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Cuneo, topi in carcere.

010_large“E’ gravissimo quanto sta accadendo nel carcere di Cuneo. Anche oggi sono stati avvistati grossi topi aggirarsi in carcere, nell’area degli Uffici servizi e Comando e questi avvistamenti preoccupano del tutto legittimamente il Personale. Ora è assolutamente urgente una completa derattizzazione di tutta la Casa circondariale ma credo sia comunque il caso che l’Amministrazione penitenziaria regionale, attraverso il competente Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag), disponga immediatamente accurati controlli a Cuneo ed in tutti gli altri penitenziari piemontesi. A cominciare certamente dagli Uffici ma anche in tutti i posti di servizio in cui sono impiegati in servizio le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria””.

E’ quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri.

“E’ ovvio che anche episodi come questo possono turbare la tranquillità e la serenità delle sezioni detentive, in cui – non dimentichiamolo – lavorano 24 ore su 24 e con molte difficoltà operative gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, gravemente sotto organico. Mi sembra che, a Cuneo come in tutte le carceri italiane, la Polizia Penitenziaria è l’unica rappresentante dello Stato che sta fronteggiando l’emergenza sovraffollamento: oltre al danno c’è però la beffa di essere gli unici esposti a malattie come l’HIV, la tubercolosi, la meningite, la scabbia e altre malattie che si ritenevano debellate in Italia. Per queste ragioni il SAPPE sollecita visite ispettive dell’Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag) a Cuneo, in tutte le carceri piemontesi ed in ogni posto di servizio in cui sono impiegati poliziotti penitenziari per verificarne la salubrità.”

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“Noi, donne dietro le sbarre senza un futuro davanti”

Le detenute del carcere della Dozza si raccontano. “Ho fatto il corso da parrucchiera, ma non ho la preparazione adatta. Chi mi assumerebbe fuori?”. Un’altra: “Non trova lavoro mio figlio, figuratevi io, quando dirò che sono stata in galera mi scarteranno”

life_inside_women_prison_56Le sedie vuote. La paura ad esporsi scritta in faccia. Le parole che faticano a uscire. Prove tecniche di dialogo, alla sezione femminile del carcere della Dozza. La presidente del consiglio comunale e la presidente della commissione delle elette, Simona Lembi e Mariaraffaella Ferri, hanno voluto includere una vista all’isolato padiglione di via del Gomito nel programma di iniziative legate all’8 marzo. Un confronto con le cittadine “invisibili” di questo mondo a parte. Il tentativo di capire bisogni e necessità.

Sono 55, in questi giorni, le ragazze e le donne dietro le sbarre. Una sola può uscire a lavorare. Una è in semidetenzione, deve cioè passare in istituto almeno dieci ore al giorno.Ventisette stanno scontando pene definitive. Ventisei sono in attesa di giudizio. Ma ad aspettare le ospiti nella sala comune del piano terra sono appena in undici, una rappresentanza scelta con criteri che sfuggono, forse solo l’arbitrio della sovrintendente che la manda a prendere in cella.

Sono ancora in meno a parlare, confrontandosi per la prima volta anche con la neodirettrice, Claudia Clementi (l’intervista). E solo due accettando di dire il loro nome, altro “particolare” che lascia intuire debolezze, il timore di essere riconosciute, giudicate, ritenute non affidabili. Vivian no, non ha paura.Racconta della sua doppia condanna, di donna e di madre, e segnala che cosa secondo lei non va nell’assistenza sanitaria di base. “Ho un bambino di sette anni. Non l’ho potuto vedere per quasi quattro, fino a quando non sono uscita in permesso. E’ a carico dei miei genitori. I volontari Avoc ci danno un supporto morale, ma il supporto materiale dove è? Se fuori non c’è aiuto, per noi che cosa rimane?”. E, ancora, raccogliendo dalla direttrice la promessa di una verifica della situazione: “Una sera stavo male, le patologie vascolari tra noi detenute sono diffuse. Ho chiesto del medico di guardia. Lui pensava che volessi le gocce per dormire, richiesta frequente in carcere. Non era così. Non è venuto. Ha fatto una diagnosi telefonica”.


Altro problema: l’adeguatezza e la spendibilità, all’esterno, dei corsi di formazione professionale organizzati all’interno. “Sono qua dentro da cinque anni. Sento parlare di I-phone e I-pad, ma non so cosa siano… Ci vorrebbero corsi di informatica, adeguati ai tempo. Io ho seguito quello per parrucchiera, praticamente solo taglio, visto che non si è potuto usare quasi mai nemmeno il phon. Ma chi mi assumerebbe fuori? Nessuno, credo. Non ho la preparazione adatta, lo capisco da me”.

Il fuori, il dopo, l’impossibilità di pensarsi in positivo. Un’altra detenuta madre, lei restia a dire il proprio nome, non la prende alla lontana: “Esci e vai a sbattere con il sedere per terra. I portoni ti si chiudono davanti. Io ho un figlio di 25 anni, in un’altra città. Non trova lui impiego, figuriamoci se lo troverò io. Appena sentono che sono stata in galera, scappano. Lui, me lo scrive, dice di sentirsi uno zingaro, Io, impotente, mi sento una madre piccola”. Dentro, per le donne, le opportunità sono ridotte al minimo. A parte i lavori domestici di cucina, pulizie, distribuzione vitto – a rotazione, le ore retribuite via via tagliate – resta solo la sartoria “Gomito a gomito”, tre socie della cooperativa che crede nel laboratorio e nelle detenute piegate sulle macchine per cucire.

“E’ brutta da dire, ma quando esci se non hai una famiglia che fai? La barbona? E che significato ha il percoso che hai seguito in carcere, se il reinserimento è una ruota della fortuna?” Il futuro moltiplica le incognite. Il budget per i corsi, al maschile e al femminile, è stato ulteriormente ridotto. Per finanziare il progetto Acero – collocamento in comunità e avviamento all’impiego – sono state abolite le borse lavoro. Per finanziare la leggi Smuraglia, gli incentivi agli imprenditori che assumono dentro gli istituti, i fondi sono stati sottratti al denaro a disposizione per pagare i lavoranti e le lavoranti.

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Carceri: linea moda disegnata da detenute

230361_detenute modelle genova pontedecimo(ANSA) – TORINO, 17 MAR – Bracciali in stoffa con piccoli volti di donne serigrafati, borsoni militari, borse ricamate a mezzo punto di colori accesi, chiuse e aperte, pochette ed espadrillas cucite artigianalmente: sono alcuni degli accessori moda della nuova collezione Fumne 2013-2014 creata, per il terzo anno dalla donne detenute del carcere Le Vallette di Torino.

Una collezione accurata dai toni sorprendenti, con stoffe raffinate recuperate dalla detenute con mesi di lavoro e realizzata grazie al progetto ‘La casa di Pinocchio’ che dal 2008 organizza laboratori creativi per detenute di eta’ tra i 25 e 55 anni. Alcuni pezzi sono stati presentati al Macef di Milano e a Parigi e sono stati venduti in Giappone, oltre che in alcuni dei negozi piu’ in di Torino e altre citta’. Si tratta di progetti di design esclusivi ai quali hanno collaborato stilisti noti come il piu’ grande naso italiano Laura Tonatto.

”Un progetto che va bene e che da’ molta soddisfazione alle donne coinvolte – hanno spiegato le organizzatrici – ma che ha bisogno d’aiuto per andare avanti e per avere una diffusione che ne permetta il mantenimento. Tra i lavori fatti, anche uno, molto partecipato, sull’immagine della Madonna, analizzata come figura religiosa e come donna. ”Un progetto, quest’ultimo – e’ stato ancora spiegato – che ha dato molta serenita’ e occasione di approfondimento alle detenute coinvolte”.


Canada, due detenuti evadono in elicottero

vietnam-war-med-evac-helicopter-rescue-2Quebec – Scena da film in Canada, dove due detenuti sono evasi da una prigione in elicottero. Il fatto è avvenuto domenica in Quebec.
Uno dei due evasi è stato arrestato poche ore dopo insieme ad altri due complici, mentre anche il secondo detenuto sarebbe vicino all’arresto. Secondo quanto ricostruito, i due complici armati hanno preso in ostaggio il pilota dell’elicottero e l’hanno obbligato a sorvolare la prigione di Saint-Jerome, a nord di Montreal: a quel punto hanno calato una scala di corda ai due detenuti che si trovavano sul tetto del penitenziario.

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Territori: detenuto liberato dopo lungo sciopero fame

459-0-20130223_180527_2CD70C7CUn militante di Hamas, Ayman Sharawneh, ha oggi accettato di mettere fine ad uno sciopero della fame condotto ad intermittenza in una prigione israeliana negli ultimi otto mesi dopo aver appreso che sarà liberato ma subito confinato alla striscia di Gaza, per i prossimi 10 anni. Lo ha reso noto Kadura Fares, un dirigente dell’organizzione di sostegno ai detenuti palestinesi.

Sharawneh (36 anni, padre di nove figli, originario di Hebron, in Cisgiordania) era stato rilasciato nel contesto dello scambio di prigionieri che oltre un anno fa ha riportato in libertà il caporale israeliano Ghilad Shalit dopo una lunga prigionia a Gaza. La ragione per la quale Sharawneh è stato nuovamente imprigionato non è stata resa nota alla stampa.

Nel frattempo altri tre detenuti palestinesi proseguono in Israele lunghi scioperi della fame.

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Detenuto evade da Policlinico Modena

evasion(Adnkronos) – Oggi, verso mezzogiorno, un detenuto tunisino, arrestato nei giorni scorsi per droga, e’ scappato dal policlinico di Modena, dove era piantonato nel reparto detentivo. Lo rende noto il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. ”E’ riuscito a scappare dopo essere uscito dal reparto per effettuare una visita medica. Non si conoscono ancora le modalita’ del fatto. Nel frattempo sono in corso le ricerche da parte della polizia penitenziaria per rintracciare l’uomo – riferisce Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe – Cio’ dimostra, ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che con certe persone non si puo’ mai abbassare la guardia e la sicurezza deve essere l’elemento fondamentale da tenere in considerazione, sia nel carcere, sia fuori”.


Nigeria, liberati 170 detenuti

aaUn commando armato ha attaccato una prigione del nord della Nigeria e ha liberato i 170 detenuti. Nell’assalto sono rimasti uccisi un agente di polizia penitenziaria e un passante. Lo riferiscono fonti ufficiali. E’ accaduto nel carcere di Gwoza, al confine con il Camerun e situato a 130 km dalla città ribelle di Maiduguri, roccaforte del gruppo islamico Boko Haram. Gli assalitori sono arrivati a bordo di auto e moto urlando “Allah è grande”.

