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In carcere senza motivo, cronaca di quotidiani soprusi israeliani

Cinque giorni di carcere, senza poter bere per quasi 48 ore, senza la possibilità di contattare le autorità competenti o i familiari e in condizioni igieniche pessime.
È stato questo in sintesi il viaggio in Israele di Francesco, un ragazzo 30 anni, che il 28 gennaio scorso era partito alla volta di Tel Aviv per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza di una decina di giorni in Terra Santa e che si è invece tramutata in una detenzione forzata, per la quale ancora oggi non sono state fornite motivazioni ufficiali.
“Già da Roma i controlli sono stati eccessivi – racconta a Rinascita Francesco, partito dal terminal 5 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino – un piccolo interrogatorio viene fatto già alla partenza da agenti israeliani, che successivamente separano i propri concittadini dai semplici viaggiatori ebrei e dalle altre persone in partenza, attribuendo loro un diverso livello di sicurezza”.
Urlo_Mod_by_ClaMzeroSi tratta di un valore che va da 0 a 6, in base al rischio che ogni passeggero potrebbe rappresentare per la sicurezza del Paese e che viene segnalato applicando una targhetta adesiva scritta in ebraico su ogni passaporto. Dopo questa prima fase il turista italiano passa per la perquisizione e il controllo dei bagagli a mano, che gli saranno restituiti dopo oltre due ore di attesa. Francesco viene quindi accompagnato all’interno dell’area duty free dello scalo romano ed è qui che scopre che gli agenti hanno deciso di separare lui, una ragazza e due giovani palestinesi dal resto dei viaggiatori, e che a loro è stata affibbiata una scorta che li seguirà perfino in bagno fino al momento dell’imbarco.
“Hanno fatto prima riempire l’aereo e poi hanno fatto salire noi per non farci avere contatti con gli altri passeggeri”, prosegue il ragazzo, precisando però che durante il volo il trattamento riservato loro è stato assolutamente normale.
Giunti a Tel Aviv i quattro vengono nuovamente separati dagli altri, poiché le procedure di controllo dei viaggiatori ai quali è stato assegnato un punteggio superiore a 3 sono ben diverse da quelle degli altri. Francesco viene quindi privato nuovamente dei suoi bagagli a mano, fatto spogliare e i suoi vestiti passati ai raggi x.
“E fin qui rientra tutto nella normalità – spiega il giovane turista – circa il 25 per cento delle persone che si recano in Israele subiscono questa trafila. Un gruppo di 40 persone provenienti dalla Turchia per un giro religioso, è stato obbligato a restare un paio d’ore in sala d’attesa per approfondire i controlli”. Attesa che per Francesco è durata più di otto ore, nel corso delle quali è stato interrogato a più riprese dagli agenti della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
“Il colloquio verte inizialmente sulle generalità, sul tipo di lavoro che si fa e cose simili. Poi si entra invece nel merito del viaggio, mi hanno chiesto il perché fossi lì, se avessi prenotato alberghi, se avessi con me appunti, computer, videocamera o macchina fotografica e se conoscessi qualche palestinese”, racconta ancora il ragazzo, precisando che l’agente ha insistito molto su quest’ultimo punto. Sebbene a farlo innervosire sia stato il non aver né un posto prenotato per il pernotto, né annotazioni sulle aree da visitare, né il computer e neppure una scheda di memoria per la macchina digitale. Ma Francesco è abituato a viaggiare senza prefissare date precise per i suoi spostamenti, facendosi consigliare di volta in volta dove alloggiare e sa inoltre bene che le autorità aeroportuali israeliane sono solite copiare i dati contenuti nei dispositivi elettronici, motivo per quale aveva scelto di acquistare direttamente sul posto una nuova memory card. È a questo punto che il militare inizia a fargli domande sui suoi recenti viaggi nei Paesi arabi e in particolare in Libano, dove si è recato per lavoro, chiedendogli dove avesse alloggiato. Francesco risponde senza problemi, ma l’impossibilità per l’agente doganale di verificare la veridicità delle sue risposte, visto anche che il giovane per scelta non possiede uno smartphone con il quale tracciare i suoi ultimi spostamenti, lo fa innervosire.
“A quel punto mi ha chiesto l’indirizzo e il telefono di casa mia e di quella dei miei genitori e ha iniziato a ripetermi più volte domande fatte in precedenza, per farmi cadere in contraddizione, ma senza riuscirci”, aggiunge Francesco, che rivela di essere stato costretto nuovamente a spogliarsi e a subire altri controlli. Il tutto senza la possibilità di bere o di poter contattare qualcuno, dalla famiglia, all’ambasciata italiana a Tel Aviv.
“A mezzanotte e mezza vengo infine informato che il mio visto è stato rifiutato e vengo quindi portato in un altro ufficio per essere schedato – ci dice ancora – mi vengono prese le impronte e fatta una foto. Una procedura standard che subiscono tutti i rifiutati, ai quali non sarà permesso di tornare in Israele per 10 anni successivi al rifiuto”.
Francesco viene quindi accompagnato in un edificio esterno all’aeroporto che gli agenti chiamano Asility, una struttura di accoglienza momentanea in attesa del rimpatrio, che lui non esita a definire “una prigione, al pari di quelle del Burkina Faso e Burundi”.
“Una volta sequestratomi il bagaglio a mano e il cellulare mi portano al primo piano dove ci sono le celle e mi mettono dentro. Chiudono la porta blindata che ha solo un piccolo vetro che permette di vedere fuori, e mi ritrovo in una stanza di 5 metri per 6 che conteneva: tre letti a castello e un bagno, con solo il water e un lavabo dal quale usciva acqua non potabile”, rivela Francesco, che parla di condizioni igieniche pessime.
“All’interno – prosegue trentenne italiano – c’erano un ragazzo sudafricano in evidente stato di depressione e un sessantenne svedese che si lisciava la barba e parlava da solo fissando il muro. Ogni tanto quest’ultimo bussava alla porta e chiedeva acqua, le guardie dicevano sempre di sì ma non portavano nulla”. Solo dopo 48 ore di prigionia i militari si sono degnati di portare una brocca d’acqua, neppure la necessità di predere alcuni medicinali da parte di Francesco riesce a smuovere i carcerieri, sebbene almeno i pasti venissero serviti con regolarità. Alla fine del secondo giorno arriva però la telefonata della speranza del console italiano, avvisato dai familiari e dagli amici di Francesco preoccupati per il suo inspiegabile silenzio. Il diplomatico si mostra sorpreso e infuriato dall’atteggiamento delle autorità aeroportuali e si premura che Francesco abbia tutto il necessario, nonostante non possa aiutarlo a ripartire prima del volo fissato dagli agenti israeliani per il primo febbraio. “Quando sei in un posto così anche una telefonata di dieci minuti con una persona che ti parla in un certo modo e si mette a tua disposizione, ti rincuora – spiega il giovane turista – Per di più la chiamata del console in persona ha stupito le guardie della struttura essendo una procedura anomala”.
“In cinque giorni non ho preso nemmeno 10 minuti d’aria e ho perso la cognizione del tempo a causa dei fari fissati sul soffitto della cella che rimanevano sempre accesi, giorno e notte. Non mi son potuto lavare o cambiare, per bere ho detto che dovevo prendere medicine ma se ne fregavano”, rivela ancora Francesco, che sottolinea come nei suoi confronti e in quelli degli altri detenuti non sia stata fatta non violenza fisica, ma una terribile violenza psicologica, facendolo sentire “trattato come un terrorista”.
La cosa più triste di tutta questa vicenda, però, è la scelta forzata di Francesco di non presentare nessuna protesta formale al suo rientro in Italia, conscio del fatto che tanto non servirebbe a nulla, poiché, afferma: “Tutte le autorità del mondo sanno di queste procedure eppure nessuno fa niente, se ne fregano”. Quello riservato al trentenne italiano è infatti un destino che molti subiscono in silenzio ogni giorno e che rappresenta una violazione della dignità umana, poiché si viene sbattuti in carcere per aver, di fatto, solo osato chiedere il visto d’ingresso in Israele.
E, infine, come se tutto questo non bastasse, Francesco ha scoperto solo al suo ritorno in Italia che il bagaglio imbarcato era partito ben 24 ore dopo di lui per Tel Aviv a causa dei controlli. Bagaglio che ha ricevuto, poi, solo dopo due settimane dal suo rientro in Italia, con tutti i disagi del caso.

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Senza Sosta, in un libro la vita al carcere delle Novate

libri-carcereRicordi, nostalgie, radici – quelle spezzate, quelle cresciute intorno alle sbarre – e speranze da far vivere magari lontano da celle anguste. “Senza Sosta”, il volume presentato al Tribunale di Piacenza e curato dall’associazione Tessere Trame in collaborazione con Oltre il muro e con Asp Città di Piacenza, spinge il lettore all’interno della realtà – spesso considerata ai margini non solo della città, ma anche dei pensieri – del carcere delle Novate.

Un’iniziativa che da Barbara Garlaschelli ed Elisabetta Spaini, di Tessere Trame, è descritta così: «E’ un volume nato per testimoniare la vitalità di un mondo considerato a parte, come quello del carcere, e dal momento che la nostra associazione si occupa di letteratura, uno dei modi per meglio illustrare le attività della casa circondariale è senza dubbio quello di raccogliere pensieri e scritti dei detenuti». «Esaminati e scelti – ci tengono a sottolinearlo – in base al loro valore letterario, anteponendo la qualità letteraria alla condizione degli autori, scritti tra i quali sono state anche aggiunte frasi di grandi scrittori che hanno vissuto l’esperienza carceraria».

