amministrazione penitenziaria prima, e dalla politica poi, a fronteggiare una situazione sempre più drammatica.
Il primo episodio è accaduto verso le ore 14 circa di ieri 6 Marzo durante l’ora d’aria un detenuto straniero di circa 30 anni circa in attesa di giudizio per molestie, ha scavalcato il muro di recinzione dei passeggi per tentare di evadere dal carcere.
Resosi conto di quanto stava accadendo gli agenti di servizio al controllo dei passeggi sono prontamente intervenuti con una scala e sono andati a fermare il detenuto che resosi conto di essere stato scoperto non ha opposto resistenza.
L’atro episodio è accaduto esattamente a dodici ore di distanza verso le ore 2 di questa notte quando, grazie al pronto intervento dell’agente addetto al controllo della sezione è stato evitato un suicidio di un detenuto italiano di circa 40 anni condannato a cinque anni di reclusione per reato vari, il quale aveva tentato di impiccarsi con una corda ricavata da un lenzuolo alla finestra della stanza.
Il SAPPE , sindacato autonomo polizia penitenziaria da tempo sta denunciando, tra l’indifferenza dei vertici del DAP che continuano a giocare alla “vigilanza dinamica” oppure studiano patti di responsabilità con i detenuti dimenticando che il carcere non è un convento di suore di clarisse, che la situazione non è più sopportabile ed è pronta ad esplodere con effetti deflagranti per tutti se non si pongono i dovuti rimedi.
A Foggia per esempio circa 680 detenuti per appena 380 posti disponibili ed una carenza di almeno 50 poliziotti penitenziari, la situazione è preoccupante e si continua a chiedere ai lavoratori della Polizia Penitenziaria che percepiscono stipendi da fame, sacrifici sempre più gravi , mentre nelle ovattate stanze ministeriali dirigenti pagati decine di migliaia di euro pensano a tutt’altro.
Come si diceva prima se la situazione non è esplosa è grazie al coraggio ed all’abnegazione dei poliziotti penitenziari che ultimante proprio a Foggia come in altre carceri, sono stati fatti oggetti di aggressione con gravi ripercussioni sull’incolumità personale.
A questi eroi nascosti che fanno un lavoro oscuro e pericolosissimo il SAPPE esprime il proprio ringraziamento considerato che sono figli ripudiati da un amministrazione penitenziaria ingrata, pronta a punire per il minimo errore ma che si dimentica del sacrificio e della professionalità di migliaia di lavoratori che dovrebbe ringraziare e premiare ogni giorno, per quello che fanno a tutela della legalità e delle istituzioni.
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PESCARA – Ha preso una bomboletta di gas da campeggio e ha deciso di suicidarsi. E’ successo nel carcere di Pescara, dove un detenuto straniero, la scorsa notte, e’ andato in bagno e’ si e’ tolto la vita.
Ad accorgersi dell’accaduto sono stati i compagni di cella che, questa mattina, si sono insospettiti dell’assenza dell’uomo e hanno dato l’allarme.
Il detenuto, stando a quanto si apprende, gia’ in passato aveva tentato di togliersi la vita tagliandosi le vene.