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Presidio davanti al carcere di Ferrara

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La mattina del 13 giugno 2012, i ros dei carabinieri portano a termine la cosiddetta “Operazione Ardire” che porta all’arresto di dieci compagni, accusati di “associazione  sovversiva con finalità di terrorismo”. Sono accusati di fare parte della Federazione Anarchica Informale e di essere gli autori di numerosi attentati per mezzo dell’invio di plichi esplosivi inviati ad altrettanti responsabili del dominio.
Il 14 settembre vengono arrestati altri due compagni accusati di essere gli esecutori della gambizzazione dell’a.d. di Ansaldo Nucleare Adinolfi.
Dopo parecchi mesi di reclusione nel lager di Alessandria, Stefano, Sergio, Alessandro, Peppe, Alfredo e Nicola vengono trasferiti, tra il 6 e il 9 marzo, nel carcere di Ferrara, fresco dell’apertura della nuova sezione di Alta Sicurezza, dove i compagni sono tuttora rinchiusi.

 

RIMANE PRIORITARIO DIMOSTRARE LA SOLIDARIETÀ A TUTTI COLORO CHE VENGONO SEQUESTRATI DALLO STATO E RILANCIARE LA COMPLICITÀ RIVOLUZIONARIA.

 

TERRORISTA È LO STATO

 

Sabato 23 marzo, ore 12
Presidio sotto il carcere di Ferrara, 
Via Arginone 327

 

Come arrivare al carcere di Ferrara:

 

Per chi arriva in auto:

 

Uscire a Ferrara Sud, seguire le indicazioni per il Centro e entrare su Via Bologna.
Alla prima rotonda, svoltare a sinistra su Via Veneziani direzione fiera.
Alla rotonda, in corrispondenza dell’entrata in Fiera, in fondo a Via Veneziani, svoltare a destra su Via Aldo Ferraresi.
Proseguire dritto alla prima rotonda e a sinistra alla seconda, entrando in Via Arginone e seguire le indicazioni per la casa circondariale.

 

Per chi arriva in treno:

 

Usciti dalla stazione, seguire sulla destra Via San Giacomo. Alla prima fermata sulla destra (100 metri), prendere il bus n. 7 (h. 11:45; 12:20) fino alla fermata carcere.

 


Detenuto prende in ostaggio sei persone in carcere mostrando una granata

hostage-situationLe forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere di Malandrino, dove un detenuto albanese accusato di omicidio e già evaso due volte da carceri di massima sicurezza ha preso in ostaggio sei persone e chiede di essere liberato

Atene (Grecia), 17 marzo 2013 – Un detenuto condannato in Grecia per omicidio ha preso sei ostaggi nel carcere di Malandrino chiedendo di essere rilasciato. Alket Rizaj, questo il nome dell’uomo, di origini albanesi, dice di avere con sé armi pesanti e una foto scattata da un prigioniero e ottenuta da Ap mostra il sequestratore con quella che lui sostiene sia una granata di fianco ai sei ostaggi in manette. Tra gli ostaggi ci sono sia dipendenti del carcere che detenuti.

L’uomo era già evaso due volte dal carcere di massima sicurezza di Korydallos ad Atene, nel 2006 e nel 2009, entrambe le volte a bordo di elicotteri che hanno prelevato lui e un altro detenuto, Vassilis Paleokostas, mentre si trovavano nel cortile del carcere.

Le forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere, che si trova nella zona centrale della Grecia, mentre alcuni funzionari e un procuratore stanno portando avanti le trattative. Sul posto si trova anche l’avvocato del sequestratore.

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La pazzia dietro le sbarre: se il manicomio è un carcere

La legge 180 non ha eliminato la segregazione manicomiale. Togliendo credibilità alla psichiatria, Basaglia ha alimentato la concezione moralistico-punitiva della malattia mentale
occhimani2L’opinione pubblica non ha la percezione esatta dell’emergenza psichiatrica in atto in Italia che ha legami con una situazione più generale. Scrive Amanda Pustilnik, docente dell’University of Maryland: «Oggi i nostri ospedali psichiatrici più grandi sono le prigioni (.). Le prigioni di Stato spendono circa 5 miliardi di dollari per incarcerare detenuti affetti da patologie mentali che non sono violenti. Stando a quanto afferma il Dipartimento di Giustizia 1,3 milioni di individui con malattie mentali sono incarcerati nelle prigioni di stato e federali a fronte di soli 70.000 individui assistiti negli ospedali psichiatrici».
Si viene messi in carcere solo per essere afflitti da malattie mentali e per aver disturbato l’ordine pubblico e non perché si siano commessi reati penalmente rilevanti. Nel luglio del 2004 The House Comitte on Governement Reform ha pubblicato uno studio dal quale risulta che negli Stati Uniti vengono incarcerati bambini (anche di sette anni) con gravi patologie mentali senza che essi siano responsabili di condotte criminali.
Rispetto agli ideali illumunistici che hanno ispirato la Costituzione americana, la situazione appena descritta è paradossale per il venire meno della fondamentale distinzione operata dal medico Philippe Pinel durante la Rivoluzione francese: dalla fine del 700, i malati di mente furono separati dai criminali e liberati dalle catene. Nasceva così una nuova branca della medicina: la psichiatria.
A distanza di oltre due secoli notiamo una inversione di tendenza: si ritorna alla confusione fra criminalità e pazzia, al prevalere della logica della segregazione e della punizione. Il ritorno a orientamenti preilluministici è dovuto al significato sociale che ha assunto la malattia concepita come un cedimento colpevole, una mancanza di controllo e del senso di responsabilità personale. È la vecchia idea cristiana della pazzia come influenza demoniaca, come complicità con il male, la quale riappare in una forma secolarizzata.
Dalla mentalità religiosa deriva l’approccio punitivo alla malattia mentale, che ha prevalso negli Usa. La punizione dovrebbe rinforzare l’adesione all’etica su cui è fondata la società e garantire, tramite la severità della pena, il rispetto delle norme. Per la concezione moralistico-punitiva le persone con malattie mentali avrebbero difetti della volontà o del carattere che li rendono incapaci di controllarsi: imporre loro criteri restrittivi aiuterebbe ad ottenere comportamenti accettabili e ad aumentare il senso di responsabilità. Il giudice si sostituisce allo psichiatra poiché quest’ultimo considerando le malattie semplici “disturbi” od opinabili convenzioni diagnostiche, non è in grado di fornire criteri certi e non manipolabili di non imputabilità. Pertanto l’essere psichicamente malati anche gravemente non garantisce di solito negli Stati Uniti, l’impunità rispetto ai crimini violenti.
lalibertaterapeuticaIn Europa Anders Breivik è stato dichiarato sano di mente con criteri diagnostici del DSM IVin un processo nel quale si è affermata la tendenza alla punizione piuttosto che alla cura.
E in Italia? Il caso di Erika e Omar a Novi Ligure, quello della Franzoni a Cogne o dei coniugi pluriassassini di Erba hanno visto prevalere una logica punitiva estranea alla psichiatria. Perché ci troviamo di fronte a questa tendenza? La professoressa Amanda C. Pustilink non chiarisce il punto essenziale cioè il ruolo avuto dalle istituzioni psichiatriche nel permettere che il modello moralistico-punitivo della malattia mentale si affermasse: cento anni di freudismo hanno lasciato il segno. Proprio negli Usa, comunque, i media a partire dagli anni 90 hanno denunciato il fallimento della psicoanalisi mentre la psichiatria organicistica, subentrata al freudismo, si prepara a un clamoroso “disastro”, dovuto alla mancanza di scientificità, con l’edizione del nuovo DSM V nel maggio 2013.
I medici americani sono impegnati a distribuire psicofarmaci a una popolazione di soggetti “normali” sempre più vasta, utilizzando diagnosi che sembrano create ad hoc per favorire gli interessi delle case farmaceutiche. I casi più gravi sono sottoposti a terapie che possono amplificare la tendenza alla violenza, come l’iloperidone assunto da Adam Lanza (l’autore della strage nella scuola di Newport).
Le carceri funzionano da contenitori per ogni sorta di patologie mentali che, in un regime di inaudita violenza e perversione, subiscono un aggravamento. Gli effetti sono devastanti sui singoli e sulla società. In Italia, patria di Cesare Beccaria che voleva la pena commisurata razionalmente al delitto e che era contro la tortura, si sta verificando qualcosa di analogo a quanto avviene negli Usa. L’adesione acritica ai modelli diagnostici americani, l’abuso degli psicofarmaci, il ricorso alla Tec (Terapia elettroconvulsivante, l’elettroschok), toglie credibilità alla psichiatria e favorisce l’affermazione del modello moralistico-punitivo della malattia mentale. Dato che i medici appaiono incapaci di prevenire e curare le patologie psichiche la gestione di queste ultime è demandata, ai giudici e ai tribunali. La legge Orsini-Basaglia ha vuotato i manicomi di circa centomila degenti negli ultimi decenni ma, nello stesso lasso di tempo, si sono riempite in un modo inverosimile le carceri.

C’è un’emergenza psichiatrica nelle prigioni: secondo un’indagine epidemiologica dell’Agenzia regionale di sanità i detenuti con “disturbi psichiatrici” sono 1137, il 33.4 per cento nella sola Toscana. Il carcere funziona come contenitore di patologie psichiche, che non entrano nel circuito dei servizi psichiatrici. Con la chiusura dei manicomi non sempre sono state create strutture alternative pertanto molti soggetti sono rimasti senza controllo o rete di protezione e sono finiti nelle maglie della giustizia. Le prigioni sono gironi infernali. Prendono il sopravvento l’idea di rovina, il vuoto affettivo, l’umiliazione e l’ emarginazione: le varie patologie diventano manifeste e si aggravano. I quadri psicopatologici si strutturano in forme croniche, difficilmente curabili. L’identità sessuale, in un contesto di violenza e promiscuità forzata, subisce spesso una destrutturazione irreversibile. Il suicidio è un esito drammatico la cui frequenza, anche oltre venti volte la norma, è in diretta relazione al sovraffollamento e agli abusi.
Come far fronte a tale situazione? Il 31 marzo prossimo in virtù della legge Marino è prevista la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: l’ evento ha un forte significato simbolico anche se interessa 1400 persone, su un totale di 66.721 detenuti italiani. Gli Opg sono stati l’emblema della schizofrenia istituzionale: individui affetti da vizio totale o parziale di mente e quindi non imputabili sono stati sottoposti a un regime carcerario in condizioni di degrado inimmaginabili. Per non dire delle torture fisiche e psicologiche. È necessario che questa chiusura sia occasione non solo per proporre strutture di intervento alternative ma per un ripensamento della psichiatria nel suo insieme. Andrea Zampi, il pluriomicida-suicida di Perugia è stato sottoposto nel 2012 a Pisa a due cicli di otto TEC: un intervento “terapeutico” o una prassi senza alcuna base scientifica che ha aggravato le condizioni del paziente? Oggi gli psichiatri non hanno competenze adeguate ad affrontare la psicosi con il metodo della psicoterapia: lo psicofarmaco o la TEC sono inefficaci e alla lunga pericolosi.