Dopo la presentazione di Valeria Parietti (presidente dell’associazione Oltre il muro) e di Brunello Buonocore (Asp Città di Piacenza), sono stati letti alcuni testi dei detenuti. Ricordando quello che ha detto Garlaschelli in apertura dell’incontro in merito a letteratura e detenzione, vale a dire che «nel momento in cui si scrive paradossalmente si è liberi, la letteratura è una grande forma di libertà». Ed è quello che spiega poco dopo Ugo, ex detenuto che racconta la sua storia e dice: «Rileggo oggi quello che scrissi in carcere. Fa effetto, ma quanto mi è servito». E nero su bianco lo ribadisce a suo modo T.L. nel primo dei racconti che si trovano nel libro, piccolo e prezioso: “A volte mi capita di vedere un po’ di primavera nella mia anima. Per l’estate credo ci vorrà tempo”.

Senza Sosta, supplemento del giornale del carcere “Sosta forzata” gestito da Carla Chiappini, si potrà trovare anche nella sede di Oltre il muro in via Scalabrini 21.

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Venezuela – Detenuto tenta di evadere in un trolley

VENEZUELA / scoperto dalla polizia al portone dell’uscita

Detenuto tenta di evadere in un trolley

Juan-Ramirez-TijerinaGavinson García, alto 1,60 metri, si era rannicchiato avvolgendo la testa tra le ginocchia

Garcia viene scoperto dalla polizia penitenziaria (Epa/Ultimas Noticias)

In Venezuela, d’ora in poi, i visitatori che entrano in un carcere non potranno più portare con sé valige o borsoni. Il motivo della nuova direttiva? Domenica scorsa, a Caracas, un detenuto ha cercato di evadere di prigione nascondendosi dentro una piccola valigia quadrata con le ruote.

FUGA SFUMATA – Gavinson García non ha portato a termine la bizzarra fuga: è stato scoperto dalla polizia carceraria davanti al portone dell’uscita. L’evasione era stata progettata con una visitatrice, la sua fidanzata 22enne, che aveva consegnato il baule all’uomo condannato per omicidio. García, alto un metro e 60 centimetri, si era rannicchiato dentro il trolley avvolgendo la testa tra le ginocchia.

 Fonte Corriere

Non dà segni di vita nel letto (ma sta “bene”). Detenuto nordafricano soccorso in carcere

stesoUn detenuto delle carceri di valle Armea a Sanremo: R.M., di 47 anni, di origine nordafricana, è stato soccorso nel pomeriggio da un equipaggio della Croce Verde di Arma, assieme all’automedica Alfa 2, inviati dalla centrale operativa del 118. L’uomo non dava segni di vita nel letto, ma sembrava cosciente. E’ stato portato al pronto soccorso, dove i medici stanno valutando le sue condizioni.

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Rivolta Bari agosto 2011, comminati 34 anni di carcere

rivolta-immigrati-cara-bariSono 34 gli anni di carcere complessivi comminati a 14 immigrati ospiti del Cetro di accoglienza richiedenti asilo di Bari-Palese accusati di aver messo a ferro e fuoco la citta’ durante la rivolta del primo agosto 2011. Nel pomeriggio, il gup Giovanni Abbattista ha letto la sentenza di primo grado nei confronti degli extracomunitari che diedero vita alla dura protesta, assaltando un autobus dell’Amtab, occupando la tangenziale e una linea ferroviaria. Quel giorno circa cento poliziotti e carabinieri restarono feriti durante gli scontri.

Il giudice ha condannato tutti gli imputati a pene comprese tra i due e i tre anni e dieci mesi. Per nove di loro ha anche ordinato l’espulsione immediata dallo Stato italiano. Gli immigrati sono stati, inoltre, condannati a risarcire la Ferrotramviaria Spa-Ferrovie del nord barese per i danni subiti durante la protesta.

Fonte Adnkronos


Varese – Il carcere scoppia di nuovo I detenuti oltre quota 400

jail1Busto Arsizio, 28 febbraio 2013 – Di nuovo oltre la soglia dei 400 i detenuti la casa circondariale bustese che da anni soffre di sovraffollamento. Negli ultimi tempi la struttura carceraria in via per Cassano è finita al centro dell’attenzione prima per la condanna della Corte europea dei diritti umaniarrivata all’Italia per le condizioni dei detenuti in celle sovraffollate, poi per alcuni personaggi noti, finiti dietro le sbarre. Spenti i riflettori mediatici che si erano accesi sui detenuti famosi, la casa circondariale bustese si ritrova con i problemi che la riguardano da tempo, a cominciare dal sovraffollamento. Situazione difficile che tuttavia e per fortuna non impedisce di promuovere all’interno esperienze di lavoro importanti, come la cioccolateria e la panetteria, avviata con successo pochi mesi fa e già “affamata” di nuovi spazi per potenziare la produzione. Intanto sono di nuovo aumentati i carcerati.

«Eravamo scesi a 380 – spiega il direttore Orazio Sorrentini – ora siamo di nuovo a 409 detenuti, a fronte di una capacità di 167 posti». La maggior parte dei carcerati sono stranieri, oltre 60%, effetto della presenza di Malpensa. Due anni fa sembrava essere vicina la soluzione del grave problema del sovraffollamento grazie al protocollo d’intesa che l’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano aveva firmato con il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Era il mese di marzo 2011: l’intesa prevedeva interventi a Opera, Bergamo e Busto Arsizio. Per il carcere bustese si trattava di realizzare una nuova struttura con una capacità di 200 posti (costo 11 milioni di euro).
La città di Busto Arsizio aveva addirittura ricevuto un encomio dal Ministero e dalla Regione per la tempestività con cui aveva dato la disponibilità all’ampliamento, segno di attenzione ai problemi della realtà carceraria. Invece quel piano è rimasto sulla carta, messo “nel cassetto” dai tagli decisi dal Governo Monti. Ma il sindaco Gigi Farioli è pronto a sollecitare i nuovi eletti in Parlamento affinché riconsiderino il progetto di ampliamento per il carcere bustese.
Martedì 5 marzo sarà visitato dalla Commissione consiliare dei Servizi sociali del comune di Busto Arsizio, che di recente ha avviato in collaborazione con la casa circondariale un progetto di inserimento lavorativo per due detenuti. «Siamo pronti e siamo lieti per la visita della commissione consiliare – dice il direttore Sorrentini – è uno dei segnali importanti di attenzione da parte dell’istituzione».

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Cerca di corrompere agente per portare la droga in carcere

Hashish-smoker-India-Pushcar-a17917705Lecce – Avevano cercato d’introdurre nel carcere di Borgo San Nicola di Lecce un panetto di circa 100 grammi di hashish, e per farlo, avevano richiesto la collaborazione di un agente di Polizia Penitenziaria che avevano cercato di corrompere.

Il tentativo di corruzion però non è andato a buon fine e così sono finiti nei guai tre uomini. Due di loro, hanno patteggiato una condanna ad un anno e mezzo di reclusione ciascuno.

Il terzo invece,  già noto alle forze dell’ordine, ha scelto di andare a dibattimento. Il processo a suo carico quindi si aprirà il prossimo 6 maggio dinanzi alla I Sezione collegiale del Tribunale di Lecce.”

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Resoconti del presidio anticarcerario a Saluzzo

diffondiamo da infoma-azione

 

saluzzofoto1Nella prima settimana di febbraio 2013, i prigionieri del carcere di Saluzzo hanno deciso di fare uscire dalle mura e dalle sbarre che li tengono sequestrati un documento in cui segnalano gli abusi e le pene accessorie alla privazione della libertà a cui sono sottoposti. Il vitto da fame, il gelo delle celle, la mancanza di beni di prima necessità come quelli per l’igiene personale e della cella, la mancata concessione di benefici e misure alternative, lo sfruttamento lavorativo e in generale una condizione di abbandono e di miseria, sono caratteristiche che accomunano ogni struttura dell’apparato detentivo italiano, ma in quella di Saluzzo i prigionieri hanno deciso di farsi sentire. Lo hanno fatto scrivendo, rivolgendosi direttamente a compagne e compagni, che hanno risposto con un presidio volto a dare forza e ad amplificare la rabbia delle persone rinchiuse dentro quelle mura. La mattina del 16 febbraio, giorno per cui era prevista l’iniziativa, abbiamo appreso che uno degli uomini sequestrati a Saluzzo, nonché uno dei promotori del documento firmato da 245 prigionieri, Maurizio Alfieri, era stato trasferito presso il carcere di Terni. Sballato da una galera all’altra, Maurizio non ha mai smesso di lottare per contrastare gli abusi e le violenze che ha incontrato durante la sua carcerazione, promuovendo l’auto-organizzazione dei prigionieri e la rottura del silenzio assassino che circonda l’apparato detentivo. Possiamo interpretare il suo trasferimento come l’ennesima rappresaglia nei suoi confronti o come un tentativo di ostacolare la solidarietà nei confronti di tutti i prigionieri di quel carcere; ma una prima ovvia risposta è stata quella di ribadire, con ancora più risolutezza, la nostra presenza sotto le mura di Saluzzo.

