Enna – Viene riferito a questa Segreteria Regionale SAPPe che giorno 28
FEBBRAIO 2013 un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria assistente capo
in servizio presso la Casa Circondariale di Piazza Armerina , durante l’espletamento
dell’attività lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario presso il reparto detentivo
primo piano senza alcuna motivazione è stato aggredito da un detenuto di origini
catanesi solo perché l’ utente non aveva accettato di buon grado una rilevazione
disciplinare.
Per quanto si è venuto a sapere ,il poliziotto penitenziario era solo presso il
reparto detentivo durante il cambio per usufruire del tempo necessario per pranzare .
L’appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria ha riportato varie contusioni
con prognosi di giorni 10 salvo complicazioni.
Category Archives: Dentro le mura
Violenta aggressione da parte di un detenuto ad una guardia
Salerno: detenuti a rischio, solo quattro medici per 550 persone
La storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica.
“La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente – spiega Salzano – Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”.
Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”.
Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis – incalza l’esponente dei Radicali – Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta.
Fonte: La Città di Salerno
CIE Torino, tra espulsioni, tensioni, rivolte e fiamme
diffondiamo da Macerie
Un’altra giornata movimentata al Cie di Torino. Nel primo pomeriggio un recluso sale sul tetto dell’area viola per evitare l’espulsione, e un gruppo di solidali si raduna fuori le mura per salutarlo e sostenerlo con slogan e petardoni di un certo calibro. Poco distante, un fotoreporter tradito dal flash della fotocamera viene raggiunto, circondato e maltrattato: riesce a mettere in salvo la macchina fotografica ma perde gli occhiali. In seguito si rivelerà essere un collaboratore dei peggiori quotidiani locali,forse l’autore di queste foto non esattamente da premio Pulitzer.
Quando arriva la conferma che l’espulsione del recluso sul tetto è rimandata, i manifestanti si allontanano, ma una dozzina viene bloccata poco distante da diverse volanti della polizia. Ascolta uno dei fermati al telefono con Radio Blackout 105.250, oppure scarica il file mp3.
I fermati vengono portati nel commissariato di via Tirreno, e trattenuti per diverse ore. Verranno rilasciati in serata, tutti tranne una compagna francese: stando alle minacce della polizia, verrà accompagnata alla frontiera con un decreto di espulsione dall’Italia.
macerie @ Febbraio 28, 2013
Secondo le edizioni online di alcuni quotidiani locali, nella notte tra giovedì e venerdì ha preso fuoco una cabina elettrica dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino in corso Verona. Stando ai calcoli dei ragionieri della Questura, i danni dell’incendio ammonterebbero a 70mila euro. Per poter funzionare, gli uffici sarebbero stati collegati a un generatore di emergenza, gentilmente concesso dall’Iren. L’ipotesi dei giornali è che non si sia trattato di un corto-circuito, o di un fulmine a ciel sereno, ma di una azione legata alle recenti rivolte nel Cie di Torino, e alla minaccia di espellere una compagna francese fermata il giorno precedente dopo una manifestazione sotto al Cie. La compagna fermata, come già annunciato da qualche agenzia di stampa, è già stata deportata in Francia nel pomeriggio di oggi: sta bene e siamo sicuri che il suo morale sia alto.
Rispetto alla giornata di ieri, inoltre, c’è da aggiungere la notizia, sempre riportata da alcuni giornali, che mentre una dozzina di compagni era trattenuta nel commissariato di via Tirreno «un gruppo di anarchici ha rovesciato alcuni cassonetti in corso Regina Margherita, via Fiochetto e via Cigna e poi svuotato degli estintori sull’asfalto.»
macerie @ Marzo 1, 2013
Assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto
Celle a numero chiuso
Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro Paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani.
In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato al Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40 mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47 enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese.
Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale.
Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto.
Detenuto tenta il suicidio ingerendo delle pile
E’ in gravi condizioni il detenuto che, nella tarda serata di ieri 28 febbraio, intorno alle 23,15, ha tentato il suicidio nel carcere di Mammagialla.
Si tratterebbe di un tunisino sulla trentina che, secondo quando si apprende, avrebbe inizialmente ingerito pile per poi procurarsi un profondo taglio all’avambraccio e infine avrebbe provato a impiccarsi.
Subito intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria che hanno scongiurato il peggio.
Sono stati allertati i sanitari del 118 che hanno trasferito il trentenne a Belcolle dove è ricoverato in gravissime condizioni.
Cina: in diretta tv trasferimento al patibolo di banda narcotrafficanti
(ASCa-AFP) – Beijing, 1 mar – La televisione di Stato cinese, la Cctv, ha trasmesso in diretta il trasferimento di quattro detenuti condannati a morte e diretti al patibolo.
I quattro sono colpevoli di aver rapito e ucciso 13 turisti cinesi sul fiume Mekong lo scorso anno.
Il narcotrafficante birmano Naw Kham – capo dell’organizzione operante in Cina, Laos, Birmania, Tailandia, Cambogia e Vietnam – e’ stato il primo ad essere inqadrato dalle telecamere alle quali ha rivolto un sorriso prima di entrare nel blindato della polizia cinese, seguito dai suoi complici, tutti accusati di omicidio volontario, traffico di droga e squestro di persona.
I media cinesi hanno precisato che la polizia inizialmente aveva programmato un attacco con i droni per uccidere Naw Kham – considerato uno dei ”signori della droga” del sud-est asiatico e soprannominato ”il padrino” – per poi cambiare idea e tentare di catturarlo vivo in Birmania.
Canton Mombello, caso di tubercolosi in cella
Allarme tubercolosi a Canton Mombello. Un detenuto di 42 anni, di nazionalità italiana, in cella dalla metà di gennaio, è risultato positivo al test di di Mantoux. L’uomo era in stanza con altre otto persone, immeditamente sottoposte all’esame della “tubercolina” e alla profilassi del caso.
Stessa procedura per il personale di polizia penitenziaria e per le altre persone venute a contatto con il malato durante la sua permanenza in carcere.
La malattia, in una situazione come quella in cui si trovano i carcerati della casa circondariale di Brescia, può creare davvero un pericolo epidemia, date le condizioni di sovraffollamento della struttura.
Il 42enne è stato ricoverato in ospedale, nel reparto infettivi dell’Ospedale civile di Brescia, in isolamento, e sottoposto a terapia antibiotica.
In carcere senza motivo, cronaca di quotidiani soprusi israeliani
Cinque giorni di carcere, senza poter bere per quasi 48 ore, senza la possibilità di contattare le autorità competenti o i familiari e in condizioni igieniche pessime.