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I famigerati “campi di prigionia” esistenti in Corea del Nord, dove sono detenuti oltre 200mila prigionieri politici e dissidenti, per motivi di coscienza e anche di religione, si ingrandiscono e vanno a inglobare i villaggi circostanti: è quanto denuncia Amnesty International, dopo l’analisi di nuove immagini satellitari. In un comunicato inviato a Fides, Amnesty rinnova la richiesta alle Nazioni Unite di “istituire una commissione indipendente d’inchiesta sulle gravi, sistematiche e diffuse violazioni dei diritti umani, compresi crimini contro l’umanità, in corso nel Paese”. Nei mesi scorsi l’Ong aveva ricevuto notizie sulla possibile costruzione di un nuovo “Kwanliso” (campo di prigionia politica), adiacente al campo n. 14 di Kaechon, nella provincia di Pyongan Sud. Per questo Amnesty aveva chiesto alla società “DigitalGlobe” di fornire immagini satellitari. L’analisi delle immagini rivela che, dal 2006 al febbraio 2013, la Corea del Nord ha costruito 20 chilometri di perimetro intorno alla valle di Ch’oma-bong (70 km a nordest della capitale Pyongyang) e ai suoi abitanti, con nuovi punti d’accesso controllati e con torri di guardia. Gli analisti hanno anche individuato la costruzione di nuovi edifici che potrebbero essere dormitori per operai, forse collegati all’espansione dell’attività mineraria nella regione. In tal modo il governo “rafforza i controlli sul movimento della popolazione (oltre 100mila persone) che vive nei pressi del campo n. 14, annullando, di fatto, la distinzione tra i detenuti del campo di prigionia e gli abitanti della valle”, nota il comunicato. Amnesty International è “preoccupata per le condizioni di vita della popolazione residente all’interno del nuovo perimetro e per le future intenzioni del governo nordcoreano”. Si stima che oltre 200mila persone, compresi bambini, sono detenute nei campi di prigionia politica e in altri Centri di detenzione della Corea del Nord, sottoposte a violazioni dei diritti umani, come l’obbligo di svolgere lavori pesanti, il diniego del cibo come forma di punizione, la tortura e altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Molti detenuti non hanno commesso alcun reato, e sono unicamente legati a persone ritenute infedeli al regime, dunque sottoposte a una sorta di “punizione collettiva”.
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Nicholas Webber, sebbene giovanissimo, ha una consolidata e variegata esperienza di criminale informatico. Ed è riuscito a dimostrare le proprie abilità anche in carcere.
Nel 2011 Nicholas Webber finisce in galera, condannato a cinque anni di reclusione, per aver realizzato un sito web con cui ha portato a compimento frodi per milioni di euro.
Ma nella prigione HMP Isis, situata nel sud di Londra, i detenuti partecipano a programmi di formazione tecnologica. Ed è toccato anche a Webber. Peccato che il suo curriculum sia ricco di crimini informatici.
In sostanza Webber è riuscito a violare le protezioni del main frame del carcere e a penetrarvi, facendo scattare l’allarme sicurezza durante una lezione.
Il suo insegnante, Michael Fox, è stato allontanato dalla prigione ed è iniziata la procedura di licenziamento per giusta causa davanti al giudice del lavoro di Croydon. Fox ha sempre dichiarato di non essere a conoscenza del background di Webber, che per altro non avrebbe dovuto trovarsi in quella classe.
L’incidente si è verificato ad un anno dall’apertura del carcere. 110 milioni di sterline spese non hanno però impedito il verificarsi di una serie di malfunzionamenti. In primis i problemi al sistema di riconoscimento biometrico dei detenuti. Infatti, ognuno di essi deve lasciare la propria impronta digitale elettronica ad ogni spostamento all’interno della struttura.
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Dovrebbero venir chiusi il 31 marzo. Ma mancano le nuove strutture. Un saggio pubblicato in Brasile racconta come superare la realtà degli Opg: giudicare l’imputato e rivedere il concetto di pericolosità. In Italia, alla vigilia della chiusura, siamo ancora indietro.
Non era questione nei programmi elettorali, perché una legge c’è. Ma potrebbe essere questione per il prossimo governo, un prova a proposito di diritti, democrazia, rispetto della costituzione, civiltà. Il tempo a disposizione è breve. Sembra un paradosso la fretta che entra in una istituzione immobile, chiusa attorno a persone che hanno perso ogni diritto, anche quello di contare, cioè misurare, il proprio tempo.
Peggio di un ergastolo: esseri umani a disposizione di un ordine superiore, il magistrato e lo psichiatra, per una attesa che troppe volte si chiude con la morte, naturale o violenta, per suicidio (quarantaquattro suicidi negli ultimi dieci anni) o per sfinimento, talvolta solo per la consapevolezza di essere gli ultimi tra gli ultimi, più a fondo di tutti nel pozzo dei derelitti.