Una settantina di nemiche e nemici di ogni galera, venuti da diverse parti del nord Italia, si sono ritrovati in un campo fangoso a lato della prigione, lasciando così le truppe cammellate della repressione sul lato dell’ingresso. Per oltre due ore si sono susseguiti interventi dall’impianto, musica e colloqui selvaggi con i prigionieri da sotto le mura. La risposta da dentro è stata forte e rumorosa: battiture, cori insieme ai presidianti, risate e grida di rabbia, luci accese e spente a tempo di musica e pezzi di carta infuocati. Prima che il buio calasse, un gruppo di solidali ha deciso di lasciare il segno creando una falla nella recinzione che circonda quella galera. Diversi fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo e bersagliato la torretta degli aguzzini a guardia di quelle mura, fino a provocare qualche lancio di lacrimogeni da parte dei poliziotti antisommossa schierati all’esterno.

Infine, prima di abbandonare il presidio, una scritta alta circa tre metri e lunga una decina, realizzata con tondini di metallo saldati e stoffa intrisa di benzina, è stata data alle fiamme in modo che i prigionieri potessero leggere un semplice messaggio: LIBERTA’. Quindi ce ne siamo andati, salutando le persone sequestrate in quelle celle, invitandoli a restare uniti e a continuare a farsi sentire… anche insieme a noi. Sperando che in ogni galera ci siano prigionieri e prigioniere pronti ad organizzarsi, senza delegare a nessuno la propria dignità e la propria sete di libertà.



Un saluto caloroso

Nel pomeriggio di sabato 16 febbraio qualche decina di solidali si raduna nel campo alle spalle del carcere di Saluzzo. Da un impianto audio sparano musica rock’n’roll anni ’70, dentro molto apprezzata.
Tra un pezzo e l’altro si alternano saluti, battiture, vengono urlati i contatti per scrivere a realtà solidali e di controinformazione, interventi a volte rabbiosi a volte informativi, come il testo “Resistere dentro, resistere fuori” o il nuovo indirizzo di Maurizio Alfieri, trasferito nei giorni precedenti.

Alcuni solidali riescono ad avvicinarsi alle sbarre del perimetro per fare dei “colloqui selvaggi” con i detenuti. Questi portano ad un’attenta relazione tra dentro e fuori, a non parlare tutti insieme, a fermare la musica, le urla e gli slogan, facendo si che un presidio diventi realmente un momento di vicinanza. Quando qualcuno svita i bulloni di una delle grate, una decina di manifestanti cerca di entrare nello spiazzo tra le sbarre e il muro di cinta. La polizia si allarma e si avvicina al buco, allora gli “intrusi” si ricompattano senza però allontanarsi delle grate.


All tramonto c’è una sorpresa: sette lettere di fuoco si accendono per formare una parola sola: “Libertà!” E sia dentro sia fuori si grida assieme “Li-ber-tà! Li-ber-tà!” Alcuni fuochi artificiali esplodono nel cielo, altri sulla torretta in cui sono rintanati i secondini. La celere di guardia fuori si avvicina sparando tre o quattro lacrimogeni, i manifestanti rispondono con qualche bomba carta.

Dopo un ultimo saluto, il presidio termina e i manifestanti si allontanano in tutta tranquillità.

Ascolta il resoconto in diretta con una redattrice di Radio Blackout 105.250FM


In carcere per errore: 100mila euro di risarcimento

carcereAvellino – Dodici mesi di carcere per un criminale possono essere niente. Ma per una persona innocente sono devastanti. Ed è il caso di un rumeno che dopo aver trascorso un anno tra le mura del carcere da innocente, ha avviato – insieme al suo avvocato difensore Nunzia Napolitano – una battaglia legale per la ingiusta detenzione. E quella battaglia, vinta dopo tanti anni, gli ha cambiato la vita. In bene, naturalmente. Perché ha ottenuto il riconoscimento della ingiusta detenzione con il risarcimento di centomila euro. E per lui, straniero giunto in Italia per trovare lavoro e fortuna, 100mila euro sono tanti e bastano per cambiargli la vita.

Infatti, ha comprato già una casa per la famiglia in Romania, ha acquistato anche due furgoni per avviare un’attività di import-export tra Italia e Romania. Insomma, dopo anni di sofferenza, per il rumeno si è aperto uno spiraglio. Ed è anche il primo caso – almeno in Irpinia – di un risarcimento così cospicuo, nei confronti di uno straniero. Spesso e volentieri, infatti, sono protagonisti di casi di violenza e criminalità. Invece, il giovane era giunto in Italia per aiutare la famiglia, lavorando onestamente. Ma la sfortuna ha voluto che dopo 15 giorni dal suo arrivo viene arrestato.

Il giovane, insieme ad altri tre era stato accusato di riduzione in schiavitù, sequestro di persona e rapina aggravata. Secondo gli investigatori costituivano, insieme ad altri due, una banda criminale che aveva sede a Serino. I quattro rumeni sono stati arrestati il 14 marzo del 2008. E dopo 12 mesi di carcere sono stati rimessi in libertà. I ragazzi, tutti di età compresa tra i 18 e i 20 anni, erano stati accusati ingiustamente. I poveri rumeni, in pratica sono stati soltanto vittime di calunnie da parte di un loro connazionale, che dopo la denuncia, è tornato nel suo paese.

Ma per fortuna è finita l’odissea per i giovani rumeni che erano arrivati in Italia per trovare lavoro e dopo 15 giorni si sono ritrovati chiusi in una cella, senza capire nemmeno il perché. Ma, nonostante siano passati cinque anni, al rumeno gli è stata riconosciuta l’innocenza. Questo anche grazie al lavoro svolto in questi anni dal suo avvocato Nunzia Napolitano che ha prodotto una lunga e corposa memoria difensiva. Ora il rumeno è tornato a casa, ma presto tornerà in Italia per avviare l’attività lavorativa che aveva in mente.

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L’88% dei soldi finisce in stipendi, il 7,3 per far mangiare i detenuti

crisi-euroIl vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena.

Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell’amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l’incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv dà sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno. L’elenco di queste spese «fuori norma» è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana.

I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani – come descrivono Paolo Biondani e Arianna Giunti nelle pagine a seguire – dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l’insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l’unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l’amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare «non una ma dieci volte». A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l’amministrazione penitenziaria, ma 1’88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze.

Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri. La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l’emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d’Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l’anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria […1. Ma invece di fare passi avanti; si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c’è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l’Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt’altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce. Anche il primato nel rapporto tra detenuti e agenti penitenziari resta teorico: si continua a discutere della carenza di personale di custodia mentre una moltitudine di agenti è in servizio nel ministero di via Arenula, negli uffici periferici regionali o viene distaccato ad altri incarichi, lasciando sguarniti i raggi delle celle. «È assolutamente chiaro che si sia sbagliato qualcosa», si legge nella relazione del Dap al Consiglio d’Europa, «così com’è chiaro che proprio ragionare su questi apparenti paradossi costituisca il corretto approccio per provare, almeno, ad allineare il sistema penitenziario italiano a quello degli altri Stati europei». Nell’ultimo anno i vertici del Dap hanno cercato di cambiare la rotta. Con investimenti limitati, evitando gli sprechi, hanno ristrutturato alcune sezioni degli istituti, realizzando 4.630 nuovi posti.

La nuova legge sugli arresti domiciliari, che permette di scontare in casa condanne inferiori ai dodici mesi, ha fatto uscire quasi novemila detenuti. Su altri 6.000 con pene fino a due anni si devono pronunciare i giudici di sorveglianza. Nonostante questo l’emergenza continua. Ad affollare le carceri sono soprattutto gli extracomunitari: ben 24 mila, con una predominanza di cittadini marocchini e tunisini. La maggioranza dei detenuti è accusata o condannata per reati contro il patrimonio: 34.583 sono finiti dentro per furti, rapine, estorsioni, ricettazione, usura, frodi, riciclaggio. Altri 26.160 hanno commesso reati legati alla droga; 24.090 sono accusati di crimini contro la persona come violenze e omicidi; 10.425 invece devono scontare pene per armi. I colletti bianchi in cella Li sono 8.307. Su 65 mila reclusi, solo 604 sono laureati, di cui 176 stranieri: altri 21 mila hanno la licenza di scuola media inferiore. E gli unici a potere contare su celle comode, con uno o due letti per stanza, sono mafiosi e terroristi sottoposti a regime di media e massima sicurezza: settemila persone, tra cui 133 donne. Ma questa esigenza ha provocato un altro squilibrio, con la necessità di riservare numerose sezioni a questi sorvegliati speciali, aumentando la ressa nelle altre. Dopo l’indulto varato dal governo Prodi nel 2007, i cui effetti sul sovraffollamento sono stati vanificati nel giro di tre anni, di fatto non ci sono stati interventi. Con la solita logica emergenziale, nel 2010 il ministro Angelino Alfano ha elaborato un piano straordinario per l’edilizia carceraria. È stato nominato un commissario con ampi poteri e risorse finanziarie: nei proclami iniziali si parlava di 700 milioni di euro, poi i soldi sono spariti. Oggi sono in fase di avvio i lavori per costruire un paio di padiglioni mentre tutto il programma iniziale è stato riesaminato secondo criteri di efficienza dal nuovo commissario straordinario. Nel piano Alfano, oltre alla nomina di consulenti amici del politico, sono stati pianificati tanti cantieri ignorando le situazioni più urgenti o le esigenze dei territori. Come il caso del carcere che si voleva edificare a Mistretta, nel Messinese, eliminato in fretta dalla mappa. Un vecchio vizio: negli anni Ottanta lo scandalo delle carceri d’oro ha dimostrato come i nuovi penitenziari erano stati edificati solo in base a logiche politiche, di collegio elettorale o di tangente, senza guardare alle necessità dei detenuti. Che spesso sono obbligati a rimanere concentrati negli istituti più vicini alle sedi dei processi. Ma anche in tempi recenti le nuove prigioni sono diventate l’occasione per rapidi arricchimenti. Durante la gestione del Dap guidata da Franco Ionta ha destato curiosità la figura del “responsabile unico di progetto” che a norma di legge intascava il 2 per cento dell’opera. A firmare era sempre lo stesso funzionario, un tecnico, sostituito poi da un magistrato: lo stesso Ionta.