È stato questo in sintesi il viaggio in Israele di Francesco, un ragazzo 30 anni, che il 28 gennaio scorso era partito alla volta di Tel Aviv per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza di una decina di giorni in Terra Santa e che si è invece tramutata in una detenzione forzata, per la quale ancora oggi non sono state fornite motivazioni ufficiali.
“Già da Roma i controlli sono stati eccessivi – racconta a Rinascita Francesco, partito dal terminal 5 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino – un piccolo interrogatorio viene fatto già alla partenza da agenti israeliani, che successivamente separano i propri concittadini dai semplici viaggiatori ebrei e dalle altre persone in partenza, attribuendo loro un diverso livello di sicurezza”.
Si tratta di un valore che va da 0 a 6, in base al rischio che ogni passeggero potrebbe rappresentare per la sicurezza del Paese e che viene segnalato applicando una targhetta adesiva scritta in ebraico su ogni passaporto. Dopo questa prima fase il turista italiano passa per la perquisizione e il controllo dei bagagli a mano, che gli saranno restituiti dopo oltre due ore di attesa. Francesco viene quindi accompagnato all’interno dell’area duty free dello scalo romano ed è qui che scopre che gli agenti hanno deciso di separare lui, una ragazza e due giovani palestinesi dal resto dei viaggiatori, e che a loro è stata affibbiata una scorta che li seguirà perfino in bagno fino al momento dell’imbarco.
“Hanno fatto prima riempire l’aereo e poi hanno fatto salire noi per non farci avere contatti con gli altri passeggeri”, prosegue il ragazzo, precisando però che durante il volo il trattamento riservato loro è stato assolutamente normale.
Giunti a Tel Aviv i quattro vengono nuovamente separati dagli altri, poiché le procedure di controllo dei viaggiatori ai quali è stato assegnato un punteggio superiore a 3 sono ben diverse da quelle degli altri. Francesco viene quindi privato nuovamente dei suoi bagagli a mano, fatto spogliare e i suoi vestiti passati ai raggi x.
“E fin qui rientra tutto nella normalità – spiega il giovane turista – circa il 25 per cento delle persone che si recano in Israele subiscono questa trafila. Un gruppo di 40 persone provenienti dalla Turchia per un giro religioso, è stato obbligato a restare un paio d’ore in sala d’attesa per approfondire i controlli”. Attesa che per Francesco è durata più di otto ore, nel corso delle quali è stato interrogato a più riprese dagli agenti della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
“Il colloquio verte inizialmente sulle generalità, sul tipo di lavoro che si fa e cose simili. Poi si entra invece nel merito del viaggio, mi hanno chiesto il perché fossi lì, se avessi prenotato alberghi, se avessi con me appunti, computer, videocamera o macchina fotografica e se conoscessi qualche palestinese”, racconta ancora il ragazzo, precisando che l’agente ha insistito molto su quest’ultimo punto. Sebbene a farlo innervosire sia stato il non aver né un posto prenotato per il pernotto, né annotazioni sulle aree da visitare, né il computer e neppure una scheda di memoria per la macchina digitale. Ma Francesco è abituato a viaggiare senza prefissare date precise per i suoi spostamenti, facendosi consigliare di volta in volta dove alloggiare e sa inoltre bene che le autorità aeroportuali israeliane sono solite copiare i dati contenuti nei dispositivi elettronici, motivo per quale aveva scelto di acquistare direttamente sul posto una nuova memory card. È a questo punto che il militare inizia a fargli domande sui suoi recenti viaggi nei Paesi arabi e in particolare in Libano, dove si è recato per lavoro, chiedendogli dove avesse alloggiato. Francesco risponde senza problemi, ma l’impossibilità per l’agente doganale di verificare la veridicità delle sue risposte, visto anche che il giovane per scelta non possiede uno smartphone con il quale tracciare i suoi ultimi spostamenti, lo fa innervosire.
“A quel punto mi ha chiesto l’indirizzo e il telefono di casa mia e di quella dei miei genitori e ha iniziato a ripetermi più volte domande fatte in precedenza, per farmi cadere in contraddizione, ma senza riuscirci”, aggiunge Francesco, che rivela di essere stato costretto nuovamente a spogliarsi e a subire altri controlli. Il tutto senza la possibilità di bere o di poter contattare qualcuno, dalla famiglia, all’ambasciata italiana a Tel Aviv.
“A mezzanotte e mezza vengo infine informato che il mio visto è stato rifiutato e vengo quindi portato in un altro ufficio per essere schedato – ci dice ancora – mi vengono prese le impronte e fatta una foto. Una procedura standard che subiscono tutti i rifiutati, ai quali non sarà permesso di tornare in Israele per 10 anni successivi al rifiuto”.
Francesco viene quindi accompagnato in un edificio esterno all’aeroporto che gli agenti chiamano Asility, una struttura di accoglienza momentanea in attesa del rimpatrio, che lui non esita a definire “una prigione, al pari di quelle del Burkina Faso e Burundi”.
“Una volta sequestratomi il bagaglio a mano e il cellulare mi portano al primo piano dove ci sono le celle e mi mettono dentro. Chiudono la porta blindata che ha solo un piccolo vetro che permette di vedere fuori, e mi ritrovo in una stanza di 5 metri per 6 che conteneva: tre letti a castello e un bagno, con solo il water e un lavabo dal quale usciva acqua non potabile”, rivela Francesco, che parla di condizioni igieniche pessime.
“All’interno – prosegue trentenne italiano – c’erano un ragazzo sudafricano in evidente stato di depressione e un sessantenne svedese che si lisciava la barba e parlava da solo fissando il muro. Ogni tanto quest’ultimo bussava alla porta e chiedeva acqua, le guardie dicevano sempre di sì ma non portavano nulla”. Solo dopo 48 ore di prigionia i militari si sono degnati di portare una brocca d’acqua, neppure la necessità di predere alcuni medicinali da parte di Francesco riesce a smuovere i carcerieri, sebbene almeno i pasti venissero serviti con regolarità. Alla fine del secondo giorno arriva però la telefonata della speranza del console italiano, avvisato dai familiari e dagli amici di Francesco preoccupati per il suo inspiegabile silenzio. Il diplomatico si mostra sorpreso e infuriato dall’atteggiamento delle autorità aeroportuali e si premura che Francesco abbia tutto il necessario, nonostante non possa aiutarlo a ripartire prima del volo fissato dagli agenti israeliani per il primo febbraio. “Quando sei in un posto così anche una telefonata di dieci minuti con una persona che ti parla in un certo modo e si mette a tua disposizione, ti rincuora – spiega il giovane turista – Per di più la chiamata del console in persona ha stupito le guardie della struttura essendo una procedura anomala”.