La psichiatria deve allora fare un salto culturale e metodologico dotandosi di nuovi criteri scientifici e formativi. L’esperienza dell’Analisi collettiva che fa capo alla teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, costituisce un’esperienza pilota con quasi quarant’anni di cura, formazione medica e ricerca scientifica, unica nel suo genere, a cui hanno partecipato e partecipano migliaia di persone e centinaia di psichiatri, impegnati ad approfondire la conoscenza della realtà psichica oltre il riduzionismo organicista e il moralismo della ragione e della religione. Come scrive Adriana Pannitteri in La pazzia dimenticata (L’Asino d’oro, 2013): «La malattia mentale non si risolve semplicemente buttando giù i muri dei manicomi, ma in maniera più solida cercando di sapere cosa c’è dentro la psiche di chi è ammalato».

Articolo pubblicato dallo psichiatra Domenico Fargnoli sul suo sito domenicofargnoli.com

 


Carcere di Uta, salta l’accordo: cantiere lumaca, operai in agitazione

fotoCostruzioniBig1É saltato l’accordo tra l’impresa Opere pubbliche che sta realizzando il nuovo istituto penitenziario di Uta e il Commissario straordinario con delega al carcere, il prefetto Angelo Sinesio. Non è stata pagata la mensilità di febbraio e la Cassa edile arretrata. “Non sono stati rispettati gli impegni firmati a Roma – lamenta il segretario regionale della Fillea Cgl,  Chicco Cordeddu – lunedì mattina scriveremo al prefetto di Roma perché si sostituisca all’impresa. Almeno in questo modo gli impegni saranno onorati. Gli operai attendono il saldo delle retribuzioni  di febbraio e la Cassa edile. Non si può andare avanti con questo continuo tira e molla. Non accetteremo ulteriori ritardi”.
Nel cantiere di Macchiareddu, da tempo, purtroppo, a mesi alterni sventolano le bandiere dei sindacati che proclamano lo sciopero. Fuori a protestare i lavoratori. La precarietà e l’incertezza della busta paga che forse non arriverà strema i quaranta operai. Sono disperati.  Se  poi l’azienda non versa le rate alla Cassa edile, non spetta loro neppure il premio di anzianità di aprile. In parecchi hanno paura perché le rate da pagare non  concedono slittamenti.
Intanto, ieri gli operai hanno pulito per bene il reparto dove si terranno i colloqui con i detenuti e l’ala della parte maschile. Con la nave proveniente da Civitavecchia arriveranno gli articolati pieni di mobili. Arredamenti per le zone  già ultimate. Il mese scorso erano arrivati i letti e li hanno  scaricati e sistemati gli operai. Domani no, restano a casa. I lavoratori hanno chiesto al geometra chi domani avrebbe scaricato la mobilia. Non è arrivata risposta. Allora le voci hanno iniziato a circolare. La struttura carceraria è costruita per conto del Ministero delle Infrastrutture mentre l’arredamento riguarda il Ministero di Grazia e Giustizia. Per questo probabilmente, se ne occuperà la struttura penitenziaria. Ecco allora che le voci corrono veloci: chi scaricherà i camion e sistemerà gli arredi  nella sala colloqui e nelle celle maschili?

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Prigionieri – Solidarietà per Sergio

diffondiamo da informa-azione

Solidarity-Breaks-ChainsDa più di 40 giorni un compagno molto determinato è in sciopero della fame per ottenere i colloqui con la sua compagna. All’interno di un carcere è chiaramente più difficile che fuori far sentire la propria voce per ottenere le proprie rivendicazioni, ancora di più in una sezione AS2, creata apposta per confinare chi si batte contro questo mondo infame ed evitare che si organizzi con tutti gli altri detenuti per creare delle lotte all’interno di una prigione. Una delle poche forme di scontro che restano ai ribelli in regime Alta Sicurezza è utilizzare il proprio corpo come campo di battaglia, la rinuncia al cibo come mossa per mettere in crisi l’avversario e sperare che ceda.
Il 4 marzo è stata presentata l’istanza per i colloqui tra Sergio e Katia al Tribunale della Libertà di Milano. Il giudice responsabile si è preso del tempo per dare un risposta, che probabilmente sarà negativa,dato che lo stesso giudice ha fatto notare che la cartella clinica di Sergio continua ad essere buona. Non conta il fatto che una persona non mangi da un mese e mezzo, chi amministra la giustizia, col tipico cinismo arrogante, col tipico disinteresse schifoso e borghese nei confronti della gente, passa sopra sentimenti e sofferenze. Non ce ne stupiamo, chi è capace di rovinare delle vite con delle condanne può ogni sorta di nefandezza.
I giudici e i procuratori avranno anche la pancia piena dal loro mestiere infame ma non hanno quello che ha un compagno come Sergio: la dignità, la fierezza di un individuo in lotta contro un mondo ingiusto!
Sergio sta continuando con determinazione la sua battaglia, il suo morale è alto nonostante i giorni passati senza cibo e nonostante abbia dovuto sostenere il trasferimento nel carcere di Ferrara, con tutto quello che comporta l’affrontare un nuovo istituto penitenziario.

Pensiamo che sia doveroso per tutti e tutte sostenere Sergio in questo momento!
Innanzitutto scrivendogli.

Sergio Maria Stefani
c.c. via Arginone 327
44122 Ferrara

Indirizzo, fax e mail del Tribunale di Milano sono questi:

Via Freguglia n. 1 – 20122 Milano
02 – 59902341
tribunale.milano@giustizia.it

E’ di importanza vitale sostenere da fuori un compagno che lotta in carcere. Tutti i conflitti, tutti giustissimi e necessari, che portiamo avanti nelle nostre città non possono sostituire né devono distoglierci dalla solidarietà sincera verso un nostro compagno che si batte come può. La solidarietà dei compagni è determinante nel motivare, nel tenere alto il morale di chi lotta in una prigione e potrebbe influire sulle scelte dei suoi aguzzini, se non altro dimostrando che quella persona non è sola.
E’ fondamentale che chi sceglie lo scontro all’interno di un carcere sappia che le sue rivendicazioni verranno supportate dall’esterno di quelle mura.

Solidarietà per Sergio!
Solidarietà per Madda, Maurizio e tutti i ribelli che si battono all’interno di una prigione.
Tutti liberi!

Cassa di Solidarietà Aracnide


Carcere di Teramo: detenuto sistemato nei locali della Polizia Penitenziaria, troppo sovraffollamento

images (8)Detenuto con gravi patologie sanitarie sistemato in una stanza (senza sbarre) destinata agli agenti penitenziari, rimasti persino senza il bagno.

Anche questa è la conseguenza del sovraffollamento delle carceri e di una situazione che per gli agenti diventa ogni giorno sempre più difficile da gestire e sopportare. La denuncia arriva dal segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini che racconta l’arrivo, ieri, del nuovo carcerato. Il reparto destinato ai detenuti nell’ospedale civile di Teramo conta appena 2 letti e ieri erano entrambi occupati.

La sistemazione di fortuna è stata trovata, spiega il responsabile del sindacato di polizia, negli spazi che sono riservati agli agenti “per evitare che il detenuto venisse spedito in un altro ospedale della provincia, a circa 30 km dall’istituto. Inoltre la patologia di cui è affetto ha sconsigliato la sistemazione insieme ad altri detenuti degenti del reparto detentivo”.

Così è stato collocato all’interno di una stanza del Reparto detentivo dell’ospedale in uso al personale, senza sbarre alla porta d’ingresso e della finestra.

Il personale impiegato, oltre ad essere stato privato dell’uso del bagno si trova ad operare senza alcuna sicurezza. “È evidente che quanto sta accadendo”, denuncia Pallini, “va a calpestare qualsiasi elemento di dignità professionale, ma colpisce anche il lato umano di tutto il personale che apprendendo tali notizie si ritrova ancor più scoraggiato ed abbandonato a se stesso, demotivato, con il rischio che si venga a creare un disagio psicologico che potrebbe ripercuotersi oltre che individualmente, anche in un contesto familiare ed affettivo”. Il Sappe chiede un intervento “serio e deciso, a tutti i livelli, affinché si ponga fine al verificarsi di simili inconvenienti e perché, l’istituto teramano non diventi la discarica di essere umani del Provveditorato”.

primadanoi.it


Nel carcere di Montorio solo quattro educatori per ottocento detenuti

DIRTY DANCING. Nel carcere provinciale di Cebu, nelle Filippine, ogni quarto sabato del mese succede qualcosa di straordinario: i cancelli si aprono, centinaia di persone vengono fatte entrare nel cortile, e qui passano il pomeriggio assistendo allo spettUn numero crescente di reclusi con sentenze definitive (pari al sessanta per cento degli 820 complessivi), e la quasi totale assenza dei magistrati di sorveglianza. Il tutto condito da un sovraffollamento che, con celle da due popolate in quattro e carenza di docce, non dà pace ai galeotti di Montorio. È questo il dato rilevato dal senatore radicale Marco Perduca che ieri, dopo la precedente visita del ferragosto del 2009, ha nuovamente messo piede nella struttura penitenziaria scaligera. Lasciando la poltrona a Roma, Perduca invita i futuri colleghi a «individuare le leggi che hanno creato questo stato di cose», considerando la necessità di un’amnistia e di varie riforme, ma partendo anche dall’utilizzo delle pene alternative già prevista dalla legge. «Due terzi dei reclusi a Verona sono stranieri, soprattutto di lingua araba», fa notare il senatore, sottolineando la necessità di specifici corsi di mediazione culturale per agenti ed educatori, a loro volta ridotti all’osso da prepensionamenti e mancanza di fondi. «Nella struttura ci sono solo quattro educatori per oltre ottocento detenuti, il che vanifica il loro ruolo di anello di congiunzione tra la direzione e i reclusi, alimentando frustrazioni, episodi di autolesionismo e tensioni». Ad agevolare un po’ le cose e distendere il clima, per fortuna, ci sono le occasioni di lavoro, rivolte a circa 120 persone. «La garante dei detenuti e la direzione stessa sono molto attente a potenziare l’offerta di lavoro interna, che aiuta anche a garantire un minimo di autosostentamento agli stranieri». Gli stessi che, per altro, sono i più penalizzati nella possibilità di beneficiare dei domiciliari negli ultimi diciotto mesi di pena da scontare. «Trovare un alloggio idoneo per gli stranieri non è sempre facile. Ma a Verona manca anche la presenza in carcere dei magistrati di sorveglianza che potrebbero agevolare tale passaggio per chi è recluso nella nuova sezione riservata ai cosiddetti dimittendi». Maggiore attenzione, per il senatore in uscita, andrebbe riservata anche al circuito dei giovani adulti, ossia quei cento ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni che necessitano di un trattamento diverso, a partire da una maggiore istruzione scolastica. «Gli studi si fermano alle medie, ma non bastano. Si parla di corsi di scuola alberghiera, che agevolerebbero la ricerca del lavoro in uscita dal carcere, ma per ora sono ancora inesistenti».

