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TORINO – Un giovane detenuto ha appiccato un incendio all’interno di una cella del carcere minorile di Torino ‘Ferrante Aporti‘. Le fiamme hanno fatto scattare l’allarme antincendio e, quando gli agenti hanno provato a spegnerle utilizzando gli idranti, si sono resi conto che questi non erano funzionanti. Erano ‘a secco’.
L’incendio è stato comunque domato facendo ricorso agli estintori della vecchia struttura. L’episodio è stato denunciato dall’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, che ha chiesto all’amministrazione se la nuova struttura, inaugurata circa un anno fa, sia stata collaudata.
“La giustizia minorile va completamente riorganizzata” sottolinea il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci, che accusa il ministro Severino di essere “del tutto assente” rispetto ai gravi problemi dei penitenziari italiani. “E intanto – conclude – la polizia penitenziaria è abbandonata a sé stessa”.
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Una denuncia di quelle che non può passare inosservata. L’Osapp di Torino, l’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria, ha chiesto una bonifica urgente della mensa della Casa Circondariale del capoluogo piemontese. Il motivo è molto semplice: nel locale c’è scarsissima igiene dovuta alla presenza di una “miriade” di ratti e gatti.
“E’ necessaria una urgente verifica ispettiva da parte della competente Asl“. A fare la richiesta è il vice segretario generale dell’Osapp Gerardo Romano, secondo il quale non si tratta più solo una questione di invasione di topi e gatti, ma si tocca un problema molto più grande. “Questa volta c’è in gioco la salute dei poliziotti penitenziari e delle loro famiglie per le molteplici malattie che questi animali portano”.
Gatti randagi e ratti non solo girano per i locali del penitenziario come se nulla fosse, ma – come è nella propria natura – segnano il territorio con urine e feci, che gli agenti trovano dappertutto. “E’ impensabile – continua il sindacalista dell’Osapp -, che nel 2013 si debba ancora fare i conti con invasioni di topi e di gatti che girano indisturbati in locali dove si consumano i pasti e questo con possibili gravi ripercussioni sulla salute dei fruitori della mensa stessa. Inoltre si aggiunga il cattivo odoro con cui si è costretti a consumare i pasti”.“
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Cuba, (TMNews) – Dopo nove anni di attesa, denunce e polemiche, il governo cubano ha aperto ai media le porte di “Combinado del Este”, la più grande prigione del Paese.A favor di telecamera, il carcere di massima sicurezza cerca di mostrare il suo lato migliore: gli interni del cortile sono curati, con grandi spazi in cui detenuti corrono e giocano, perfino a baseball, lo sport americano per eccellenza.”I detenuti vivono in collettività. Praticamente non ci sono incidenti. Lavorano e studiano, la famiglia gioca un ruolo importante nella preparazione all’inserimento nella società”, dice il colonnello Carlos Quintana.Una descrizione idilliaca di un carcere messo sotto accusa da anni dai dissidenti per le condizioni indecenti delle celle, che non si vedono mai nelle immagini recenti, e del cibo definito “peggiore di quello che si dà agli animali”. Denunce suffragate anche da video girati con la telecamera nascosta e poi pubblicati su Internet su canali come “Derechos humanos a Cuba” e da testimonianze dirette come quella del prigioniero Reynol Vicente Sanchez, che in una lunga lettera qualche anno fa raccontava delle celle minuscole, invase da topi e scarafaggi, del caldo soffocante. “Queste condizioni disumane – scriveva sono degradanti per i detenuti”.
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Washington, 10 apr – Il cinquantenne Rickey Lewis, detenuto da 19 anni nel braccio della morte per aver ucciso nel 1990 George Newman e averne successivamente violentato la moglie, e’ stato giustiziato in Texas.
Lewis, condannato nel 1994 alla pena capitale, e’ stato dichiarato morto per iniezione letale alle 18.32 (ora locale) dal Dipartimento della Giustizia Criminale del Texas.
L’uomo, reo confesso della violenza carnale, ha sempre negato la responsabilita’ per omicidio.
L’esecuzione di Rickey Lewis e’ la seconda nello stato del Texas dall’inizio dell’anno.
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ROMA – Aveva tentato di rubare venti euro a un tabaccaio. Per questo motivo, un 57enne era detenuto da un mese e mezzo nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. L’uomo è morto la notte tra lunedì e martedì, probabilmente a causa di un infarto. A darne notizie è il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, precisando che si tratta del terzo detenuto che muore nelle carceri del Lazio da inizio anno.
ALCOLISTA – La vittima, detenuto da un mese e mezzo nella sezione G11 del carcere romano, doveva scontare una condanna per una tentata rapina ai danni di un tabaccaio. L’uomo, a quanto appreso dai collaboratori del Garante, era affetto da dipendenza dall’alcool e per questo, dal momento del suo ingresso in carcere, era stato preso in carico dal Sert ed aveva colloquio periodici con gli psicologi.
USO DEL CARCERE PER REATI MINORI– Martedì mattina l’uomo è stato trovato senza vita nel suo letto, morto probabilmente stroncato da un infarto. «Al di là dei motivi che hanno portato alla morte di quest’uomo – ha detto Marroni – fa riflettere la circostanza che un uomo con tali problematiche sia condannato a scontare in carcere una pena per una tentata rapina di 20 euro. La colpa è di una legislazione che prevede un uso abnorme del carcere, anche per i reati minori».
SOVRAFFOLLAMENTO – «Nelle carceri del Lazio registriamo un tasso di sovraffollamento di quasi il 50% – aggiunge Marroni – Occorrerebbe rivedere l’ordinamento nel senso di prevedere il carcere solo come extrema ratio. Ma, nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica e di quelli dei due rami del Parlamento, la politica sembra essersi di nuovo dimenticata del dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane».
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Genova – Un detenuto italiano di 45 anni, B.S. condannato per omicidio, è morto questa mattina per infarto nella sua cella all’interno del carcere di Genova Marassi. “La notizia della morte del detenuto intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. A Marassi ad esempio, alla data del 31 marzo scorso, c’erano 792 detenuti stipati in celle realizzate per ospitarne 450 e oltre 100 Agenti di Polizia Penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti”.
E’ il commento di Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Questa ennesima morte di un detenuto testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane. Lo scorso anno, a livello nazionale, sono morte in carcere per cause naturali 97 persone (82 italiani e 15 stranieri) e 56 si sono suicidate (36 italiani e 20 stranieri). Ben 1.308 sono i tentati suicidi sventati per fortuna in tempo dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria, che hanno anche impedito che 7.317 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) potessero determinare più gravi conseguenze ai ristretti che li hanno posti in essere. Nello specifico, in Liguria, nel 2012 i detenuti si sono resi protagonisti complessivamente di 92 atti di autolesionismo e 29 tentativi di suicidio. Hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati, per fortuna, casi di suicidio”.