“In cinque giorni non ho preso nemmeno 10 minuti d’aria e ho perso la cognizione del tempo a causa dei fari fissati sul soffitto della cella che rimanevano sempre accesi, giorno e notte. Non mi son potuto lavare o cambiare, per bere ho detto che dovevo prendere medicine ma se ne fregavano”, rivela ancora Francesco, che sottolinea come nei suoi confronti e in quelli degli altri detenuti non sia stata fatta non violenza fisica, ma una terribile violenza psicologica, facendolo sentire “trattato come un terrorista”.
La cosa più triste di tutta questa vicenda, però, è la scelta forzata di Francesco di non presentare nessuna protesta formale al suo rientro in Italia, conscio del fatto che tanto non servirebbe a nulla, poiché, afferma: “Tutte le autorità del mondo sanno di queste procedure eppure nessuno fa niente, se ne fregano”. Quello riservato al trentenne italiano è infatti un destino che molti subiscono in silenzio ogni giorno e che rappresenta una violazione della dignità umana, poiché si viene sbattuti in carcere per aver, di fatto, solo osato chiedere il visto d’ingresso in Israele.
E, infine, come se tutto questo non bastasse, Francesco ha scoperto solo al suo ritorno in Italia che il bagaglio imbarcato era partito ben 24 ore dopo di lui per Tel Aviv a causa dei controlli. Bagaglio che ha ricevuto, poi, solo dopo due settimane dal suo rientro in Italia, con tutti i disagi del caso.
Senza Sosta, in un libro la vita al carcere delle Novate
Ricordi, nostalgie, radici – quelle spezzate, quelle cresciute intorno alle sbarre – e speranze da far vivere magari lontano da celle anguste. “Senza Sosta”, il volume presentato al Tribunale di Piacenza e curato dall’associazione Tessere Trame in collaborazione con Oltre il muro e con Asp Città di Piacenza, spinge il lettore all’interno della realtà – spesso considerata ai margini non solo della città, ma anche dei pensieri – del carcere delle Novate.
Un’iniziativa che da Barbara Garlaschelli ed Elisabetta Spaini, di Tessere Trame, è descritta così: «E’ un volume nato per testimoniare la vitalità di un mondo considerato a parte, come quello del carcere, e dal momento che la nostra associazione si occupa di letteratura, uno dei modi per meglio illustrare le attività della casa circondariale è senza dubbio quello di raccogliere pensieri e scritti dei detenuti». «Esaminati e scelti – ci tengono a sottolinearlo – in base al loro valore letterario, anteponendo la qualità letteraria alla condizione degli autori, scritti tra i quali sono state anche aggiunte frasi di grandi scrittori che hanno vissuto l’esperienza carceraria».
Dopo la presentazione di Valeria Parietti (presidente dell’associazione Oltre il muro) e di Brunello Buonocore (Asp Città di Piacenza), sono stati letti alcuni testi dei detenuti. Ricordando quello che ha detto Garlaschelli in apertura dell’incontro in merito a letteratura e detenzione, vale a dire che «nel momento in cui si scrive paradossalmente si è liberi, la letteratura è una grande forma di libertà». Ed è quello che spiega poco dopo Ugo, ex detenuto che racconta la sua storia e dice: «Rileggo oggi quello che scrissi in carcere. Fa effetto, ma quanto mi è servito». E nero su bianco lo ribadisce a suo modo T.L. nel primo dei racconti che si trovano nel libro, piccolo e prezioso: “A volte mi capita di vedere un po’ di primavera nella mia anima. Per l’estate credo ci vorrà tempo”.
Senza Sosta, supplemento del giornale del carcere “Sosta forzata” gestito da Carla Chiappini, si potrà trovare anche nella sede di Oltre il muro in via Scalabrini 21.
Non dà segni di vita nel letto (ma sta “bene”). Detenuto nordafricano soccorso in carcere
Un detenuto delle carceri di valle Armea a Sanremo: R.M., di 47 anni, di origine nordafricana, è stato soccorso nel pomeriggio da un equipaggio della Croce Verde di Arma, assieme all’automedica Alfa 2, inviati dalla centrale operativa del 118. L’uomo non dava segni di vita nel letto, ma sembrava cosciente. E’ stato portato al pronto soccorso, dove i medici stanno valutando le sue condizioni.
Varese – Il carcere scoppia di nuovo I detenuti oltre quota 400
Busto Arsizio, 28 febbraio 2013 – Di nuovo oltre la soglia dei 400 i detenuti la casa circondariale bustese che da anni soffre di sovraffollamento. Negli ultimi tempi la struttura carceraria in via per Cassano è finita al centro dell’attenzione prima per la condanna della Corte europea dei diritti umaniarrivata all’Italia per le condizioni dei detenuti in celle sovraffollate, poi per alcuni personaggi noti, finiti dietro le sbarre. Spenti i riflettori mediatici che si erano accesi sui detenuti famosi, la casa circondariale bustese si ritrova con i problemi che la riguardano da tempo, a cominciare dal sovraffollamento. Situazione difficile che tuttavia e per fortuna non impedisce di promuovere all’interno esperienze di lavoro importanti, come la cioccolateria e la panetteria, avviata con successo pochi mesi fa e già “affamata” di nuovi spazi per potenziare la produzione. Intanto sono di nuovo aumentati i carcerati.
«Eravamo scesi a 380 – spiega il direttore Orazio Sorrentini – ora siamo di nuovo a 409 detenuti, a fronte di una capacità di 167 posti». La maggior parte dei carcerati sono stranieri, oltre 60%, effetto della presenza di Malpensa. Due anni fa sembrava essere vicina la soluzione del grave problema del sovraffollamento grazie al protocollo d’intesa che l’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano aveva firmato con il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Era il mese di marzo 2011: l’intesa prevedeva interventi a Opera, Bergamo e Busto Arsizio. Per il carcere bustese si trattava di realizzare una nuova struttura con una capacità di 200 posti (costo 11 milioni di euro).
La città di Busto Arsizio aveva addirittura ricevuto un encomio dal Ministero e dalla Regione per la tempestività con cui aveva dato la disponibilità all’ampliamento, segno di attenzione ai problemi della realtà carceraria. Invece quel piano è rimasto sulla carta, messo “nel cassetto” dai tagli decisi dal Governo Monti. Ma il sindaco Gigi Farioli è pronto a sollecitare i nuovi eletti in Parlamento affinché riconsiderino il progetto di ampliamento per il carcere bustese.
Martedì 5 marzo sarà visitato dalla Commissione consiliare dei Servizi sociali del comune di Busto Arsizio, che di recente ha avviato in collaborazione con la casa circondariale un progetto di inserimento lavorativo per due detenuti. «Siamo pronti e siamo lieti per la visita della commissione consiliare – dice il direttore Sorrentini – è uno dei segnali importanti di attenzione da parte dell’istituzione».