Oggi ‘nella campagna elettorale la questione delle carceri è stata ignorata. Solo i Radicali hanno continuato senza sosta a proporre il problema. E ora toccherà al nuovo Parlamento dare risposte concrete per uscire da quella che il presidente ha definito una «situazione mortificante», ribadendo senza mezzi termini: «Sono in gioco l’onore e il prestigio dell’Italia».

Fonte: L’espresso


Dati ufficiali: 203 detenuti palestinesi morti nelle carceri israeliane

israRamallah-InfoPal. Dati ufficiali palestinesi rivelano che dopo il decesso di Arafat Jaradat, avvenuto sabato 23 febbraio nel carcere israeliano di Megiddo, il numero dei morti tra i detenuti palestinesi è salito a 203.

In un comunicato stampa diramato sabato, il Dipartimento di Statistica nel ministero dei Detenuti palestinesi ha ritenuto la tortura, la più probabile causa del decesso di Arafat Jaradat, in carcere da sei giorni.

Il ministero ha anche richiamato l’attenzione sul fatto che decine di prigionieri sono deceduti pochi giorni, settimane o mesi, dopo il loro rilascio, a causa di malattie contratte durante la loro detenzione.


Firenze: entro marzo chiude l’Opg di Montelupo… ma la villa medicea diventerà un carcere

carcereI cento pazienti saranno smistati in piccole strutture ancora da trovare, anche se la scadenza del 31 marzo si avvicina. Il conto alla rovescia è di quelli che tolgono il fiato: entro il 31 marzo l’Opg di Montelupo Fiorentino, l’ospedale psichiatrico giudiziario, dovrà chiudere e trovare una sistemazione adeguata per i suoi detenuti pazienti. Trentacinque sono quelli toscani, gli altri torneranno nelle regioni di appartenenza: Liguria, Sardegna, Umbria.

Sono circa cento gli attuali pazienti dell’Opg: il 30% degli ospiti di Montelupo hanno reati di omicidio alle spalle, gli altri lesioni, maltrattamenti, rapine. Sono tutti uomini e tutti hanno bisogno di trovare strutture attrezzate per curarli. Domani al ministero si terrà una riunione con gli assessori regionali per fare il punto sulla situazione. “Stiamo pensando di creare piccoli centri per venti pazienti al massimo – spiega il dottor Franco Scarpa, psichiatra che è stato per anni direttore dell’Opg e che adesso è responsabile di una unità operativa della Asl 11 – i luoghi distribuiti nelle varie aree vaste, saranno strutture sanitarie in grado di seguire meglio i pazienti con problematiche anche gravi”. Fra le location accreditate c’è una struttura a San Miniato nell’empolese. Altre strade invece sono ancora da esplorare. Fra i pazienti che dovranno rientrare in Toscana an – che una donna attualmente ospite a Castiglione delle Stiviere. La struttura di Montelupo, antica (era una villa medicea), è inadatta a curare quel genere di pazienti, ma non resterà abbandonata. “Noi ci auguriamo non torni ad essere un carcere” spiega il sindaco Rosanna Mori.

“Avevamo sollevato da tempo il problema della inadeguatezza di quella struttura, adesso ci auguriamo che la villa medicea venga destinata ad usi diversi”. Un augurio che probabilmente non è destinato ad andare in porto dal momento che il provveditore della Toscana all’amministrazione carceraria, Carmelo Cantone spiega: “Il progetto è di sostituire l’Opg con una struttura di reclusione per detenuti con lunghe condanne, ma con un basso livello di pericolosità”.

Cantone spiega anche che nell’area dell’Opg si è creata una interessante interazione fra carcere e associazioni di volontariato che non va dispersa perché è in qualche modo un patrimonio di esperienza e collaborazione che può essere applicato anche a realtà diverse e che aiuta chi è detenuto a relazionarsi con il mondo esterno. C’è anche un’altra possibilità: l’ospedale psichiatrico giudiziario ha diversi padiglioni (in tempi non lontani ha ospitato anche 180 detenuti – pazienti), in uno, ancora da individuare, verrebbe realizzato un centro di osservazione psichiatrica con al massimo una capienza di dieci letti.

Si tratta ospitare detenuti per esempio che hanno dato segni di squilibrio mentale e che da un istituto carcerario classico potrebbero avere bisogno di un’assistenza diversa, più di carattere sanitario. Ma l’urgenza in questo momento è quella di individuare sul territorio toscano due o tre luoghi in cui creare le nuove strutture per l’assistenza e cura di chi è ancora “prigioniero” dell’Opg. Il tempo ormai è poco, il 31 marzo è dietro l’angolo.

Fonte: La repubblica


Rugby e carcere – “Il senso di una meta” raddoppia: ora anche a Bollate.

carcereDopo sei anni di impegno al Beccaria comincia una nuova avventura presso la Casa di Reclusione di Bollate.

Questa volta si tratta di adulti che, grazie alla collaborazione con la Cooperativa Trasgressione.net, avranno la possibilità di approcciare il rugby.

Si comincia lunedì  18 marzo alle 14,30 con il primo allenamento settimanale.

Oltre a portare il rugby e i suo valori all’interno della “Casa” l’auspicio è quelli di creare una vera e propria società che possa partecipare alle attività federali.

Responsabile del progetto è Sergio Carnovali coadiuvato da Federico Pozzi; stante il numero degli iscritti servirà un congruo numero di volontari. Chi fosse disponibile può contattare direttamente Federico. fedepozzi@hotmail.it

Fonte


Le carceri in disuso e riqualificate in Italia ed Europa

Alcune carceri in disuso sono state adibite ad altri usi. Accade in Europa ma anche in Italia come il caso del Carcere delle Murate a Firenze. (ndr)

carcereDa prigioni a hotel di lusso: è quello che è successo ad alcune carceri abbandonate in varie parti d’Europa e anche d’Italia. Il magazine Swide ha elencato alcune tra le riqualificazioni migliori dai Paesi Bassi fino alla Svezia, noi del Ghirlandaio ne abbiamo aggiunte altre. Chi immaginerebbe di ricavare stanze lussuose in celle che fino a qualche tempo prima ospitavano criminali. Non solo hotel, le Murate o il vecchio carcere di Palencia sono rinati come centri culturali. La trasformazione è stata spesso lunga, ma ecco quali sono i migliori esempi

OLANDA, IL PIU’ FAMOSO
A Zwolle in Olanda si trova il Librije Hotel, un albergo a cinque stelle che offre ogni tipo di comfort. Il Librije di Thérèse e Jonnie è l’hotel di lusso più piccolo dei Paesi Bassi, la vecchia prigione era stata costruita nel diciottesimo secolo: la nuova struttura ha aperto nel 2008 e le sue stanze possono essere usate anche per meeting, feste private e matrimoni. Non solo, il Librije può contare anche su due maggiordomi che sorridono sulla web dell’hotel.

LETTONIA E TURCHIA
Più a Nord, in Lettonia, a Liepaja un’ex prigione del KGB è diventata un hotel, ma ha mantenuto l’atmosfera spartana del regime comunista. Contrariamente ai colleghi olandesi, i lettoni hanno deciso di lasciare tutto così com’era: inclusi bagni alla turca, stanze fredde e poco riscaldate. Tutto il contrario del Four Seasons di Istanbul: a Sultanahmet, lo splendido albergo affaccia sulle acque del Corno d’Oro, il mar di Marmara e il Bosforo. Sessantacinque stanze extra lusso e suite ricavate in una antica prigione neoclassica. Un lusso che si possono permettere in pochi, i prezzi vanno dai 340 euro per una camera deluxe ai 1.700 per la suite Deluxe. Ed esistono due suite di cui si conosce il prezzo: la Marmara e la Saint Sophia.

SPAGNA
È molto probabilmente gratis, invece, l’ingresso al Centro Cultural di Palencia: nella città della Castilla León l’aerea di 5.077 metri quadrati è stata completamente reinventata dai due architetti della Exit: Ángel Sevillano e José María Tabuyo. Il carcere era stato costruito alla fine del XIX secolo ed era compost di due plessi seguendo lo stile neomudéjar. I due architetti hanno creato un centro culturale rispecchiando la struttura del vecchio edificio, donandogli però un’apparenza più luminosa: nell’edificio terminato nel 2011 la luce gioca un ruolo fondamentale. Al suo ingresso, una biblioteca e un auditorium.

SVEZIA
Dalla Spagna alla Svezia: sull’isola di Långholmen, piccola lingua di terra nel centro di Stoccolma. Dove c’erano le celle, oggi sorgono camere d’albergo e al suo esterno c’è una piccola spiaggia e dei circuiti per fare jogging. L’hotel sull’isola è una sistemazione raffinata, ottima anche per organizzare conferenze. C’è anche un piccolo ristorante e la possibilità di visitare il museo della prigione.