Martinelli sottolinea infine che “dai dati in nostro possesso emerge che circa l’80% dei detenuti oggi in carcere in Italia ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano. Questo va ulteriormente ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 6mila unità. Rinnoviamo allora l’auspicio che la classe politica ed istituzionale del Paese non faccia cadere nel dimenticatoio le importanti e pesanti parole dette in più occasioni dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri “terribilmente sovraffollate” e ci si dia da fare – concretamente e urgentemente – per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ‘ripensi’ organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso ed un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale con contestuale impiego in lavori di pubblica utilità per il recupero ambientale del territorio. Oltre all’espulsione degli stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle prigioni del Paese di provenienza”.
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Diffondiamo un racconto di un viaggio trovato in rete, dal testo si evince che “quello che colpisce è il carcere”
È una mattina luminosa, l’aria è frizzante, il cielo terso, e ci pare la giornata ideale per visitare il ghiacciaio Martial, a sette chilometri da Ushuaia. Raggiungiamo in taxi il punto in cui si prende la seggiovia ed eccoci salire lentamente, dondolando sotto un sole piacevole ma non caldo, con il bavero tirato su e i guanti alle mani. Amo le seggiovie; ti godi l’aria aperta sospeso sopra boschi e torrenti, mentre i cavi ti trasportano sempre più in alto con una rilassante indolenza silenziosa. L’ho usata ogni volta che ho potuto, soprattutto sulle Dolomiti, ma qui è differente perché so di essere davvero molto lontano dalla mia Italia.
Arrivati a destinazione, davanti a noi si staglia la montagna e il ghiacciaio a cui diede il nome – nel 1883 – l’esploratore francese Louis Martial. Quassù, a circa ottocento metri sul livello del mare (non saliamo oltre perché non attrezzati), non sappiamo più se ammirare i ghiacci eterni o il panorama che appare sotto di noi: la città di Ushuaia, il Canale di Beagle, l’isola Navarino (la più australe del Cile) con il suo Puerto Williams, provincia dell’Antartica Chilena; il canale Murray la separa dall’isola Hoste, una terra ricoperta da tundra e ghiacciai e “raccontata” da Giulio Verne. Una vista bellissima, suggestiva, che comprende parte dei luoghi costeggiati con l’imbarcazione il giorno prima.
Camminiamo tra i sentieri in salita, non sempre agevoli, accompagnati dalla voce di un torrente che arriva dalla montagna portando a valle le sue limpide acque: un perlage di luci che si trasformano in musica sotto i raggi del sole. I ciottoli lisci e le pietre aguzze sono tasti bagnati; è sapiente il tocco dell’acqua. Qui puoi stare davvero in silenzio (solo i suoni della natura sono silenzio) e fermarti in ogni senso… puoi non pensare, non parlare, lasciarti andare al freddo che penetra le narici, al tiepido sole sui capelli, ai colori e a quella musica, al crepitio sotto gli scarponi che calpestano terra e sassolini. Puoi, anzi, devi farlo, centellinando ogni cosa per esser certo di portarla con te a casa.
Tornando giù ci fermiamo al rifugio per un sandwich queso y jamon (un panino con formaggio e prosciutto) che, dopo la camminata, pare il panino più buono del mondo!
Il pomeriggio è dedicato a una visita particolare, stavolta al chiuso: il carcere di Ushuaia. Dal 1884 al 1994 la città divenne una colonia penale destinata a pericolosi criminali ai quali erano riservati i lavori forzati; tra ergastolani purtroppo conosciuti (come il feroce serial killer Cayetano Santo Godino, di origini italiane, ucciso da alcuni prigionieri, e altri tristemente famosi), vi erano anche delinquenti comuni, prigionieri politici, sovversivi o anarchici che senza esclusione di colpi inseguivano l’idea di un mondo migliore. I prigionieri tagliavano la legna, costruivano la cittadina, la ferrovia e lo stesso carcere, grandissimo e a forma di stella. Non potevano di certo pensare di fuggire da un luogo così remoto, tra montagne e ghiacciai, sempre battuto da un vento gelido e tanto vicino all’Antartide; i pochi che ci provarono morirono assiderati nelle foreste, ma anche molti di coloro che a fuggire non pensavano neppure, morirono di stenti e malattie.
Il carcere è stato trasformato in museo, ma vi è un’ala rimasta intatta che a vederla si suppone fatiscente e che in realtà mostra una verità triste, inquietante, lugubre assolutamente da visitare e osservare… Celle minuscole, buie, collocate in due piani, dei corridoi con una piccola stufa per ciascuno, bagni terribili per uomini tenuti come bestie e in condizioni igieniche inimmaginabili, e vecchie foto a mostrare relitti umani in pigiama a righe, con palle di ferro ai piedi…
A percorrere quei corridoi, a entrare in quelle celle dai portoni cigolanti, a leggere i nomi incisi alle pareti, a soffermarsi attoniti davanti ai bagni, viene da pensare che in fondo, morire in fuga, mal protetti da una foresta gelata e bersagliati dal vento, poteva non essere la cosa peggiore.
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Cibo a Sollicciano, arriva la denuncia di Franco Corleone, il garante per i diritti dei detenuti.
CARCERI. E questa volta è qualcosa di diverso dallo sciopero della fame, messo in atto dallo stesso garante l’anno scorso per porre l’accento sul sovraffollamento delle carceri italiane. Questa volta, infatti, sostiene Corleone, si tratterebbe di uno “sciopero della fame forzato”.
CIBO. La denuncia arriva oggi e riguarda alcuni detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano che – afferma il garante – “sono rimasti senza cibo”. “I quantitativi delle pietanze per i reclusi sono diventati assolutamente scarsi – ha spiegato Corleone – e recentemente è accaduto anche che alcuni di loro siano rimasti senza cibo. Sono gli effetti più estremi della crisi economica”. Inoltre, Franco Corleone ha ricordato anche “le pessime condizioni della cucina del carcere di Sollicciano”.
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TERAMO – Un suicidio è stato sventato questa mattina nel carcere di Castrogno, a Teramo.
Un uomo, M.B. di 63 anni ha tentato di togliersi la vita impiccandosi, ma è stato fermato prima che riuscisse nel suo intento.
Sul posto sono giunti gli uomini del 118 che hanno portato l’uomo al Pronto Soccorso dell’ospedale in codice uno, con traumi lievi.
A due mesi fa risale l’ultimo tentato suicidio nello stesso carcere, ma lo spacciatore che aveva tentato di impiccarsi è stato salvato da una guardia.