Uisp, Vivicittà torna nel carcere di Marassi
Genova – Giovedì 21 marzo , presso la Casa Circondariale di Marassi, si svolgerà la seconda edizione della speciale manifestazione “Vivicittà – Porte Aperte”. Lo start della corsa è previsto alle ore 16.00. I detenuti partecipanti correranno insieme ad una rappresentativa di atleti tesserati per associazioni della Lega atletica leggera Uisp.
Si correrà lungo un tracciato di 3 chilometri. Dall’interno del carcere si uscirà per correre anche due giri esterni attorno alle mura dell’Istituto.
Contemporaneamente, sul campo interno, si disputerà una partita di calcetto fra i partecipanti alle attività dei progetti di sportpertutti, arbitrata da uno dei detenuti che hanno seguito e superato il corso arbitri organizzato dalla Lega calcio Uisp.
La manifestazione è organizzata dal Comitato Uisp di Genova e dalla Direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi, con la collaborazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, con l’intento di gettare un “ponte” tra l’esterno e l’interno delle mura dove l’Uisp è stata presente, negli ultimi anni, tramite le azioni dell’omonimo progetto.
Cerca di corrompere agente per portare la droga in carcere
Lecce – Avevano cercato d’introdurre nel carcere di Borgo San Nicola di Lecce un panetto di circa 100 grammi di hashish, e per farlo, avevano richiesto la collaborazione di un agente di Polizia Penitenziaria che avevano cercato di corrompere.
Il tentativo di corruzion però non è andato a buon fine e così sono finiti nei guai tre uomini. Due di loro, hanno patteggiato una condanna ad un anno e mezzo di reclusione ciascuno.
Il terzo invece, già noto alle forze dell’ordine, ha scelto di andare a dibattimento. Il processo a suo carico quindi si aprirà il prossimo 6 maggio dinanzi alla I Sezione collegiale del Tribunale di Lecce.”
Maurizio Alfieri: ignobili condizioni nel carcere di Terni
diffondiamo alcuni aggiornamenti sul prigioniero in lotta Maurizio Alfieri, recentemente trasferito da Saluzzo aTerni:
Maurizio Alfieri ha scritto dal carcere di Terni questo telegramma al circolo “Cabana” di Rovereto:
“Sono isolato, senza TV, senza coperta di casa e non posso usare altre per allergie e asma, la finestra chiusa a chiave, senza caloriferi, siamo peggio degli animali, avvisati i compagni/e per un presidio, radio Onda Rossa per parlare sempre di Terni e su internet, 15 giorni fa è morto impiccato un ragazzo per come ci fanno vivere.
Sono ancora senza vestiario, non sono al 14 bis ma qui trattano peggio di un lager senza diritti, neanche al passeggio la domenica pazzesco…
Un abbraccio a tutti/e e V.V.B. Maurizio”.
In altre lettere Maurizio scrive di essere ancora senza vestiario, senza prodotti per l’igiene e senza TV, nonostante non sia al 14 bis, e che quello di Terni è il carcere peggiore in cui sia mai stato, dove si congela per il freddo e dove il “passeggio” consiste in 4 metri per 2.
Ha anche spedito una dettagliata denuncia delle ignobili condizioni detentive e degli atti di autolesionismo da parte di prigionieri al magistrato di sorveglianza di Terni, Fabio Gianfilippi, chiedendo anche di essere trasferito.
Non ha dubbi che il trasferimento a Terni sia stato una rappresaglia per il comunicato sottoscritto da 245 prigionieri di Saluzzo (dice che altre 100 firme dovevano arrivare dall’AS). E aggiunge di essere davvero incazzato.
Maurizio ribadisce l’importanza per lui e gli altri detenuti di Terni di un presidio sotto il carcere e di iniziative solidali a Roma e non solo.
Doverose, aggiungiamo noi, visto quanto Maurizio si è battuto ed esposto finora.
P.S. Nell’ultima lettera (14 febbraio) Maurizio scrive che gli hanno applicato il 14 bis sulla base di 22 rapporti disciplinari. “Sono dei terroristi legalizzati”.
Dice che se non verrà trasferito, comincerà uno sciopero della fame ad oltranza.
In carcere per errore: 100mila euro di risarcimento
Avellino – Dodici mesi di carcere per un criminale possono essere niente. Ma per una persona innocente sono devastanti. Ed è il caso di un rumeno che dopo aver trascorso un anno tra le mura del carcere da innocente, ha avviato – insieme al suo avvocato difensore Nunzia Napolitano – una battaglia legale per la ingiusta detenzione. E quella battaglia, vinta dopo tanti anni, gli ha cambiato la vita. In bene, naturalmente. Perché ha ottenuto il riconoscimento della ingiusta detenzione con il risarcimento di centomila euro. E per lui, straniero giunto in Italia per trovare lavoro e fortuna, 100mila euro sono tanti e bastano per cambiargli la vita.
Infatti, ha comprato già una casa per la famiglia in Romania, ha acquistato anche due furgoni per avviare un’attività di import-export tra Italia e Romania. Insomma, dopo anni di sofferenza, per il rumeno si è aperto uno spiraglio. Ed è anche il primo caso – almeno in Irpinia – di un risarcimento così cospicuo, nei confronti di uno straniero. Spesso e volentieri, infatti, sono protagonisti di casi di violenza e criminalità. Invece, il giovane era giunto in Italia per aiutare la famiglia, lavorando onestamente. Ma la sfortuna ha voluto che dopo 15 giorni dal suo arrivo viene arrestato.
Il giovane, insieme ad altri tre era stato accusato di riduzione in schiavitù, sequestro di persona e rapina aggravata. Secondo gli investigatori costituivano, insieme ad altri due, una banda criminale che aveva sede a Serino. I quattro rumeni sono stati arrestati il 14 marzo del 2008. E dopo 12 mesi di carcere sono stati rimessi in libertà. I ragazzi, tutti di età compresa tra i 18 e i 20 anni, erano stati accusati ingiustamente. I poveri rumeni, in pratica sono stati soltanto vittime di calunnie da parte di un loro connazionale, che dopo la denuncia, è tornato nel suo paese.
Ma per fortuna è finita l’odissea per i giovani rumeni che erano arrivati in Italia per trovare lavoro e dopo 15 giorni si sono ritrovati chiusi in una cella, senza capire nemmeno il perché. Ma, nonostante siano passati cinque anni, al rumeno gli è stata riconosciuta l’innocenza. Questo anche grazie al lavoro svolto in questi anni dal suo avvocato Nunzia Napolitano che ha prodotto una lunga e corposa memoria difensiva. Ora il rumeno è tornato a casa, ma presto tornerà in Italia per avviare l’attività lavorativa che aveva in mente.
