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Lille, 13 aprile 2013 – Come in un film il ‘re’ dei rapinatori francesi, Redoine Faid, è evaso stamane dal carcere di Sequedin, vicino Lille, in una sequenza di azioni spettacolari tra cui la presa di cinque ostaggi, tutti liberati, e l’esplosione di alcuni ordigni.
Esperto di rapine e di attacchi ai furgoni blindati, Faid, 40 anni, soprannominato il ‘Dottore’, è famoso per aver rilasciato diverse interviste ultimamente e aver pubblicato un libro “Braquer (rapinatore, ndr.)” in cui racconta di essersi ispirato per le sue rapine ai grandi film americani, come Heat di Michael Mann.
Arrestato a giugno del 2011 per un attacco a mano armato a un furgone che era costato la vita a una poliziotta, Faid era rinchiuso nel carcere di Lille dopo aver avuto numerose condanne tra cui una di venti anni nel 1997.Era uscito di prigione nel 2009 ed era diventato una ‘stella mediatica’ raccontando di spettacolari furti per cui indossava, come Robert de Niro in Heat, la maschera da Hockey.
Stamane, prima dell’evasione, aveva ricevuto in carcere la sua compagna che, come sospetta la polizia, gli avrebbe fornito l’esplosivo che aveva fatto detonare per aprire la porta della cella. Aveva quindi preso cinque ostaggi facendosi scudo con il loro corpo, ne aveva liberati quattro ed era salito su un auto e scappato verso l’autostrada. Lì aveva rilasciato l’ultimo ostaggio per poi incendiare l’auto e scomparire.
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(ANSA) – ROMA, 13 APR – Disordini si sono registrati oggi nel carcere speciale Usa di Guantanamo, a Cuba: alcuni detenuti hanno aggredito con armi improvvisate le guardie, dopo la decisione del comandante del carcere di spostare in un’altra sezione dei detenuti in sciopero della fame. Lo riferisce la stampa Usa. Gli agenti hanno sparato alcuni colpi di arma da fuoco. “Non ci sono stati feriti”, precisano i militari americani.
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La visita al carcere di #Monza è stata un pugno nello stomaco. Per me era la prima volta. La situazione è di emergenza, come nel resto del paese. Sovraffollamento della popolazione carceraria. Scarsa applicazione della legge Smuraglia sul lavoro per i detenuti. Sottodimensionameno della pianta organica della polizia penitenziaria. Quanto alla struttura, va ricordato che la casa circondariale è una delle “carceri d’oro” degli anni ’80 con conseguenti carenze gravi per la povertà dei materiali usati. In sostanza ci piove dentro. Il teatro e la cappella sono inagibili. In molti laboratori e spazi polivalenti ci sono infiltrazioni. Mi ha colpito molto l’isolamento. Dentro l’istituto sono vietati cellulari, tablet, computer, chiavette USB, radio, qualunque mezzo per comunicare con l’esterno non solo per gli ospiti, ma anche per agenti, operatori, medici, insegnanti, educatori e visitatori. Anche la struttura del carcere è isolata dal resto della città. Mi domando come si possa perseguire la finalità rieducativa prevista dalla costituzione in luogo del genere. È difficile che una persona possa migliorare in questo carcere.
In fondo, credo abbia ragione @PaoloPiffer che a San Quirico ci lavora. Il comune può fare molto. Anzi, qualcosina già fa per migliorare la condizione degli ospiti. Forse unico fra i comuni, ha istituito un servizio di anagrafe all’interno della casa circondariale che è sempre più “frequentato” dai detenuti.
C’è una falegnameria ben attrezzata in grado di produrre mobili e oggetti in legno di ottima fattura, su commessa, anche da privati, a condizioni agevolate, per il tramite dell’associazione EXIT. Se avete bisogno di un armadio, di una libreria, di un gioco per bambini o di un mobile da cucina fateci un pensiero. Ne vale la pena..
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Milano, 13 aprile 2013 – Nascondeva un cellulare nelle scarpe. E con quel telefonino era diventato un piccolo boss del carcere. Già, perchè parliamo di un detenuto. Un romeno 25enne – in galera da quattro mesi per furto e con precedenti penali per reati contro il patrimonio – che non si come e da quando tempo usava il cellulare in cella e lo metteva a disposizione dei suoi compagni in cambio di favori e prebende.
La scoperta è stata casuale. E risale all’altro ieri pomeriggio quando la direzione del carcere di San Vittore aveva deciso di trasferire il romeno a Opera. Insieme ad altri detenuti inseriti nel programma di uno sfoltimento del penitenziario cronicamente sovraffollato.
Come vuole la prassi in questi casi tutti i detenuti all’arrivo vengono minuziosamente perquisiti, per ovvie ragioni. Ed è stato proprio nel corso di questa perquisizione, estesa sia ai propri bagagli che alla propria persona, che un agente ha notato qualcosa di strano nelle scarpe.
Apparivano un po’ troppo alte e di una foggia particolare al punto che hanno destato i sospetti della guardia che ha obbligato il 25enne a togliersele per meglio analizzarle. E si è scoperto che nella suola era stato ricavato un vano abbastanza voluminoso per nascondere non solo un cellulare, ma anche un cavetto per porte Usb e un caricabatterie.
Pochi minuti dopo la scoperta, mentre ormai il cellulare era nelle mani di un agente di polizia penitenziaria, il telefonino ha iniziato a squillare, ma alla risposta, l’interlocutore ha riattaccato forse comprendendo che qualcosa era andato storto. Ovviamente nessun detenuto è autorizzato a tenere e usare un cellulare. Le telefonate sono occasionalmente concesse solo a certi detenuti e dopo un permesso speciale o del magistrato o del direttore del carcere, il romeno non godeva di alcun privilegio in questo senso. Ma che potesse disporre del telefonino – si è scoperto dopo – era cosa nota a molti. Diversi amici e compagni di braccio sapevano che dietro un compenso potevano utilizzare il cellulare del romeno. Il compenso in questione – così hanno ammesso in tanti – era rappresentato da sigarette, da qualche spicciolo, o il favore riguardava qualche lavoretto supplementare (tipo mettere in ordine la stanza o fare la spesa o cucinare).
Non è stato possibile accertare come quel telefono sia entrato in carcere. Sicuramente durante un colloquio. A questo proposito le indagini dovranno accertare se ci sono state complicità interne. Intanto, il romeno, come prevede il rigido regolamento interno è stato sottoposto al regime di isolamento ed escluso dalle attività ricreative in compagnia degli altri detenuti.
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In India, accusati di omicidio, sono detenuti due nostri connazionali che però non indossano divise, Tomaso Bruno, 28 anni, di Albenga, ed Elisabetta Boncompagni, 39 anni, di Torino. La loro storia è meno nota all’opinione pubblica di quella dei due fucilieri ma non meno problematica.
È da più di tre anni che questi due giovani combattono contro quello che lo stesso Bruno definisce «assurdo sistema della giustizia indiana». Mai si sarebbero aspettati di incappare in questa brutta storia. Del resto, non erano andati nel grande Paese asiatico per svolgere lavori rischiosi, ma per coronare il sogno di un viaggio. Uno sogno trasformatosi in un incubo.
Per riavvolgere il nastro della loro storia si parte da Londra, la città in cui abitavano sia Tomaso sia Elisabetta. Per festeggiare il capodanno 2010 Elisabetta e il compagno, Francesco Montis, altro tragico protagonista di questa vicenda, decidono di raggiungere degli amici in India, nell’Uttar Pradesh. Al viaggio si aggiunge anche Tomaso Bruno. È Francesco a chiedergli di partecipare.
La mattina del 4 febbraio Tomaso ed Elisabetta trovano Francesco in agonia sul letto, in una stanza dell’hotel Buddha di Chentgani, alla periferia della città di Varanasi, dove soggiornano. Chiamano rapidamente i soccorsi, che tuttavia si rivelano vani. Sul luogo non arriva un’ambulanza, ma un taxi che trasporta il ragazzo in ospedale, dove un medico ne constata il decesso. Mentre Tomaso si mette in contatto con l’Ambasciata Italiana a Nuova Dehli, la polizia di Varanasi impone ai due ragazzi di non uscire dall’albergo, vieta loro di utilizzare internet e concede solo l’uso dei telefoni cellulari.
L’attesa in albergo si fa angosciante. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni in quei momenti di disperazione non riescono neanche a realizzare l’atroce destino che li aspetta. La loro angoscia si tramuta in paura.
Le autorità indiane sono convinte: i due italiani vengono accusati dell’omicidio del loro amico. Il 7 febbraio 2010 Tomaso ed Elisabetta sono tratti in arresto con l’accusa di aver strangolato Francesco, sulla base di un esame postmortem sul cadavere della vittima secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto per asfissia da strangolamento. Lo Studio Legale Titus (nominato su indicazione dell’Ambasciata Italiana per difendere i due giovani) fa eseguire una controperizia dalla quale si evince che la morte è sì avvenuta per asfissia, ma non da strangolamento bensì per altre cause.
Da quella data Tomaso ed Elisabetta sono detenuti nel carcere di Varanasi, in quanto la polizia si è riservata il deposito della chiusura delle indagini sino allo scadere dei termini (90 giorni) con continui rinvii ogni 14 giorni. Le richieste di libertà su cauzione presentate dallo Studio Legale Titus durante il lungo corso del processo, costellato da intoppi e rinvii di udienze, sono state tutte respinte dal giudice.