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Apprendiamo che ieri, 4 aprile 2013, Daniel Mcgowan, compagno anarchico per la liberazione animale e della Terra, è stato nuovamente tratto in arresto dopo il suo recente rilascio, lo scorso dicembre. Secondo quanto diffuso dalla Croce Nera Anarchica di New York, l’arresto sarebbe da ricondurre al “mancato ravvedimento” del compagno vista la recente pubblicazione di una sua intervista su un quotidiano statunitense e altri testi diffusi in rete. Dopo sette anni nei moduli per l’annichilimento dei corpi e delle menti del governo americano, Daniel viene nuovamente sequestrato come rappresaglia: non sono riusciti a piegarlo, hanno fallito.
Libertà per Daniel McGowan!
Segue da greenisthenewred.com
Daniel Mc Gowan, ecologista radicale statunitense, recentemente scarcerato dopo aver scontato quasi 7 anni in carcere (di cui buona parte trascorsi in regime di carcerazione speciale presso carceri CMU – Communication Management Unit ) è stato riarrestato questa mattina. Non sono ancora chiare le ragioni per cui Daniel sarebbe stato riportato in
carcere, ma si presuppone si tratti di una ritorsione per la sua volontà di continuare a lottare, in particolare contro le carceri a regime speciale CMU, sulle quali ha scritto numerosi articoli mentre si trovava in carcere, e di cui ha nuovamente scritto nei giorni scorsi, con un articolo comparso sull’Huffington Post dal titolo ‘Documenti del
tribunale provano che sono stato detenuto presso carceri CMU a causa delle mie convinzioni politiche’.
Si pensa che a questo punto Daniel verrà trattenuto in carcere sino alla data effettiva di fine pena, il 5 di giugno.
Per scrivergli :
DANIEL McGOWAN
#63794-053
MDC BROOKLYN
METROPOLITAN DETENTION CENTER
P.O. BOX 329002
BROOKLYN, NY 11232
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Niente più cibo avariato ai detenuti del carcere. La direzione della casa circondariale di Montorio, il garante dei detenuti, l’Ulss 20 e ora anche la Procura: tutti in campo per difendere il diritto delle persone che si trovano recluse a mangiare alimenti di qualità. E ora c’è anche l’inchiesta aperta dalla procura di Verona. Dopo l’appello lanciato da Margherita Forestan, la garante dei detenuti, la procura ha infatti aperto due procedimenti per far luce sul servizio di fornitura del cibo, il cosiddetto «vitto» e «sopravvitto». Ogni giorno, infatti, varcano i cancelli di Montorio decine di casse di frutta e verdura, carne e pacchi con altra merce ma spesso, secondo quanto rivelato dalla stessa Forestan, si tratta di prodotti avariati o dall’oscura provenienza. Capita, infatti, che i detenuti siano costretti a gettare gli alimenti nel cestino e ad acquistare a proprie spese altro cibo attraverso il “sopravvitto”, gestito sempre dalla stessa azienda toscana vincitrice dell’appalto per la fornitura dei generi alimentari per la cucina (di cui al momento non è stato fornito il nome). «È snervante dover controllare ogni cosa che arriva, non si può lavorare in questo modo: può capitare che qualche prodotto non sia perfetto, ma dev’essere una tantum, non la prassi», commenta la garante dei detenuti. «Se invece non ci sono verifiche quotidiane, il rischio è che nei piatti finisca di tutto: fortunatamente la direzione è molto sensibile a questo problema». E infatti la questione è stata più volte oggetto di segnalazioni, ma ciò non sarebbe servito a far cambiare modus operandi alla società. Così nei mesi scorsi, il servizio Igiene dell’Ulss 20 è stato incaricato di effettuare alcuni prelievi sul cibo fornito ai detenuti e dalle verifiche sarebbe emerso che effettivamente i prodotti erano avariati: gli ispettori dell’Ulss hanno, dunque, depositato due denunce in Procura. A occuparsi delle indagini è ora il pm Elisabetta Labate. Inoltre, il procuratore capo Mario Giulio Schinaia ha segnalato il problema anche a Roma, alla Direzione generale dell’amministrazione penitenziaria, per far presente la situazione della casa circondariale di Montorio, simile con tutta probabilità a quella di altre carceri italiane. Nell’ottica di contenere le spese, infatti, talvolta gli appalti vengono affidati a imprese, che poi non sono in grado di garantire gli standard qualitativi previsti dal bando. Un tema caldo, se si considera che l’appalto della Direzione regionale delle carceri, con sede a Padova, per il servizio di fornitura del cibo a Montorio sta per scadere e che nelle prossime settimane verrà indetto il nuovo bando per l’assegnazione. L’auspicio di tutti è che i criteri siano più rigidi e che il prossimo fornitore si impegni a rispettarli.
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I numeri da soli, seppur ampiamente significativi, non bastano a dipingere quel report di drammi che si susseguano nel carcere di Poggioreale. A confermare la tragica situazione dei detenuti è stato il deputato del Pd Sandro Gozi, ieri in visita nella casa circondariale napoletana. Un giro ispettivo in cui Gozi è stato accompagnato da Yuri Guaiana, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, e da Roberto Gaudioso, tesoriere dell’associazione radicale “Per la grande Napoli”.
La delegazione ha fatto ingresso nel carcere di Poggioreale alle 10 e ha poi tenuto una conferenza stampa all’uscita del carcere. Per il deputato Gozi questa di ieri è stata la prima visita al carcere napoletano: «La situazione è grave – ha spiegato – il carcere di Poggioreale ha il triste record del carcere più sovraffollato d’Europa. Siamo a una popolazione carceraria di oltre 2.700 persone quando, in base al regolamento, dovrebbero essere 1.600, quindi questo è un problema enorme, soprattutto nel padiglione Napoli».
Se la situazione carceraria è oggi esplosiva, con problemi di sovraffollamento e carenze strutturali spalmate sul tutto il territorio, il “casermone” di Poggioreale rappresenta il termometro del sistema sull’orlo dell’esplosione. Una situazione grave e proprio per le condizioni delle patrie galere, l’Italia ha incassato una pesante sanzione da parte da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Secondo direttive europee, infatti, ogni detenuto ha diritto a 9 metri quadrati di spazio, a Poggioreale, in molte celle, proprio per il sovraffollamento, molti detenuti non possono neanche restare in piedi contemporaneamente. «Nel padiglione Napoli – ha continuato Gozi – ci sono 8 detenuti per cella, ma ci hanno detto che arrivano anche a 10 quindi è evidente che i detenuti sono ammassati gli uni sugli altri. Siamo, quindi, molto lontani dalle norme europee e da quelle sentenze che ci hanno condannato e che continueranno a condannarci se devo giudicare la risposta dello Stato».