Dati ufficiali: 203 detenuti palestinesi morti nelle carceri israeliane
Ramallah-InfoPal. Dati ufficiali palestinesi rivelano che dopo il decesso di Arafat Jaradat, avvenuto sabato 23 febbraio nel carcere israeliano di Megiddo, il numero dei morti tra i detenuti palestinesi è salito a 203.
In un comunicato stampa diramato sabato, il Dipartimento di Statistica nel ministero dei Detenuti palestinesi ha ritenuto la tortura, la più probabile causa del decesso di Arafat Jaradat, in carcere da sei giorni.
Il ministero ha anche richiamato l’attenzione sul fatto che decine di prigionieri sono deceduti pochi giorni, settimane o mesi, dopo il loro rilascio, a causa di malattie contratte durante la loro detenzione.
La prigione norvegese dove i carcerati vengono trattati come persone
Esiste un carcere in cui i detenuti vengono trattati come esseri umani. Non ha muri, non ha manette non c’è il filo spinato. Questa specie di paradiso si trova nell’isola di Bastoy, in Norvegia.
Stiamo parlando a tutti gli effetti di un carcere che non sembra un luogo di detenzione. Conta poco più di 120 detenuti, i quali godono di ampi spazi per muoversi, nell’ottica dei principi stabiliti dal sistema carcerario norvegese.
Tale sistema mira al reinserimento nella società. Questo moderno regime verrà applicato anche a Anders Behring Breivik. Costui è il killer di Utoya, ed è passibile di condanna.
Come funziona dunque la vita dei carcerati nell’isola di Bastoy? Un anonimo afferma che “nelle prigioni normali si rimane chiusi per la maggior parte della giornata. Vi è solo un’ora d’aria e alle otto si rientra in cella. Non esistono, dunque, costrizioni”.
Un altro uomo, Tom Cristensen trascorre il tempo sulle macchine: Tom ha unico appuntamento fisso, che l’appello al quale deve rispondere quattro volte al giorno.
Tom dice che “Puoi fare le stesse identiche cose che faresti qualora fossi libero, tra le quali il fatto di cucinare il cibo acquistato in negozio”. Una vera e propria overdose libertà, della quale non godono coloro sono dentro altri penitenziari dotati di regole più rigide.”
Ma ci sono anche coloro che non sopportano tutta questa libertà e desiderano addirittura tornare nelle prigioni di massima sicurezza. Lo dice John Froyland, il capo di Bastoy Island.
Il sistema, fondato sul rispetto della dignità della persona, però, funziona alla perfezione. Da cosa lo deduciamo? Dal fatto che in Norvegia solo il 20% dei carcerati una volta tornato in libertà commette nuovamente reati. Ciò non accade in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove oltre il 50% torna dietro le sbarre entro un paio d’anni.
Via i letti a castello da Buoncammino
Alghero – “Si avvia verso la normalità la degenza nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Buoncammino. Mentre si attendono i lavori di ristrutturazione, in questi ultimi giorni sono stati rimossi i letti a castello.
L’iniziativa si era resa necessaria a causa dell’eccessivo numero di pazienti ricoverati”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che in più occasioni aveva segnalato “il disagio per il sovraffollamento della casa Circondariale e per la presenza di letti a castello nell’area in cui sono assistiti i detenuti in precarie condizioni di salute”.
“Resta però irrisolto – ricorda Caligaris – il problema della presenza di un eccessivo numero di persone ammalate nella struttura penitenziaria cagliaritana. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe infatti individuare strutture alternative alla detenzione nei conclamati casi di persone sofferenti e anziane.
E’ assurdo che si trovino nel Centro Clinico cittadini impossibilitati a deambulare autonomamente o costretti a rifiutare i colloqui con i volontari per i dolori che li affliggono. Sono ricoverate inoltre persone con il morbo di Parkinson incapaci perfino di infilarsi le calze o tenere in mano una forchetta”.
“La rimozione della doppia branda a castello – conclude la presidente di SdR – è comunque un segnale positivo. In questo modo si riduce drasticamente il rischio di cadute con conseguenti traumi. L’auspicio è tuttavia che le persone malate siano ricoverate nelle strutture ospedaliere con tutti i necessari supporti”.
Op. Ardire – Comunicato di Culmine ai compas cileni
da contrainfo
Come accaduto a voi con il cosiddetto “Caso Bombas”, adesso accade a noi con l’operazione “Ardire”. In questi giorni abbiamo appreso che, tra le tante, siamo anche sotto indagine per il presunto “finanziamento degli anarchici cileni”.
La verità è che, a suo tempo, abbiamo dato la disponibilità del nostro conto corrente, quale forma di solidarietà concreta per i nostri compagni colpiti dallo Stato Cileno. L’abbiamo fatto con un comunicato pubblico e non avremmo dubbi a rifarlo. Non potranno mai fermare la solidarietà concreta tra anarchici/che, né con le sbarre, né con le sezioni ad alta sorveglianza.
Un forte abbraccio ribelle
Elisa e Stefano
14.02.2013
per scrivergli:
Elisa di Bernardo
c/c Rebibbia Femminile
Via Bartolo Longo 92
00156 Roma
Italia
Stefano Gabriele Fosco
Via Casale 50/A
15122 San Michele (AL)
Italia
Il caso Pistorius e il dramma dei detenuti disabili
Il caso Pistorius accende i riflettori sulle condizioni di vita disumane dei detenuti con problemi fisici. L’omicidio di Reeva Steenkamp e il conseguente arresto dell’atleta paraolimpico Oscar Pistorius, ha acceso i riflettori su una questione da molti ignorata: lo stato delle carceri sudafricane e le condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, specialmente quelli – e sono più di quanti si possa immaginare – che presentano disabilità fisiche più o meno gravi.
“Ho 50 anni e sono paraplegico” – Ne parla il Guardian, prendendo ad esempio il caso di un detenuto in attesa di processo che, come un terzo di tutti i detenuti sudafricani, non è stato colto in flagranza di reato. A dispetto del principio della presunzione di innocenza, sono 46.000 i detenuti in custodia preventiva, 46.000 persone che vivono in condizioni peggiori di coloro che, invece, stanno già scontando la propria condanna. “Ho cinquant’anni e sono paraplegico – racconta l’uomo ai giornalisti inglesi. Sto aspettando un processo da più di un anno, dopo che sono stato arrestato per frode nel dicembre 2011.
Non cammino, non ho il controllo delle funzioni intestinali e devo indossare dei pannolini che la mia famiglia compra per me. Non sento nulla dalla vita in giù. Non ho una carrozzina. Il mio co-imputato è stato rilasciato su cauzione, io non posso permettere di pagare così tanto. Anche la mia pensione di invalidità (103 sterline, circa 120 euro) che usavo per mandare a scuola la mia bimba di sette anni è stata sospesa. Ma la mia famiglia ha messo insieme un po’ di soldi e spero in una nuova udienza”.