Fonte


USA: Il condannato che vuole essere giustiziato

NEGLI STATI UNITI

Il condannato che vuole essere giustiziato
Da 2 anni attende l’esecuzione: «Fate presto»

images1Per Gary Haugen, in carcere per omicidio, pena di morte rinviata al 2015 per decisione del governatore dell’Oregon. Ma lui chiede l’anticipo per protesta contro la giustizia Usa

Gary Haugen, 51 anni. La pena di morte per lui è prevista nel 2015Il condannato a morte che vuole essere giustiziato. È la storia di Gary Haugen, 51 anni, che deve scontare una pena di morte per omicidio. Il detenuto, segregato oramai da oltre trent’anni nel penitenziario di stato dell’Oregon, avrebbe dovuto essere giustiziato due anni fa. La pena capitale nei suoi confronti, tuttavia, non è stata eseguita, e non lo sarà più: nel 2011 il governatore dell’Oregon, John Kitzhaber, ha infatti sospeso tutte le esecuzioni fino alla fine del suo mandato, ossia fino a gennaio 2015. Haugen, però, vuole essere giustiziato e ha portato la sua richiesta davanti alla corte suprema dello Stato.

MORATORIA – Uno scontro giudiziale alquanto perverso tra un condannato a morte e il governatore dell’Oregon sta impegnando in questi giorni i giudici della corte suprema dello Stato americano. Trentadue anni fa Gary Haugen fu condannato all’ergastolo per aver assassinato la madre della sua ex fidanzata. Mentre era rinchiuso uccise un compagno di cella con la complicità di un altro prigioniero e nel 2007 venne condannato alla pena capitale, riferisce la National Public Radiohttp://www.npr.org/blogs/thetwo-way/2013/03/14/174340080/death-row-inmate-fights-for-right-to-die-in-oregon. Il governatore John Kitzhaber è però un convinto oppositore del supplizio supremo. Due anni fa proprio Kitzhaber aveva pubblicamente denunciato l’«iniquità e la perversione» del sistema penale del suo Stato ed espresso «profondo rammarico» per aver approvato la pena capitale per due detenuti durante i suoi mandati precedenti. Di più: il politico e medico statunitense aveva annunciato una moratoria e, come detto, sospeso tutte le esecuzioni.

«CODARDO» – Haugen, durante la sua detenzione, ha rinunciato a presentare appello contro la sentenza in segno di protesta contro il sistema giudiziario chiedendo di essere messo a morte. L’uomo pretende che «lo Stato applichi la legge in nome del popolo», ha querelato il politico definendolo un «cowboy di carta che non ha avuto il coraggio di premere il grilletto». Ora sarà la corte suprema dello Stato a dover decidere come affrontare lo spinoso caso. Per Harry Latto, l’avvocato del prigioniero, il governatore Kitzhaber non deve travalicare le sue competenze. Quest’ultimo, invece, si appella al suo diritto di grazia.

LE PERIZIE -In verità, sul fatto che il detenuto sia o meno in grado di comprendere cosa gli stia per accadere, le perizie neuropsichiatriche si sono susseguite negli anni con esiti spesso contrastanti. Ciò nonostante, la vicenda ha avuto una grande eco sulla stampa. In un editoriale il Statesman Journalhttp://community.statesmanjournal.com/blogs/editorialblog/2013/03/15/our-sunday-editorial-let-gary-haugen-die chiede che Haugen «possa finalmente morire per mano dello Stato», e che sia anche «l’ultimo nella storia dell’Oregon». Il governatore vorrebbe invece che fossero i cittadini a votare in un referendum l’abolizione della pena capitale; la consultazione potrebbe tenersi già il prossimo anno. Una decisione della corte è invece attesa a fine anno. L’Oregon ha eseguito due condanne a morte da quando la pena capitale è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1977: una nel 1996 e l’altra nel 1997.

MARYLAND – Nel frattempo anche lo Stato del Maryland dice basta con la pena di morte: venerdì sera la Camera dei rappresentati ha approvato una legge che la sostituisce con l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata. È il diciottesimo Stato dei 50 dell’Unione che cancella la pena capitale. La legge, già passata al Senato la settimana scorsa, è stata approvata con 82 voti a favore e 56 contrari. Con il Maryland sono sei gli stati che negli ultimi sei anni hanno fermato il boia: il Connecticut, l’Illinois, il New Mexico, lo stato di New York e il New Jersey.

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Carceri: telefonino in cella a Messina

telefono_cellulare(ANSA) – MESSINA, Un telefono cellulare e’ stato trovato in una culla del settore nido della sezione femminile del carcere di Messina da agenti della polizia penitenziaria. La perquisizione e’ stata eseguita dopo la scoperta di una sim in un pacco nel settore colloqui. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ritiene ”indispensabili interventi immediati, compresa la possibilita’ di ‘schermare’ gli istituti penitenziari”.


Iglesias, direttore carcere e comandante sotto inchiesta per perquisizioni abusive

perquisizioni1Il direttore e l’ex comandante della polizia penitenziaria del carcere di Iglesias sono finiti sotto inchiesta per abuso d’ufficio. Avrebbero omesso di segnalare alle autorità competenti la denuncia di un detenuto che rivelava la presenza di droga all’interno del penitenziario e avrebbero svolto delle perquisizioni “abusive”.

Marco Porcu, direttore della struttura e Gesuela Pullara, comandante degli agenti di polizia all’epoca dei fatti contestati, lunedì e martedì scorso sono stati invitati a comparire davanti al pm. Attraverso i loro legali hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Secondo quanto ipotizzato dagli inquirenti gli agenti della polizia penitenziaria avviarono delle perquisizioni nelle celle e negli uffici del carcere per avere riscontro di quanto segnalato da un detenuto: “Qui gira droga”. Un provvedimento che sarebbe stato svolto senza ottemperare agli obblighi del caso: informare gli interessati della perquisizione, redigere il verbale e segnalare l’accaduto alle autorità competenti.

I dettagli dell’indagine sono riferiti nell’articolo di Marco Noce sull’Unione Sarda in edicola.

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Carcere, anche gli occhiali sono un’emergenza

images (7)C’è un problema, fra i tanti, giganteschi drammi che affliggono le carceri in Italia, di cui non si parla mai: gli occhiali. Sembra niente, rispetto alla non-vita di detenuti costretti dove dovrebbe starne la metà, come a Sollicciano (1000 invece di 450). E invece è moltissimo. Anche perché il calo della vista che colpisce gran parte dei detenuti (in gran parte sotto i 45 anni) a pochi mesi dall’ingresso in carcere è un po’ il simbolo di questa istituzione “contro” le persone, la loro dignità e i loro diritti.

N. J., marocchino 24enne, è qui da un anno: «Avevo una vista buonissima» racconta, «dopo sei mesi la tv mi sembrava tutta sfuocata, adesso non sopporto più neanche la luce». A. H., albanese, 21 anni, ha due occhi bellissimi «ma» dice «non riesco a scrivere una cartolina alla mia famiglia». L. M., italiano di 26 anni, dopo appena quattro mesi ha fatto domanda per gli occhiali: «Pensavo di avere un tumore al cervello, prima vedevo lontano dieci chilometri, ora neanche il fondo del cortile».

Succede così, racconta Salvatore Tassinari, presidente dell’associazione Pantagruel, che lavora in carcere con i suoi volontari: «Quando cominci a passare le giornate chiuso in una cella, la prima cosa che si riduce è il campo visivo. Il tuo sguardo spazia al massimo entro i pochi metri che dividi con i tuoi compagni, e a poco a poco perde il senso della profondità. Si abitua a non spingersi oltre, finché, a un tratto, non ci riesce proprio più». E non è solo la percezione della distanza, a svanire dietro le sbarre. Se ne va, piano piano, anche un altro piacere della vita, il senso dei colori: «Qui dentro ci sono solo tonalità di grigio» spiega Tassinari, «e l’occhio, a un certo punto, comincia a leggere come grigio anche quello che c’è fuori ». Tutto, insomma, in questo mondo chiuso, si contrae, e la vista che cala diventa il simbolo stesso della vita in carcere, costretta «a rinunciare a ogni aspettativa». Cioè ad annullarsi. Se poi si aggiunge che «dopo la vista, di solito, si alterano anche l’olfatto e l’udito, e il detenuto vive in un continuo, nevrotizzante, stato di allerta», c’è da stupirsi che la gente si suicidi?

Ma non basta: ancora più grave, se possibile, è che nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti non possano procurarsi gli occhiali: «I medici del carcere glieli prescrivono, ma se non glieli portiamo noi» dice Tassinari, «nessuno di loro ha la possibilità di comprarseli». Troppo cari per chi «a malapena ha i soldi per comprarsi un francobollo o una lametta da barba nello spaccio del carcere». Solo che adesso i soldi mancano anche a Pantagruel, «quelli degli enti pubblici sono mirati solo su progetti specifici, non su un bisogno endemico come questo, che ogni anno ci costa dai 3 ai 4 mila euro».

Non resta allora che organizzare ogni tanto cene di autofinanziamento (info:www.asspantagruel.org), «dove ai tanti che neanche lo immaginano spieghiamo come per i detenuti gli occhiali siano ormai un genere di prima necessità».

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Guantanamo. Uno sciopero della fame lungo un mese

Al Jazeera riporta la notizia secondo cui le condizioni del carcere di massima sicurezza di Guantanamo siano ulteriormente peggiorate. I detenuti avrebbero iniziato, ormai un mese fa, uno sciopero della fame, e ora alcuni riversano in gravi condizioni di salute.

road-to-guantanamo-8Sono anni che si sente parlare di Guantanamo, l’infernale prigione all’interno della base navale Usa sull’isola di Cuba. Un carcere di massima sicurezza in cui i detenuti sono costretti a subiretorture e seviziequotidianamente, senza alcun rispetto per il loro essere umani.

Da circa un mese, dunque, 130 prigionieri hanno deciso di protestare. Smettendo di mangiare. Uno sciopero della fame, che ha come scopo quello di attirare l’attenzione mondiale sull’ulteriore peggioramento delle condizioni carcerarie.

A parlarne per prima è stata Al Jazeera, l’emittente televisiva del Qatar. In un lungo servizio riguardante appunto Guantanamo, ha spiegato la situazione in cui riversano tutti i detenuti, sospettati di essere terroristi islamici e per questo rinchiusi nel centro di detenzione senza previo processo.