La visita ispettiva di Ieri ha riguardato principalmente i padiglioni “Napoli” e “Roma”: le zone del carcere, dove presenti tossicodipendenti, detenuti per reati connessi allo spaccio, e nel padiglione Roma i”sex offenders” (detenuti per reali sessuali) insieme con omosessuali e transgender divisi su piani diversi. La situazione più critica per Sandro Gozi riguarda i detenuti in attesa
di cure: « Ho parlato con un detenuto cardiopatico – ha detto il deputato Pd – molto preoccupato perché non sapeva quando avrebbe ricevuto un intervento in cui era in attesa e anche il suo compagno di cella, un uomo con problemi di deambulazione e costretto su una sedia a rotelle, che non sapeva il programma di cura da seguire. Inoltre, c’è una totale assenza, in relazione ad una carenza di risorse, dei trattamenti psicologici. Siamo, infatti, a 13 ore al mese di assistenza psicologica per 2.700 detenuti».
Una vita in promiscuità quella dei detenuti senza spazi e spesso chiusi tutto il giorno in cella molte volte con il blindato chiuso. Gozi ha parlato anche dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’amnistia: «C’è bisogno dell’amnistia – ha chiarito -. Ho presentato una proposta di legge alla Camera per i reati commessi entro il 14 marzo del 2013 con pene detentive non superiori ai quattro anni, se la legislatura parte spero ci sia una forte sensibilità e una singola valutazione da parte dei deputati»
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In un quintetto base sarebbe il pivot , quello attorno al quale ruota la squadra. Purtroppo però non si tratta di un gioco, semmai di una partita della vita, molto più spesso della morte. Fabio Anselmo è il legale delle quattro donne più conosciute tra le tante che rimangono anonime alla ricerca della verità sui decessi degli uomini delle loro famiglie. Cucchi, Aldrovandi, Uva e Ferulli: fermati o arrestati, tutti comunque in “c u s t odia”. Tutti morti. Negli ultimi sette giorni dal suo studio di Ferrara sono uscite una querela all’ex ministro Giovanardi (per aver detto che la macchia rossa fotografata sotto la testa di Federico Aldrovandi non è sangue) e una denuncia al pm di Varese Agostino Abate per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio fatta dalla nipote di Uva. Una buona media… Il contesto politico e culturale in cui ci muoviamo ha una diretta conseguenza con l’andamento dei processi. L’attenzione dei media è l’unica via per eludere insabbiamenti, presunte indagini e le ostilità oggettive di una politica. Ricordiamo nel caso di Stefano Cucchi, lo stesso Giovanardi allora ministro, parlava di “zombie sieropositivo” per affibbiare alla vittima la responsabilità della sua morte. Domani alla Corte di Assise si riparte con le requisitorie, il 15 a Rebibbia le parti civili. Senza i riflettori dei media, questi processi spesso non vengono nemmeno celebrati. Parliamo di decessi avvenuti durante uno stato di custodia. Negli ultimi dieci anni i soli casi conclamati sono almeno 17 e per molti non è ancora dato sapere chi siano i colpevoli. Perché lo Stato ha così paura della verità? Perché non ama essere messo in discussione. Le violenze di Stato sono un problema reale, pur evitando una criminalizzazione generalizzata, i fatti ci dimostrano che questi non sono accadimenti sporadici ma al contrario molto diffusi. Da decenni lo testimoniano gli stessi rapporti europei. Gli atteggiamenti dei sindacati di polizia poi devono far riflettere. I reati commessi dai singoli non possono essere difesi d’u f f icio dalle corporazioni, dalle associazioni di categoria. Servirebbe un efficace controllo preventivo delle tutele pubbliche. Se lo Stato non è in grado di licenziare chi ha abusato dei suoi poteri (caso Aldrovandi) perde di credibilità. E intanto le famiglie travolte da queste tragedie rimangono sole ed emarginate. Poche resistono. Alcune ipotecano la casa e si indebitano per i processi. Altre rinunciano. La questione rimane aperta: forze dell’ordine chiamate a tutelare la sicurezza dei cittadini che diventano carnefici. Manca un’adeguata formazione per gli agenti della Polizia di Stato? L’analisi è complessa; sicuramente manca un’adeguata attività di formazione alla quale si aggiunge un diffuso sentimento di frustrazione dovuto all’incapacità dello Stato di garantire in modo reale e concreto la certezza del diritto e della pena. Spesso poi l’operato delle forze dell’ordine viene vanificato da cavilli e trappole processuali dei quali si possono avvantaggiare quelli che hanno disponibilità economiche. I poliziotti in strada spesso rischiano la pelle e chi interpreta il proprio mestiere talvolta cede alla tentazione di essere il giustiziere, detentore esclusivo della legalità. Dal suo punto di vista, la smilitarizzazione del corpo ha cambiato qualcosa? Non credo sia un problema ascrivibile solo a forze dell’ordine militarizzate, ma piuttosto di carattere generale che investe tutti, nessuna escluso. La posto in gioco però è alta, perché viene messo in discussione il contratto sociale tra Stato e cittadini. Lo Stato può usare la violenza soltanto come ultima scelta possibile e deve essere proporzionata alle circostanze contingenti. Se la utilizza è perché non sussiste alcun altro rimedio. Quando accade il contrario, chi sbaglia deve essere perseguito senza ritrosia o tentennamenti. In concreto purtroppo ci imbattiamo spesso nella scarsa sensibilità di pm e giudici rispetto al verificarsi di questi episodi che mettono in discussione i loro rapporti funzionali con le forze dell’ordine. Esistono decine di commissioni parlamentari, il più delle volte mummificate. Una sui morti nelle mani dello Stato forse avrebbe di che occuparsi. Non credo nelle commissioni parlamentari, perché non ho fiducia nella nostra classe politica. Basta pensare all’a pprovazione della legge sulla tortura dove lo Stato italiano ha dato l’ennesima prova di pregiudizio culturale. Preferiamo subire i richiami dell’Onu nell’ipocrisia di chi ritiene che in Italia non esista la tortura. Lecondizioni delle nostre carceri sono tortura. Allora mi domando: chi non vuole la legge sulla corruzione? I corrotti. Chi non vuole quella sulla tortura? Nelle prossime settimane sono fissate le udienze per Cucchi, Uva e Ferulli, l’uomo pestato da poliziotti in una strada di Milano le cui immagini sono state l’unica prova contro gli aggressori. Come ci si prepara a udienze dove sotto accusa sono le forze dell’o rd ine e un magistrato? Per Uva l’udienza del 16 è finta perché il pm porta a giudizio dei medici per una colpa che non esiste neppure per il suo consulente. Ferulli è tutto da iniziare, mentre il processo Cucchi entra nel vivo, ci affidiamo alla Corte perché si appropri dello scempio che è stato fatto a Stefano.