Un estenuante stillicidio giudiziario che arriva sino al 23 luglio 2011, ore 17:30 locali. In quella data viene emessa la sentenza di condanna all’ergastolo per Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni. E pensare che in fase di lettura della sentenza le prospettive sono apparse ancora più cupe: il pm, sentito infatti che il giudizio era di colpevolezza, ha richiesto il massimo della pena, ovvero la pena di morte. Estrema condanna evitata soltanto perché il giudice l’ha ritenuta eccessiva, dal momento che in India è riservata esclusivamente a chi commette gravi atti di terrorismo.
La notizia, qui in Italia, fatica a sgomitare tra i bollettini meteo che aggiornano sul caldo di luglio e un attentato che in Norvegia ha provocato la morte di 77 persone. La condanna di questi due giovani da parte di un Tribunale indiano non occupa più di qualche trafiletto su alcuni giornali. Familiari e amici dei due ragazzi tentano, invece, di concedere una degna eco alle parole che Tomaso Bruno, subito dopo la sentenza, ha avuto la forza di scrivere sul suo profilo Facebook: «La battaglia per ottenere giustizia è ancora lunga, ma alla fine tutto si risolverà con l’assoluzione».
Si dà vita fin da subito ad una serie di iniziative finalizzate a far conoscere all’opinione pubblica la vicenda dei due amici detenuti in India e di esprimer loro solidarietà. In questo senso si batte tenacemente Marina Maurizio, mamma di Tomaso Bruno che mentre scriviamo si trova in India, per svolgere una delle frequenti visite al figlio detenuto insieme ad Elisabetta Boncompagni nel carcere «District Jail» di Benares, ma comunemente conosciuto dalla popolazione locale con il nome di «Choucaghat». «che a detta degli altri detenuti – racconta Tomaso Bruno a Linkiesta – è uno tra i peggiori dell’Uttar Pradesh, se non di tutta l’India».
Tomaso non ha mai avuto particolari problemi nell’adattarsi alla vita carceraria indiana. «Il mio rapporto con gli altri detenuti è stato buono sin da subito, più imparo la loro lingua e la loro cultura e più sono accettato. Per questo devo essere grato al mio “fratello” tibetano Pempa Tsering, che grazie alla sua perfetta conoscenza dell’inglese e dell’hindi, mi ha fatto, sin da subito, con infinita pazienza, da traduttore simultaneo». Il carcere «District Jail» di Benares conta circa 1.800 detenuti, la gran parte è in attesa di giudizio e la percentuale dei criminali pericolosi è minima. «La maggior parte dei detenuti è gente normale incappata in un modo o nell’altro nell’assurdo sistema della giustizia indiana».
Molto probabilmente, anche per questo, ci racconta Tomaso, non è stato difficile inserirsi. «È per me è motivo di orgoglio l’essere passato in poco tempo dallo status di “straniero”, e quindi rispettato perché tale, a quello di “fratello”, e quindi rispettato per quello che è». «Viviamo in stanzoni da 100/120 persone con un piccolo spiazzo di fronte dove poter camminare. I cancelli delle stanze restano aperti dalle 6.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.30». Qui, «c’è un’area con sei rubinetti e una pompa a mano» dove possiamo lavarci e lavare i panni. Poco più dietro ci sono le latrine: 12 in tutto. Tomaso le racconta come l’unica parte fatiscente del carcere, «visto che non dispongono di acqua corrente».
I due italiani si sono dovuti adattare alle abitudini indiane, ma i problemi più grandi, sottolinea Tomaso, sono il clima e le cure mediche. «Da aprile a ottobre c’è un caldo torrido e le ventole che pendono dal soffitto sono quasi sempre ferme visto che l’elettricità va e viene». Le cure mediche «lasciano un pochino a desiderare». A «District Jail» c’è solo un piccolo ospedale: «Le medicine sono di bassa qualità e la mia impressione è che sia meglio cercare di non ammalarsi». Il cibo è rigorosamente vegetariano, «ma in uno modo o nell’altro si riesce tutti i giorni a mettere insieme tre pasti decenti».
Quelli che stanno vivendo i due giovani e i loro familiari sono mesi concitati, di attesa. Recentemente, la Corte Suprema indiana ha giudicato «ammissibile» il ricorso contro la condanna all’ergastolo. La prossima tappa di questo loro calvario è ora fissata per il 3 settembre, data dell’udienza del massimo tribunale indiano. Ma Tomaso Bruno preferisce rimanere con i piedi per terra: «Sono realista e penso che ribaltare due sentenze di ergastolo non sia un’impresa semplice neanche per uno dei migliori penalisti indiani come sembra essere Mr. Mukul Rohatgi, il nostro nuovo avvocato». «Tuttavia – conclude Tomaso – il fatto che il ricorso sia stato accolto senza problemi, alimenta quel piccolo fuoco di speranza che dentro di me non si è mai spento». Fuoco di speranza che facciamo anche nostro.
In questo senso, può essere utile ricordare che il 30 ottobre del 2012 è entrato in vigore un «Accordo bilaterale» tra Italia e India che dovrebbe permettere il trasferimento delle persone già condannate nel Paese d’origine. Se è pur vero che l’ultima parola spetta all’India, dovrà essere il governo italiano a richiederne l’applicazione.
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Diffondiamo da informa-azione
Assieme a parole di apprezzamento per il presidio del 30 marzo, dal carcere di Tolmezzo sono arrivate alcune informazioni da diffondere.
Apprendiamo che Massimo Russo, comandante della squadretta di picchiatori, è stato trasferito dal carcere di Tolmezzo (a quanto si dice, in quello di Udine).
Gira anche voce che il carcere di Tolmezzo – dove già esistono una sezione di 41 bis e una di Alta Sorveglianza – debba diventare una struttura adibita in toto all’Alta Sorveglianza, con trasferimenti previsti per luglio.
Se mettiamo insieme queste informazioni con i nuovi progetti di AS previsti in Sardegna e con altre sezioni speciali costruite in fretta e furia in altre carceri (come a Ferrara), appare evidente che il dominio si sta preparando ai possibili conflitti fuori e dentro le prigioni con le armi classiche dell’isolamento e della differenziazione.
Questi progetti, così come la presenza di compagni e compagne in carcere, devono diventare parte concreta delle lotte.
Aspettare passivamente, per i nemici del dominio, sarebbe una pessima idea.
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Apprendiamo che a Torino, in seguito all’emissione di 6 misure cautelari, in mattinata e nell’arco della giornata ci sono stati alcuni fermi e arresti.
Diffondiamo da informa-azione
I capi di imputazione riguardano la cacciata di un fotografo del fogliaccio xenofobo e forcaiolo “CronacaQui” durante un presidio sotto il Cie di corso Brunelleschi, per cui era stata espulsa una compagna francese.
Delle 6 misure cautelari, quattro sono mandati di custodia in carcere e due di altro genere. I primi hanno portato all’arresto di Paolo, Marta e Greg, mentre un compagno non risulta repreribile.
Rispetto agli altri due provvedimenti cautelari, sappiamo che uno riguarda il divieto di dimora a Torino per una compagna francese, mentre il secondo non è stato probabilmente notificato. La polizia è ancora a caccia.
Durante queste operazioni altri compagni sono stati fermati e trattenuti in questura; Greg è stato pestato e portato in ospedale, quindi trasferito in carcere.
Per scrivere e inviare telegrammi agli arrestati:
Borzì Martina Lucia
Poupin Gregoire Yves Robert
Milan Paolo
C.C. via Pianezza 300
10151 Torino
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Per quattro carceri che aprono, due chiudono i battenti. E alle proteste sulla realizzazioni dei grandi istituti si contrappongono proteste, invece, contro la soppressione dei piccoli. Sembra un paradosso, ma i distinguo sono d’obbligo. Altre polemiche sono piovute sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria quando, il 21 marzo, ha confermato le indiscrezioni circolate sull’addio alle sezioni di Iglesias e Macomer, il primo dedicato ai sex offender, l’altro con estremisti islamici.
La voce più critica che si è levata appartiene a Claudia Lombardo, presidente del Consiglio regionale nata proprio nel Sulcis-Iglesiente. “È incredibile che il Dap tolga alla Sardegna realtà funzionanti come quelle di Iglesias e Macomer, e invece realizzi grandi carceri di massima sicurezza. Siamo di fronte al solito Stato patrigno”. Non era la sola a ritenere infausta questa scelta. In una cittadina come Iglesias, il carcere era quasi una risorsa, nonostante le difficoltà che il provveditorato ha incontrato, talvolta, per far lavorare in quel territorio i detenuti, tutti reclusi per reati legati alla violenza sessuale su donne o minori. Per la criminologa Cristina Cabras, professore associato alla facoltà di Scienze politiche di Cagliari, la decisione invece rispetta un ovvio criterio di razionalizzazione.
