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Carceri: l’allarme degli psichiatri “Un detenuto su 3 soffre di malattie mentali”

manicomio1In Italia un detenuto su tre soffre di malattie mentali. Sul totale della popolazione carceraria (circa 70 mila persone) sono quindi 20 mila quelli che convivono con una patologia psichiatrica. Psicosi, depressione, disturbi bipolari e di ansia, anche severi, sono la norma nel 40% dei casi a cui vanno aggiunti poi i disturbi di personalità borderline e antisociale. “Persone a volte già ammalate, altre che si ammalano durante la detenzione complici il sovraffollamento, le condizioni di vita quotidiana inimmaginabili, la popolazione straniera di difficilissima gestione”. E’ la fotografia scattata dagli esperti riuniti oggi a Roma per il congresso dei Giovani psichiatri “La psichiatria tra pratica clinica e responsabilità professionale”. Ecco che negli ultimi anni in Italia si è assistito al picco di suicidi nei penitenziari “quelli compiuti in carcere hanno numeri 9 volte superiori rispetto alla popolazione generale – precisano – con tassi aumentati negli ultimi anni di circa il 300% (dai 100 del decennio 1960-1969 a più di 560 nel 2000-2009 con oltre il 36% di decessi)”.

Il problema andrà ad acuirsi. Lancia poi l’allarme Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip): con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) si acuirà il problema del sovraffollamento in carcere, già ora a livelli record con 150 detenuti per 100 posti, contro i 107 del resto d’Europa. Quando chiuderanno tra un anno, una parte dei loro detenuti tornerà in carcere, e se la situazione non cambierà, potrebbe diventare esplosiva.

E’ meglio curarli fuori dal carcere. “Il superamento degli Opg e il passaggio dell’assistenza psichiatrica nelle carceri al sistema sanitario nazionale devono avvenire parallelamente – spiega Mencacci –  nell’ambito della riorganizzazione della sanità penitenziaria e delle nuove competenze dei dipartimenti di salute mentale (dsm)”. Nessuno però “ha ancora predisposto risorse per questa operazione. E’ inderogabile – continua – che i Dsm, siano potenziati e dotati delle risorse necessarie e sufficienti per garantire tale operatività in carcere, anche attraverso una dotazione di personale rispondente ai compiti affidati, e di strutture sovranazionali, quali i Centri di osservazione neuropsichiatrica (Conp, servizi intracarcerari per la gestione dell’urgenza) e i Reparti di osservazione psichiatrica (Rop, aree specialistiche di osservazione diagnostica qualificata a tempo definito)”.

Il ruolo delle Regioni. In particolare, secondo la Sip, “le regioni devono completare la presa in carico dei soggetti internati e incrementare l’assistenza negli istituti di pena, fornendo alle Asl le risorse per i dsm (Diagnostic and Statistical Manual) – conclude Mencacci – Servono anche tavoli di discussione regionali tra magistrati ordinari e di sorveglianza, Dipartimento assistenza penitenziaria (Dap) e Dsm per coordinare meglio la rete della salute mentale nelle carceri, ottimizzare la sezione speciale di osservazione psichiatrica regionale, e dare un’interpretazione corretta della misura di sicurezza per quando non ci saranno più gli opg, con un protocollo concordato tra personale sanitario e del ministero di Giustizia”

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Carcere. Situazione esplosiva nel reparto per malati HIV a Rebibbia

malati-di-aisdROMA – Uno dei quattro reparti  in Italia,dedicato ai detenuti affetti da HIV, e quindi reparto di interesse nazionale, G 14 di Rebibbia N.C., era il fiore all’occhiello del carcere. Pensato per ovviare all’isolamento sanitario dei malati di HIV ha un’infermeria, una cucina, un laboratorio informatico, una cappella e una biblioteca.

Le celle sono sempre aperte e i detenuti partecipano a progetti che facilitano la socializzazione e il lavoro, parte integrante del trattamento come la terapia clinica.

Da qualche tempo, però, la situazione è peggiorata al punto da spingere il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni a denunciare «un clima potenzialmente esplosivo che, fino ad oggi, non è deflagrato per il lavoro svolto dal nostro ufficio,  dai volontari, dai sanitari e dagli agenti di polizia penitenziaria».

Attualmente nel G 14 ci sono 22 persone, tutte malate di HIV. L’età media è fra  i 45 e i 50 anni. Oltre all’HIV, i presenti hanno patologie psichiatriche, l’epatite, cardiopatie e dermatiti.  Buona parte dei detenuti è di difficile gestione – negli ultimi 10 giorni si sono registrati tre casi di autolesionismo – sei sono casi psichiatrici conclamati. In tre sono in sciopero della fame e rifiutano i farmaci per motivi di giustizia (attesa liberazione anticipata, permessi premio, ricoveri in ospedale).

«Molti – ha detto il Garante – sono, per le loro condizioni, incompatibili con il carcere. Il fisico di ognuno è segnato dalle malattie e dalle dipendenze. Ma a costringerli in una cella sono le posizioni giuridiche, le misure alternative revocate, i cumuli di pena, i nuovi reati o, più semplicemente, il fatto di non avere una dimora. Il vissuto determina l’assenza delle famiglie e i problemi economici, con molti detenuti che dipendono dai nostri operatori, dai volontari anche per le più piccole necessità».

Su questa situazione si è abbattuto il taglio indiscriminato della spesa.  Per la prima volta, nel 2013 non saranno finanziate le attività per i tossicodipendenti, rimaste senza copertura economica. Il carcere non  ha più fondi né per la mediazione culturale, né per i progetti del G14, né per quelli delle comunità terapeutiche che operano in carcere. A ciò si aggiunga che la storica direttrice del reparto è stata trasferita al Prap ed è stata sostituita da un’altra persone che, in contemporanea, deve occuparsi anche della struttura protetta dell’ospedale Pertini e del nucleo traduzioni.

«La somma di queste criticità – ha concluso il Garante – ha fatto salire la tensione alle stelle e creato una situazione di emergenza. Di fatto la gestione del reparto è affidata alla polizia penitenziaria, agli infermieri ed agli operatori del trattamento. Ciò che si percepisce è un clima di esasperazione dove è sempre più netta la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni, con concreti rischi di recrudescenza e di inasprimento delle condizioni di detenzione. Per evitare l’irreparabile occorre che ciascuna componenti torni a fare il proprio lavoro: gli educatori ed il personale sanitario e di sicurezza devono essere messi in condizione di poter lavorare; la magistratura deve tornare a scegliere ciò che è meglio per ciascun detenuto; occorre che vengano riattivati, anche con l’aiuto delle politiche regionali, percorsi alternativi al carcere; occorre che il territorio e la società civile tornino ad aprirsi. Occorre in sostanza, lavorare tutti insieme per far tornare il reparto il fiore all’occhiello che era»

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