USA
Un altro esempio si trova a Boston: nel 1990 la Charles Street Jail è stata abbandonata perché non era più in grado di ospitare detenuti. Un tempo fiore all’occhiello della città, fu acquistata dal Neighboring Massachusetts General Hospital e ristrutturata dal Cambridge Seven Associates to transform per trasformare l’ex prigione in hotel di lusso. Il vecchio edificio completato nel 1851 rappresentava uno dei più belli di tutta Boston e ha ospitato nelle sue celle alcuni fra i peggiori criminali. Dopo l’opera di ristrutturazione, la prigione di Boston è rinata diventando uno dei migliori alberghi del New England. In alcuni tratti sono ancora visibili le “cat walk”, i corridoi fra una cella e l’altra, mentre il ristorante dell’hotel, il Clink, è stato ricreato all’interno di una vecchia cella. Il Liberty conserva altre caratteristiche dell’ex istituto di detenzione: i muri perimetrali delle celle, i fregi sulle porte, i finestroni, le passerelle. Accanto all’edificio principale è stata costruita una torre che ospita 18 camere a vista. Il Liberty può ospitare fino a 300 persone.

I CASI ITALIANI
Non solo gli Usa e il Nord Europa, anche in Italia alcune carceri sono state rinventate. Il carcere delle Murate di Firenze è stato attivo dal 1883 al 1985, il progetto di recupero è stato affidato a Renzo Piano. Nell’ex struttura sorge oggi un centro dedicato alla cultura contemporanea fiorentina e non solo. Le mura del carcere ospitano: l’officina della creatività SUC, lo sportello ECO-EQUO, il parco dell’innovazione, un caffè letterario e il quartier generale della Fondazione Robert F. Kennedy. Le porte dell’ex carcere Le Murate sono state aperte per mostre, incontri, convegni e alte attività culturali. Meno fortunato il carcere borbonico sull’Isola di Santo Stefano a Ventotene: questa struttura ha ospitato fra i detenuti anche l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ideato nel 1795, il carcere sorgeva nell’antico monastero dedicato al primo martire della chiesa cattolica: le 99 celle della struttura sono da tempo abbandonate. Nel 2010, spuntò l’idea, poi accantonata di trasformare la struttura in un resort a cinque stelle. Progetto poi abbandonato per assenza di spiagge nelle vicinanze, ma perché non prendere esempio dalle altre città?

fonte: ilghirlandaio.com


La prigione norvegese dove i carcerati vengono trattati come persone

carcereEsiste un carcere in cui i detenuti vengono trattati come esseri umani. Non ha muri, non ha manette  non c’è il filo spinato. Questa specie di paradiso si trova nell’isola di Bastoy, in Norvegia.

Stiamo parlando a tutti gli effetti di un carcere che non sembra un luogo di detenzione. Conta poco più di 120 detenuti, i quali godono di ampi spazi per muoversi, nell’ottica dei principi stabiliti dal sistema carcerario norvegese.

Tale sistema mira al reinserimento nella società. Questo moderno regime verrà applicato anche a Anders Behring Breivik. Costui è il killer di Utoya, ed è passibile di condanna.

Come funziona dunque la vita dei carcerati nell’isola di Bastoy? Un anonimo afferma che “nelle prigioni normali si rimane chiusi per la maggior parte della giornata. Vi è solo un’ora d’aria e alle otto si rientra in cella. Non esistono, dunque, costrizioni”.

Un altro uomo, Tom Cristensen trascorre il tempo sulle macchine: Tom ha unico appuntamento fisso, che l’appello al quale deve rispondere quattro volte al giorno.

Tom dice che “Puoi fare le stesse identiche cose che faresti qualora fossi libero, tra le quali il fatto di cucinare il cibo acquistato in negozio”. Una vera e propria overdose libertà, della quale non godono coloro sono dentro altri penitenziari dotati di regole più rigide.”

Ma ci sono anche coloro che non sopportano tutta questa libertà e desiderano addirittura tornare nelle prigioni di massima sicurezza. Lo dice  John Froyland, il capo di Bastoy Island.

Il sistema, fondato sul rispetto della dignità della persona, però, funziona alla perfezione. Da cosa lo deduciamo? Dal fatto che in Norvegia solo il 20% dei carcerati una volta tornato in libertà commette nuovamente reati. Ciò non accade in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove oltre il 50% torna dietro le sbarre entro un paio d’anni.

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Via i letti a castello da Buoncammino

carcereAlghero – “Si avvia verso la normalità la degenza nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Buoncammino. Mentre si attendono i lavori di ristrutturazione, in questi ultimi giorni sono stati rimossi i letti a castello.

L’iniziativa si era resa necessaria a causa dell’eccessivo numero di pazienti ricoverati”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che in più occasioni aveva segnalato “il disagio per il sovraffollamento della casa Circondariale e per la presenza di letti a castello nell’area in cui sono assistiti i detenuti in precarie condizioni di salute”.

“Resta però irrisolto – ricorda Caligaris – il problema della presenza di un eccessivo numero di persone ammalate nella struttura penitenziaria cagliaritana. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe infatti individuare strutture alternative alla detenzione nei conclamati casi di persone sofferenti e anziane.

E’ assurdo che si trovino nel Centro Clinico cittadini impossibilitati a deambulare autonomamente o costretti a rifiutare i colloqui con i volontari per i dolori che li affliggono. Sono ricoverate inoltre persone con il morbo di Parkinson incapaci perfino di infilarsi le calze o tenere in mano una forchetta”.

“La rimozione della doppia branda a castello – conclude la presidente di SdR – è comunque un segnale positivo. In questo modo si riduce drasticamente il rischio di cadute con conseguenti traumi. L’auspicio è tuttavia che le persone malate siano ricoverate nelle strutture ospedaliere con tutti i necessari supporti”.

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Comunicato x Davide Rosci e contro la repressione

roma

Apprendiamo con rabbia e tristezza che nella mattina di lunedì 18 febbraio le porte del carcere di Castrogno si sono aperte per Davide Rosci, uno dei compagni di Teramo Antifascista costretti ormai da mesi ai domiciliari perchè condannati a 6 anni per i fatti di Roma 15\10.
La richiesta di carcerazione è stata giustificata per una sua presunta tentata evasione, avvenuta nella mattina di Sabato 26 gennaio quando Davide sbadatamente uscì per andare a lavoro nonostante i permessi fossero solo da Lunedì a Venerdì.
I nostri collettivi si sentono particolarmente vicini ai compagni di Teramo. Ci accomuna un’idea di sport popolare antifascista e anticapitalista, la stessa idea che il mese prossimo animerà il decennale di Dax, ci accomuna la stessa rabbia che ha portato in piazza 300.000 persone quel giorno a Roma, ci accomuna la stessa repressione che instancabile serpeggia in tutta la penisola da Nord a Sud.
Negli scorsi mesi abbiamo avuto modo già due volte di raccogliere fondi per le loro spese processuali e di ragionare pubblicamente sulla spropositata condanna da cui sono stati colpiti e sull’uso repressivo del reato di devastazione e saccheggio.
Con questo comunicato vogliamo invece ragionare sull’incoerenza di questa nuova vicenda successa a Davide e sull’insostenibile precarietà degli arresti presso il domicilio.
Una persona che ha sulle spalle 9 anni di pena detentiva, scesa a 6 con il rito abbreviato, non organizza di certo la sua evasione dai domiciliari passando di mattina per le Poste in una cittadina piccola come Teramo (è lì che è stato fermato dai Carabinieri).
È una pena troppo pesante e ingiusta per rischiare di scontarla in carcere infrangendo gli arresti domiciliari. Girando per le sezioni di qualunque carcere molte sono le storie di ragazzi tornati dentro perché accusati ingiustamente di aver infranto i domiciliari.
Ogni storia è particolare e assurda ma nella sua assurdità condiziona il futuro e la libertà di un uomo: chi era sotto la doccia e non ha fatto in tempo a uscire, chi aveva avvisato in questura di avere un guasto al citofono e di poter essere avvisato telefonicamente dagli agenti preposti al controllo, chi alle 4 di notte non ha sentito il citofono perché ovviamente dormiva.

Possiamo metterci nei panni dello Stato, sordo e malfidente, a cui queste storie non interessano, a cui sono sufficienti le parole di qualche ottuso e indolente appuntato che piuttosto di faticare un solo
minuto di più per assicurarsi dell’effettività dell’evasione, preferisce fare rapporto e incarcerare.
Oppure possiamo metterci nei panni di tutti quei ragazzi che rischiano di cadere dalla padella alla brace, quelli che devono dormire con un orecchio aperto, che devono uscire dalla doccia in cinque secondi, quelli che non possono parlare al telefono o ricevere amici, quelli per cui la libertà sarebbe a portata di mano e invece resistono sopportando la loro condizione di prigionieri.
Da che parte stare non lo scegliamo, ci viene naturale e spontaneo come ci viene naturale pensare che se l’evasione è un reato allora siamo tutti criminali in potenza, essendo l’evasione è una scelta consapevole e bellissima di libertà, un diritto naturale, una tendenza di fondo per qualunque essere vivente.

Vogliamo esprimere a Davide tutta la nostra vicinanza sia politica che umana, sperando in qualche modo che questo possa aiutarlo a resistere e non lasciarsi andare, a camminare in sezione a testa alta e non abbassarla di fronte a nessun secondino.