“L’Italia ha il triplo di carceri della Spagna con il minor numero di detenuti”, spiega riferendosi ai 223 istituti nostrani per 67mila detenuti, contro gli 82 edifici destinati ai 70mila prigionieri spagnoli. “Com’è possibile lasciare aperto un carcere come Lanusei, ad esempio, che ha soli 31 posti? Si tratta di un costo troppo elevato”. Cristina Cabras sta effettuando uno studio per conto del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) sulla recidiva dei detenuti sardi. In pratica, il provveditorato vuole capire cosa fanno gli ex reclusi una volta in libertà e se qui si raggiungano i livelli italiani, dove tornano a delinquere sette detenuti su dieci, una enormità. A piano carceri completato, la Sardegna sarà una regione ad “autarchia detentiva”, nel senso che ospiterà tutte le tipologie di reclusi, forse caso unico in Italia.
Basti pensare che qui hanno sede tre delle quattro colonie penali del Paese – Isili, Mamone, Is Arenas – che invece sono sotto utilizzate, anche perché i detenuti lavorano e vanno retribuiti. Poi ci saranno le due (forse tre) sezioni per i 41 bis a Uta e Bancali e i due bracci speciali a Massama e Nuchis per detenuti altrettanto pericolosi, quelli soggetti al regime di Alta sicurezza. Si tratta di affiliati alle cosche o comunque condannati per reati legati alla criminalità organizzata. Oppure, capimafia per i quali il regime di carcere duro non viene rinnovato e allora è “declassato” in Alta sicurezza. Ma il piano prevede anche la costruzione di un istituto per madri detenute con i loro figli a Senorbì: sarebbe il secondo in Italia, dopo quello di Milano.
Fonte: La Nuova Sardegna
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Una denuncia di quelle che non può passare inosservata. L’Osapp di Torino, l’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria, ha chiesto una bonifica urgente della mensa della Casa Circondariale del capoluogo piemontese. Il motivo è molto semplice: nel locale c’è scarsissima igiene dovuta alla presenza di una “miriade” di ratti e gatti.
“E’ necessaria una urgente verifica ispettiva da parte della competente Asl“. A fare la richiesta è il vice segretario generale dell’Osapp Gerardo Romano, secondo il quale non si tratta più solo una questione di invasione di topi e gatti, ma si tocca un problema molto più grande. “Questa volta c’è in gioco la salute dei poliziotti penitenziari e delle loro famiglie per le molteplici malattie che questi animali portano”.
Gatti randagi e ratti non solo girano per i locali del penitenziario come se nulla fosse, ma – come è nella propria natura – segnano il territorio con urine e feci, che gli agenti trovano dappertutto. “E’ impensabile – continua il sindacalista dell’Osapp -, che nel 2013 si debba ancora fare i conti con invasioni di topi e di gatti che girano indisturbati in locali dove si consumano i pasti e questo con possibili gravi ripercussioni sulla salute dei fruitori della mensa stessa. Inoltre si aggiunga il cattivo odoro con cui si è costretti a consumare i pasti”.“
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Cuba, (TMNews) – Dopo nove anni di attesa, denunce e polemiche, il governo cubano ha aperto ai media le porte di “Combinado del Este”, la più grande prigione del Paese.A favor di telecamera, il carcere di massima sicurezza cerca di mostrare il suo lato migliore: gli interni del cortile sono curati, con grandi spazi in cui detenuti corrono e giocano, perfino a baseball, lo sport americano per eccellenza.”I detenuti vivono in collettività. Praticamente non ci sono incidenti. Lavorano e studiano, la famiglia gioca un ruolo importante nella preparazione all’inserimento nella società”, dice il colonnello Carlos Quintana.Una descrizione idilliaca di un carcere messo sotto accusa da anni dai dissidenti per le condizioni indecenti delle celle, che non si vedono mai nelle immagini recenti, e del cibo definito “peggiore di quello che si dà agli animali”. Denunce suffragate anche da video girati con la telecamera nascosta e poi pubblicati su Internet su canali come “Derechos humanos a Cuba” e da testimonianze dirette come quella del prigioniero Reynol Vicente Sanchez, che in una lunga lettera qualche anno fa raccontava delle celle minuscole, invase da topi e scarafaggi, del caldo soffocante. “Queste condizioni disumane – scriveva sono degradanti per i detenuti”.
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ROMA – Aveva tentato di rubare venti euro a un tabaccaio. Per questo motivo, un 57enne era detenuto da un mese e mezzo nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. L’uomo è morto la notte tra lunedì e martedì, probabilmente a causa di un infarto. A darne notizie è il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, precisando che si tratta del terzo detenuto che muore nelle carceri del Lazio da inizio anno.
ALCOLISTA – La vittima, detenuto da un mese e mezzo nella sezione G11 del carcere romano, doveva scontare una condanna per una tentata rapina ai danni di un tabaccaio. L’uomo, a quanto appreso dai collaboratori del Garante, era affetto da dipendenza dall’alcool e per questo, dal momento del suo ingresso in carcere, era stato preso in carico dal Sert ed aveva colloquio periodici con gli psicologi.
USO DEL CARCERE PER REATI MINORI– Martedì mattina l’uomo è stato trovato senza vita nel suo letto, morto probabilmente stroncato da un infarto. «Al di là dei motivi che hanno portato alla morte di quest’uomo – ha detto Marroni – fa riflettere la circostanza che un uomo con tali problematiche sia condannato a scontare in carcere una pena per una tentata rapina di 20 euro. La colpa è di una legislazione che prevede un uso abnorme del carcere, anche per i reati minori».
SOVRAFFOLLAMENTO – «Nelle carceri del Lazio registriamo un tasso di sovraffollamento di quasi il 50% – aggiunge Marroni – Occorrerebbe rivedere l’ordinamento nel senso di prevedere il carcere solo come extrema ratio. Ma, nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica e di quelli dei due rami del Parlamento, la politica sembra essersi di nuovo dimenticata del dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane».
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Genova – Un detenuto italiano di 45 anni, B.S. condannato per omicidio, è morto questa mattina per infarto nella sua cella all’interno del carcere di Genova Marassi. “La notizia della morte del detenuto intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. A Marassi ad esempio, alla data del 31 marzo scorso, c’erano 792 detenuti stipati in celle realizzate per ospitarne 450 e oltre 100 Agenti di Polizia Penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti”.
E’ il commento di Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Questa ennesima morte di un detenuto testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane. Lo scorso anno, a livello nazionale, sono morte in carcere per cause naturali 97 persone (82 italiani e 15 stranieri) e 56 si sono suicidate (36 italiani e 20 stranieri). Ben 1.308 sono i tentati suicidi sventati per fortuna in tempo dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria, che hanno anche impedito che 7.317 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) potessero determinare più gravi conseguenze ai ristretti che li hanno posti in essere. Nello specifico, in Liguria, nel 2012 i detenuti si sono resi protagonisti complessivamente di 92 atti di autolesionismo e 29 tentativi di suicidio. Hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati, per fortuna, casi di suicidio”.
Martinelli sottolinea infine che “dai dati in nostro possesso emerge che circa l’80% dei detenuti oggi in carcere in Italia ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano. Questo va ulteriormente ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 6mila unità. Rinnoviamo allora l’auspicio che la classe politica ed istituzionale del Paese non faccia cadere nel dimenticatoio le importanti e pesanti parole dette in più occasioni dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri “terribilmente sovraffollate” e ci si dia da fare – concretamente e urgentemente – per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ‘ripensi’ organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso ed un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale con contestuale impiego in lavori di pubblica utilità per il recupero ambientale del territorio. Oltre all’espulsione degli stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle prigioni del Paese di provenienza”.
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Rio de Janeiro (Brasile), 8 apr. (LaPresse/AP) – Si è aperto in Brasile il processo a 26 ufficiali di polizia accusati di responsabilità nel massacro del 1992 nel carcere di Carandiru a San Paolo, in cui morirono 111 detenuti. Gli ufficiali imputati, alcuni ancora in servizio, sono incriminati per l’omicidio di 15 carcerati. Ore dopo l’inizio dell’udienza, i giudici l’hanno aggiornata alla prossima settimana, in un processo che secondo le previsioni dovrebbe durare due settimane e che sarà seguito nei prossimi mesi da quelli nei confronti di altri ufficiali. In tutto, sono 79 gli agenti accusati in relazione al massacro del 2 ottobre 1992, che mise fine alla rivolta nella sovraffollata prigione di San Paolo, la più grande del Brasile.
Molti critici ritengono ‘il massacro di Carandiru’ un simbolo della brutalità della polizia brasiliana e dell’impunità di cui essa gode. Molti ufficiali coinvolti negli omicidi sono infatti stati promossi e due decenni dopo i fatti un solo ufficiale è stato processato per il suo ruolo nel massacro. Si tratta del colonnello Ubiratan Guimaraes, condannato nel 2001 a 632 anni di carcere per uso eccessivo della forza quando ordinò alla polizia di sedare la rivolta. Nel 2006, però, una Corte d’appello ribaltò la sentenza sulla base del fatto che Guimaraes stava solo eseguendo degli ordini. Sette mesi dopo, il colonnello fu trovato morto nel suo appartamento di San Paolo, ucciso da sei spari al petto. La sua fidanzata è stata processata per omicidio e poi prosciolta.