Il 31 marzo scade il termine: come prevede la legge 9/2012 (firmatari Ignazio Marino, Daniele Bosone, Michele Saccomanno), gli Opg, cioè gli ospedali psichiatrici giudiziari, dovranno chiudere, liberare la varia umanità dolente che imprigionano, la varia umanità che dovrebbe trovare altre strade per vivere, cambiare, progredire. Quali strade ancora non si sa.
Una volta gli Opg erano soltanto “manicomi criminali”. Il nuovo nome è una maschera d’ambiguità e d’ipocrisia: “ospedali” fa pensare a una organizzazione sanitaria, “psichiatrici” dovrebbe indicare qualcosa che riguarda malattia e cura, “giudiziario” lascia cedere a una tribunale, a un codice, alle norme.
L’unico tribunale è quello che ha sottratto al “folle reo” anche la possibilità di essere giudicato come ogni altra persona, colpevole o innocente; la psichiatria è debole di per sé e per la debolezza delle strutture e pronta a cedere, per pigrizia o per insipienza, di fronte alla gravità della colpa, all’idea che quella condizione di segregazione sia ineluttabile e tutto sommato la più comoda per la società; l’ospedale è materialmente peggio di un carcere e le sbarre e i chiavistelli semplicemente “custodiscono” l’abbandono.
Sarebbero bastate le poche immagini diffuse dalla televisione, dopo la visita nei nostri manicomi criminali della commissione d’inchiesta guidata da Ignazio Marino, per muovere lo sdegno, suscitare lo scandalo. Dopo la prima riprovazione sembra che tutto si sia spento. Prevale il senso comune di un Paese di poca cultura, che s’indigna a momenti, di fronte a uomini aggrappati alle inferriate di una prigione o stesi legati ad un letto di contenzione, ed è pronto a dimenticare la propria indignazione, quando una diversità qualsiasi minaccia la tranquillità, un paese che sempre considera il matto “delinquente” doppiamente pericoloso, perché è matto e perché delinque.
Pazienza se il reato è un nonnulla, una reazione eccessiva, una collera, un pugno, magari soltanto “ubriachezza molesta”… Il giudizio di infermità mentale, di incapacità ad intendere e volere sottrae il “folle reo” al diritto di un processo, alla considerazione delle responsabilità e delle attenuanti e lo condanna al rischio di “fine pena mai”, a un destino da dimenticati (dalla stessa famiglia).
Succede che uno qualsiasi uccida qualcuno, succede che venga giudicato, che debba scontare una pena, ma che possa godere di patteggiamenti e di sconti di pena e dopo dieci anni possa ritrovare la libertà. Così non accade a un matto, la cui “pericolosità sociale” è un’ipoteca sul futuro, una croce che nessun altro si porta addosso, una sanzione preventiva, una mostruosità.
Un bel saggio, di un criminologo brasiliano, Virgilio de Mattos, analizza con grande chiarezza questi temi (presentandoci anche un’esperienza di superamento del manicomio criminale, nello stato di Minas Gerais).
Scrive de Mattos: “In primo luogo deve essere assicurato il diritto alla responsabilità dell’imputato, essendo inaccettabile ritenere che un soggetto affetto da disagio psichiatrico non debba rispondere dei suoi atti. Non vi deve essere correlazione alcuna tra il disturbo mentale e il reato commesso. In secondo luogo occorre comprendere che il concetto di pericolosità non possiede alcun fondamento scientifico, essendo frutto più di un pregiudizio che di una situazione concreta riferito al futuro comportamento del paziente”.
Una via d’uscita, questo il titolo del libro, pubblicato da Edizioni Alphabeta Verlag nell’Archivio critico della salute mentale, è una storia brasiliana (e molto italiana: basti pensare ai rapporti tra Franco Basaglia e il Brasile, documentati in uno splendido libro, Conferenze brasiliane), che rappresenta una condizione diffusa, universale e realtà diverse, in alcuni casi più crude che in altri, che racconta infine una stessa croce imposta in tutti i manicomi giudiziari del mondo: l’esclusione fino alla sparizione dietro le sbarre, materiali e metaforiche, di chi non riuscirà mai a liberarsi dallo stigma di matto e criminale.