In 88 in una cella per 32 – “Cammino spostando le gambe con le stampelle. Mi hanno sparato nella spina dorsale tre anni prima del mio arresto. Prima di essere trasferito ero nel carcere di Johannesburg, dove il medico mi aveva prescritto una carrozzina. Ma qui, non l’ho mai avuta”. E, come se non bastasse una grave disabilità fisica, si aggiunge il problema della sovrappopolazione delle carceri: “Vivere qui è dura – prosegue l’uomo – questa cella è pensata per ospitare 32 uomini: ma qui dentro siamo in 88, a volte anche di più. Dodici persone dormono in due letti a castello. Solo io ho il mio letto, ed è un privilegio: non lo devo dividere con nessuno per via della mia condizione. Quattro o cinque persone sono sieropositive. Mi sento vulnerabile. Non posso fidarmi di nessuno perché i miei compagni di cella cambiano continuamente. Preferirei essere morto piuttosto che stare qui”.
Dimenticato – Completamente in balia di se stesso, l’uomo deve riuscire a provvedere da solo anche alle necessità più elementari, come il cibo: “Mi ci vuole mezz’ora per trascinarmi fino in cucina. Ecco perché non faccio colazione. Ci vado una volta al giorno, per pranzo. Le guardie non permettono agli altri prigionieri di portarmi del cibo. Dicono che devo arrangiarmi da solo. Devo pulire le mie piaghe da solo, due volte al giorno. Non ci sono medicinali e io ho continui dolori. Se ti ammali, puoi aspettare anche una settimana prima di vedere un medico”.
“Problemi di ordine pratico” – Britta Rotmann, del dipartimento dei servizi correzionali, spiega che il sistema carcerario sudafricano prevede che ogni detenuto con disabilità riceva un adeguato trattamento: “Le condizioni di vita dei detenuti sono al centro del nostro lavoro, ma spesso ci si scontra con problemi di ordine pratico”.
Violenze a detenuti del carcere ad Asti: quattro agenti coinvolti, due hanno perso il lavoro
Ad Asti, non si è ancora conclusa una inchiesta condotta nel carcere per accertare le responsabilità di quattro agenti della polizia penitenziaria che nel 2004 erano accusati di abuso di autorità per aver picchiato e perseguitato un detenuto.
Processati nel gennaio 2012 per due agenti era scattata la prescrizione del reato e due erano stati assolti per assenza di querela da parte del detenuto.
Ieri, l’apposita commissione del “Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria” di Roma, a conclusione di un’istruttoria amministrativa ha destituito dal Corpo della Polizia Penitenziaria due degli agenti accusati di violenze e vessazioni. Si è immediatamente provveduto al ritiro della pistola e del distintivo.
Come conseguenza i due poliziotti dovranno trovarsi un altro lavoro. Gli altri due sono stati sospesi dal lavoro per alcuni mesi. Per i quattro c’è ancora la possibilità di ricorrere al Tribunale Amministrativo.
Bradley Manning: 1000 giorni di galera senza processo, proteste nel mondo e online
Sabato 23 febbraio ricorrono i mille giorni di prigionia del soldato statunitense Bradley Manning, contro cui pende un procedimento penale per aver presumibilmente passato informazioni riservate a WikiLeaks. E ciò senza che si sia svolto un regolare processo né alcuna procedura veloce per la sua carcerazione. Motivo per cui è prevista una giornata di mobilitazione internazionale, inclusi proteste, sit-in, concerti, tavole rotonde e altri eventi in molte città del mondo: in particolare in USA ma anche in Uganda, UK, Portogallo e Corea del Sud — mentre la relativa mappa continua a crescere di ora in ora. Prevista anche una manifestazione davanti all’ ambasciata statunitense a Roma. Analogamente prosegue il flusso di rilanci sui social media, soprattutto tramite l’ hashtag Twitter BradleyManning e con aggiornamenti sul sito del Bradley Manning Support Network.
Pussy Riot un anno dopo – La storia
Un anno fa Nadezhda Tolokonnikova, Maria Alyokhina e Yekaterina Samutsevich fanno irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca per invocare una preghiera punk contro Putin. Dodici mesi dopo, due su tre sono ancora in carcere per “teppismo motivato da odio religioso” mentre Samutsevich è libera e afferma: “Non ho nessun rimpianto per quello che abbiamo fatto”.
UN ANNO DI PUSSY RIOT – “Punk Prayer” è il nome della canzone urlata all’interno del luogo sacro per eccellenza russo che è costato la condanna a due anni di reclusione a Nadja e Marja, mentre lo scorso ottobre Katja ha ottenuto una sospensione della pena, tramutata in arresto domiciliare. Le ragazze sono accusate di aver offeso i sentimenti religiosi dei russi.
Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin!
Caccia Putin, caccia Putin!
Sottana nera, spalline dorate.
Tutti i parrocchiani strisciano inchinandosi.
Il fantasma della libertà è nel cielo.
Gli omosessuali vengono mandati in Siberia in catene.
Il capo del Kgb è il più santo dei santi.
Manda chi protesta in prigione.
Questa è la traduzione di parte del testo che inneggia alla cacciata di Putin e risulta privo di sentimenti antireligiosi. L’invocazione alla Madonna è mossa, in senso metaforico, affinché “Mandi via Putin”. Il destinatario della protesta delle Pussy Riot è il presidente russo e non una rivoluzione religiosa ma tant’è.
POST – “Molte persone che non ne sapevano nulla hanno cominciato a interessasi al problema: il problema della nostra società, della Chiesa russa” ha detto Samutsevich in un’intervista all’Associated Press. Perché tanto odio verso Putin? E perché no, viene da rispondere se solo si guarda a cosa succede all’interno dei confini russi ma il presidente Putin tramite la testata filogovernativa “Izvestia” fa sapere che nelle colonie penali di massima sicurezza “va tutto bene”.