Nel carcere, quel 2 ottobre, tutto iniziò da una rissa tra gruppi di carcerati, che si allargò velocemente e diede il via a una vasta rivolta, complice il fatto che la struttura era stata creata per ospitare 4mila detenuti ma ne ospitava quasi 8mila. La violenta protesta durò tre ore, poi 300 agenti fecero irruzione nel penitenziario sparando a 111 detenuti in meno di mezz’ora. Le autopsie rivelarono poi che erano stati uccisi con una media di cinque proiettili ciascuno. Nessun ufficiale perse la vita. Dieci anni dopo il massacro, il carcere è stato demolito e ha lasciato il posto a un parco. I fatti del 1992 hanno ispirato il film del 2003 ‘Carandiru’ del regista brasiliano Hector Babenco, che ha contribuito a far sì che i riflettori non si spegnessero del tutto sulla vicenda.
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Pavia, 9 aprile 2013 – Acqua che entra anche negli alloggi degli agenti penitenziari, oltre che nelle aree riservate ai detenuti e nelle parti comuni. Il carcere di Pavia, diretto da Jolanda Vitale, al suo quarto di secolo di vita, mostra tutti i segni del tempo. Segni che si trasformano in muffa non certo salutare per chi lavora all’interno della struttura o vi è recluso. L’ha vista ieri il deputato di Sel, Franco Bordo in visita a Torre del Gallo. E ora la fatiscenza della struttura sarà oggetto di un’interrogazione urgente che verrà presentata al ministro della Giustizia, Paola Severino.
«Non è un fatto nuovo — ha detto il deputato — ma è preoccupante sia perché la struttura non è molto vecchia, sia perché da anni la direzione chiede fondi a Roma per effettuare interventi di manutenzione. E da anni resta inascoltata, mentre la situazione peggiora. Ora vedremo se si potranno ottenere delle risorse da utilizzare magari anche per nuovi progetti».
Come molte altre carceri italiane, infatti, anche Pavia vive un problema di sovraffollamento con 484 detenuti ospitati negli spazi pensati per 220. «E l’organico degli agenti di Polizia penitenziaria che sulla carta è di 280 uomini — ha aggiunto il deputato — in realtà è di 220 effettivi che tra servizi di trasporto esterno effettuati non solo per Pavia, si riducono ulteriormente, raggiungendo i 191 agenti. Siamo sotto organico. Una situazione che sarà ancora più difficile nei prossimi mesi, quando sarà disponibile il nuovo padiglione da 300 posti». Con l’ampliamento non sono previsti potenziamenti dell’organico.
«E questo preoccupa molto il personale — ha proseguito Bordo — anche quello dell’unità medico-infermieristica perché non ci saranno più servizi. Anzi paradossalmente sono destinate a peggiorare anche le condizioni di vita, visto che ci saranno celle più grandi, ma gli spazi comuni come le aule scolastiche, le sale colloqui o l’infermieria si dovranno dividere tra tutti i detenuti». Anche su queste difficoltà il guardasigilli sarà chiamato a dare delle risposte. «Senza risorse umane — ha concluso il deputato — con l’ampliamento il carcere rischia il collasso. Oggi si cerca di ovviare al problema del sovraffollamento tenendo le celle aperte. Va bene, ma non basta».
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Cibo a Sollicciano, arriva la denuncia di Franco Corleone, il garante per i diritti dei detenuti.
CARCERI. E questa volta è qualcosa di diverso dallo sciopero della fame, messo in atto dallo stesso garante l’anno scorso per porre l’accento sul sovraffollamento delle carceri italiane. Questa volta, infatti, sostiene Corleone, si tratterebbe di uno “sciopero della fame forzato”.
CIBO. La denuncia arriva oggi e riguarda alcuni detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano che – afferma il garante – “sono rimasti senza cibo”. “I quantitativi delle pietanze per i reclusi sono diventati assolutamente scarsi – ha spiegato Corleone – e recentemente è accaduto anche che alcuni di loro siano rimasti senza cibo. Sono gli effetti più estremi della crisi economica”. Inoltre, Franco Corleone ha ricordato anche “le pessime condizioni della cucina del carcere di Sollicciano”.
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diffondiamo da informa-azione
Maurizio Alfieri ci ha fatto sapere che dal suo trasferimento a Terni ha molti problemi con la posta, sa che di sicuro la solidarietà nei suoi confronti non è venuta a mancare e quindi è probabile che la drastica diminuzione delle lettere che gli arrivano sia dovuta a un tentativo di isolarlo dai suoi affetti.
“Devo annunciarvi che continuano a farmi sparire e trattenere la corrispondenza, questa mia affermazione è dovuta alla mancata consegna da 34 giorni di missive dei compagni/e… per allontanarmi da tutti/e i compagni/e che insieme a me lottano contro la repressione… tutto questo non fa altro che invogliarmi ancora di più a rendere di dominio pubblico tutte le nefandezze che mi circondano… e incentivare la mia voglia di rivalsa… Un abbraccio forte e ribelle”
Nell’ultima lettera che ci è pervenuta ci informa che sta facendo lo sciopero del passeggio per ottenere delle cure fisioterapiche e che non accetterà ulteriori provocazioni.
Ribadiamo quindi l’importanza di continuare a scrivergli:
Maurizio Alfieri
Casa Circondariale Di Terni
Strada Delle Campore, 32 – 05100 Terni (TR)
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Apprendiamo che ieri, 4 aprile 2013, Daniel Mcgowan, compagno anarchico per la liberazione animale e della Terra, è stato nuovamente tratto in arresto dopo il suo recente rilascio, lo scorso dicembre. Secondo quanto diffuso dalla Croce Nera Anarchica di New York, l’arresto sarebbe da ricondurre al “mancato ravvedimento” del compagno vista la recente pubblicazione di una sua intervista su un quotidiano statunitense e altri testi diffusi in rete. Dopo sette anni nei moduli per l’annichilimento dei corpi e delle menti del governo americano, Daniel viene nuovamente sequestrato come rappresaglia: non sono riusciti a piegarlo, hanno fallito.
Libertà per Daniel McGowan!
Segue da greenisthenewred.com
Daniel Mc Gowan, ecologista radicale statunitense, recentemente scarcerato dopo aver scontato quasi 7 anni in carcere (di cui buona parte trascorsi in regime di carcerazione speciale presso carceri CMU – Communication Management Unit ) è stato riarrestato questa mattina. Non sono ancora chiare le ragioni per cui Daniel sarebbe stato riportato in
carcere, ma si presuppone si tratti di una ritorsione per la sua volontà di continuare a lottare, in particolare contro le carceri a regime speciale CMU, sulle quali ha scritto numerosi articoli mentre si trovava in carcere, e di cui ha nuovamente scritto nei giorni scorsi, con un articolo comparso sull’Huffington Post dal titolo ‘Documenti del
tribunale provano che sono stato detenuto presso carceri CMU a causa delle mie convinzioni politiche’.
Si pensa che a questo punto Daniel verrà trattenuto in carcere sino alla data effettiva di fine pena, il 5 di giugno.
Per scrivergli :
DANIEL McGOWAN
#63794-053
MDC BROOKLYN
METROPOLITAN DETENTION CENTER
P.O. BOX 329002
BROOKLYN, NY 11232
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Castiglione, le campionature degli alimenti e delle attrezzature sono già state mandate a Brescia Settanta ospiti colpiti da malesseri dopo la cena. L’autopsia sulla vittima non ha fatto chiarezza
Settanta. Un quarto degli ospiti dell’Opg. È questo il numero dei detenuti che si sono sentiti male dopo la cena di martedì alla mensa dell’ospedale psichiatrico di Castiglione. Tra questi c’era Christian Ubiali, trentunenne bergamasco morto al Poma tre ore dopo il ricovero. L’autopsia, disposta dalla Procura di Mantova, non avrebbe fatto definitiva chiarezza sul decesso, avvenuto, sembrava, dopo una diagnosi di occlusione intestinale. Il magistrato si limita a confermare che saranno necessari «ulteriori accertamenti».
Sotto accusa, per ora, c’è proprio la cena consumata martedì sera alla mensa dell’Opg, in seguito a cui settanta ospiti hanno accusato malori e dissenteria. Di questi dodici hanno manifestato sintomi più seri. Il più grave di tutti era Ubiali, trasportato d’urgenza al pronto soccorso del Poma, con la diagnosi di occlusione intestinale provocata da un probabile volvolo.
Tutti avrebbero mangiato del pesce che, a questo punto, forse era avariato.
È questo il sospetto della Procura che ha già disposto accertamenti. È stata eseguita una campionatura che attraverso l’Asl è stata inviata al laboratorio di sanità pubblica di Brescia per le analisi tossicologiche. Sono stati eseguiti prelievi sia sulle scorte di pesce che sono rimaste nei frigoriferi sia nelle cucine in particolare sulle attrezzature che sono state utilizzate per preparare la cena di martedì. Le indagini epidemiologiche dovranno identificare le eventuali fonti inquinanti o rintracciare la presenza di tossine. Un attacco batterico che potrebbe essere stato letale per Christian Ubiali, già debilitato per problemi passati di tossicodipendenza.
La Tac, a cui era stato subito sottoposto mercoledì a mezzogiorno al Poma, non aveva confermato la diagnosi dell’occlusione. Ubiali però continuava a lamentarsi dei dolori violentissimi che partivano dallo stomaco.
Per questo era stato disposto il trasferimento nel reparto di chirurgia. In attesa di essere spostato era stato sistemato su una barella. Ad un certo punto era diventato tachicardico e un’infermiera lo aveva accompagnato fuori per permettergli di accendere una sigaretta.