Complici e solidali F.O.A. Boccaccio e Cordatesa
Per scrivergli: Davide Rosci c\o Casa Circondariale di Teramo, strada Comunale Rotabile, loc. Castrogno, Teramo 64100


Op. Ardire – Comunicato di Culmine ai compas cileni

da contrainfo

athens-imc2Come accaduto a voi con il cosiddetto “Caso Bombas”, adesso accade a noi con l’operazione “Ardire”. In questi giorni abbiamo appreso che, tra le tante, siamo anche sotto indagine per il presunto “finanziamento degli anarchici cileni”.

La verità è che, a suo tempo, abbiamo dato la disponibilità del nostro conto corrente, quale forma di solidarietà concreta per i nostri compagni colpiti dallo Stato Cileno. L’abbiamo fatto con un comunicato pubblico e non avremmo dubbi a rifarlo. Non potranno mai fermare la solidarietà concreta tra anarchici/che, né con le sbarre, né con le sezioni ad alta sorveglianza.

Un forte abbraccio ribelle
Elisa e Stefano
14.02.2013

per scrivergli:

Elisa di Bernardo
c/c Rebibbia Femminile
Via Bartolo Longo 92
00156 Roma
Italia

Stefano Gabriele Fosco
Via Casale 50/A
15122 San Michele (AL)
Italia


Il caso Pistorius e il dramma dei detenuti disabili

disabili-revolution1Il caso Pistorius accende i riflettori sulle condizioni di vita disumane dei detenuti con problemi fisici. L’omicidio di Reeva Steenkamp e il conseguente arresto dell’atleta paraolimpico Oscar Pistorius, ha acceso i riflettori su una questione da molti ignorata: lo stato delle carceri sudafricane e le condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, specialmente quelli – e sono più di quanti si possa immaginare – che presentano disabilità fisiche più o meno gravi.

“Ho 50 anni e sono paraplegico” – Ne parla il Guardian, prendendo ad esempio il caso di un detenuto in attesa di processo che, come un terzo di tutti i detenuti sudafricani, non è stato colto in flagranza di reato. A dispetto del principio della presunzione di innocenza, sono 46.000 i detenuti in custodia preventiva, 46.000 persone che vivono in condizioni peggiori di coloro che, invece, stanno già scontando la propria condanna. “Ho cinquant’anni e sono paraplegico – racconta l’uomo ai giornalisti inglesi. Sto aspettando un processo da più di un anno, dopo che sono stato arrestato per frode nel dicembre 2011.
Non cammino, non ho il controllo delle funzioni intestinali e devo indossare dei pannolini che la mia famiglia compra per me. Non sento nulla dalla vita in giù. Non ho una carrozzina. Il mio co-imputato è stato rilasciato su cauzione, io non posso permettere di pagare così tanto. Anche la mia pensione di invalidità (103 sterline, circa 120 euro) che usavo per mandare a scuola la mia bimba di sette anni è stata sospesa. Ma la mia famiglia ha messo insieme un po’ di soldi e spero in una nuova udienza”.
In 88 in una cella per 32 – “Cammino spostando le gambe con le stampelle. Mi hanno sparato nella spina dorsale tre anni prima del mio arresto. Prima di essere trasferito ero nel carcere di Johannesburg, dove il medico mi aveva prescritto una carrozzina. Ma qui, non l’ho mai avuta”. E, come se non bastasse una grave disabilità fisica, si aggiunge il problema della sovrappopolazione delle carceri: “Vivere qui è dura – prosegue l’uomo – questa cella è pensata per ospitare 32 uomini: ma qui dentro siamo in 88, a volte anche di più. Dodici persone dormono in due letti a castello. Solo io ho il mio letto, ed è un privilegio: non lo devo dividere con nessuno per via della mia condizione. Quattro o cinque persone sono sieropositive. Mi sento vulnerabile. Non posso fidarmi di nessuno perché i miei compagni di cella cambiano continuamente. Preferirei essere morto piuttosto che stare qui”.
Dimenticato – Completamente in balia di se stesso, l’uomo deve riuscire a provvedere da solo anche alle necessità più elementari, come il cibo: “Mi ci vuole mezz’ora per trascinarmi fino in cucina. Ecco perché non faccio colazione. Ci vado una volta al giorno, per pranzo. Le guardie non permettono agli altri prigionieri di portarmi del cibo. Dicono che devo arrangiarmi da solo. Devo pulire le mie piaghe da solo, due volte al giorno. Non ci sono medicinali e io ho continui dolori. Se ti ammali, puoi aspettare anche una settimana prima di vedere un medico”.
“Problemi di ordine pratico” – Britta Rotmann, del dipartimento dei servizi correzionali, spiega che il sistema carcerario sudafricano prevede che ogni detenuto con disabilità riceva un adeguato trattamento: “Le condizioni di vita dei detenuti sono al centro del nostro lavoro, ma spesso ci si scontra con problemi di ordine pratico”.

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Torino. Striscione a casa Baldacci

BALDACCISabato 23 febbraio. Nel primo pomeriggio un gruppo di antirazzisti ha fatto visita alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile per la Croce Rossa militare del CIE di Torino. Davanti alla villetta di via Zandonai 8 a Chieri è stato steso uno striscione con la scritta. “Baldacci ti ricordi di Fatih? Croce Rossa assassina!”.
La foto che correda il testo è stata scattata da un reporter di passaggio.

Fatih era un immigrato tunisino senza documenti rinchiuso nel CIE (allora CPT) di Torino. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. Per tutta la notte i suoi compagni di detenzione chiesero inutilmente aiuto.
Dichiareranno ad un giornalista “gridavamo come cani al canile, senza che nessuno ci ascoltasse”.
La mattina dopo Fatih era morto.
Non venne eseguita nessuna autopsia.
Non sappiamo di cosa sia morto Fatih. Sappiamo però che in una struttura detentiva gestita dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito, nessuno gli ha garantito alcuna cura.
Due giorni dopo il colonnello e medico Antonio Baldacci dichiarerà “gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa”.
Parole che non meritano commento, perché ricordano sin troppo bene quelle degli aguzzini di ogni dove.

Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti si recò alla casa di Baldacci per un “cacerolazo”. Si batterono le pentole davanti alla sua casa, si distribuirono volantini, si appesero striscioni.
Una normale protesta di persone indignate per una morte senza senso.
Oggi quella protesta di fronte alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci è entrata nel fascicolo del processo contro 67 antirazzisti, che lottarono e lottano contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade.

Nel CIE di Torino le lotte, le fughe, la gente che si taglia per sfuggire all’espulsione sono pane quotidiano, come quotidiana è la resistenza di chi crede che, nell’Italia dei CIE, delle deportazioni, dei morti in mare, ribellarsi sia un’urgenza che ci riguarda tutti.

Per questa ragione non accetteremo che le lotte di quegli anni vengano rinchiuse in un aula di tribunale: porteremo le nostre ragioni nelle strade di questa città, porteremo il CIE nel salotto di Torino.

La prima tranche del processo va in scena mercoledì 27 febbraio ore 9 in aula 46 del tribunale di Torino.

Sabato 2 marzo “Il CIE nel salotto della città” presidio itinerante per il centro cittadino. Appuntamento alle 15 in piazza Castello

Antirazzisti contro la repressione
Ti ricordi di Fatih?

anarresinfo.noblogs.org


Violenze a detenuti del carcere ad Asti: quattro agenti coinvolti, due hanno perso il lavoro

cerco lavoroAd Asti, non si è ancora conclusa una inchiesta condotta nel carcere per accertare le responsabilità di quattro agenti della polizia penitenziaria che nel 2004 erano accusati di abuso di autorità per aver picchiato e perseguitato un detenuto.

Processati nel gennaio 2012 per due agenti era scattata la prescrizione del reato e due erano stati assolti per assenza di querela da parte del detenuto.

Ieri, l’apposita commissione del “Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria” di Roma, a conclusione di un’istruttoria amministrativa ha destituito dal Corpo della Polizia Penitenziaria due degli agenti accusati di violenze e vessazioni. Si è immediatamente provveduto al ritiro della pistola e del distintivo.

Come conseguenza i due poliziotti dovranno trovarsi un altro lavoro. Gli altri due sono stati sospesi dal lavoro per alcuni mesi. Per i quattro c’è ancora la possibilità di ricorrere al Tribunale Amministrativo.

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I CIE sono dei Lager dei nostri giorni

Corrispondenza con un compagno recluso nel CIE di Bari e li’ deportato dopo le rivolte al CIE di Ponte Galeria a Roma


Palestinese muore in carcere, scoppia la rivolta

Gravi incidenti sono in corso a Hebron e nei villaggi vicini in seguito alla morte ieri in una prigione israeliana di Arafat Jaradat, un palestinese originario di quella zona

intifadaE’ una giornata di grave tensione quella di questa domenica a Hebron, in Cisgiordania, e nei villaggi vicini, dove sono in corso gravi incidenti in seguito alla morte, avvenuta ieri in una prigione israeliana, di Arafat Jaradat, un palestinese originario della zona. L’esercito israeliano ha dapprima lanciato gas lacrimogeni, quindi ha sparato proiettili rivestiti di gomma. Intanto, nelle carceri israeliane, sono saliti a 4500 i detenuti palestinesi in sciopero della fame per protesta.

Jaradat, 30 anni e padre di due figli, è morto nella prigione di Megiddo. Il suo decesso sarebbe avvenuto dopo un ‘malessere’, secondo l’intelligence israeliana, mentre il ministero palestinese per gli Affari dei prigionieri accusa le autorità israeliane di essere direttamente responsabili della sua morte. Jaradat era stato arrestato ad inizio settimana dopo incidenti nei pressi della colonia ebraica di Kiryat Arba, vicino Hebron.