Per de Mattos tutti i cittadini devono essere considerati imputabili e penalmente giudicabili, mantenendo tutte le previste garanzie: un processo cioè che permetta di ricostruire i fatti, la possibilità di un contradditorio e di un’ampia difesa legale. A tutti deve essere inflitta, in caso di responsabilità accertata, una pena secondo i limiti fissati dalla legge, con la possibilità di patteggiamenti, di cambiamento di regime, di libertà condizionata. Se sussiste il disturbo mentale e se si accerta la relazione tra la patologia e il reato, si potranno considerare attenuanti. Si dovrà soprattutto considerare un percorso di cura e poi, scontata la pena, un modo per tornare alla società.
“La magia del diritto penale scrive de Mattos è molto semplice: se c’è una compromissione psichica non esiste reato. Ma ci può essere una sanzione anche se non c’è reato. Basta che la sanzione si travesta da misura di sicurezza. Lo farà per difendere la società e l’autore stesso del reato, affetto dall’incapacità di intendere e di volere”.
In Brasile, come racconta il libro, un’esperienza diversa si è provata. Qui si chiamano in causa sensibilità nuove, attenzione e disponibilità: seguire il malato, accompagnare il folle reo, contro la scappatoia della segregazione. “I dati sono eloquenti: oltre mille malati di mente autori di reato sono stati seguiti in poco più di cinque anni … e la percentuale di recidive è stata prossima allo zero, principalmente per i reati contro la persona”. Con costi, aggiunge il criminologo brasiliano, decisamente inferiore a quelli conseguenti all’internamento.
Alla scadenza del 31 marzo i sei ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto) non dovrebbero esistere più. I loro millecinquecento ospiti dovrebbero essere trasferiti in parte in sezioni carcerarie in parte in speciali case di cura (da venti posti letto ciascuna), affidate alle Asl. La legge subirà probabilmente un rinvio: vi sono incertezze nell’interpretazione e le strutture non sono pronte. Ma soprattutto, nella fretta di allestire camerate e infermerie, un’altra volta ci si è dimenticati del “soggetto”, cioè del malato, di quel “pazzo criminale”, tanto pazzo e tanto criminale, che non lo si punisce neppure per il reato che ha commesso, lo si seppellisce per la sua futura pericolosità, per la sua imprevedibilità, per la sua insuperabile cronicità. La sanzione è l’esclusione. Con l’obbligo della cura. Quale cura? Dentro stanzoni lerci, freddi, in condizioni igieniche penose, tra muri cadenti e marci per la muffa, tra poche suppellettili consunte dall’uso e dalla sporcizia, gente solitaria, mai raggiunta da un piano terapeutico o riabilitativo.
Per ora, se va bene, cadranno le mura di Aversa o di Barcellona Pozzo di Gotto o di Montelupo Fiorentino. C’è il rischio che altre mura si alzino, fresche d’intonaci e vernici, senza niente attorno, senza cure e senza diritti per chi è destinato, senza condanne, a viverci dentro.
Fonte: L’unità
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Giovanni Uccellatore, 48 anni, muore in carcere a Monza. Oggi l’autopsia sulla salma, per accertare le cause del decesso.
All’esame autoptico, dunque, l’ultima parola per accertare cosa ha stroncato la vita di Giovanni Uccellatore, 48 anni, paternese, ritenuto uomo di punta del clan Rapisarda-Morabito, riferimento del clan catanese dei Laudani. Rinchiuso nel carcere di Monza, Uccellatore doveva scontare ancora 14 anni di reclusione inflittigli con l’operazione “Baraonda”, condotta a Paternò dai carabinieri della locale Compagnia nel 2010.