Da quanto riportato dai giornalisti arabi, i prigionieri sono vittime non solo di vessazioni, ma anche di totale incuria e abbandono. La loro salute stessa non è considerata prioritaria. “Gli avvocati di alcuni detenuti”, spiegano dall’emittente “sostengono che i loro clienti hanno frequenti perdite di coscienza e tossiscono sangue.”

Una tesi immediatamente smentita dal responsabile della struttura, il quale ha specificato tramite una e-mail come solo sette dei 166 prigionieri di Guantanamo stiano conducendo lo sciopero della famen, e le condizioni di salute di tutti siano costantemente monitorate.

Sebbene, nel 2008, Barack Obama, appena eletto, promise che avrebbe fatto chiudere il centro detentivo, a tutt’oggi poco è cambiato e “Alcuni avvocati dei diritti umani sostengono che le condizioni carcerarie nella prigione sonoulteriormente peggiorate”, continua Al Jazeera.

D’altronde, sarebbe una grande perdita d’immagine, per il presidente americano, mantenere la sua promessa e far sbarrare i cancelli del carcere. Due sondaggi condotti dal Washington Post e dall’emittente Abc durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2012, e riportati dai giornalisti arabi, “rivelano un altro punto di vista: più di due terzi degli statunitensi sono favorevoli al mantenimento del carcere di Guantanamo, mentre solo il 24 per cento pensa che la prigione dovrebbe essere chiusa”.

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Condannata per gli scontri NOTAV arrestata per blitz anarchico

stencil_sfrattiTorna in carcere Marianna Valenti, nota attivista No Tav già condannata in primo grado per aver preso nel settembre 2011 a un attacco al cantiere di Chiomonte. E’ stata arrestata dalla Digos per aver preso parte al blitz degli anarchici alle ex Nuove di corso Vittorio. L’accusa è di resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Durante il raid di ieri mattina – quando una quarantina di anarchici hanno messo a soqquadro la sede degli ufficiali giudiziari e occupato parte dell’edificio – è sempre stata in prima linea. In manette, con le stesse accuse, anche un’altra ragazza italiana e una donna brasiliana

Fonte  Repubblica.it

Lunedì mattina, in risposta alla paratica degli sfratti a sorpresa, alcune famiglie e compagni solidali decidono di occupare l’ufficio delle pubbliche relazioni degli ufficiali giudiziari. Alla fine della giornata di lotta, tre compagne vengono tratte in arresto; una di loro è Claudia, una sfrattata di origine brasiliana, le altre sono Simona e Marianna. Simona è stata sicuramente pestata, con segni evidenti, delle altre due non abbiamo informazioni certe. Come sempre accade quando lasciano troppi segni, le accuse messe in campo contro le compagne sono di resistenza e lesioni.
Mercoledì mattina si terrà l’udienza di convalida degli arresti a porte chiuse.

DA PARTE NOSTRA MASSIMA SOLIDARIETA’

AL FIANCO DI CHI LOTTA! MARIANNA LIBERA SUBITO!

BASTA SFRATTI; BASTA TAV!

Per capire meglio diffondiamo da Macerie

Sfratti anticipati? Casini assicurati!

In Borgo Vittoria un nutrito picchetto antisfratto aspetta l’Ufficiale Giudiziario. Per la cronaca, oggi l’ufficiale è Lino Mazzeoben conosciuto da molti di quelli che da mesi in città resistono agli sfratti per essere tra i più fedeli servitori dei padroni di casa. Come già successo altre volte, Mazzeo non si presenta per paura di affrontare il picchetto, ma questa volta decide di fare il gradasso più del solito. Contattato al telefono dalla famiglia sotto sfratto, spiega più o meno così la situazione: «Avete organizzato il picchetto? E allora oggi lo sfratto non lo eseguiamo, rimandiamo le carte al giudice e sarà lui a decidere quando eseguirlo. Ma a voi non verrà più comunicata nessuna data!». La minaccia di usare la strategia dello sfratto a sopresa è chiara, ma il picchetto non si perde d’animo e decide di prendere l’iniziativa. Alcuni rimangono a guardia della casa per evitare scherzi, e una quarantina di sfrattandi e solidali decide di prendere un bus e andare nella tana del lupo: l’Ufficio Notificazioni Esecuzioni e Protesti, la base degli Ufficiali Giudiziari che si trova nelle vecchie carceri Nuove, a due passi dal Tribunale. Un piccolo corteo chiassoso negli uffici parte alla ricerca del direttore, che già altre volteera stato messo alle strette e aveva lasciato il foglio con il rinvio. Ma questa volta si protesta anche contro le nuove mosse della Questura, che sembra proprio aver deciso di usare sistematicamente la tecnica degli sfratti a sorpresa.

L’ufficio viene velocemente chiuso al pubblico, e si riempie di polizia: agenti in divisa e in borghese, accompagnati da una ventina di celerini. Il gruppone che aveva occupato gli uffici viene radunato nel cortile interno, la polizia lascia uscire subito le donne con i bambini piccoli e pretende di identificare tutti gli altri. Inizia una lunga fase di stallo: da una parte chi aveva occupato l’ufficio e vuole la proroga, dall’altra la polizia che vuole i documenti. Intanto fuori si forma un piccolo presidio che viene caricato non appena decide di bloccare Corso Vittorio Emanuele, e qui la celere si porta via un solidale. Anche all’interno degli uffici c’è un po’ di parapiglia, qualcuno viene preso di peso dalla celere e caricato su un blindato, c’è chi si sente male e chi si arrampica sulle finestre e sale verso il cornicione.

Alla fine i fermati sono dieci, di cui tre ragazze che non avevano con loro i documenti d’identità. Vengono tutti portati nella Questura di via Tirreno, e anche lì fuori si forma un presidio solidale: una sessantina di persone che per un paio di ore chiedono la liberazione dei fermati, facendo un gran baccano con slogan, pietre battute sui pali e scoppiando alcuni petardoni. In sette vengono rilasciati dopo alcune ore, le tre ragazze senza documenti invece rimangono dentro: chi esce racconta di averle viste passare nel corridoio della Questura, peste e ammanettate; una, addirittura, viene presa a calcida un agente delle volanti giusto di fronte al gabbione dove erano rinchiusi gli altri. Al momento non sappiamo se la Polizia deciderà di arrestarle o meno, né che cosa sia successo esattamente nel tempo trascorso tra il loro fermo e l’arrivo in corso Tirreno: ve lo racconteremo nelle prossime ore.

Aggiornamento 12 marzo, ore 19. Claudia, Marianna e Simona si trovano alle Vallette. Gli avvocati ancora non hanno potuto vedere gli atti né parlare con le arrestate per cui ancora non sappiamo  cosa sia successo ieri dentro la camionetta e poi nel cortile della Questura di via Tirreno. Domani, in carcere e a porte chiuse, si svolgerà l’udienza di convalida.

macerie @ Marzo 11, 2013

Assi nella manica

Da qualche settimana tirava un’aria rilassata ai picchetti antisfratto. Ufficiali Giudiziari che arrivano senza farsi pregare troppo, rinvii generosi, anche di tre mesi, senza tante discussioni. E soprattutto nessuna concentrazione di sfratti in unico giorno per i mesi di maggio e giugno. Il tutto accompagnato da sorrisi beffardi e frasi sibilline, come se gli Ufficiali Giudiziari sapessero di avere qualche asso nella manica. E forse giovedì scorso hanno deciso di inziare a calarne qualcuno.

Al mattino presto alcune camionette piene di celerini si parcheggiano in via Renier, inBorgo San Paolo. Sono lì per assediare un alloggio dove vive una famiglia che da qualche mese resiste allo sfratto. “Piccolo” particolare: il prossimo accesso era stato fissato per il 19 marzo, e quindi per giovedì mattina non era stata organizzata nessuna resistenza. Lo sfratto anticipato viene eseguito senza troppa fatica: questurini, ufficiale giudiziario, proprietà e avvocato se la sbrigano in fretta e se ne vanno soddisfatti. Per gli amanti degli aspetti tecnici segnaliamo che si tratta di una procedura ai margini della legge, ma pur sempre legale. Si può anticipare uno sfratto senza comunicarlo all’inquilino, basta trovare un giudice che ci metta la firma, ed è risaputo che i padroni di case, come tutti i padroni, trovano facilmente dalla loro partegiudici compiacenti. In questo caso pare che l’autorizzazione sia stata firmata dal Dr. Marco Nigra, Giudice del Tribunale di Torino, magistrato sinistro e democratico.

 

La mossa dello sfratto anticipato, per la verità, non è nuova. Meno di un anno fa, nel cuore della Barriera di Milano, la Questura aveva già usato questa strategia: sfratto anticipato di una settimana per paura di incontrare resistenza, eseguito senza troppa fatica. La persona sfrattata si era già sistemata da tempo in un’occupazione abitativa del quartiere, e quindi la mossa non gli aveva creato grandi problemi. In risposta, erano stati improvvisati nei giorni seguenti alcuni corteini e volantinaggi al mercato di Porta Palazzo, in quello di Piazza Cerignola e in Borgo Vittoria. E sui muri della Barriera di Milano erano anche comparsi scritte e manifesti per raccontare la storia e ricordare i responsabili materiali dell’escuzione dello sfratto.

È ancora presto per tirare delle conclusioni, ma se la Questura deciderà di utilizzare sistematicamente questa nuova strategia, episodi come questo segneranno senza dubbio un cambio di passo. I capoccioni che si ritrovano ogni settimana al Tavolo per la Sicurezza e l’Ordine Pubblico avranno senza dubbio constatato il fallimento della strategia dei “terzi martedì del mese”. Concentrare tanti sfratti in un solo giorno non ha portato i risultati sperati, al contrario ha provocato un rafforzamento della resistenza. Barricate davanti ai portoni e strade bloccate, decine di sfrattandi e solidali – torinesi ma non solo – pronti a resistere dall’alba e soprattutto un sacco di rinvii conquistati con la forza della lotta. Quella che doveva essere la mossa vincente per stroncare la resistenza agli sfratti, si è rivelata per ora un flop.

Il piatto piange: qualche carota e qualche briciola

Intanto, mentre la Questura mette a punto le sue strategie, inzia a scaldarsi la macchina dell’assegnazione di case popolari, perchè la minaccia del bastone per funzionare bene deve essere accompagnata da qualche carota. A partire dalla primavera l’ATC dovrebbe iniziare ad assegnare decine di alloggi, ma non riuscirà sicuramente a far fronte alle migliaia di richieste ricevute. Come fare dunque, visto che i procedimenti di sfratto aumentano ogni anno, la resistenza continua, si allarga e si rafforza e chi rimane senza casa decide sempre più spesso di occuparne una vuota? Ed è qui, pronto a coniugare profitto e gestione della miseria, che interviene il cosidetto “terzo settore”.