La polizia israeliana ha aperto un’inchiesta sulle circostanze della morte, che secondo le autorità di Israele sembra essere stata dovuta ad una crisi cardiaca, versione contestata dal ministro palestinese Issa Qaraqe, secondo cui “il giovane è stato ucciso durante un interrogatorio” e che chiede “la creazione di una commissione internazionale per indagare sulle circostanze della sua morte”. Stupore e dolore sono anche stati espressi dal primo ministro palestinese Salam Fayyad.

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Pussy Riot un anno dopo – La storia

pussy-riots-592Un anno fa Nadezhda Tolokonnikova, Maria Alyokhina Yekaterina Samutsevich fanno irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca per invocare una preghiera punk contro Putin. Dodici mesi dopo, due su tre sono ancora in carcere per “teppismo motivato da odio religioso” mentre Samutsevich è libera e afferma: “Non ho nessun rimpianto per quello che abbiamo fatto”.

UN ANNO DI PUSSY RIOT – Punk Prayer” è il nome della canzone urlata all’interno del luogo sacro per eccellenza russo che è costato la condanna a due anni di reclusione a Nadja e Marja, mentre lo scorso ottobre Katja ha ottenuto una sospensione della pena, tramutata in arresto domiciliare. Le ragazze sono accusate di aver offeso i sentimenti religiosi dei russi.

Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin!

Caccia Putin, caccia Putin!

Sottana nera, spalline dorate.

Tutti i parrocchiani strisciano inchinandosi.

Il fantasma della libertà è nel cielo.

Gli omosessuali vengono mandati in Siberia in catene.

Il capo del Kgb è il più santo dei santi.

Manda chi protesta in prigione.

Questa è la traduzione di parte del testo che inneggia alla cacciata di Putin e risulta privo di sentimenti antireligiosi. L’invocazione alla Madonna è mossa, in senso metaforico, affinché “Mandi via Putin”. Il destinatario della protesta delle Pussy Riot è il presidente russo e non una rivoluzione religiosa ma tant’è.

POST –  “Molte persone che non ne sapevano nulla hanno cominciato a interessasi al problema: il problema della nostra società, della Chiesa russa” ha detto Samutsevich in un’intervista all’Associated Press. Perché tanto odio verso Putin? E perché no, viene da rispondere se solo si guarda a cosa succede all’interno dei confini russi ma il presidente Putin tramite la testata filogovernativa “Izvestia” fa sapere che nelle colonie penali di massima sicurezza “va tutto bene”.

17849-pussy-riotVITA IN CARCERE – Nadja passa le giornate a cucire dalle 6 del mattino alle 17 del pomeriggio perché la polizia russa ha un bisogno costante di guanti e uniformi e così sarà per due anni ma Izvestia non presta molto attenzione alla cosa e si lascia andare a descrizioni: “Le immagini mostrano che le ragazze non vivono alcun disagio in prigione – e ancora – Alyokhina ha avuto una camera con solo tre persone, nonostante fosse progettata per dodici. Ha la tv e la doccia”. Praticamente, secondo la testata filogovernativa, le ragazze stanno facendo una vacanza, peccato per il freddo altrimenti ci avrebbero parlato anche della tintarella. A differenza di quanto i media ufficiali vorrebbero far passare, Alyokhina ha dichiarato “I bisogni si devono fare all’aperto e sotto gli occhi di tutti” ma questo è niente perché dopo le settimane passate in queste condizioni, Nadja è finita in ospedale sfinita dai lavori forzati (il link al pezzo): dopo l’appello dello scorso ottobre, Nadja è stata spedita in Mordovia. “Si è lamentata a lungo del suo stato di salute e finalmente hanno preso la decisione di spostarla in una vicina prigione dove almeno c’è un ospedale”, è ancora Katja a raccontare delle condizioni delle ragazze. Il problema non è lavorare ma il non lasciarla riposare – ha spiegato Samutsevich ricordando che – le danno ordini da eseguire giorno e notte. Si lamenta dell’enorme fatica”. Nadja prima di essere preda degli atroci mal di testa ha dichiarato: “Tutta questa vicenda è stata creata a tavolino dai mass media che ci descrivono come delle bestemmiatrici, teppisti o Dio solo sa che cosa. Il nostro gesto è stato visto come un’espressione di ateismo militante e questa interpretazione mi addolora”. Nel frattempo Marja la combina proprio grossa in carcere, perché non avendo la sveglia nella cella si permette addirittura di non svegliarsi per tempo alle 6 del mattino: “Masha è in cella di isolamento, non può avere una sveglia lì secondo le disposizioni del carcere, è ovvio che le risulta difficile non alzarsi per tempo” ha detto Verzilov, marito di Nadja.

DIRITTI ? – Le pericolose Pussy Riot in carcere, entrambe mamme, sono ricorse alla Corte di Strasburgo per denunciare  la violazione di diverse disposizioni della Convenzione dei diritti dell’uomo che dovrebbe invece garantire (ne abbiamo parlato qui): libertà personale, libertà di espressione, diritto a un processo equo e divieto di tortura. Le ragazze sostengono che i loro diritti durante il processo nel tribunale di Mosca non sono stati rispettati. “Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre” le parole di Putin pronunciate lo scorso ottobre che vuoi o non vuoi, ricordano quelle usate per definire l’avvelenamento di Litvinenko “i medici britannici non hanno mai collegato il decesso alla conseguenza di una violenza – poi sorridendo ha aggiunto – Il signor Litvinenko, sfortunatamente, non è Lazzaro”. Durante il processo, Tolokonnikova ha dichiarato:

Essenzialmente, non sono le tre cantanti Pussy Riot ad essere sotto processo, perché se così fosse quello che sta accadendo sarebbe totalmente insignificante. Questo è un processo all’intero sistema politico della Federazione Russa che, sfortunatamente, gode nel mostrare crudeltà nei confronti degli esseri umani e indifferenza verso l’onore e la dignità, ricordando tutti i peggiori momenti della storia russa fino ad oggi. Con profondo dispiacere, questo processo farsa si avvicina agli standard delle troike staliniane. E così anche noi abbiamo l’inquisitore, il giudice e il procuratore. E ancora, l’atto repressivo determinato da tutto quello che queste tre figure decidono, dicono e fanno è dettato da ordini politici che vengono dall’alto. Cosa c’era dietro la performance nella Cattedrale di Cristo Salvatore e dietro il nostro successivo processo? Niente di più che il sistema politico autocratico

Durante le indagini, le ragazze sono state sottoposte anche a esami psicologici

“Eccoci qui. Né io, né Alyokhina, né Samutsevich abbiamo mostrato di nutrire emozioni forti e radicate o altri fattori psicologici interpretabili come odio verso qualcosa o qualcuno. Quindi: “Aprite tutte le porte, toglietevi tutti i gradi e le medaglie. Venite ad assaporare la libertà con noi”

 

In carcere non ci sono solo le Pussy Riot ma l’intera ‘democrazia’ russa, il cui imbarazzo è stato reso pubblico il giorno della morte di Anna Politkovskaja. Non a caso, moltissimi personaggi dello spettacolo e politici hanno appoggiato la causa delle ragazze dal passamontagna colorato partendo da Sting, Madonna, Lady Gaga, Yoko Ono ai Red Hot Chili Peppers e così via. Due anni di carcere per “aver violato l’ordine pubblico, disturbato la quiete dei cittadini e insultato profondamente le convinzioni dei cristiani” le parole di Marina Syrova, la giudice che ha firmato la loro condanna.

Fonte

 


La Libertà brucia

Da Macerie

cordatesaGrossa rivolta al Cie di corso Brunelleschi a Torino. Tutto comincia verso le 9 di sera, quando alcuni reclusi tentano di scappare scavalcando le alte grate, ma vengono ripresi dalla polizia appena prima dell’ultimo muro. Immediatamente scoppia la rabbia in tutto il Centro: alcuni reclusi salgono sui tetti e altri incendiano le camerate di alcune sezioni. La reazione della polizia è durissima, con un massiccio uso di gas lacrimogeni che rendono l’aria irrespirabile anche oltre le mura. Un presidio di solidarietà viene caricato a più riprese lungo via Monginevro, e i celerini rimediano qualche bottiglia e un paio di bombe carta. Dentro, i reclusi raccontano di persone picchiate ed altre ammanettate, forse già pronte per essere arrestati e trasferiti al carcere delle Vallette. Mentre siamo in attesa di ulteriori notizie, vi ricordiamo ilpresidio indetto per sabato pomeriggio alle ore 16 in corso Brunelleschi.

macerie @ Febbraio 23, 2013

Dopo le fiamme: solidarietà e vendetta

Un partecipato presidio ha salutato sabato pomeriggio i prigionieri del Cie di Torino,reduci da una notte di rivolta. La solidarietà dei manifestanti si è fatta sentire con musica, interventi al microfono in italiano e in arabo, battiture sui pali della luce, lanci di palline da tennis contenenti messaggi di solidarietà e i tamburi della Samba Band. La polizia, nonostante fosse presente in forze, non è tuttavia riuscita ad impedire che il presidio si trasformasse in un corteo attorno le mura del centro, fino davanti all’ingresso del Centro e poi di nuovo indietro, bloccando il traffico su via Monginevro e via Mazzarello.