E proprio ieri Uccellatore era atteso a Catania, in Tribunale, dove si sta celebrando il processo d’appello per l’operazione “Baraonda”. Lui, uno dei pezzi storici del clan Rapisarda, già da dieci anni dietro le sbarre, in seguito a una prima sentenza di condanna arrivata dopo l’operazione “Rocca Normanna”. Un lungo passato maturato nell’ambito della criminalità locale, con condanne per associazione mafiosa, estorsioni, e tutta una serie di altri reati.
Secondo la ricostruzione dei fatti, raccontata al legale di Uccellatore, l’avvocato Luigi Cuscunà, l’uomo, sarebbe morto per un infarto. Uccellatore sembra soffrisse di ipertensione grave, tanto che l’avvocato Cuscunà più volte aveva avanzato richiesta di scarcerazione, sempre negata. Per Uccellatore la morte è arrivata domenica notte. Pare che i primi sintomi siano arrivati intorno all’1 circa. Poi l’aggravarsi della situazione alle 3,30, quando è spirato.
Uccellatore è sempre rimasto in carcere, i medici hanno solo avviato contatti con l’ospedale senza mai trasferire concretamente l’uomo. Intanto, come detto, oggi l’autopsia, solo dopo si saprà quando la salma verrà trasferita a Paternò, dove verranno celebrati i funerali.
Intanto, i familiari dell’uomo sono partiti alla volta di Monza. Sul caso è stato aperto un fascicolo. Ascoltato a testimonianza di quanto accaduto quella notte in ospedale anche il detenuto che condivideva la cella con Uccellatore. “Verificheremo se ci sono responsabilità – evidenzia l’avvocato Luigi Cuscunà, se vi sono state negligenze nel trattare il caso, a salvaguardia della salute del detenuto”.
Fonte: La sicilia
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diffondiamo
Dai contatti degli ultimi mesi con alcune persone rinchiuse nel CIE di Bologna (via Mattei) emerge una situazione insopportabile.
Il CIE di Bologna, come quello di Modena, è passato tra agosto ed ottobre dalla gestione della cooperativa ‘La Misericordia’ (Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia) di Daniele Giovanardi (famiglia onorevole e intenzione di guadagnare soldi sulla pelle dei rinchiusi mascherata da misericordiosa vocazione cristiana) all’’Oasi’ (zoppicante cooperativa siciliana, che dalla gestione del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Cassibile chiuso dopo diverse interrogazioni parlamentari, oggi gestisce 3 CIE, quelli di Bologna, di Modena e di Trapani – loc. Milo). Come si è aggiudicata il bando l’Oasi, che da mesi non riesce a pagare gli stipendi a chi lavora per lei nei CIE di Trapani e di Modena? Con un bando al ribasso. Dai 70euro a rinchiuso dati alla Misericordia, si è passati a 28euro con l’Oasi.
Oggi sembra che i CIE non funzionino più: da fonte di guadagno questi lager sono diventati un peso economico difficilmente gestibile. Questo potrebbe spiegare perché, dopo anni che esistono e rinchiudono e torturano persone – colpevoli di non avere le carte che permettano loro di passare o vivere entro determinati confini statali – in un complice silenzio, oggi vengono additati da istituzioni e visitati da associazioni; dopo anni di silenzio menefreghista o di tiepido dispiacere, improvvisamente si riscopre che un CIE è un lager e ci si indigna, ci si commuove, si proclama la necessità di chiuderli.
Il CIE di Bologna è stato visitato nelle ultime settimane da Desi Bruno (garante dei diritti dei detenuti dell’Emilia Romagna), Virginio Merola (sindaco di Bologna), dall’associazione Medici per i Diritti Umani (che ha pubblicato delle foto dell’interno del CIE: http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/02/28/news/qui_peggio_che_stare_in_galera_cos_si_vive_all_interno_del_cie-30612725/ ).