VITA IN CARCERE – Nadja passa le giornate a cucire dalle 6 del mattino alle 17 del pomeriggio perché la polizia russa ha un bisogno costante di guanti e uniformi e così sarà per due anni ma Izvestia non presta molto attenzione alla cosa e si lascia andare a descrizioni: “Le immagini mostrano che le ragazze non vivono alcun disagio in prigione – e ancora – Alyokhina ha avuto una camera con solo tre persone, nonostante fosse progettata per dodici. Ha la tv e la doccia”. Praticamente, secondo la testata filogovernativa, le ragazze stanno facendo una vacanza, peccato per il freddo altrimenti ci avrebbero parlato anche della tintarella. A differenza di quanto i media ufficiali vorrebbero far passare, Alyokhina ha dichiarato “I bisogni si devono fare all’aperto e sotto gli occhi di tutti” ma questo è niente perché dopo le settimane passate in queste condizioni, Nadja è finita in ospedale sfinita dai lavori forzati (il link al pezzo): dopo l’appello dello scorso ottobre, Nadja è stata spedita in Mordovia. “Si è lamentata a lungo del suo stato di salute e finalmente hanno preso la decisione di spostarla in una vicina prigione dove almeno c’è un ospedale”, è ancora Katja a raccontare delle condizioni delle ragazze. Il problema non è lavorare ma il non lasciarla riposare – ha spiegato Samutsevich ricordando che – le danno ordini da eseguire giorno e notte. Si lamenta dell’enorme fatica”. Nadja prima di essere preda degli atroci mal di testa ha dichiarato: “Tutta questa vicenda è stata creata a tavolino dai mass media che ci descrivono come delle bestemmiatrici, teppisti o Dio solo sa che cosa. Il nostro gesto è stato visto come un’espressione di ateismo militante e questa interpretazione mi addolora”. Nel frattempo Marja la combina proprio grossa in carcere, perché non avendo la sveglia nella cella si permette addirittura di non svegliarsi per tempo alle 6 del mattino: “Masha è in cella di isolamento, non può avere una sveglia lì secondo le disposizioni del carcere, è ovvio che le risulta difficile non alzarsi per tempo” ha detto Verzilov, marito di Nadja.
DIRITTI ? – Le pericolose Pussy Riot in carcere, entrambe mamme, sono ricorse alla Corte di Strasburgo per denunciare la violazione di diverse disposizioni della Convenzione dei diritti dell’uomo che dovrebbe invece garantire (ne abbiamo parlato qui): libertà personale, libertà di espressione, diritto a un processo equo e divieto di tortura. Le ragazze sostengono che i loro diritti durante il processo nel tribunale di Mosca non sono stati rispettati. “Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre” le parole di Putin pronunciate lo scorso ottobre che vuoi o non vuoi, ricordano quelle usate per definire l’avvelenamento di Litvinenko “i medici britannici non hanno mai collegato il decesso alla conseguenza di una violenza – poi sorridendo ha aggiunto – Il signor Litvinenko, sfortunatamente, non è Lazzaro”. Durante il processo, Tolokonnikova ha dichiarato:
Essenzialmente, non sono le tre cantanti Pussy Riot ad essere sotto processo, perché se così fosse quello che sta accadendo sarebbe totalmente insignificante. Questo è un processo all’intero sistema politico della Federazione Russa che, sfortunatamente, gode nel mostrare crudeltà nei confronti degli esseri umani e indifferenza verso l’onore e la dignità, ricordando tutti i peggiori momenti della storia russa fino ad oggi. Con profondo dispiacere, questo processo farsa si avvicina agli standard delle troike staliniane. E così anche noi abbiamo l’inquisitore, il giudice e il procuratore. E ancora, l’atto repressivo determinato da tutto quello che queste tre figure decidono, dicono e fanno è dettato da ordini politici che vengono dall’alto. Cosa c’era dietro la performance nella Cattedrale di Cristo Salvatore e dietro il nostro successivo processo? Niente di più che il sistema politico autocratico
Durante le indagini, le ragazze sono state sottoposte anche a esami psicologici
“Eccoci qui. Né io, né Alyokhina, né Samutsevich abbiamo mostrato di nutrire emozioni forti e radicate o altri fattori psicologici interpretabili come odio verso qualcosa o qualcuno. Quindi: “Aprite tutte le porte, toglietevi tutti i gradi e le medaglie. Venite ad assaporare la libertà con noi”
In carcere non ci sono solo le Pussy Riot ma l’intera ‘democrazia’ russa, il cui imbarazzo è stato reso pubblico il giorno della morte di Anna Politkovskaja. Non a caso, moltissimi personaggi dello spettacolo e politici hanno appoggiato la causa delle ragazze dal passamontagna colorato partendo da Sting, Madonna, Lady Gaga, Yoko Ono ai Red Hot Chili Peppers e così via. Due anni di carcere per “aver violato l’ordine pubblico, disturbato la quiete dei cittadini e insultato profondamente le convinzioni dei cristiani” le parole di Marina Syrova, la giudice che ha firmato la loro condanna.
La Libertà brucia
Da Macerie
Grossa rivolta al Cie di corso Brunelleschi a Torino. Tutto comincia verso le 9 di sera, quando alcuni reclusi tentano di scappare scavalcando le alte grate, ma vengono ripresi dalla polizia appena prima dell’ultimo muro. Immediatamente scoppia la rabbia in tutto il Centro: alcuni reclusi salgono sui tetti e altri incendiano le camerate di alcune sezioni. La reazione della polizia è durissima, con un massiccio uso di gas lacrimogeni che rendono l’aria irrespirabile anche oltre le mura. Un presidio di solidarietà viene caricato a più riprese lungo via Monginevro, e i celerini rimediano qualche bottiglia e un paio di bombe carta. Dentro, i reclusi raccontano di persone picchiate ed altre ammanettate, forse già pronte per essere arrestati e trasferiti al carcere delle Vallette. Mentre siamo in attesa di ulteriori notizie, vi ricordiamo ilpresidio indetto per sabato pomeriggio alle ore 16 in corso Brunelleschi.
macerie @ Febbraio 23, 2013
Dopo le fiamme: solidarietà e vendetta
Un partecipato presidio ha salutato sabato pomeriggio i prigionieri del Cie di Torino,reduci da una notte di rivolta. La solidarietà dei manifestanti si è fatta sentire con musica, interventi al microfono in italiano e in arabo, battiture sui pali della luce, lanci di palline da tennis contenenti messaggi di solidarietà e i tamburi della Samba Band. La polizia, nonostante fosse presente in forze, non è tuttavia riuscita ad impedire che il presidio si trasformasse in un corteo attorno le mura del centro, fino davanti all’ingresso del Centro e poi di nuovo indietro, bloccando il traffico su via Monginevro e via Mazzarello.
Una volta sciolto il presidio, arriva la notizia che la polizia ha arrestato un recluso dell’area viola, colpevole di esser salito sul tetto per salutare i manifestanti. Assieme ai quattro arresti di ieri, con quest’ultimo sale quindi a 5 il numero di reclusi trasferiti nel carcere delle Vallette.
macerie @ Febbraio 23, 2013
Quel che mancava
Verso le 8 di domenica sera i reclusi dell’area gialla completano il lavoro cominciato nei giorni scorsi dai prigionieri del Cie di Torino, incendiando tutta la sezione. L’intervento della polizia con gli idranti è servito solo a far cessare il fumo, perché le fiamme avevano già bruciato tutto ciò che poteva bruciare. Ora i 35 prigionieri dell’area gialla, alcuni dei quali appena trasferiti lì dalle altre sezioni già bruciate, si trovano sotto la pioggia nel cortile della sezione, perché dentro non è possibile stare.
macerie @ Febbraio 24, 2013
Solidarietà con Mario Silva, compagno anarcovegan prigioniero in Messico
Saluti a tuttx.