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Brescia, 7 aprile 2013 – «Come si vive a Canton Mombello? Eravamo sette in una cella da sei di due metri per quattro con sei brande, sei armadietti, un tavolo, un frigo e quattro sgabelli. Lascio un po’ immaginare». Il problema del sovraffollamento a Canton Mombello è ormai noto ma sorprendono sempre i racconti di chi il carcere l’ha vissuto. Come Vincenzo, uscito quattro mesi fa dopo una detenzione di sei mesi per furto e che ieri era nel piazzale della casa circondariale, in occasione della visita del deputato bresciano di Sel. «Era impossibile aprire la finestra per arieggiare, i vestiti bisognava lavarli a turni e là dentro, credetemi, non c’è un buon odore – racconta -. Dalle celle si esce solo un’ora e mezzo al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio. Per il resto della giornata si sta a porte chiuse». A oggi nel carcere, costruito per 208 persone, ce ne sono 450, circa un centinaio in meno rispetto al picco del 2012 ma comunque troppi.
Vincenzo racconta che in una cella di 20 metri quadrati vivevano addirittura in 22 con due bagni. «Con tutte le conseguenze anche per l’igiene – aggiunge -. Ricordo che, quando ero dentro, per un periodo hanno chiuso la sala del biliardino per scabbia. Io stesso sono stato in cella per 15 giorni con un detenuto che aveva la tubercolosi, che poi è stato trasferito altrove». A marzo scorso un altro detenuto era stato ricoverato al Civile per tubercolosi, che, secondo il personale sanitario, era stata contratta prima di entrare in carcere. I casi di malati, dunque, potrebbero essere diversi.
Tanto che il Comitato per la chiusura del carcere presenterà la settimana prossima un esposto alla Procura, alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oltre che ad Asl e sindaco, per denunciare le condizioni di vita dei detenuti e la possibilità di un’epidemia di tubercolosi. «Si tratta di una malattia che si può presentare in forma attiva e in forma latente – precisa Beppe Corioni -. Le condizioni igieniche carenti, come il non ricambio di aria, ne favoriscono lo sviluppo. Vogliamo che si faccia chiarezza».
Un po’ di sollievo potrebbe arrivare in occasione dell’apertura del carcere di Cremona. «Il nuovo carcere a Brescia – interviene Marco Fenaroli, candidato alle primarie del centrosinistra di Brescia -? Il Pgt ha individuato l’area ma non c’è nessun riferimento a un nuovo istitutonel Piano carceri nazionale. Chissà quando si farà». Intanto Sel si sta già muovendo per avanzare tre proposte di legge: introdurre il reato di tortura, abrogare il reato di clandestinità e abolire la legge sulla recidiva. «Canton Mombello è un vero e proprio lager nella civile Brescia – argomenta – Luigi Lacquaniti, il deputato bresciano di Sel -. Encomiabile, anzi quasi eroico, il lavoro del personale e dell’amministrazione penitenziaria. Ma non è possibile mantenere questa situazione».
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Car* compagn* e fratelli carcerati,
Ho ricevuto l’opuscolo n. 77 dove veniva pubblicata la mia lettera dal carcere di Teramo. Da allora ad oggi (parliamo di poco più di un mese) me ne hanno fatte di tutti i colori. Per chi vive la nostra situazione potrebbe essere qualcosa di strano, ma penso che per molti, così come anche per me, è assurdo questo trattamento.
Il mio è stato un arresto politico che mirava a zittirmi e creare terra bruciata intorno a me, volevano farmi capire che mettersi contro questa società ingiusta comportava un prezzo alto da pagare e che combattere il sistema borghese non poteva avvenire così come stavamo facendo noi.
Infatti nella mia piccola Teramo si era creato un movimento non solo attivo, ma anche forte numericamente e determinato. Vedevano in noi un pericolo e hanno così utilizzato le loro armi per annientarci. Prima ci hanno accusato di essere un’associazione a delinquere e poi incriminati per i fatti di Roma. La macchina dello stato ha fatto il meglio di sé e lo ha fatto perché aveva paura di chi non era disposto ad abbassare la testa. Io ho deciso di affrontarli a viso aperto e quando hanno capito che dal carcere di Teramo non ero cambiato, mi hanno trasferito prima a Rieti, dove mi hanno messo solo in cella e trattenuto la corrispondenza e poi, non contenti, mi hanno portato nel carcere di Viterbo (carcere duro) e messo per 4 giorni in isolamento in una cella senza riscaldamento dove non avevo coperte e ho dormito con il giubbotto ad una temperatura intorno ai 4/5°. Sia a Rieti che a Viterbo non mi hanno motivato il trasferimento, di fatto agivano come nei peggiori anni della dittatura fascista. Solo quando sono venuti i consiglieri del PRC del Lazio, guarda caso, mi hanno portato in sezione 1/2 ora prima che venissero davanti alla mia cella.
È un modo di fare squallido, penoso oltre che vile. Fanno gli angeli quando sanno di avere le spalle al muro e poi come dei lupi ti sbranano quando chiudono i cancelli. Io non mi son perso d’animo, e da subito ho informato fuori di quanto accadeva. Ho capito che l’unica arma che abbiamo è quella della controinformazione. Ho affidato comunicati ai miei cari e fuori molti si sono indignati.
Non contenti di quanto mi avevano già fatto, mi hanno messo in cella con un macedone con l’AIDS. Io non ho nulla contro chi purtroppo ha contratto questa malattia, ma porca puttana neanche me lo hanno detto, lo sono venuto a sapere da terzi e poi ho avuto conferma da lui. Dico, almeno informatevi in caso di ferimenti…
Io non so più che si vogliono inventare, ma non cadrò alle loro provocazioni e anche se a volte la testa viaggia e pensa a male, io resterò lucido.
So di non essere solo e che fuori i compagn* si stanno muovendo per sputtanare il loro modo di agire e forte del loro sostegno io lotto fino alla fine.
Come noi sono stati molti i compagni e le compagne che hanno pagato con la galera le proprie idee e dalla loro resistenza dobbiamo prendere esempio. La storia ci ha insegnato che chi si metteva contro veniva perseguitato e che le loro idee di libertà e giustizia sociale erano giuste.
Dobbiamo essere fiduciosi e spingere chi è fuori a continuare la battaglia, dobbiamo fargli sentire la nostra voglia di non mollare ed essere tenaci. Raccontiamo quello che subiamo e quello che vediamo, se stiamo in silenzio facciamo il loro gioco.
La situazione carceraria è la vergogna dell’Italia in terra ma a conoscerla siamo solo noi e i nostri cari, sono convinto che se solo qualcuno entrasse e vedesse questo scempio le chiuderebbero tutte. Qui dentro non ci sono regole ed è l’unico posto in Italia dove vige una situazione senza alcun controllo.