Da dentro ci raccontano che da quest’autunno le condizioni sono peggiorate, anche prima dell’avvento dell’Oasi nella gestione. Il cibo è diventato ancora più scarso e immangiabile, le lenzuola e i vestiti non si riescono a far lavare per settimane, avere delle sigarette è un’impresa. Uno dei rinchiusi raccontava di una malattia alla pelle che lo tormentava, e che preoccupava molto il suo compagno di cella che temeva di essere infettato, ma non veniva mandato in ospedale né visitato seriamente; pochi giorni dopo, in seguito alla visita di Desi Bruno, sui giornali usciva la notizia di 4 casi di scabbia.
Abbiamo notizia di almeno un colloquio con gli avvocati saltato a causa della “mancanza di personale”, secondo quanto detto loro dal personale interno. Un prigioniero raccontava che il suo avvocato d’ufficio si era fatto rivedere solo due giorni prima della scadenza per presentare il ricorso contro il decreto di espulsione dall’italia.
Un paio di settimane fa uno dei rinchiusi si è cucito le labbra. Per tre giorni è rimasto così. Il quarto giorno è stata mandata a parlargli una psicologa mandata da Desi Bruno, che lo ha fatto uscire dal CIE: aveva sette giorni di tempo per rimanere in Italia, prima di essere di nuovo “irregolare”.
Da questo sabato altre due persone si sono cucite le labbra: un uomo e una donna. Hanno tentato di mandarci le foto, ma non ci sono riusciti. Uno di loro ha la febbre alta.
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ROMA – Uno dei quattro reparti in Italia,dedicato ai detenuti affetti da HIV, e quindi reparto di interesse nazionale, G 14 di Rebibbia N.C., era il fiore all’occhiello del carcere. Pensato per ovviare all’isolamento sanitario dei malati di HIV ha un’infermeria, una cucina, un laboratorio informatico, una cappella e una biblioteca.
Le celle sono sempre aperte e i detenuti partecipano a progetti che facilitano la socializzazione e il lavoro, parte integrante del trattamento come la terapia clinica.
Da qualche tempo, però, la situazione è peggiorata al punto da spingere il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni a denunciare «un clima potenzialmente esplosivo che, fino ad oggi, non è deflagrato per il lavoro svolto dal nostro ufficio, dai volontari, dai sanitari e dagli agenti di polizia penitenziaria».
Attualmente nel G 14 ci sono 22 persone, tutte malate di HIV. L’età media è fra i 45 e i 50 anni. Oltre all’HIV, i presenti hanno patologie psichiatriche, l’epatite, cardiopatie e dermatiti. Buona parte dei detenuti è di difficile gestione – negli ultimi 10 giorni si sono registrati tre casi di autolesionismo – sei sono casi psichiatrici conclamati. In tre sono in sciopero della fame e rifiutano i farmaci per motivi di giustizia (attesa liberazione anticipata, permessi premio, ricoveri in ospedale).
«Molti – ha detto il Garante – sono, per le loro condizioni, incompatibili con il carcere. Il fisico di ognuno è segnato dalle malattie e dalle dipendenze. Ma a costringerli in una cella sono le posizioni giuridiche, le misure alternative revocate, i cumuli di pena, i nuovi reati o, più semplicemente, il fatto di non avere una dimora. Il vissuto determina l’assenza delle famiglie e i problemi economici, con molti detenuti che dipendono dai nostri operatori, dai volontari anche per le più piccole necessità».
Su questa situazione si è abbattuto il taglio indiscriminato della spesa. Per la prima volta, nel 2013 non saranno finanziate le attività per i tossicodipendenti, rimaste senza copertura economica. Il carcere non ha più fondi né per la mediazione culturale, né per i progetti del G14, né per quelli delle comunità terapeutiche che operano in carcere. A ciò si aggiunga che la storica direttrice del reparto è stata trasferita al Prap ed è stata sostituita da un’altra persone che, in contemporanea, deve occuparsi anche della struttura protetta dell’ospedale Pertini e del nucleo traduzioni.