Probabilmente la maggioranza di voi avrà già sentito parlare della situazione in cui si trova Mario Augusto Silva Sosa, meglio conosciuto da tutti come “Mayin”.
Ricordiamo la sua partecipazione in diverse lotte, in passato fu parte integrante del collettivo anarcovegan nella città del Messico, da allora ha intrapreso la scelta di una dieta vegana che continua da più di 10 anni, anche in questi ultimi mesi in cui si trova in carcere, nonostante le difficoltà che questo implica.
È anche partecipe del progetto di occupazione di Casa Naranja, appoggiandola nelle sue diverse attività.
Mario si trova prigioniero dal 18 novembre 2012 a causa di una denuncia di rapina, in un caso pieno di irregolarità, arbitrarietà da parte dell’apparato giudiziale e del corpo di polizia.
Il 25 gennaio c’è stata l’ultima udienza, tra il 10 e il 15 febbraio dovrebbero esserci le conclusioni e una settimana dopo ci sarà la sentenza. Il pronostico più positivo riguardo al risultato finale sarebbe la possibilità che Mayin esca libero su cauzione, tuttavia per il modo in cui si sta sviluppando il caso questa possibilità ci risulta onestamente difficile. Nel peggior caso Mayin potrebbe ricevere una sentenza fino a 8 anni.
Qui in Casa Naranja si è cercato di seguire da vicino lo sviluppo del suo caso e cercato di fornirgli settimanalmente alimenti vegani, appoggiandolo per quanto possibile in questo aspetto.
Durante il processo e la sua permanenza in prigione c’è stato bisogno di trovare il denaro necessario per pagare le pratiche, l’alimentazione e la corruzione interna nel carcere, in cui ha subito estorsioni fino alla rapina. La somma necessaria per appoggiarlo ha raggiunto la quantità approssimativa di 4.000 pesos al mese, questo carico è risultato eccessivo, per cui noi e Mayin facciamo una chiamata di fraternità a tuttx gli/le amicx, partecipi della sua vita e a chiunque desideri solidarizzare con il compagno in questa difficile situazione della sua vita.
Centro Sociale Occupato Casa Naranja
31ore di rivolta nel carcere di Contagem – Brasile
La mattina di giovedì 21 molti detenuti del carcere Nelson Hungria, a Contagem , zona metropolitana di Belo Horizonte hanno dato vita ad una grande rivolta. Due persone – una guardia carceraria e un insegnante – sono stati presi in ostaggio, secondo il Dipartimento di Stato di difesa sociale (SED). Le truppe della Polizia Militare (MP) sono sul posto. La rivolta, secondo il PM, è iniziata nel padiglione 1. L’addetto stampa della Regione 2 PM, il maggiore Sergio Dourado ha riferito che non ci sono feriti.
Secondo il Segretario dell’Amministrazione Penitenziaria, Murilo Andrade de Oliveira, sono stati coinvolti nella rivolta 90 detenuti. In questo padiglione sono prigionieri i condannati per reati come traffico di droga, furto e rapina, e sempre secondo il maggiore Dourado ci sono possibilità che i ribelli abbiano 2 armi, ma hanno riferito che non sono state ancora viste dalla polizia. Due prigionieri intanto sono alla negoziazione.
I prigionieri hanno lasciato le loro celle e sono nel cortile. Hanno bruciato materassi e pezzi di stoffa che avevano precedentemente utilizzato per cercare di fuggire attraverso il tetto del padiglione. In questo momento, sono state utilizzate granate stordenti per evitare una possibile fuga, secondo il Maggiore. Hanno anche fatto una scritta che si poteva leggere dall’alto con le parole “oppressione del sistema” sul pavimento del cortile del padiglione. Un elicottero della polizia segue le azioni. La polizia è sui muri di recinzione monitora i detenuti.
Le forze speciali di polizia sono arrivate alla prigione alle 12.20 per seguire i negoziati. Alcuni detenuti sono sui tetti e staccano tegole da usare per la rivolta. Una persona si è nascosta sotto una pila di materassi. Ma è stata portata via subito dopo.
Un principio di ribellione nel padiglione 6 è stata confermata, ma la polizia militare ha detto che la rivolta è già controllata. Il fumo si è visto da un’altro padiglione. La rivolta si sta allargando.
Il segretario avrebbe detto, secondo una fonte vicina a lui, che i ribelli si lamentano del ritardo nell’autorizzazione di visite e chiedono di vietare la reclusione di donne in stato di gravidanza. Essi si lamentano anche della direzione del carcere, delle percosse, dei trattamenti inumani e chiedono anche revisione della pena.
La rivolta è terminata alle 22 del giorno seguente, dopo 31 ore.
Rissa in carcere, condannati dopo 4 anni e mezzo, ma uno è latitante un altro è evaso
Stava pregando in cella, di notte, durante il mese del Ramadam. Ma qualcuno non apprezzava il suo fervore religioso e lamentava di non riuscire a dormire. Dopo avergli chiesto di smettere è passato agli insulti e per tutta risposta si è visto sputare addosso. Il giorno dopo, per vendetta, ha arruolato tre connazionali per una spedizione punitiva e hanno picchiato lui e un suo amico.
Fu un agente di Polizia Penitenziaria ad accorgersi che in quell’ora di libertà qualcosa era andato storto, vedendo il gruppo scendere le scale con addosso i segni ben visibili della colluttazione. Uno dei magrebini riportò una lussazione alla spalla, l’altro tagli e contusioni. Venne avvertito il direttore del carcere per prendere le misure conseguenti.
Era l’8 settembre del 2008 e per quei fatti ieri sono state condannate sei persone per rissa. Si tratta di Bashkim Dervishi, 43 anni, Elton Hylviu, 30 anni, Robert Lusha, 32 anni e Anton Staka 30 anni, tutti albanesi detenuti in quel momento all’Arginone, e di Ramzi Katani, marocchino, e Miled Orabi, tunisino, entrambi di 31 anni.
Ieri in tribunale, davanti al giudice Landolfi e al pm Stefania Borro, sono stati sentiti gli agenti di Polizia Penitenziaria e il direttore del carcere Francesco Cacciola, che ha battezzato l’episodio come scoppiato per “motivi religiosi”.
Al termine della discussione il giudice ha condannato Dervishi, Saka e Hylviu a un anno e otto mesi. Un anno di pena per tutti gli altri. Pena sospesa per Katani e Lusha. Per alcuni di loro la condanna non sarà un dramma. C’è chi risulta latitante, chi invece è appena evaso dal carcere di Parma.
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