Al rientro, prima che i medici della chirurgia fossero riusciti a prenderlo in consegna per portarlo in reparto, aveva smesso di vivere, tre ore dopo il ricovero.
Originario di Osio di Sotto, un paese del Bergamasco, Ubiali aveva una doppia diagnosi di tossicodipendenza e problemi psichici che aveva convinto i giudici che l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario fosse la soluzione migliore per lui dopo aver escluso la possibilità di un percorso riabilitativo in famiglia.
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da informa-azione
Cie di Modena, 7 aprile 2013.
Nel pomeriggio i reclusi ci fanno sapere che dalla mattina è in corso una rivolta, scaturita dalle proteste per il trasferimento dal carcere al Cie di una persona diabetica in preoccupanti condizioni di salute. I detenuti si chiudono dentro la sezione e cercano di resistere, da fuori i carabinieri cercano di sfondare per entrare, mostrando l’intenzione di sopprimere la protesta con le manganellate.
Tra le 16.30 e le 17.00 i carabinierieri arrivati in forze riescono a sfondare e ad entrare nella sezione e iniziano il pestaggio. Almeno uno dei reclusi rimane a terra ferito. Da fuori dal CIE si sentono urla e battiture.
Un’ambulanza arriva e se ne va, non si sa se con qualcuno a bordo (le “forze dell’ordine” dicono ai detenuti dentro che il ferito è stato portato in ospedale).
A sera ci fanno sapere che la protesta è ancora in corso, e alcuni solidali da fuori sentono urla e battiture.
Solidarietà a chi si ribella.
Basta CIE, basta galere, basta gabbie!
MODENA – Ancora una protesta al Cie di Modena. Ieri sera, nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie), è scoppiata una rivolta presto sedata dalle forze dell’ordine. Stando alle prime informazioni, non ci sono stati feriti.
Gli stranieri si sono barricati nella struttura e la polizia è intervenuta per rimettere ordine e fermare una “protesta pacifica”. All’esterno, riferiscono alcuni testimoni, “si sentivano urla”. Subito è scattato il tam-tam sui social network per portare all’attenzione dell’opinione pubblica quanto stava accadendo all’interno del Centro: “Andate al Cie! Fate girare!”. Qualcuno parla di “grida urla e strazianti” provenire dall’interno.
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Niente più cibo avariato ai detenuti del carcere. La direzione della casa circondariale di Montorio, il garante dei detenuti, l’Ulss 20 e ora anche la Procura: tutti in campo per difendere il diritto delle persone che si trovano recluse a mangiare alimenti di qualità. E ora c’è anche l’inchiesta aperta dalla procura di Verona. Dopo l’appello lanciato da Margherita Forestan, la garante dei detenuti, la procura ha infatti aperto due procedimenti per far luce sul servizio di fornitura del cibo, il cosiddetto «vitto» e «sopravvitto». Ogni giorno, infatti, varcano i cancelli di Montorio decine di casse di frutta e verdura, carne e pacchi con altra merce ma spesso, secondo quanto rivelato dalla stessa Forestan, si tratta di prodotti avariati o dall’oscura provenienza. Capita, infatti, che i detenuti siano costretti a gettare gli alimenti nel cestino e ad acquistare a proprie spese altro cibo attraverso il “sopravvitto”, gestito sempre dalla stessa azienda toscana vincitrice dell’appalto per la fornitura dei generi alimentari per la cucina (di cui al momento non è stato fornito il nome). «È snervante dover controllare ogni cosa che arriva, non si può lavorare in questo modo: può capitare che qualche prodotto non sia perfetto, ma dev’essere una tantum, non la prassi», commenta la garante dei detenuti. «Se invece non ci sono verifiche quotidiane, il rischio è che nei piatti finisca di tutto: fortunatamente la direzione è molto sensibile a questo problema». E infatti la questione è stata più volte oggetto di segnalazioni, ma ciò non sarebbe servito a far cambiare modus operandi alla società. Così nei mesi scorsi, il servizio Igiene dell’Ulss 20 è stato incaricato di effettuare alcuni prelievi sul cibo fornito ai detenuti e dalle verifiche sarebbe emerso che effettivamente i prodotti erano avariati: gli ispettori dell’Ulss hanno, dunque, depositato due denunce in Procura. A occuparsi delle indagini è ora il pm Elisabetta Labate. Inoltre, il procuratore capo Mario Giulio Schinaia ha segnalato il problema anche a Roma, alla Direzione generale dell’amministrazione penitenziaria, per far presente la situazione della casa circondariale di Montorio, simile con tutta probabilità a quella di altre carceri italiane. Nell’ottica di contenere le spese, infatti, talvolta gli appalti vengono affidati a imprese, che poi non sono in grado di garantire gli standard qualitativi previsti dal bando. Un tema caldo, se si considera che l’appalto della Direzione regionale delle carceri, con sede a Padova, per il servizio di fornitura del cibo a Montorio sta per scadere e che nelle prossime settimane verrà indetto il nuovo bando per l’assegnazione. L’auspicio di tutti è che i criteri siano più rigidi e che il prossimo fornitore si impegni a rispettarli.
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I numeri da soli, seppur ampiamente significativi, non bastano a dipingere quel report di drammi che si susseguano nel carcere di Poggioreale. A confermare la tragica situazione dei detenuti è stato il deputato del Pd Sandro Gozi, ieri in visita nella casa circondariale napoletana. Un giro ispettivo in cui Gozi è stato accompagnato da Yuri Guaiana, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, e da Roberto Gaudioso, tesoriere dell’associazione radicale “Per la grande Napoli”.
La delegazione ha fatto ingresso nel carcere di Poggioreale alle 10 e ha poi tenuto una conferenza stampa all’uscita del carcere. Per il deputato Gozi questa di ieri è stata la prima visita al carcere napoletano: «La situazione è grave – ha spiegato – il carcere di Poggioreale ha il triste record del carcere più sovraffollato d’Europa. Siamo a una popolazione carceraria di oltre 2.700 persone quando, in base al regolamento, dovrebbero essere 1.600, quindi questo è un problema enorme, soprattutto nel padiglione Napoli».
Se la situazione carceraria è oggi esplosiva, con problemi di sovraffollamento e carenze strutturali spalmate sul tutto il territorio, il “casermone” di Poggioreale rappresenta il termometro del sistema sull’orlo dell’esplosione. Una situazione grave e proprio per le condizioni delle patrie galere, l’Italia ha incassato una pesante sanzione da parte da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Secondo direttive europee, infatti, ogni detenuto ha diritto a 9 metri quadrati di spazio, a Poggioreale, in molte celle, proprio per il sovraffollamento, molti detenuti non possono neanche restare in piedi contemporaneamente. «Nel padiglione Napoli – ha continuato Gozi – ci sono 8 detenuti per cella, ma ci hanno detto che arrivano anche a 10 quindi è evidente che i detenuti sono ammassati gli uni sugli altri. Siamo, quindi, molto lontani dalle norme europee e da quelle sentenze che ci hanno condannato e che continueranno a condannarci se devo giudicare la risposta dello Stato».
La visita ispettiva di Ieri ha riguardato principalmente i padiglioni “Napoli” e “Roma”: le zone del carcere, dove presenti tossicodipendenti, detenuti per reati connessi allo spaccio, e nel padiglione Roma i”sex offenders” (detenuti per reali sessuali) insieme con omosessuali e transgender divisi su piani diversi. La situazione più critica per Sandro Gozi riguarda i detenuti in attesa
di cure: « Ho parlato con un detenuto cardiopatico – ha detto il deputato Pd – molto preoccupato perché non sapeva quando avrebbe ricevuto un intervento in cui era in attesa e anche il suo compagno di cella, un uomo con problemi di deambulazione e costretto su una sedia a rotelle, che non sapeva il programma di cura da seguire. Inoltre, c’è una totale assenza, in relazione ad una carenza di risorse, dei trattamenti psicologici. Siamo, infatti, a 13 ore al mese di assistenza psicologica per 2.700 detenuti».