Una volta sciolto il presidio, arriva la notizia che la polizia ha arrestato un recluso dell’area viola, colpevole di esser salito sul tetto per salutare i manifestanti. Assieme ai quattro arresti di ieri, con quest’ultimo sale quindi a 5 il numero di reclusi trasferiti nel carcere delle Vallette.

macerie @ Febbraio 23, 2013

Quel che mancava

Verso le 8 di domenica sera i reclusi dell’area gialla completano il lavoro cominciato nei giorni scorsi dai prigionieri del Cie di Torino, incendiando tutta la sezione. L’intervento della polizia con gli idranti è servito solo a far cessare il fumo, perché le fiamme avevano già bruciato tutto ciò che poteva bruciare. Ora i 35 prigionieri dell’area gialla, alcuni dei quali appena trasferiti lì dalle altre sezioni già bruciate, si trovano sotto la pioggia nel cortile della sezione, perché dentro non è possibile stare.

macerie @ Febbraio 24, 2013

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Solidarietà con Mario Silva, compagno anarcovegan prigioniero in Messico

Saluti a tuttx.

Probabilmente la maggioranza di voi avrà già sentito parlare della situazione in cui si trova Mario Augusto Silva Sosa, meglio conosciuto da tutti come “Mayin”.

VeganarchismRicordiamo la sua partecipazione in diverse lotte, in passato fu parte integrante del collettivo anarcovegan nella città del Messico, da allora ha intrapreso la scelta di una dieta vegana che continua da più di 10 anni, anche in questi ultimi mesi in cui si trova in carcere, nonostante le difficoltà che questo implica.

È anche partecipe del progetto di occupazione di Casa Naranja, appoggiandola nelle sue diverse attività.

Mario si trova prigioniero dal 18 novembre 2012 a causa di una denuncia di rapina, in un caso pieno di irregolarità, arbitrarietà da parte dell’apparato giudiziale e del corpo di polizia.

Il 25 gennaio c’è stata l’ultima udienza, tra il 10 e il 15 febbraio dovrebbero esserci le conclusioni e una settimana dopo ci sarà la sentenza. Il pronostico più positivo riguardo al risultato finale sarebbe la possibilità che Mayin esca libero su cauzione, tuttavia per il modo in cui si sta sviluppando il caso questa possibilità ci risulta onestamente difficile. Nel peggior caso Mayin potrebbe ricevere una sentenza fino a 8 anni.

Qui in Casa Naranja si è cercato di seguire da vicino lo sviluppo del suo caso e cercato di fornirgli settimanalmente alimenti vegani, appoggiandolo per quanto possibile in questo aspetto.

Durante il processo e la sua permanenza in prigione c’è stato bisogno di trovare il denaro necessario per pagare le pratiche, l’alimentazione e la corruzione interna nel carcere, in cui ha subito estorsioni fino alla rapina. La somma necessaria per appoggiarlo ha raggiunto la quantità approssimativa di 4.000 pesos al mese, questo carico è risultato eccessivo, per cui noi e Mayin facciamo una chiamata di fraternità a tuttx gli/le amicx, partecipi della sua vita e a chiunque desideri solidarizzare con il compagno in questa difficile situazione della sua vita.

Centro Sociale Occupato Casa Naranja

fonte


Carcere e tortura, rottura dell’unità della persona

Da Contromaelstrom

 

torture-chamberA Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».

Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».

Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.


La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».

Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.


31ore di rivolta nel carcere di Contagem – Brasile

cordatesaLa mattina di giovedì 21 molti detenuti del carcere Nelson Hungria, a Contagem , zona metropolitana di  Belo Horizonte hanno dato vita ad una grande rivolta. Due persone – una guardia carceraria e un insegnante – sono stati presi in ostaggio, secondo il Dipartimento di Stato di difesa sociale (SED). Le truppe della Polizia Militare (MP) sono sul posto. La rivolta, secondo il PM, è iniziata nel padiglione 1. L’addetto stampa della Regione 2 PM, il maggiore Sergio Dourado ha riferito che non ci sono feriti.

Secondo il Segretario dell’Amministrazione Penitenziaria, Murilo Andrade de Oliveira, sono stati coinvolti nella rivolta 90 detenuti. In questo padiglione sono prigionieri i condannati per reati come traffico di droga, furto e rapina, e sempre secondo il maggiore Dourado ci sono possibilità che i ribelli abbiano 2 armi, ma hanno riferito che non sono state ancora viste dalla polizia. Due prigionieri intanto sono alla negoziazione.

I prigionieri hanno lasciato le loro celle e sono nel cortile. Hanno bruciato materassi e pezzi di stoffa che avevano precedentemente utilizzato per cercare di fuggire attraverso il tetto del padiglione. In questo momento, sono state utilizzate granate stordenti per evitare una possibile fuga, secondo il Maggiore. Hanno anche fatto una scritta che si poteva leggere dall’alto con le parole “oppressione del sistema” sul pavimento del cortile del padiglione. Un elicottero della polizia segue le azioni. La polizia è sui muri di recinzione monitora i detenuti.

Le forze speciali di polizia sono arrivate alla prigione alle 12.20 per seguire i negoziati. Alcuni detenuti sono sui tetti e staccano tegole da usare per la rivolta. Una persona si è nascosta sotto una pila di materassi. Ma è stata portata via subito dopo.

Un principio di ribellione nel padiglione 6 è stata confermata, ma la polizia militare ha detto che la rivolta è già controllata. Il fumo si è visto da un’altro padiglione. La rivolta si sta allargando.

Il segretario avrebbe detto, secondo una fonte vicina a lui, che i ribelli si lamentano del ritardo nell’autorizzazione di visite e chiedono di vietare la reclusione di donne in stato di gravidanza. Essi si lamentano anche della direzione del carcere, delle percosse, dei trattamenti inumani e chiedono anche revisione della pena.

 

La rivolta è terminata alle 22 del giorno seguente, dopo 31 ore.


Rissa in carcere, condannati dopo 4 anni e mezzo, ma uno è latitante un altro è evaso

cordatesaStava pregando in cella, di notte, durante il mese del Ramadam. Ma qualcuno non apprezzava il suo fervore religioso e lamentava di non riuscire a dormire. Dopo avergli chiesto di smettere è passato agli insulti e per tutta risposta si è visto sputare addosso. Il giorno dopo, per vendetta, ha arruolato tre connazionali per una spedizione punitiva e hanno picchiato lui e un suo amico.

Fu un agente di Polizia Penitenziaria ad accorgersi che in quell’ora di libertà qualcosa era andato storto, vedendo il gruppo scendere le scale con addosso i segni ben visibili della colluttazione. Uno dei magrebini riportò una lussazione alla spalla, l’altro tagli e contusioni. Venne avvertito il direttore del carcere per prendere le misure conseguenti.

Era l’8 settembre del 2008 e per quei fatti ieri sono state condannate sei persone per rissa. Si tratta di Bashkim Dervishi, 43 anni, Elton Hylviu, 30 anni, Robert Lusha, 32 anni e Anton Staka 30 anni, tutti albanesi detenuti in quel momento all’Arginone, e di Ramzi Katani, marocchino, e Miled Orabi, tunisino, entrambi di 31 anni.

Ieri in tribunale, davanti al giudice Landolfi e al pm Stefania Borro, sono stati sentiti gli agenti di Polizia Penitenziaria e il direttore del carcere Francesco Cacciola, che ha battezzato l’episodio come scoppiato per “motivi religiosi”.

Al termine della discussione il giudice ha condannato Dervishi, Saka e Hylviu a un anno e otto mesi. Un anno di pena per tutti gli altri. Pena sospesa per Katani e Lusha. Per alcuni di loro la condanna non sarà un dramma. C’è chi risulta latitante, chi invece è appena evaso dal carcere di Parma.

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Dentro al Cie di Bologna tra freddo e sporcizia

CIE-BoCarta igienica che scarseggia, centellinata. Ragazze e donne costrette a pietire gli assorbenti. Porte divelte e vetri rotti non sostituiti. Una lavatrice sola, di seconda mano, per tutti. Una struttura logora e insana, come è stato ripetutamente denunciato dalle garanti dei detenuti, dall’onorevole Pd Sandra Zampa, da associazioni e Ausl e, di recente, anche dal sindaco Virginio Merola. Il cambio di gestione al Cie, l’ex caserma di via Mattei in cui vengono rinchiusi gli stranieri non regolari da identificare e espellere, si sta facendo sentire.
Il consorzio siracusano l’Oasi si è aggiudicato l’appalto al massimo ribasso bandito da Viminale e Prefettura, accettando un rimborso quotidiano pro-capire di 28,5 euro, contro i quasi 70 del passato. Con una media di 50-55 presenze – lo hanno calcolato operatori e patronati – le entrate non bastano nemmeno a coprire le buste paga. La Prefettura è stata costretta ad anticipare i contanti per saldare gli stipendi di dicembre.
Non ci sono attività ricreative. sebbene siano previste dal capitolato, così come la fornitura di biancheria e abiti, i corsi di italiano, la prevenzione dei conflitti. A breve verrà ridotto l’orario del medico interno. Da quello che si vede, girando per le stanze, si risparmia su tutto.
La stuttura, con una capienza complessiva di 95 posti, ha un’ala del maschile inagibile, distrutta durante le azioni di rivolta. Ma anche negli spazi utilizzati, 53 letti occupati a ieri, la situazione è pesante.
Nella struttura, in una coabitazione forzata, si mescolano le persone e le storie più disparate, in una promiscuità che pesa e che non fa distinzioni.  I trattenuti, chiamati “ospiti”, denunciano condizioni di vita insopportabili e non umane

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