Proviamo a cambiare lo stato di cose chiedendo a chi è fuori di essere la nostra voce. Ci vogliono 10-100-1000 Ampi Orizzonti. Spezziamo le catene, liberiamo la mente. Un abbraccìo! Davide (falce martello stella)
Viterbo, 2 aprile 2013 [ndr: data timbro]
Davide Rosci, strada San Salvatore, 14b – 01100 Viterbo
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Un detenuto sottoposto a regime di alta sicurezza si è suicidato nelle carceri di Catanzaro.
Si tratta di un uomo di 55 anni di originalità campana il quale si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella.
A dare la triste notizia di quanto successo è stato il sindacato della Polizia Penitenziaria Sappe.
Così si sono espressi Giovanni Battista Durante e Damiano Bellucci, rispettivamente segretario generale aggiunto del Sappe e segretario nazionale: “’Un altro morto nelle affollate carceri italiane le cui notizie somigliano sempre di più a un bollettino di guerra”.
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E’ vecchia, troppo piccola, ottocentesca: da anni oramai, l’antica struttura del carcere di Via Dante, che si affaccia da un lato sul parco del Talvera, lamenta carenze e problemi che non sono certo nuovi alle amministrazioni locali e nazionali.
Lavori promessi e mai completati, sovraffollamento, proteste, e da qualche mese, una massiccia presenza di piccoli e indesiderati ospiti: perché ad aggravare le condizioni igienico-sanitarie di un luogo mai troppo salubre, ci pensano adesso persino le zecche, la cui presenza è stata registrata da lavoratori e detenuti indignati.
Anche la caserma della polizia penitenziaria è in piena fase di invasione, tanto da spingere il sindacato Uilpa a sporgere denuncia, lamentando una condizione “fuori dagli standard di legge sull’igiene e la salute dei dipendenti”.
Già lo scorso novembre, in Comune, si parlava della necessità di disinfestare carcere e caserma; ora le zecche sono tornate, e si muovono senza paura, tra finestre, letti, docce, sulle mani di chi è costretto ad agire quotidianamente negli ambienti che hanno invaso. E’ un grosso pericolo per la salute di chi lavora in una struttuta che oramai è agli sgoccioli; parola di Maria Rita Nuzzaci, la direttrice del carcere, che dalle pagine dell’ “Alto Adige”, racconta di una situazione oramai insostenibile, dove tre o quattro disinfestazioni l’anno non riescono a debellare un problema tanto grave, dove i muri ammuffiscono, a causa della vicinanza al fiume, dove l’atmosfera sembra più “asburgica” oggi che cento anni fa.
A completare il quadro, ci si mettono i topi, che attraversano saltuariamente i corridoi del carcere prima di giungere al Talvera, rendendo sempre più urgenti i lavori per la costruzione del nuovo carcere a Bolzano Sud.
In occasione della tradizionale visita del Vescovo ai detenuti nei giorni della Pasqua, la Nuzzaci aveva ultimato l’ultimo report sulla mancanza di attrezzature, finanziamenti, interventi per la manutenzione, persino materiale di cancelleria; ma della prima pietra al cantiere di Bolzano Sud, che il subcommissario incaricato dal ministero degli interni, Luis Durnwalder, aveva promesso entro la fine del 2012, non c’è traccia.
Il progetto del nuovo carcere, complice la crisi, è sparito da sei mesi, ogni comunicato stampa ufficiale sembra essersi volatilizzato, gli appelli delle cariche pubbliche, da Franco Corleone, ex sottosegretario alla giustizia, al prefetto di Bolzano Valerio Valenti, verranno per qualche tempo accantonati. Realisticamente, lavori che andrebbero realizzati con la massima urgenza rischiano di lasciare al carcere di via Dante il tempo necessario per cadere definitivamente a pezzi.
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(AGI) – Atene, 3 apr. – Mano pesante dei magistrati contro tre leader del gruppo di estrema sinistra greco Lotta rivoluzionaria, che nel 2007 lancio’ un razzo contro l’ambasciata Usa ad Atene. Nikos Maziotis, sua moglie Panagiota Roupa e Costas Gournas sono stati condannati a 50 anni di carcere a testa, ma ne dovranno scontare la meta’. Maziotis e Roupa sono pero’ latitanti dal giugno scorso e per questo sono stati giudicati in contumacia dal tribunale speciale istituito presso il carcere di massima sicurezza di Korydallos. I due erano usciti di prigione nel 2011 e avevano l’obbligo di firma ma sono fuggiti, probabilmente all’estero. Altri due militanti del gruppo sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere e altri due sono stati assolti per insufficienza di prove. Lotta rivoluzionaria, considerato il gruppo di estrema sinistra piu’ pericoloso d’Europa, e’ operativa dal 2003. Di fatto e’ l’erede di 17 novembre, un’organizzazione terroristica che aveva fatto 23 morti tra il 1975 e il 2000. E’ inserita nelle liste dei gruppi terroristici stilate da Ue e Usa e tra gli attentati al suo attivo ci sono anche quelli contro un ministro dell’Interno, la Borsa di Atene e diverse banche. I vertici del gruppo sono stati catturati nel 2010 dopo che un militante era rimasto ucciso in una sparatoria con la polizia.
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(ANSA) – MILANO, 3 APR – Salgono a 11 gli episodi di abusi sessuali ai danni di giovani detenuti contestati ad Alberto Barin, di 51 anni, ex cappellano del carcere di San Vittore.
L’uomo e’ stato arrestato il 20 novembre 2012 in conseguenza di 6 casi accertati dalle indagini congiunte di squadra mobile e polizia penitenziaria. Ora il gip di Milano Enrico Manzi ha emesso un’ordinanza per altri 5 casi, si tratta di detenuti di 20/30 anni provenienti per lo piu’ dal nord Africa.
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(AGI) – Palermo, 3 apr. – Un detenuto italiano ristretto presso la carcere di Messina e’ stato ricoverato d’urgenza nel “Repartino” dell’ospedale Papardo per sospetta Tbc. Lo rende noto e’ il segretario generale aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, secondo cui l’ammalato svolgeva attivita’ lavorativa nella cucina detenuti della casa circondariale di Gazzi ed e’ per questo che precauzionalmente la direzione dell’istituto di pena ha isolato per motivi sanitari anche tutti gli altri detenuti che hanno lavorato negli stessi ambienti carcerari o che hanno diviso spazi comuni detentivi cui il malato. E’ stata avviata la profilassi di vaccinazione sia del personale di polizia penitenziaria, sia di quello socio-educativo e dei reclusi. “Episodi di questo tipo -commenta Nicotra- mostrano ancora, e qualora ve ne fosse la necessita’, tutte le lacune della sanita’ penitenziaria italiana perche’ e’ impensabile, al giorno d’oggi, che il personale del corpo di polizia penitenziaria debba correre evidenti rischi di contagio per loro stessi e le loro famiglie in assenza di protocolli periodici che possano prevenire o attutire l’impatto altamente deleterio di simili eventi contagiosi”.