Una vita in promiscuità quella dei detenuti senza spazi e spesso chiusi tutto il giorno in cella molte volte con il blindato chiuso. Gozi ha parlato anche dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’amnistia: «C’è bisogno dell’amnistia – ha chiarito -. Ho presentato una proposta di legge alla Camera per i reati commessi entro il 14 marzo del 2013 con pene detentive non superiori ai quattro anni, se la legislatura parte spero ci sia una forte sensibilità e una singola valutazione da parte dei deputati»
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In un quintetto base sarebbe il pivot , quello attorno al quale ruota la squadra. Purtroppo però non si tratta di un gioco, semmai di una partita della vita, molto più spesso della morte. Fabio Anselmo è il legale delle quattro donne più conosciute tra le tante che rimangono anonime alla ricerca della verità sui decessi degli uomini delle loro famiglie. Cucchi, Aldrovandi, Uva e Ferulli: fermati o arrestati, tutti comunque in “c u s t odia”. Tutti morti. Negli ultimi sette giorni dal suo studio di Ferrara sono uscite una querela all’ex ministro Giovanardi (per aver detto che la macchia rossa fotografata sotto la testa di Federico Aldrovandi non è sangue) e una denuncia al pm di Varese Agostino Abate per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio fatta dalla nipote di Uva. Una buona media… Il contesto politico e culturale in cui ci muoviamo ha una diretta conseguenza con l’andamento dei processi. L’attenzione dei media è l’unica via per eludere insabbiamenti, presunte indagini e le ostilità oggettive di una politica. Ricordiamo nel caso di Stefano Cucchi, lo stesso Giovanardi allora ministro, parlava di “zombie sieropositivo” per affibbiare alla vittima la responsabilità della sua morte. Domani alla Corte di Assise si riparte con le requisitorie, il 15 a Rebibbia le parti civili. Senza i riflettori dei media, questi processi spesso non vengono nemmeno celebrati. Parliamo di decessi avvenuti durante uno stato di custodia. Negli ultimi dieci anni i soli casi conclamati sono almeno 17 e per molti non è ancora dato sapere chi siano i colpevoli. Perché lo Stato ha così paura della verità? Perché non ama essere messo in discussione. Le violenze di Stato sono un problema reale, pur evitando una criminalizzazione generalizzata, i fatti ci dimostrano che questi non sono accadimenti sporadici ma al contrario molto diffusi. Da decenni lo testimoniano gli stessi rapporti europei. Gli atteggiamenti dei sindacati di polizia poi devono far riflettere. I reati commessi dai singoli non possono essere difesi d’u f f icio dalle corporazioni, dalle associazioni di categoria. Servirebbe un efficace controllo preventivo delle tutele pubbliche. Se lo Stato non è in grado di licenziare chi ha abusato dei suoi poteri (caso Aldrovandi) perde di credibilità. E intanto le famiglie travolte da queste tragedie rimangono sole ed emarginate. Poche resistono. Alcune ipotecano la casa e si indebitano per i processi. Altre rinunciano. La questione rimane aperta: forze dell’ordine chiamate a tutelare la sicurezza dei cittadini che diventano carnefici. Manca un’adeguata formazione per gli agenti della Polizia di Stato? L’analisi è complessa; sicuramente manca un’adeguata attività di formazione alla quale si aggiunge un diffuso sentimento di frustrazione dovuto all’incapacità dello Stato di garantire in modo reale e concreto la certezza del diritto e della pena. Spesso poi l’operato delle forze dell’ordine viene vanificato da cavilli e trappole processuali dei quali si possono avvantaggiare quelli che hanno disponibilità economiche. I poliziotti in strada spesso rischiano la pelle e chi interpreta il proprio mestiere talvolta cede alla tentazione di essere il giustiziere, detentore esclusivo della legalità. Dal suo punto di vista, la smilitarizzazione del corpo ha cambiato qualcosa? Non credo sia un problema ascrivibile solo a forze dell’ordine militarizzate, ma piuttosto di carattere generale che investe tutti, nessuna escluso. La posto in gioco però è alta, perché viene messo in discussione il contratto sociale tra Stato e cittadini. Lo Stato può usare la violenza soltanto come ultima scelta possibile e deve essere proporzionata alle circostanze contingenti. Se la utilizza è perché non sussiste alcun altro rimedio. Quando accade il contrario, chi sbaglia deve essere perseguito senza ritrosia o tentennamenti. In concreto purtroppo ci imbattiamo spesso nella scarsa sensibilità di pm e giudici rispetto al verificarsi di questi episodi che mettono in discussione i loro rapporti funzionali con le forze dell’ordine. Esistono decine di commissioni parlamentari, il più delle volte mummificate. Una sui morti nelle mani dello Stato forse avrebbe di che occuparsi. Non credo nelle commissioni parlamentari, perché non ho fiducia nella nostra classe politica. Basta pensare all’a pprovazione della legge sulla tortura dove lo Stato italiano ha dato l’ennesima prova di pregiudizio culturale. Preferiamo subire i richiami dell’Onu nell’ipocrisia di chi ritiene che in Italia non esista la tortura. Lecondizioni delle nostre carceri sono tortura. Allora mi domando: chi non vuole la legge sulla corruzione? I corrotti. Chi non vuole quella sulla tortura? Nelle prossime settimane sono fissate le udienze per Cucchi, Uva e Ferulli, l’uomo pestato da poliziotti in una strada di Milano le cui immagini sono state l’unica prova contro gli aggressori. Come ci si prepara a udienze dove sotto accusa sono le forze dell’o rd ine e un magistrato? Per Uva l’udienza del 16 è finta perché il pm porta a giudizio dei medici per una colpa che non esiste neppure per il suo consulente. Ferulli è tutto da iniziare, mentre il processo Cucchi entra nel vivo, ci affidiamo alla Corte perché si appropri dello scempio che è stato fatto a Stefano.
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«Spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento sono problemi comuni per chi vive in carcere. Ma per le donne una vita dietro le sbarre significa anche altro: ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima, senza contare poi il problema dei bambini detenuti».
Riccardo Arena conduce su Radio Radicale il programma «Radio carcere»: da oltre dieci anni, riceve e legge in diretta le lettere che i detenuti di ogni parte d’Italia gli inviano ogni settimana. Racconta così, attraverso la loro voce, le storie di chi sta dentro (o di chi ci è stato). Alcune, una piccola parte, sono di donne.
«Quando ero dentro non ho avuto il ciclo per diversi mesi», dice una ragazza di 23 anni. «La causa, secondo il medico del carcere, era lo “stress da detenzione”. Quando sono uscita mi è stata diagnosticata una menopausa precoce: rischio di diventare sterile». «Non abbiamo il bidè e spesso non possiamo neanche farci la doccia perché manca l’acqua calda», raccontano Stefania, Anna e Laura, rinchiuse a Benevento. «Siamo arrivate ad essere anche otto nella stessa cella, con un solo bagno, uno spazio dove cucinavamo anche», spiega Silvia, ex detenuta a Rebibbia.
Ricorda Maria:
«Mi si sono rotte le acque in carcere. Solo dopo un’ora, quando è arrivata l’autorizzazione del giudice, mi hanno portato in ospedale. Ci sono rimasta il tempo per partorire. Dopo tre giorni io sono tornata in carcere mentre mio figlio è rimasto in clinica: l’ho allattato a distanza tirandomi il latte con il tiralatte».
Racconti di una minoranza. In Italia le donne in carcere sono pochissime: 2818, il 4% del totale. Vivono ristrette in uno dei 5 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri maschili. Le loro storie spesso sono poco conosciute. Se il cinema si è concentrato più sulle realtà maschili, un’eccezione è «Le jardin des merveilles», di Anush Hamzehian, documentario girato all’interno di Venezia Giudecca (presentato nell’ambito della rassegna «Effetti Personali», del Festival «Il Cinema Italiano visto da Milano», che include molte opere realizzate all’interno delle case di reclusione, sia milanesi sia di altre città italiane, fino al 14 aprile). E quindici cortometraggi dedicati alle donne detenute saranno proeittati il 13 aprile all’interno del Valsusa Filmfest.
Per gran parte di loro i figli sono forse il capitolo più doloroso. Ad oggi sono una cinquantina quelli che vivono «dietro le sbarre» insieme alle proprie madri:
«Quando sono entrata mio figlio aveva appena 11 mesi», racconta Gabriella. «Dentro ha imparato ben presto ad essere detenuto, dal linguaggio («agente, mi apri?», «mamma, andiamo al colloquio con l’avvocato?) alle perquisizioni («apriva lui le gambe davanti all’agente, alzava anche le braccia da solo)».
E se gli occhi dei più piccoli «rispecchiano un ambiente in cui ci sono solo urla, malattie e suicidi», come si resiste? «Inventando favole, raccontando loro che è tutto un gioco». Strategie in stile «La vita è bella». Lo choc maggiore arriva però quando il bimbo compie tre anni: è il momento in cui la legge prevede che il minore debba uscire.
«Mio figlio si è aggrappato ad un cancello, si è girato e mi ha detto: “Perché mi fai andare via?. Poi è finito tra le braccia di un agente, che l’ha portato via».
La maternità si interrompe.
Ad oggi c’è solo un’eccezione che dimostra come un’alternativa a tutto questo sia possibile. L’Icam – Istituto a custodia attenuata per detenute madri fino a tre anni – nato a Milano nel 2007: qui una decina di donne, perlopiù straniere, vivono in una struttura dove vigono le stesse regole del carcere. Ma in luoghi senza sbarre e controllate da agenti in borghese. La mattina i bimbi vengono portati al nido di zona, mentre le madri rimangono dentro, impegnandosi in attività volte al recupero sociale. «È questo l’esempio da seguire», riprende Riccardo Arena. E in questa direzione va la «legge Alfano» sui bimbi in carcere. Approvata nel 2011, entrerà in vigore nel 2014: a meno di particolari esigenze cautelari di «eccezionale rilevanza», le detenute incinte o con bambini fino a 6 anni non saranno più chiuse in cella ma sconteranno la pena in strutture apposite.
«Peccato che queste strutture per ora non ci sono», puntualizza Arena. «E visto che la legge non riguarda tutte le detenute, ciò significa che i bambini in carcere continueranno ad entrare. Invece di una legge, servirebbe un accordo amministrativo, proprio come è successo a Milano».
«Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre», ha detto il presidente russo Putin, parlando qualche tempo fa delle detenute più famose degli ultimi tempi, le Pussy Riot. Una dichiarazione (riportata nel libro «Free Pussy Riot» di Alessandra Cristofari) che sottolinea, suo malgrado, un aspetto fondamentale della detenzione al femminile. Il carcere vuol dire anche separazione dalla propria realtà sociale e «le donne ne sono colpite più violentemente degli uomini», ha spiegato in un’intervista a «Ristretti Orizzonti» Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze a San Vittore:
«Nella società sono solitamente loro a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei e che restano “abbandonati” e senza sostegni. E così la detenuta oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole per averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere».
Le conseguenze fisiche sono evidenti, dicono gli operatori: disturbi al ciclo mestruale, ansia, depressione, ma anche anoressia e bulimia.
Ci potevano pensare prima, dirà qualcuno. Ma come ha ricordatoLaura Boldrini nel suo discorso di insediamento alla Camera non si dovrebbe forse stare accanto
«ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante, come ha autorevolmente denunciato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo».
E per le donne ciò non dovrebbe volere dire anche proteggere la maternità e la femminilità?
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Brescia, 7 aprile 2013 – «Come si vive a Canton Mombello? Eravamo sette in una cella da sei di due metri per quattro con sei brande, sei armadietti, un tavolo, un frigo e quattro sgabelli. Lascio un po’ immaginare». Il problema del sovraffollamento a Canton Mombello è ormai noto ma sorprendono sempre i racconti di chi il carcere l’ha vissuto. Come Vincenzo, uscito quattro mesi fa dopo una detenzione di sei mesi per furto e che ieri era nel piazzale della casa circondariale, in occasione della visita del deputato bresciano di Sel. «Era impossibile aprire la finestra per arieggiare, i vestiti bisognava lavarli a turni e là dentro, credetemi, non c’è un buon odore – racconta -. Dalle celle si esce solo un’ora e mezzo al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio. Per il resto della giornata si sta a porte chiuse». A oggi nel carcere, costruito per 208 persone, ce ne sono 450, circa un centinaio in meno rispetto al picco del 2012 ma comunque troppi.
Vincenzo racconta che in una cella di 20 metri quadrati vivevano addirittura in 22 con due bagni. «Con tutte le conseguenze anche per l’igiene – aggiunge -. Ricordo che, quando ero dentro, per un periodo hanno chiuso la sala del biliardino per scabbia. Io stesso sono stato in cella per 15 giorni con un detenuto che aveva la tubercolosi, che poi è stato trasferito altrove». A marzo scorso un altro detenuto era stato ricoverato al Civile per tubercolosi, che, secondo il personale sanitario, era stata contratta prima di entrare in carcere. I casi di malati, dunque, potrebbero essere diversi.
Tanto che il Comitato per la chiusura del carcere presenterà la settimana prossima un esposto alla Procura, alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oltre che ad Asl e sindaco, per denunciare le condizioni di vita dei detenuti e la possibilità di un’epidemia di tubercolosi. «Si tratta di una malattia che si può presentare in forma attiva e in forma latente – precisa Beppe Corioni -. Le condizioni igieniche carenti, come il non ricambio di aria, ne favoriscono lo sviluppo. Vogliamo che si faccia chiarezza».
Un po’ di sollievo potrebbe arrivare in occasione dell’apertura del carcere di Cremona. «Il nuovo carcere a Brescia – interviene Marco Fenaroli, candidato alle primarie del centrosinistra di Brescia -? Il Pgt ha individuato l’area ma non c’è nessun riferimento a un nuovo istitutonel Piano carceri nazionale. Chissà quando si farà». Intanto Sel si sta già muovendo per avanzare tre proposte di legge: introdurre il reato di tortura, abrogare il reato di clandestinità e abolire la legge sulla recidiva. «Canton Mombello è un vero e proprio lager nella civile Brescia – argomenta – Luigi Lacquaniti, il deputato bresciano di Sel -. Encomiabile, anzi quasi eroico, il lavoro del personale e dell’amministrazione penitenziaria. Ma non è possibile mantenere questa situazione».
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Car* compagn* e fratelli carcerati,
Ho ricevuto l’opuscolo n. 77 dove veniva pubblicata la mia lettera dal carcere di Teramo. Da allora ad oggi (parliamo di poco più di un mese) me ne hanno fatte di tutti i colori. Per chi vive la nostra situazione potrebbe essere qualcosa di strano, ma penso che per molti, così come anche per me, è assurdo questo trattamento.
Il mio è stato un arresto politico che mirava a zittirmi e creare terra bruciata intorno a me, volevano farmi capire che mettersi contro questa società ingiusta comportava un prezzo alto da pagare e che combattere il sistema borghese non poteva avvenire così come stavamo facendo noi.
Infatti nella mia piccola Teramo si era creato un movimento non solo attivo, ma anche forte numericamente e determinato. Vedevano in noi un pericolo e hanno così utilizzato le loro armi per annientarci. Prima ci hanno accusato di essere un’associazione a delinquere e poi incriminati per i fatti di Roma. La macchina dello stato ha fatto il meglio di sé e lo ha fatto perché aveva paura di chi non era disposto ad abbassare la testa. Io ho deciso di affrontarli a viso aperto e quando hanno capito che dal carcere di Teramo non ero cambiato, mi hanno trasferito prima a Rieti, dove mi hanno messo solo in cella e trattenuto la corrispondenza e poi, non contenti, mi hanno portato nel carcere di Viterbo (carcere duro) e messo per 4 giorni in isolamento in una cella senza riscaldamento dove non avevo coperte e ho dormito con il giubbotto ad una temperatura intorno ai 4/5°. Sia a Rieti che a Viterbo non mi hanno motivato il trasferimento, di fatto agivano come nei peggiori anni della dittatura fascista. Solo quando sono venuti i consiglieri del PRC del Lazio, guarda caso, mi hanno portato in sezione 1/2 ora prima che venissero davanti alla mia cella.
È un modo di fare squallido, penoso oltre che vile. Fanno gli angeli quando sanno di avere le spalle al muro e poi come dei lupi ti sbranano quando chiudono i cancelli. Io non mi son perso d’animo, e da subito ho informato fuori di quanto accadeva. Ho capito che l’unica arma che abbiamo è quella della controinformazione. Ho affidato comunicati ai miei cari e fuori molti si sono indignati.
Non contenti di quanto mi avevano già fatto, mi hanno messo in cella con un macedone con l’AIDS. Io non ho nulla contro chi purtroppo ha contratto questa malattia, ma porca puttana neanche me lo hanno detto, lo sono venuto a sapere da terzi e poi ho avuto conferma da lui. Dico, almeno informatevi in caso di ferimenti…
Io non so più che si vogliono inventare, ma non cadrò alle loro provocazioni e anche se a volte la testa viaggia e pensa a male, io resterò lucido.
So di non essere solo e che fuori i compagn* si stanno muovendo per sputtanare il loro modo di agire e forte del loro sostegno io lotto fino alla fine.
Come noi sono stati molti i compagni e le compagne che hanno pagato con la galera le proprie idee e dalla loro resistenza dobbiamo prendere esempio. La storia ci ha insegnato che chi si metteva contro veniva perseguitato e che le loro idee di libertà e giustizia sociale erano giuste.
Dobbiamo essere fiduciosi e spingere chi è fuori a continuare la battaglia, dobbiamo fargli sentire la nostra voglia di non mollare ed essere tenaci. Raccontiamo quello che subiamo e quello che vediamo, se stiamo in silenzio facciamo il loro gioco.
La situazione carceraria è la vergogna dell’Italia in terra ma a conoscerla siamo solo noi e i nostri cari, sono convinto che se solo qualcuno entrasse e vedesse questo scempio le chiuderebbero tutte. Qui dentro non ci sono regole ed è l’unico posto in Italia dove vige una situazione senza alcun controllo.
Proviamo a cambiare lo stato di cose chiedendo a chi è fuori di essere la nostra voce. Ci vogliono 10-100-1000 Ampi Orizzonti. Spezziamo le catene, liberiamo la mente. Un abbraccìo! Davide (falce martello stella)
Viterbo, 2 aprile 2013 [ndr: data timbro]
Davide Rosci, strada San Salvatore, 14b – 01100 Viterbo
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Al momento dell’arrivo delle ragazze, di cui tre accusate di esplosivi e una per traffico di droga,
l’ambiente all’interno del Centro Penitenziario Femminile era abbastanza teso. Le detenute
denunciano di subire trattamenti vessatori (pestaggi, perquisizioni, umiliazioni durante le visite).
L’arrivo della nuova funzionaria e le sue crudeli pratiche hanno fatto in modo di collassare la già
dura pseudo convivenza delle interne, le quali già devono resistere al peso giornaliero di vivere
lontano dai propri cari, ricevendo offese e denigrazioni, sia verso di loro che verso i propri familiari
e amici.
I FATTI
Questa mattina, verso le 10:20, in orario di visite, le detenute del CPF hanno iniziato una rivolta
in uno dei dormitori, bruciando sedie, materassi, lenzuola, televisori, richiedendo la fine dei
maltrattamenti verso di loro e verso i familiari. Le dichiarazioni dei familiari e amici delle ragazze
prigioniere raccontano che mentre il fuoco ardeva e bruciava tutto, i funzionarie e gendarmi
(assistenti sociali, sociologi ed educatori) si dedicavano a guardare come le ragazze urlavano di
aprire le porte delle celle, visto che il fuoco avanzava e l’aria diventava irrespirabile dal fumo,
mantenendo un’attitudine complice e indifferente alle sopraffazioni della gendarmeria.