A lanciarsi per primo è stato Mauro Maurino, responsabile del Consorzio Connecting People. Per i lettori più affezionati di //Macerie e storie di Torino//  e in generale per tutti i nemici dei Centri di Identificazione e Espulsione, Maurino dovrebbe essere una vecchia conoscenza. La settimana scorsa,  intervistato da un cronista locale di Repubblica in merito alla fine della cosiddetta “emergenza profughi”, Maurino oltre a piangere miseria come al solito ha pensato bene di rilanciare. Visto che l’affare dei profughi libici sta sfumando, ha subito fatto notare che «le strutture utilizzate per gli stranieri possono garantire un’alternativa anche per l’emergenza abitativa». Un bel business per lui e per le sue cooperative, e qualche castagna tolta dal fuoco all’amministrazione comunale e alla Questura. La posta in gioco, giusto per essere chiari, è presto spiegata nell’articolo: se le cooperative sociali si occupassero degli sfrattati, questo «potrebbe scongiurare altre occupazioni di case da parte dei senzatetto». Quando si dice “giocare a carte scoperte”…

Pochi giorni dopo si fanno avanti CaritasCompagnia di San Paolo e Philip Morris, unite in una Santa Alleanza che ha annunciato di voler intervenire sulla questione emergenza casa dando vita al progetto Sis.te.r. La Chiesa, una fondazione bancaria e una multinazionale del tabacco mettono sul piatto “ben” 70mila euro, una cifra ridicola con la quale vorrebbero offrire alle famiglie che vengono sfrattate alcuni appartamenti per il soggiorno temporaneo. Ad occuparsi del progetto sarà Synergica, giovane cooperativa sociale che in appena due anni di vita ha già messo in piedi diversi programmi di housing e mix sociale in collaborazione con Comune di Torino,fondazioni cattoliche e cooperative rosse.

Staremo a vedere cosa succederà nelle prossime settimane. Per i mesi di marzo e aprile sono ancora in programma i “terzi martedì del mese”, e vedremo se la Questura preferirà ancora una volta prendere tempo o deciderà di forzare. Nei prossimi giorni capiremo anche se proveranno a ripetere la mossa degli sfratti anticipati, decidendo dialzare la posta. Questa scelta metterebbe sicuramente in seria difficoltà le reti di resistenza agli sfratti che sono nate e cresciute in città negli ultimi anni. Ma la scelta di trasformare di fatto gli sfratti in sgomberi, approffittando del fattore sorpresa, non è certo una mossa che aiuta la pace nel mondo. E potrebbe essere una buona occasione per uscire dal calendario delle scadenze definite dalla controparte, per dare finalmente il giro a questo tavolo di bari da quattro soldi.

macerie @ Marzo 10, 2013


Aggiornamenti su Maurizio Alfieri e lettera dal carcere di Terni

Rabbia_bigDalle ultime lettere di Maurizio apprendiamo che il DAP lo ha trasferito a Terni quale “soggetto da gestire” e che si trova da solo nella sezione di isolamento, sottoposto al regime del 14 bis. “Lotterò sempre e ovunque per i miei diritti, senza paura esenza timori a testa alta e il DAP questo non deve mai dimenticarselo. Finché non otterrò i miei diritti non farò altro che divulgare quello che succede, che mi mandino in Sicilia o in Africa non fa differenza”. “Salutatemi caramente tutti i compagni/e su internet e dite a tutti/e che anche senza caloriferi, al buio, e con le catene, la loro solidarietà scalda il mio cuore e che abbraccio tutti/e coloro che mi sono vicino, uno per uno, una per una”. Aggiunge che aspetta con impazienza il presidio (che si terrà sabato 30 marzo, in contemporanea con quelli di Tolmezzo e Saluzzo).
Maurizio è in sciopero del “passeggio” per via delle sue condizioni di salute: nonostante l’artrosi alle ginocchia, non gli permettono di fare ginnastica e il dirigente sanitario ha trasformato in “tosse” una bronchite da lui stesso diagnosticatagli qualche giorno prima. Episodi di ordinaria indifferenza carceraria. Ma a questi si aggiunge il trattamento speciale riservato a Maurizio. La posta gli viene sistematicamente fatta sparire (ora ha anche la censura). Un agente ha provato di nuovo a incastrarlo con proposte di traffici da lui fermamente respinte. Quanto al 14 bis, la motivazione è l’accusa (peraltro smontata dal tribunale del riesame) di “tentata evasione”. E infatti lo stesso regime è stato applicato (con l’aggiunta di piccole vendette quotidiane) anche a Valerio, trasferito da Tolmezzo a Piacenza.

Per scrivere a Maurizio:

MAURIZIO ALFIERI
C.C VIA DELLE CAMPORE 32
O5100 TERNI

E dal carcere dove è prigioniero diffondiamo una lettera di appello alla mobilitazione
Lettera dal carcere di Terni – Appello alla mobilitazione

All’attenzione di tutti/e i compagni e le compagne e a chi crede che un senso di umanità possa aver senso anche in carcere.
Le condizioni di vita del carcere di Terni (come tutti i carceri sovraffollati all’inverosimile in Italia con condizioni igieniche proibitive e dove il freddo ti graffia la pelle, e la convivenza è ridotta a un metro quadro e mezzo per ciascun detenuto…); ciò che viene descritto dalla lettera (biglietto trafugato all’esterno) rasenta la tortura.
Dal carcere di Terni viene un grido di aiuto: urla nelle orecchie di tutti noi.
I detenuti insieme con Maurizio minacciano lo sciopero della fame,come già avviene in diverse carceri italiane, ma l’inchiostro non trova spazio sui giornali per questo tipo di informazioni e di sofferenze.
Chiediamo a tutti/e voi di solidarizzare firmando questa petizione online per far pressione affinché un garante, un deputato, un eletto nel consiglio regionale faccia una visita all’interno per verificare le condizioni dei detenuti.
Il Carcere Italiano è al collasso da tutti i punti di vista, un’Amnistia e forme alternative alla detenzione potrebbero alleggerire la sofferenza che ne deriva.
Come fuori dalle galere non hanno alcuna considerazione quanti lottano per la propria vita, come gli operai del Sulcis che si chiudono dentro i pozzi per difendere il proprio lavoro, quanti si suicidano perché perdono il lavoro, così anche nelle carceri la Crisi economica sta peggiorando ancor di più la vita carceraria, così vi sono tanti suicidi in carcere per l’impossibilità di sopportare oltre, ancora): proprio appena un mese fa un detenuto del Marocco a Terni si è tolto la vita.
Costruiamo una mobilitazione e portiamo la nostra solidarietà agli ultimi della terra.
-Alla vs. Coscienza-

Ricordando la canzone del Maggio di De Andrè ……che nessuno si senta assolto, siamo tutti coinvolti…….


Nasce la ‘Carta del carcere e della pena’, un codice deontologico per giornalisti

mita94ROMA  –  Un ex detenuto non è più un “delinquente”. E se l’ignoranza della legge non è ammessa per nessun cittadino, tantomeno lo è per chi di mestiere scrive sui giornali. Perché anche chi vive dietro le sbarre, o ne esce grazie a una misura alternativa, o ha terminato di espiare la sua pena merita un’informazione corretta. Facile a dirsi, non sempre a farsi. Per questo è nata la “Carta delle pene e del carcere”: codice deontologico dedicato a chi scrive di imputati, condannati, detenuti, delle loro famiglie e del pianeta carcere in genere. La Carta, sottoscritta dagli ordini dei giornalisti di Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia, manca ancora dell’approvazione da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine. Lo scopo, senza interferire con la libertà di cronaca, è quello di fissare qualche paletto alla cattiva informazione.

LA CARTA DI MILANO

La certezza della pena. Come la Carta di Treviso sui minori o la Carta di Roma sugli immigrati, la Carta delle pene (detta anche “Carta di Milano”) mira a fissare una sorta di decalogo per i giornalisti. Il nuovo codice deontologico, che verrà presentato il 15 marzo a Regina Coeli a Roma, nasce da un dibattito all’interno delle redazioni carcerarie sulla necessità di “informare gli informatori”: troppo spesso infatti chi scrive di carcere ignora cosa prevedono le leggi che regolano questa materia. La Carta afferma sostanzialmente che non è ammessa l’ignoranza della legge e sono leggi anche quelle che consentono a un detenuto di accedere a benefici e misure alternative. “La possibilità di riappropriarsi progressivamente della libertà non mette infatti in discussione la certezza della pena: semplicemente un giudice ha deciso un diverso modo di espiazione, con tutti i limiti previsti dalle misure alternative applicate”.

Il diritto all’oblio.
 La Carta invita anche a tenere presente che “il reinserimento sociale è un passaggio complesso che dovrebbe avvenire gradualmente, come previsto dalle leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi premio, la semi-libertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali. Le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena” La Carta fa poi riferimento al diritto all’oblio. Una volta scontata la pena, l’ex detenuto che cerca di ritrovare un posto nella società non può essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media che continuano a ricordare ai vicini di casa, al datore di lavoro, all’insegnante dei figli e ai loro compagni di scuola il suo passato.

Il diritto di cronaca. La Carta ammette “ovvie eccezioni per quei fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno. Si pensi ai crimini contro l’umanità, per i quali riconoscere ai loro responsabili un diritto all’oblio sarebbe addirittura diseducativo. O ad altri gravi fatti che si può dire abbiano modificato il corso degli eventi diventando Storia, come lo stragismo, l’attentato al Papa, il “caso Moro”, i fatti più eclatanti di “Tangentopoli”. È evidente poi che nessun problema di riservatezza si pone quando i soggetti potenzialmente tutelati dal diritto all’oblio forniscono il proprio consenso alla rievocazione del fatto”.

Fonte


Romagna, carceri, si cambia: taglio di risorse e accorpamenti

images (5)RIMINI – Il carcere di Rimini rischia di essere accorpato a quello di Forlì. In ottica di spending review, anche la direzione delle due case circondariali rischia di essere coperta da un solo funzionario. E’ quanto contenuto tra le righe del provvedimento emanato dal Governo Monti riguardo al taglio dei dirigenti pubblici, una decisione che avrà le sue ricadute anche sulla gestione dell’amministrazione penitenziaria.

Gli accorpamenti produrranno, inevitabilmente e a ricaduta, una serie di altre novità che, per certi versi, appaiono come un deciso ritorno al passato. Ad esempio, la direzione del carcere di Rimini spetterà a Forlì, città che ospiterà il penitenziario più grande della Romagna.
E’ infatti in fase di costruzione il nuovo carcere (di cui per il momento sono state realizzate le sole fondamenta), che avrebbe dovuto essere inaugurato per il 2013. Il rallentamento dei lavori ha spostato la data di previsione di fine lavori. L’opera dovrebbe essere completata entro il 2015.