Fonte AGI.it
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Lhasa (AsiaNews) – In un raro gesto di disgelo, le autorità cinesi hanno liberato dopo 17 anni di carcere un monaco e attivista tibetano che si era battuto per l’indipendenza del Tibet e il ritorno del Dalai Lama, in carcere per “attività controrivoluzionarie” e “minacce allo Stato socialista”. La liberazione è confermata da diverse fonti tibetane raccolte da Radio Free Asia: Jigme Gyatso, 52 anni, è tornato nella sua casa di Sangchu (nella provincia del Gansu) dopo essere stato liberato dalla famigerata prigione di Chushul, nei pressi di Lhasa.
L’uomo era stato condannato nel 1996 a 15 anni di carcere. La sua colpa principale era quella di aver fondato l’Associazione per il movimento libero tibetano (o Gruppo per l’indipendenza tibetana e la verità), organizzazione para-legale che chiedeva autonomia culturale e religiosa per la regione.
Nel 2004, dopo 8 anni di reclusione, è stato condannato ad altri 3 anni di detenzione per aver urlato in carcere “Lunga vita al Dalai Lama”. Il rilascio di Jigme era previsto per il marzo del 2014, ma le sue condizioni di salute sono molto peggiorate e hanno imposto una scarcerazione più rapida. L’uomo, subito dopo il suo arresto, è stato picchiato duramente tanto da impedirgli ora di camminare bene ed è stato più volte ricoverato in ospedale.
Nel maggio del 1998 Jigme Gyatso ha fatto parte del gruppo di prigionieri che aveva urlato slogan per la libertà del Tibet durante la visita di una delegazione dell’Unione Europea nel carcere di Drapchi, dove era ristretto. Subito dopo la fine della visita ufficiale, gli agenti della pubblica sicurezza si sono lanciati sul gruppo per punirli: nove di loro morirono in seguito alle percosse.
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Un assistente capo di polizia penitenziaria di stanza del carcere di Sulmona ha fermato e arrestato a Pasqua un internato che si era reso irreperibile dopo essere uscito in licenza premio dal penitenziario Peligno e nel quale non era rientrato alla scadenza del periodo concessogli.
Alle 6.30, mentre si stava recando al lavoro per svolgere il suo turno di servizio, ha notato l’uomo in zona stazione e lo ha subito fermato. Il 50enne è stato ricondotto nella casa di reclusione per essere sottoposto all’internamento, dopo essere stato dichiarato socialmente pericoloso.Il pugliese rischia per l’infrazione fatta la proroga della misura di sicurezza e la mancata attribuzione di ulteriori licenze.
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Intorno alle 11.15 un detenuto extracomunitario, recluso nella Casa Circondariale di Vicenza, ha appiccato il fuoco nella propria cella. A seguito del denso fumo uscito dalla seconda sezione del carcere, i detenuti sono stati mandati ai cortili passeggi. Il rapido intervento degli agenti di Polizia Penitenziaria ha permesso di mettere in salvo il detenuto, chiuso in bagno con un asciugamano bagnato sulla testa. E’ stato tratto in salvo dai baschi azzurri intervenuti, che hanno quindi spento il fuoco con un estintore mentre altri detenuti venivano messi in salvo.
Dopo alcuni minuti sono giunti anche i Vigili del Fuoco, quando l’incendio era stato ormai domato. Due agenti sono stati accompagnati al Pronto Soccorso per accertamenti, intossicati dal fumo. Il detenuto e’ stato visitato dal medico di guardia e trovato in buone condizioni, tanto che per lui non e’ stato chiesto il ricovero in ospedale. L’incendio, a quanto si e’ appreso, e’ stato appiccato in piu’ punti contemporaneamente. Tutti i detenuti sono stati fatti rientrare nelle proprie celle e la situazione e’ tornata alla normalita’.
Fonte Adnkronos
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Tre uomini condannati per omicidio sono stati impiccati in Kuwait. Le ultime esecuzioni nell’emirato risalivano al 2007. L’agenzia Kuna riferisce che le condanne a morte sono state eseguite nella prigione centrale, ma non fornisce altri dettagli. Secondo la stampa, i condannati impiccati sono un pachistano per l’omicidio di una coppia di kuwaitiani, un saudita colpevole di avere ucciso un connazionale, mentre il terzo, definito un apolide arabo, era stato riconosciuto colpevole di avere ucciso una donna e i suoi cinque bambini. Nel braccio della morte delle carceri del Kuwait ci sono almeno 44 condannati. Da quando l’emirato ha introdotto la pena di morte nel 1960 sono stati giustiziati 69 uomini e tre donne.
Fonte: Ansa
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Resta drammatica la situazione nelle carceri italiane. E mentre la neo-eletta presidente della Camera, Laura Boldrini, ha di recente dichiarato che la riforma del sistema carcerario “non si può rimandare” e che bisogna “trovare misure alternative alla detenzione”, per rimediare ai ritardi della politica ecco che la magistratura si mette in modo di sua iniziativa.
Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha accolto il ricorso di un detenuto del carcere di Monza San Quirico riportando nella sentenza quanto denunciato dallo stesso, ovvero “che la detenzione si starebbe svolgendo con modalità disumane equiparabili a tortura”. Emanuele Greco, 40 anni, originario di Caltanissetta, arrestato nel 2010 a San Giuliano Milanese, in provincia di Milano, deve scontare 15 anni di carcere per diversi reati, tra cui l’associazione mafiosa. Convinto dal suo legale, viste le condizioni carcerarie in cui si trova, ha deciso di presentare ricorso per trovare “differenti forme detentive”. S’è appellato all’articolo 147 del Codice penale che questo tipo di cambiamento lo prevede; ma non se il carcere è disumano: solo, per esempio, se il detenuto si trova in cattive condizioni di salute, non compatibili con la cella.
A questo punto, per non cestinare oggettive e legittime lamentele, il Tribunale di Sorveglianza ha deciso di presentare ricorso presso la Corte costituzionale contro il succitato articolo 147. Esso non contemplando la possibilità di trovare altre forme che non il carcere, quando la detenzione è simile alla tortura, va contro – tra gli altri – all’articolo 27 della Costituzione, dove si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
È da tempo che vengono denunciate le condizioni di invivibilità del carcere di Monza. Qui Greco è costretto a stare in una cella di circa nove metri quadrati dimensionata per due detenuti, mentre vi sono sistemate tre persone. Tenendo poi conto delle suppellettili presenti in quello spazio angusto: un letto a castello, la terza branda, l’armadio per i vestiti, comunque insufficiente per gli indumenti di tre persone che pertanto vengono sistemati sotto il letto; e ancora: i tre sgabelli, un tavolino, delle cassette posizionate una sopra l’altra che fungono da dispensa e un frigorifero con sopra il televisore, i tre detenuti non hanno spazio e quindi non possono scendere dal letto contemporaneamente.
