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Dietro le sbarre delle carceri femminili senza ginecologi, pediatri e assorbenti

«Spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento sono problemi comuni per chi vive in carcere. Ma per le donne una vita dietro le sbarre significa anche altro: ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima, senza contare poi il problema dei bambini detenuti».

.Riccardo Arena conduce su Radio Radicale il programma «Radio carcere»: da oltre dieci anni, riceve e legge in diretta le lettere che i detenuti di ogni parte d’Italia gli inviano ogni settimana. Racconta così, attraverso la loro voce, le storie di chi sta dentro (o di chi ci è stato). Alcune, una piccola parte, sono di donne.

«Quando ero dentro non ho avuto il ciclo per diversi mesi», dice una ragazza di 23 anni. «La causa, secondo il medico del carcere, era lo “stress da detenzione”. Quando sono uscita mi è stata diagnosticata una menopausa precocerischio di diventare sterile». «Non abbiamo il bidè e spesso non possiamo neanche farci la doccia perché manca l’acqua calda», raccontano Stefania, Anna e Laura, rinchiuse a Benevento. «Siamo arrivate ad essere anche otto nella stessa cella, con un solo bagno, uno spazio dove cucinavamo anche», spiega Silvia, ex detenuta a Rebibbia.

Ricorda Maria:

«Mi si sono rotte le acque in carcere. Solo dopo un’ora, quando è arrivata l’autorizzazione del giudice, mi hanno portato in ospedale. Ci sono rimasta il tempo per partorire. Dopo tre giorni io sono tornata in carcere mentre mio figlio è rimasto in clinica: l’ho allattato a distanza tirandomi il latte con il tiralatte».

Racconti di una minoranza. In Italia le donne in carcere sono pochissime: 2818, il 4% del totale. Vivono ristrette in uno dei 5 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri maschili. Le loro storie spesso sono poco conosciute. Se il cinema si è concentrato più sulle realtà maschili, un’eccezione è «Le jardin des merveilles», di Anush Hamzehian, documentario girato all’interno di Venezia Giudecca (presentato nell’ambito della rassegna «Effetti Personali», del Festival «Il Cinema Italiano visto da Milano», che include molte opere realizzate all’interno delle case di reclusione, sia milanesi  sia di altre città italiane, fino al 14 aprile). E quindici cortometraggi dedicati alle donne detenute saranno proeittati il 13 aprile all’interno del Valsusa Filmfest.

Per gran parte di loro i figli sono forse il capitolo più doloroso. Ad oggi sono una cinquantina quelli che vivono «dietro le sbarre» insieme alle proprie madri:

«Quando sono entrata mio figlio aveva appena 11 mesi», racconta Gabriella. «Dentro ha imparato ben presto ad essere detenuto, dal linguaggio («agente, mi apri?», «mamma, andiamo al colloquio con l’avvocato?) alle perquisizioni («apriva lui le gambe davanti all’agente, alzava anche le braccia da solo)».

E se gli occhi dei più piccoli «rispecchiano un ambiente in cui ci sono solo urla, malattie e suicidi», come si resiste? «Inventando favole, raccontando loro che è tutto un gioco». Strategie in stile «La vita è bella». Lo choc maggiore arriva però quando il bimbo compie tre anni: è il momento in cui la legge prevede che il minore debba uscire.

«Mio figlio si è aggrappato ad un cancello, si è girato e mi ha detto: “Perché mi fai andare via?. Poi è finito tra le braccia di un agente, che l’ha portato via».

pic11La maternità si interrompe.

Ad oggi c’è solo un’eccezione che dimostra come un’alternativa a tutto questo sia possibile. L’Icam – Istituto a custodia attenuata per detenute madri fino a tre anni – nato a Milano nel 2007: qui una decina di donne, perlopiù straniere, vivono in una struttura dove vigono le stesse regole del carcere. Ma in luoghi senza sbarre e controllate da agenti in borghese. La mattina i bimbi vengono portati al nido di zona, mentre le madri rimangono dentro, impegnandosi in attività volte al recupero sociale. «È questo l’esempio da seguire», riprende Riccardo Arena. E in questa direzione va la «legge Alfano» sui bimbi in carcereApprovata nel 2011, entrerà in vigore nel 2014: a meno di particolari esigenze cautelari di «eccezionale rilevanza», le detenute incinte o con bambini fino a 6 anni non saranno più chiuse in cella ma sconteranno la pena in strutture apposite.

«Peccato che queste strutture per ora non ci sono», puntualizza Arena. «E visto che la legge non riguarda tutte le detenute, ciò significa che i bambini in carcere continueranno ad entrare. Invece di una legge, servirebbe un accordo amministrativo, proprio come è successo a Milano».

«Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre», ha detto il presidente russo Putin, parlando qualche tempo fa delle detenute più famose degli ultimi tempi, le Pussy Riot. Una dichiarazione (riportata nel libro «Free Pussy Riot» di Alessandra Cristofari) che sottolinea, suo malgrado, un aspetto fondamentale della detenzione al femminile. Il carcere vuol dire anche separazione dalla propria realtà sociale e «le donne ne sono colpite più violentemente degli uomini», ha spiegato in un’intervista a «Ristretti Orizzonti» Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze a San Vittore:

«Nella società sono solitamente loro a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei e che restano “abbandonati” e senza sostegni. E così la detenuta oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole per averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere».

Le conseguenze fisiche sono evidenti, dicono gli operatori: disturbi al ciclo mestruale, ansia, depressione, ma anche anoressia e bulimia.

Ci potevano pensare prima, dirà qualcuno. Ma come ha ricordatoLaura Boldrini nel suo discorso di insediamento alla Camera non si dovrebbe forse stare accanto

«ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante, come ha autorevolmente denunciato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo».

E per le donne ciò non dovrebbe volere dire anche proteggere la maternità e la femminilità?

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