Per quanto riguarda la casa circondariale di Rimini, da segnalare che da qualche giorno la direzione è già retta dal dirigente di Forlì in quanto la direttrice Maria Benassi, in carica dal lontano 2001, sta usufruendo delle ferie non godute prima di essere collocata a riposo con il prossimo primo giugno. Con il pensionamento di Benassi (per ora “tecnicamente” in ferie), la direzione del carcere è stata assunta da Palma Mercurio, vice direttore del carcere di Bologna e direttrice del carcere di Forlì. I bene informati ritengono che possa essere lei, a giugno, a ricevere definitivamente l’incarico di coordinare i due penitenziari romagnoli.
Anche il carcere di Ravenna è gestito da una figura apicale in condivisione con Ferrara mentre la direttrice di Rimini, prima del suo pensionamento, aveva retto le sorti del carcere bolognese.

Sul giro di valzer delle poltrone dei direttori degli istituti di pena e soprattutto degli accorpamenti, che determinano, gioco forza, che le strutture vengano di fatto rette da personale della polizia penitenziaria, era intervenuto anche Alessandro Margara, garante dei detenuti della Toscana, nonché ex capo dell’Amministrazione penitenziaria per esprimere le sue preoccupazioni. Un intervento, il suo, che aveva suscitato la perplessità e la replica di Donato Capece, segretario del Sappe il sindacato autonomo di polizia penitenziaria il quale aveva preso la palla al balzo per tornare a proporre con urgenza “un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda ad esempio circuiti penitenziari differenziati per i tossicodipendenti, il lavoro obbligatorio in carcere, l’espulsione dei detenuti stranieri ed un maggiore ricorso alle misure alternative’’.

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Aumentano il numero delle donne in carcere, il dato da un Rapporto dell’UE

Un Rapporto dell’Unione europea denuncia che le donne nelle carceri stanno aumentando più degli uomini.  Lo “Sportello dei Diritti” impegnato a tutelare le detenute.

jail-girlSempre più donne si danno al crimine. Non è solo una percezione di come cambia in peius la società ma è un fenomeno studiato che purtroppo cresce giorno dopo giorno e impone di rivedere il sistema carcerario già inadeguato ai numeri che è costretto a sopportare.

Se è vero, infatti, che si è arrivati ad una parità formale nei diritti e l’uguaglianza è stata raggiunta in molti settori della vita quotidiana, è anche vero che le donne si avvicinano agli uomini anche in quelli negativi.

Le statistiche parlano chiaro: dal 2011, l’aumento del numero di donne che sono detenute a livello globale è aumentato di decine di volte più velocemente di quello degli uomini, secondo i dati nazionali così come è aumentato il livello della gravità dei reati che hanno commesso.

Mentre il numero di autori di reati di sesso maschile sono rimasti stabili sostanzialmente stabili negli ultimi dieci anni, i dati più recenti dimostrano un aumento del 15 per cento per il “gentil sesso”. Ciò quasi a denotare che anche l’aggressività nelle donne è aumentata costantemente negli ultimi 10 anni.

I ricercatori sono d’accordo, sostenendo che il comportamento violento da parte delle donne è in aumento e non mostra segni di rallentamento.

Anche un rapporto delle Nazioni Unite rivela che il tasso di crescita del numero di donne che entrano in carcere è superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante la ridotta percentuale del 4,9% sulla totalità dei detenuti rappresentata dal gentil sesso.

A dire il vero, in relazione alle 100mila donne che sarebbero detenute attualmente nelle carceri europee, il rapporto cambia da paese a paese. Solo per fare gli esempi estremi, si passa da Malta dove le detenute sono appena una decina, alla Spagna dove arrivano al numero di 5.000 rappresentando l’8,8% del totale della popolazione carceraria.

L’Italia, invece, si pone in linea con la media europea con una percentuale di detenute pari a circa il 4,7% del totale, che è anche, più o meno lo stesso dato che viene confermato anche su scala mondiale dalle Nazioni Unite.

A livello mondiale le cose quindi non cambiano con le donne che comunque costituiscono una porzione molto piccola della popolazione carceraria, che varia generalmente dal 2 al 9%. Solo 12 sistemi penitenziari superano questa soglia nel resto del pianeta, mentre una statistica del Regional Office of Europe ha individuato nell’Azerbaijan la quota meno elevata (1,5%).

Ciò non vuol dire che il fenomeno sia sotto controllo. Ed, infatti, la tendenza di cui parlavamo conferma una crescita dappertutto. Per tornare all’Europa basta verificare come in Inghilterra e in Galles il numero delle donne che per varie ragioni sono finite in istituti di detenzione è aumentato negli ultimi dieci anni della sorprendente percentuale del 200%, a fronte di una crescita del numero degli uomini pari al 50%.

L’Unione Europea, ha anche precisato che la maggior parte delle donne detenute scontano pene brevi, legate al possesso di stupefacenti. A ciò consegue un permanente ricambio della popolazione carceraria che ovviamente aggrava la già complessa situazione dei sistemi penitenziari. Altro problema rilevato dall’UE riguarda il fatto che il numero di detenute in attesa di giudizio è equivalente se non addirittura superiore a quelle che scontano una pena definitiva.  Ciò comporta ulteriori questioni circa la gestione perché le donne in attesa di giudizio hanno opportunità ridotte di accedere ai programmi lavorativi, di mantenere contatti con le famiglie e anche con gli altri detenuti.

Tante, tantissime sono anche madri. Le statistiche conosciute in Europa sono sconvolgenti se si pensa che ci sono circa 10.000 bambini al di sotto dei due anni che hanno una madre in carcere. Mentre sono centinaia di migliaia i bambini di età superiore ed i ragazzi fino alla maggiore età che devono fare i conti con una mamma detenuta.

In tal senso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2003 ha approvato una risoluzione che invita “governi, autorità internazionali, istituzioni a tutela dei diritti umani e organizzazioni non-governative a impegnarsi per aumentare l’attenzione verso lo stato detentivo delle donne, compresi i figli di donne in prigione, in modo da identificare i problemi principali e impegnarsi a risolverli”.

Questo perché lo sviluppo psicosociale dei figli corre pericoli di gran lunga maggiori quando è la madre a finire in carcere piuttosto che il padre. Uno studio inglese del 2008 ha rilevato che quando le madri sono detenute, nell’80% dei casi i padri non si prendono cura dei loro figli. Anche alla luce di tali dati, ormai quasi tutti gli stati europei consentono alle madri di tenere con sé i figli piccoli  scontano la loro pena. Permangono anche in tal caso divergenze fra le varie normative nazionali che  passano da un limite minimo di zero a uno massimo di sei anni per la permanenza dei bambini negli istituti. Solo in Norvegia non è consentito ammettere bambini nelle carceri mentre la media nel resto d’Europa è di tre anni.

Un altro dato che dovrebbe far riflettere è quello dell’età delle detenute. Negli ultimi anni, infatti, è possibile evidenziare una costante crescita delle ragazze che finiscono negli istituti correzionali per minori. Un esempio lampante in tal senso sono gli Stati Uniti, dove le giovani rappresentano ormai il 25% della popolazione dei riformatori.

Questi dati in prospettiva dovrebbe far preoccupare ancora di più.

Le donne più anziane, ossia quelle che superano i 50 anni di età sono una categoria che richiede trattamenti particolari in ragione a problemi legati principalmente alla salute.

Molte, sono peraltro le straniere che costituiscono a livello europeo oltre il 30% delle donne rinchiuse negli istituti. La maggior parte hanno commesso crimini che riguardano la droga oltre a quelle detenute per ragioni concernenti il loro status illegale nel paese dove vivono.

Purtroppo, le detenute hanno molti più problemi di salute rispetto agli uomini. Molte di loro in genere arrivano in carcere in condizioni già complicate legate alla vita in povertà, all’uso di droghe, alla violenza familiare, a violenze sessuali e gravidanze giovanili. Nello specifico, le donne dipendenti da sostanze stupefacenti mostrano in proporzione maggiore degli uomini problemi come tubercolosi, epatite, anemia, ipertensione, diabete e obesità.Anche le malattie mentali sono molto diffuse negli istituti penitenziari femminili, e riguardano l’80% delle detenute. I due terzi, ad esempio, mostrano disordini legati a stress post-traumatico.

Ma sono tante le problematiche connesse alla detenzione delle donne ed all’aumento del fenomeno che per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, richiedono una revisione profonda dei sistemi carcerari a partire da quello nostrano che serva non solo per porre un limite a quella che appare come una vera e propria emergenza ma anche per gestire un problema in crescita ed adeguarsi a necessarie esigenze di civiltà, umanità e tutela dei diritti.

Se è vero, infatti, che di fronte a tale grave situazione le istituzioni europee hanno dato input a politiche per arginare il fenomeno e migliorare le condizioni delle donne in carcere è altrettanto vero che il processo di adeguamento dell’Italia procede a rilento.

Tra gli obiettivi fissati dall’UE ed ancora non del tutto realizzati nel nostro Paese vi è da segnalare in primo luogo la richiesta di ricorrere il più possibile alle misure alternative, soprattutto per le donne incinte e per quelle che hanno figli piccoli. In secondo, di assicurare un servizio sanitario efficiente e capace di rispondere ad ogni tipo di esigenza. Ed in ultimo di considerare come primario l’interesse del bambino quando questo è coinvolto nella detenzione della madre.

In quest’ottica, come “Sportello dei Diritti”, siamo impegnati a tutelare tutte le donne a partire dalle madri ed i loro bambini che subiscono trattamenti degradanti e non corrispondenti ai dettami delle linee guida europee all’interno delle carceri italiane.

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Milano: pessimo cibo e scarsa igiene… la Garante “boccia” le carceri di San Vittore e Opera

le-dita_595 (1)Negativo il quadro che emerge dalle visite di Alessandra Naldi a San Vittore e Opera. Appuntamento per dibattere la questione il 16 marzo a “Fa la cosa giusta”, la fiera degli stili di vita sostenibili.
Nelle carceri di Milano non solo si sta stretti, ma si mangia malissimo e l’igiene è in condizioni pietose. È quanto emerge dalle visite effettuate da Alessandra Naldi, nuovo garante dei detenuti del Comune di Milano, negli istituti penitenziari di San Vittore e Opera. Il problema del sovraffollamento è quindi aggravato da altre carenze. “Ho ricevuto molte segnalazioni sullo stato dei materassi, sulla scarsa pulizia delle lenzuola – spiega la garante. Inoltre i detenuti si lamentano del fatto che non possono procurarsi disinfettanti per pulire le celle”.
Anche il cibo è pessimo: per legge dovrebbe esserci una cucina che sforna i pasti ogni 200 detenuti, ma in realtà ce ne sono molte di meno. “C’è sicuramente un problema di qualità delle forniture -aggiunge la Naldi-, e dobbiamo capire anche se ci sono problemi di organizzazione. Alcuni detenuti si arrangiano comprando generi di prima necessità dallo spaccio interno, ma i prezzi spesso sono più alti che all’esterno e non tutti possono permetterselo”.
La Garante parlerà delle condizioni delle carceri milanesi a “Fa la cosa giusta!”, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo e che si terrà a Fieramilanocity, dal 15 al 17 marzo. Il suo intervento è previsto per sabato 16 marzo, dalle ore 12 alle 13, insieme a Lamberto Bertolè (presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano) e di don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile Beccaria) durante l’incontro “La paladina degli invisibili”.