Nella sentenza del Tribunale di Sorveglianza, datata 12 marzo, è specificato poi che “il bagno non è arieggiato e pertanto è maleodorante e non è fornito di acqua calda; che ai muri vi sono muffedi diversi colori, spazio e ampiezza; che il detenuto istante, in quanto più giovane degli altri, deve dormire su una brandina pieghevole, troppo corta per la sua altezza e sistemata necessariamente sotto la finestra e dunque deve sopportare gli spifferi d’aria; che i due suoi compagni di cella sono anziani e malati e nessuno di loro va all’aria e pertanto la cella è sempre occupata e maleodorante”.
Come Milano, anche un altro Tribunale di Sorveglianza, quello di Venezia, di recente ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro le limitazioni legislative che non permettono di “svuotare le carceri”. A questo punto la via per risolvere il problema del sovraffollamento potrebbe non segnarla il Parlamento, ma la Consulta.
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(ANSA) – CAGLIARI, 31 MAR – Ieri sera un detenuto ha appiccato un rogo nel piccolo reparto del Centro clinico del carcere di Buoncammino, a Cagliari, dove si trovava in stato di osservazione. Il gesto non ha avuto un epilogo drammatico grazie al tempestivo intervento dei baschi blu. “Ha appiccato l’incendio nella propria camera – ha spiegato il coordinatore Uil Penitenziari di Cagliari, Roberto Todde – ma il coraggio degli agenti ha permesso di mettere in salvo l’uomo, gli altri detenuti e contrastare le fiamme”.
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Qualche milione di lire in prestito gli sono costati uno sfregio sul volto. Ma per alcuni reati il tempo non conta e anche se da quell’episodio sono passati ormai diciassette anni, Antonio Schiavone, colpevole di aver sfregiato con una bottiglia di acido il volto dell’uomo a cui prestò i suoi soldi, è stato arrestato. L’uomo oggi ha 76 anni. La violenta lite all’epoca fece molto scalpore ad Accadia. Era il 20 agosto quando Schiavone allora 59 enne incontrò il debitore, un uomo di 39anni, che si presentò all’appuntamento con il padre. Schiavone voleva indietro i soldi prestati, qualche milione di vecchie lire, e i relativi interessi. L’altro ribadiva che il debito era estinto e che non gli doveva nulla. I due erano nell’auto del più giovane e quando la discussione è degenerata, Schiavone ha estratto una bottiglia con liquido corrosivo e l’ha gettata in faccia al giovane. Non ancora soddisfatto ha impugnato un martello e ha sfondato il parabrezza dell’auto fuggendo a piedi. I Carabinieri avevano identificato l’uomo grazie ad una serie di testimoni oculari, ma lui era scappato a Vieste. Da qui è partita una lunga trafila giudiziaria perchè Schiavone ha sostenuto che l’uomo si era inferto da solo le ferite. Schiavone era stato condannato in primo grado e in appello e pochi giorni fa la Suprema Corte di Cassazione ha rifiutato il ricorso e ha disposto l’esecuzione della pena residua, pari a tre anni e sei mesi, da scontare in carcere.
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Da quando nel 2008 la sanità nelle carceri è stata demandata alle Asl non ci sono più dati certi. Ma le associazioni del settore, come Antigone e il Forum per la Sanità Penitenziaria, calcolano che nei penitenziari circa il 70% dei detenuti sia malato.
Le patologie più comuni sono le tossicodipendenze (almeno 30%); i disturbi psichici con oltre il 16%, seguiti dalle malattie dell`apparato digerente e dalle patologie infettive e parassitarie. E questa è una media. Basta dire che a La Spezia ha problemi di droga circa il 50% dei reclusi. Almeno un terzo della popolazione carceraria ha poi commesso atti autolesivi e circa il 15% ha tentato il suicidio.
Quando un detenuto si ammala dovrebbe essere trasferito nel reparto penitenziario dell’ospedale più vicino, ma non di rado le diagnosi sono tardive. A Padova una dottoressa è sotto inchiesta perché avrebbe scambiato un infarto per un dolore allo stomaco. Insomma, le carceri italiane potrebbero essere una vera bomba sanitaria, e il controllo delle malattie non è sempre semplice. Dei 93 detenuti morti nel 2012 per 31 ancora non si conoscono le cause.
E a rischio non sono solo i detenuti ma anche gli operatori che lavorano nelle carceri, a cominciare dagli agenti e dai volontari, che possono contrarre le più svariate malattie. “I pericoli sono davvero reali. Quando un detenuto entra in carcere viene sottoposto solo alla visita psicologica, ma non gli si fanno le analisi – dice Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe – Per esperienza dico che chi viene dall’Africa non di rado è portatore di malattie infettive come la tbc”.
L’igiene in questi frangenti è fondamentale e questa è particolarmente carente in strutture vetuste come San Vittore a Milano, Buoncammino a Cagliari, Regina Coeli a Roma o Poggioreale a Napoli. Per il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la sanità penitenziaria uno dei problemi principali è l’alimentazione di chi è malato che “dovrebbe essere calibrata in base alla malattia e invece questo non avviene. Il vitto di un detenuto costa 3,8 euro, una cifra risibile se si pensa che i comuni spendono per la stessa voce 4 euro per i cani ospitati nei canili. Qua e là, si sta comunque cercando di invertire questa tendenza, costruendo, come avviene in questi giorni a Regina Coeli, una cucina specifica”.
Rimane il problema dei sei Opg presenti in Italia, gli ospedali psichiatrico-giudiziari, la cui chiusura è stata rimandata di un anno, al 1° aprile 2014. Una volta aboliti dovrebbero essere realizzate case famiglie per curare chi non può andare in carcere. I fondi sono stati stanziati dal ministero della Giustizia, ora si attende che partano i progetti.
Fonte: Famiglia Cristiana
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Un detenuto di 52 anni della prigione di Suhl, in Turingia, è riuscito a prendere in ostaggio ieri poemriggio una ragazza di 26 anni e minaccia di ucciderla con un coltello sulla gola. L’uomo ha chiesto assistenza legale e il trasferimento in un altro istituto penitenziario. Un commando speciale si trova già sul posto, scrive lo Spiegel online.
Fonte: TM News
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