All’interno del CPF esiste il modulo di Maternità nel quale risiedono tre detenute incinte, una di
esse è la compagna Roxana Marín (accusata per materiale esplosivo, fatto che denunciamo come
montaggio), nell’altro raggio le altre detenute ( Yaritza Grandon, Ariadna Torres e Silvana Lamilla,
le prime due accusate di materiale esplosivo e l’altra ragazza per traffico di droga, fatti dei quali
denunciamo come parte dello stesso montaggio).
Dopo una mezzora, la gendarmeria ha fatto irruzione con estintori, manganelli e gas urticante,
attuando con estrema violenza contro le ragazze che si stavano asfissiando dal fumo e dal fuoco
ormai prossimo. Fuori dal Penitenziario abbiamo potuto parlare con i familiari delle ragazze
recluse, e una di esse, ci ha confermato che sua figlia Eliana Becerra Ganga di 23 anni porta avanti
uno sciopero della fame e dei liquidi da 36 giorni, richiedendo un’immediata revisione della sua
condizione, in quanto si trova da un’ anno detenuta senza avere nessuna condanna né nessun
processo in vista. L’altra richiesta è che venga sottoposta a cure mediche visto che soffre di un
cancro allo stomaco, che dovuto allo sciopero della fame è peggiorato. La madre di Eliana denuncia
che durante la visita di questa mattina, è stata picchiata dai gendarmi mentre veniva portata fuori dal
CPF nel momento della rivolta.
Abbiamo potuto parlare con lei e ci ha riferito che sua figlia è costantemente picchiata e torturata
dai funzionari della gendarmeria, di fatto è stata trasferita arbitrariamente da Villarica e durante la
durata del viaggio, un’ora e mezza è stata ripetutamente colpita e insultata.
Verso le 13:40 gli agenti antisommossa della gendarmeria (U.S.E.P.), affiancati dai carabinieri
hanno fatto irruzione con le camionette per il trasferimento di 10 recluse, tra di loro Eliana Becerra.
I familiari delle ragazze hanno sollecitato informazioni di dove verranno portate e la lista di tutte le
ragazze trasferite.
L’unica risposta che abbiamo ricevuto è stata l’assoluta indifferenza di questi bastardi, che hanno
effettuato questa azione repressiva con inaudita violenza, fregandosene altamente se fuori c’erano
familiari e amici delle detenute.
Urlavamo i nomi dei nostri cari e anche loro rispondevano con urla. Dalle camionette ci urlavano
che le ragazze incinte erano state picchiate e affumicate dal gas urticante, la stesso sistema si
ripeteva sulle detenute che si trovano nell’altro modulo.
Dall’interno delle camionette si udivano i tonfi dei colpi ricevuti alle ragazze, in modo che non
potessero dirci cosa fosse successo durante l’irruzione della gendarmeria per mettere fine alla
rivolta.
Gli unici nomi che siamo riuscite ad ascoltare tra urla e rumori di colpi sono: Katherine Fabres,
Eliana Becerra e Antonella, di cui non abbiamo capito il cognome.
Ricordiamo che nessuna delle ragazze trasferite ha ricevuto condanna per i fatti che le si accusa.
Facciamo un appello a stare attenti a ciò che può accadere all’interno del CPF di Temuco,
facciamo in modo che nessun prigioniero si senta solo, men che meno nelle condizioni in cui si
trovano in questi momenti. La solidarietà è più che una parola scritta, deve essere attiva e costante a
favore della libertà di coloro che sentiamo dentro di noi come affini, sorelle, fratelli e compagn*
Temuco, 04-04-2013
FAMILIARES Y AMIGXS PREXS 28-M
¡¡¡LIBERTAD INMEDIATA Y SIN CONDICIONES, LOS MONTAJES CAERAN Y
CAERAN!!!
¡¡¡ROXANA, YARITZA, ARIADNA, SILVANA Y JOTA PE A LA KALLE AHORA!!!
¡DESDE KUALKIER PARTE AULLAMOS POR LA LIBERTAD!
Commenti disabilitati su Nota dei familiari e amici delle detenute presenti nella rivolta del carcere femminile di Temuco. | tags: Ariadna, cile, jota pe, rivolta carcere, Roxana, silvana, Temuco, Yaritza | posted in Comunicati, critiche e riflessioni, Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Silvana e Jota Pe agli arresti domiciliari
Oggi 5 Aprile, alle 9:00 am presso il Tribunale di Temuco si è svolto l’appello della compagna
Silvana e del compagno Jota Pe, ricordiamo che entrambi si trovavano sequestrati nelle carceri di
Temuco, all’interno del montaggio del 28 Marzo.
Nell’appello si è deciso di concedere l’arresto domiciliare notturno a entrambi, mentre dura
l’inchiesta. Da una parte ci rallegra sapere che non si trovano più abitando le fredde celle dello stato
cileno, ma dall’altra parte dobbiamo continuare vigili in quanto ancora si trovano prigionieri e sotto
inchiesta. Inoltre ricordiamoci che Yaritza, Ariadna e Roxana si trovano ancora incarcerate.
Contro tutte le gabbie!
[NdA: ai 2 compas ai domiciliari avevano accollato un pò d’erba mentre ai 3 in gabbio gli hanno accollato i fantomatici ordigni esplosivi]
jota pe
Commenti disabilitati su 2 dei 5 compas di Temuco sono ai domiciliari | tags: 28 marzo, anticarceraria, Ariadna, cile, jota pe, mapuche, prigionieri, Roxana, silvana, Temuco, Yaritza | posted in Comunicati, critiche e riflessioni, Contro carcere, CIE e OPG, Scarcerazioni e carcerazioni, Tutti
Diffondiamo da Rete Evasioni
Ci sono momenti in cui arriva il sole, attraversa le sbarre, filtra dal vetro, attraversa la bottiglia che hai sul tavolo, si allunga in stralci sul tavolo, ti scalda un po’ l’orecchio.
Ci sono momenti in cui di notte guardi il soffitto, ascolti il silenzio, senti il rumore del vuoto del corridoio, ascolti il sibilo di una porta chiusa.
Ci sono momenti in cui ti siedi a fumare una sigaretta all’aperto e guardi il cielo e pensi che se credessi in Dio lo ringrazieresti di poter godere di tanta bellezza anche da qui.
Ci sono momenti in cui cammini per i corridoi e pensi che non ti usciranno più dai polmoni.
Ci sono momenti, tanti momenti, in cui il tuo corpo è fermo e la tua mente ti sta immaginando mentre distruggi tutto quello che ti capita tra le mani.
Ci sono momenti in cui pagheresti oro per una bella birra fresca.
Ci sono momenti in cui ti arriva, da non sai bene dove, un odore di terra, di foglie, di autunno e ti ricordi.
Ci sono momenti in cui il sole del cielo d’autunno ti fa ripensare alle montagne e al fiato dei tuoi cani.
Ci sono momenti in cui finalmente tutte le parole vuote scompaiono, tutte le maschere cadono.
Ci sono momenti in cui cadono tutte quelle degli altri senza che loro lo sappiano.
Ci sono momenti in cui ti accorgi che questo posto ti ha cambiato e altri in cui pensi di essere sempre la stessa; e ti scopri e ti riscopri.
Ci sono momenti in cui riconosci l’ora della giornata dal rumore che senti nei corridoi e ti accorgi che sta diventando normale.
Ci sono momenti in cui di notte ti svegli di soprassalto perché una luce ti spia il sonno.
Ci sono momenti in cui vedi una madre piangere perché non può fare la cosa più naturale su questa terra: stare con i suoi figli.
Ci sono momenti in cui piangi per il pianto di quella madre, per gli abbracci negati, per i rapporti mutilati, perché pensi che per tanto dolore nessuno pagherà mai.
Ci sono momenti in cui pensi che potresti guardare per ore il viso delle compagne che sono con te, perché sai che è solo per quegli occhi che non hai mai avuto paura di questo inferno.
Ci sono momenti in cui pensi al dolore di chi viene a trovarti; alle loro facce che, tutte le volte che se ne vanno, sbigottite, dicono “la stiamo lasciando qui”.
Ci sono momenti in cui il sangue si gela al pensiero della libertà perché pensi che non potrai portare fuori con te le tue compagne.
Ci sono momenti, tanti momenti, in cui una risata irrompe come un tuono, come una cascata da un dirupo e si dipana fresca sulla pelle, sul viso, nella testa.
Ci sono momenti in cui vedi tornare il sorriso sul volto di una compagna e pensi di non voler altro dalla giornata.
Ci sono momenti in cui ti arriva la voce che qualcuno è uscito o evaso e le sbarre si incrinano e il sorriso è beffardo.
Ci sono momenti, tanti, costanti, ripetuti in cui pensi ad un cumulo di macerie, a chiavi spezzate, a divise bruciate e senti la freschezza dei piedi nudi sull’erba e il respiro è profondo.
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Diffondiamo da “uniti contro la repressione”
Non c’è lotta al capitalismo senza lotta contro il carcere
Non c’è lotta contro il carcere senza lotta al 41 bis
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