Fonte: dire


Il lavoro dei detenuti? E’ un business

La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali

LEGANERD_041384Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354.  Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono ‘empirici’) ma è anche un’opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d’opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E’ un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano.

La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall’associazione Antigone, ‘Senza dignità’, il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: “Nel primo semestre 2012” recita il report “a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi”. Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario.

“Quello che si tende a dimenticare” spiegano dall’osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane “è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio”.

Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese.

La mercede viene calcolata da un’apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria.

“Questa è la teoria” continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti “la pratica è un po’ diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro”.

Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all’interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministraizone Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012.

Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante.

Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa.

Un silenzio difficile da scalfire. “Solo da poco siamo riusciti a penetrare l’ambiente del carcere” conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano “Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione”. Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un’industria metalmeccanica. “Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l’azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l’orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi”.

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Aggredito ispettore penitenziario al Don Bosco di Pisa

maurice-tillet-grrrrr“Momenti di alta tensione ieri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove un detenuto ha prima aggredito un ispettore di Polizia penitenziaria e poi ha fomentato una rivolta in sezione”. Lo denuncia il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) facendo notare come l’episodio rappresenti “l’ennesimo sintomo di criticita’ del penitenziario toscano, a tutt’oggi senza un Comandante di reparto della Polizia”.

“Un nostro ispettore e’ stato violentemente colpito da un detenuto ristretto per reati comuni che, con altri 4-5 reclusi aveva messo in atto una violenta protesta – spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe – Le condizioni operative del personale di Polizia penitenziaria di Pisa sono sempre piu’ precarie e l’inquietante regolarita’ con cui avvengono eventi critici al Don Bosco, specie contro gli agenti, impone una ferma presa di posizione dei vertici regionali e dipartimentali”.

Ma non e’ solo la situazione del carcere di Pisa a destare preoccupazione. “Cosi’ non si puo’ piu’ andare avanti – denuncia Capece – Le gravi carenze di organico della Polizia penitenziaria ed il pesante sovraffollamento carcerario condizionano irrimediabilmente i livelli di sicurezza dei servizi all’interno delle sezioni detentive e durante le traduzioni dei detenuti”. Da qui il grido d’allarme lanciato dal segretario del Sappe: “I nostri agenti devono quotidianamente far fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti. Servono tutele e garanzie”.

Adnkronos


Liguria, troppi detenuti, tensioni nelle carceri

HMP-Brixton_1780858cCarceri liguri sovraffollate: è ancora allarme,. A denunciarlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e lo fa dati alla mano: sono 1.850 persone le persone detenute, quasi il doppio dei posti letto disponibili (1000). E la tensione resta alta.«Nelle sovraffollate carceri liguri – osserva Martinelli – i detenuti si sono resi protagonisti di 92 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) e 29 tentativi di suicidio». Secondo i dati resi noti dal Sappe hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati casi di suicidio. Sono state, infine, 93 le colluttazioni (7 a Imperia, 19 a Pontedecimo, 9 a Chiavari, 2 a La Spezia, 53 a Sanremo e 3 a Marassi) e 19 i ferimenti (12 a Marassi, 5 a Savona e 2 a Imperia). Sono state infine 5 le evasioni in Liguria da parte di altrettanti detenuti che non sono rientrati in carcere dopo aver fruito di permessi premio e semilibertà. Secondo il Sappe ad alimentare le tensioni nelle carceri è anche il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità).«In Liguria – spiega Martinelli – lavora solamente 1 detenuto su 5, e per di più per poche ore al giorno. Sul tema del lavoro in carcere c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti (circa il 20% dei ristretti). Peraltro, il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Stare invece 20 ore al giorno chiusi in cella favorisce una tensione detentiva fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni

(La Stampa.it)

 


Buoncammino: “No alla conta dei detenuti alle 3 del mattino”

aboliamo la svegliaUn ordine di servizio impone, nel penitenziario cagliaritano, una conta numerica notturna, alle 3 del mattino. “Un inutile dispendio di energie” in un carcere “sovraffollato”, dove un centro clinico ospita una trentina di ammalati e anziani, (tra cui diverse persone con gravi disturbi psichici) e  dove più di un terzo dei detenuti (oltre 200) sono tossicodipendenti. E’ la denuncia di Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che contesta l’ordine di servizio, assunto per riaffermare il principio della massima sicurezza negli Istituti Penitenziari.

“Sorprende”, afferma la Caligaris , “che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa ritenere di risolvere il problema della sicurezza con irruzioni notturne dentro le celle nel cuore della notte, senza considerare invece che l’Istituto conta oltre 540 detenuti anziché 345, secondo quanto stabilisce la capienza regolamentare, e che non è stato ancora colmato il deficit di circa 60 Agenti di Polizia Penitenziaria. Sembra inoltre che si voglia ignorare che dalla Casa Circondariale è quasi impossibile evadere”.

Secondo il consigliere regionale un’iniziativa di questa portata rischia di esasperare gli animi dei reclusi, costretti a condividere uno spazio ridottissimo anche in 6 persone. Potrebbe infatti suscitare reazioni finora scongiurate grazie ad un clima, improntato al dialogo e alla responsabilità dei detenuti “nonché incentrato sulla professionalità degli operatori”.

La conta numerica avviene in diverse momenti del giorno, come al mattino alle 6, e della sera e contempla spesso anche delle perquisizioni nelle celle. “Un tale controllo sistematico, nel cuore della notte, sarebbe inoltre impossibile senza un rafforzamento dell’organico”, aggiunge la Caligaris, “altrimenti si verificherebbe un’esposizione a rischio degli Agenti nel servizio notturno quando sono presenti soltanto 11 operatori per altrettante sezioni ciascuna delle quali è strutturata in più celle con letti che arrivano ai soffitti. Il Dipartimento”, conclude, “dovrebbe impegnarsi a favorire la territorialità della pena e ad attivare tutte quelle iniziative utili a ridurre il numero di detenuti, anziché continuare ad ammucchiarli e pretendere di fare nozze con i fichi secchi”.


Non riaprite quel Cie

fotoL’occasione è buona perché resti chiuso per sempre. Il Cie di Bologna è stato svuotato la scorsa settimana per lavori di ristrutturazione e molte voci ora chiedono che non venga più riaperto. Il ministero dell’interno ha stanziato 150mila euro dopo la visita dell’Ausl e un rapporto agghiacciante che conferma che nell’ex caserma Chiarini non vengono rispettati neanche gli standard minimi di dignità umana: chi ha visitato il Cie in questi mesi ha parlato di mancato rispetto di diritti umani.
Il sindaco Virginio Merola, entrato nel Cie a fine gennaio, ha parlato di “un cuore di tenebra”, “un settore speciale di punizione che non ha alcun senso” che, più che un centro di identificazione ed espulsione dall’Italia, è un luogo di “espulsione alla condizione umana”. L’ultima voce chiederne la chiusura definitiva in questi ultimi giorni è stata quella della Cgil che denuncia anche che gli operatori di Cie di Bologna e Modena non vengono pagati per mesi.

“Mancati interventi strutturali di natura idraulica, muraria, elettrica e igienico-sanitaria” si legge nel rapporto Ausl e significa che chi stava nel Cie era senza riscaldamento, con le finestre rotte che non vengono riparate e quando deve andare in bagno deve immergere camminare in una fogna a cielo aperto. A questo vanno aggiunti 4 casi di sospetta scabbia e la la mancata consegna regolare di indumenti, biancheria e prodotti per l’igiene da parte del nuovo ente gestore, il consorzio Oasi.
Di fronte a questo inferno il 2 marzo due internati hanno messo in atto l’ultima di una serie di proteste ed atti di autolesionismo che hanno contrassegnato il centro di via Mattei nei suoi 11 anni di vita: si sono cuciti le labbra con del filo per iniziare un estremo sciopero della fame. Un uomo e una donna, che non si conoscono, che erano detenuti in zone separate del Cie, ma che contemporaneamente prendono la stesa decisione perché, dicono chiaramente “Qui non ci dovrei stare”. Lei è malata e al Cie non ha l’adeguata assistenza, lui è finito al Cie dopo la detenzione in carcere, un supplemento di pena per il fatto di essere in terra straniera. Entrambi sono stati trasferiti, insieme a tutti gli altri detenuti, per lasciare vuoto il Cie di bologna.

Bastano 150mila euro per mettere a nuovo il Cie? La risposta, lampante, è no.
La cifra è esigua se confrontata con i 775mila euro stanziati nel 2006. Il 6 ottobre di quell’anno la Commissione di inchiesta e monitoraggio dei CPT italiani, istituita dal Ministero dell’Interno e presieduta da Stephan De Mistura, aveva visitato l’ex Caserma Chiarini e, nel rapporto che ne è scaturito, il CPT veniva “bocciato” perché risultava essere “il più invivibile d’Italia”. La motivazione, in quel caso era la presenza di “troppe sbarre” che rendevano il luogo claustrofobico: allora le sbarre del centro coprivano il cielo anche degli spazi aperti, con effetto “pollo in batteria”.
I 150mila euro non andranno inoltre ad intaccare la nuova gestione del centro: il consorzio Oasi è subentrato a fine 2012 alla Misericordia di Giovanardi con una gara al massimo ribasso: 28 euro per ogni detenuto, contro i 72 della vecchia gestione, e i 115 circa del carcere. Un taglio che colpisce direttamente la vita quotidiana dei migranti a cui non vengono consegnate coperte, biancheria intima, prodotti per la pulizia e che consegna le loro vite alla costrizione del nulla. Non ci sono attività all’interno del Cie, di nessun tipo, e per affrontare i mesi di attesa inutile molti migranti finiscono per diventare dipendenti dagli psicofarmaci. Finestre riparate e autospurghi per i bagni non miglioreranno la vita di chi, se dovesse riaprire il cie, per 18 mesi è costretto a dormire su letti di muratura, con lenzuola ignifughe con la certezza, poi, della deportazione o del foglio di via.

Dopo l’assegnazione dell’appalto in via provvisoria da parte del provveditorato alle opere pubbliche oggi, lunedì 11 marzo, nel Cie di Bologna dovrebbe partire il cantiere. La speranza di molti sta tutta nelle parole della garante regionale dei detenuti Desi Bruno: “I tempi potrebbero allungarsi” e “mai occasione come questa per chiudere definitivamente questa fallimentare gestione dell’immmigrazione”.

Infoaut