«La somma di queste criticità – ha concluso il Garante – ha fatto salire la tensione alle stelle e creato una situazione di emergenza. Di fatto la gestione del reparto è affidata alla polizia penitenziaria, agli infermieri ed agli operatori del trattamento. Ciò che si percepisce è un clima di esasperazione dove è sempre più netta la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni, con concreti rischi di recrudescenza e di inasprimento delle condizioni di detenzione. Per evitare l’irreparabile occorre che ciascuna componenti torni a fare il proprio lavoro: gli educatori ed il personale sanitario e di sicurezza devono essere messi in condizione di poter lavorare; la magistratura deve tornare a scegliere ciò che è meglio per ciascun detenuto; occorre che vengano riattivati, anche con l’aiuto delle politiche regionali, percorsi alternativi al carcere; occorre che il territorio e la società civile tornino ad aprirsi. Occorre in sostanza, lavorare tutti insieme per far tornare il reparto il fiore all’occhiello che era»
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Commenti disabilitati su Carcere. Situazione esplosiva nel reparto per malati HIV a Rebibbia | tags: anticarceraria, carcere, CordaTesa, detenuti malati, hiv, rebibbia, reparto per malati, situazione carceraria | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
CROTONE. Si è suicidato nel carcere di
Crotone Pasquale Maccarrone, il
giovane di 27 anni arrestato ieri dalla
polizia con l’accusa di essere uno dei
responsabili della rapina fatta nel giugno
del 2012 in cui restò gravemente ferito il
commerciante d’oro Luciano Colosimo. Maccarrone si è impiccato, utilizzando un lenzuolo che ha legato al letto a castello, nella cella in cui era rinchiuso da solo. Insieme a Maccarrone era stati arrestati, con la stessa accusa, due romeni.
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Un appello a fermare la pena capitale a cui sarà sottoposto domani con altri sei sauditi. È quello lanciato da Nasser al-Qahtani, che è riuscito a parlare con Associated Press grazie a un telefono cellulare trafficato di nascosto nel carcere di Abha General, dove è detenuto. L’uomo è stato arrestato come membro di una rete di 23 persone che hanno partecipato a furti in gioiellerie tra il 2004 e il 2005. Al-Qahtani spiega di aver dovuto confessare sotto tortura e di non aver avuto accesso agli avvocati.
Il principale imputato, Sarhan al-Mashayeh, sarà crocifisso per tre giorni, mentre gli altri saranno uccisi dal plotone di esecuzione. “Non ho ucciso nessuno. Non avevo armi mentre ho compiuto il furto, ma la polizia mi ha torturato, mi ha picchiato e ha minacciato di attaccare mia madre per costringerla a dire che avevo delle armi con me, mentre io avevo solo 15 anni. Non merito la pena di morte”, dichiara il giovane. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto alle autorità saudite di fermare le esecuzioni.
Al-Qahtani, che oggi ha 24 anni, sostiene che gran parte della rete di cui faceva parte era composta da minorenni al momento dei furti. Il gruppo è stato arrestato nel 2006. Sette sono stati condannati a morte nel 2009. Sabato re Abdullah ha ratificato la pena e li ha inviati nel carcere di Abha, nella provincia sudoccidentale di Asir. Le autorità hanno fissato domani come giorno per le esecuzioni. Negli otto anni di detenzione, Al-Qahtani ha visto tre volte il giudice, ma quest’ultimo, spiega, non gli ha assegnato un avvocato e non ha ascoltato i suoi racconti, quando diceva di essere stato torturato. “Gli abbiamo mostrato i segni delle torture e dei pestaggi, ma non ci ha ascoltato”, ha continuato il giovane.
Fonte: la presse
Commenti disabilitati su Arabia Saudita: domani 7 esecuzioni, condannato lancia ultimo appello a fermare la pena capitale | tags: anticarceraria, appello, arabia saudita, carcere, condannati, CordaTesa, detenuti, esecuzioni, pena capitale, pena di morte, torture | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Tutti