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Detenuto del 41bis si impicca nel carcere di Opera

cella_41_bis_NAncora un dramma nelle carceri italiane. Un uomo si è suicidato nel penitenziario milanese di Opera. L’uomo che si è tolto la vita è il boss Domenico Pagano che è stato trovato impiccato. Trasportato in ospedale è deceduto dopo poco. A diffondere la notizia è Rita Bernardini attraverso la sua pagina Facebook.

Pagano era stato arrestato a febbraio del 2011, ritenuto tra gli esponenti di spicco degli scissionisti, della malavita organizzata campana. Pagano era detenuto nel penitenziario di Opera in regime di 41 bis.

Lo scorso venerdì era stata annunciata la morte di un altro detenuto, recluso nel carcere di Ivrea. Pagano è il 14esimo detenuto suicida nei penitenziari italiani dall’inizio del 2013.

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Papua Nuova Guinea: Evadono in 49

Nuova_Guinea_Asmat(AGI) Sydney – Una caccia all’uomo e’ in corso nella Papua Nuova Guinea, dove e’ evaso Stephen Tari, capo di una setta, accusato di stupro. L’uomo, che per il suo tenebroso magnetismo si e’ conquistato il nomignolo di “Gesu’ Nero”, e’ fuggito con latri 49 prigionieri dal carcere di Madang. Tari, ex pastore luterano, fu condannato a oltre dieci anni di carcere nel 2011, al termine di un processo nel quale era stata indagata la sua responsabilita’ delle violenze su ragazze appartenenti a una setta cristiana. Al tempo l’uomo poteva contare su un nugolo di uomini armati che gli facevano e su migliaia di sostenitori nei villaggi. Il suo culto era fondato anche sul cannibalismo e sui sacrifici di sangue ma la polizia riusci’ a incriminarlo solo per gli stupri. .

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Cie di Gradisca, l’accusa è associazione a delinquere per truffa

A person inside Ponte Galeria's Centre oGORIZIA. Un’associazione a delinquere finalizzata alla frode nelle pubbliche forniture e alla truffa. E cioè a ottenere somme ben più alte rispetto a quelle contrattualmente pattuite, lucrando sulla gestione degli immigrati clandestini e a tutto danno della Prefettura e, ancora più a monte, delle casse ministeriali. È quanto ipotizza la Procura di Gorizia, nelle 17 pagine del capo d’imputazione trasmesso, ieri, alle 13 persone finite sul registro degli indagati, nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti al Cie e al Cara di Gradisca d’Isonzo.

Chiuso il cerchio dopo oltre un anno di attività investigativa, il procuratore capo, Caterina Ajello, e i sostituti Enrico Pavone e Michele Martorelli hanno notificato l’avviso di conclusione indagini preliminari, ribadendo buona parte delle contestazioni inizialmente formulate, con la sola eccezione delle responsabilità ipotizzate a carico del vice prefetto vicario di Gorizia, Gloria Sandra Allegretto, di Udine.

Cadute le ipotesi di peculato, corruzione e frode in pubbliche forniture, il numero due della Prefettura dovrà rispondere della sola accusa di falsità materiale e ideologica in atti pubblici. Identica contestazione per Telesio Colafati, di Gorizia, che della Prefettura è invece il capo Ragioneria.

Secondo l’accusa, avrebbero peccato entrambi nel controllo sulla regolarità delle fatture emesse dal consorzio “Connecting people” di Trapani, gestore delle due strutture e a sua volta indagato, insieme al direttore Vittorio Isoldi, residente a Gorizia, al presidente Giuseppe Scozzari, di Castelvetrano, e al resto del Cda.

Colafati, attestando, con il proprio timbro, di avere verificato la congruità di quanto dichiarato in fattura sul numero degli ospiti presenti e sulla regolare prestazione di lavoro, la Allegretto autorizzando il pagamento degli importi fatturati che le erano stati trasmessi, non avendo chiesto nè acquisito la documentazione necessaria all’espletamento delle verifiche, come espressamente disposto dal prefetto, a partire dal novembre 2009, con ordine al questore.

Una questione di valenza prettamente giuridica, secondo l’avvocato Giuseppe Campeis, che la difende. «Tutto sta a chiarire il significato del visto – ha detto -. Il compito di verificare le fatture non spettava al vice prefetto, ma ai suoi uffici».

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Privilegi ai detenuti, indagine al carcere di Iglesias

12383_7774_church_ImageIGLESIAS. Tra i detenuti del carcere di Iglesias c’era chi godeva di libertà non dovute e chi, invece, era considerato un ospite di serie B. Questo lo spaccato che sembra emergere dall’inchiesta della procura di Cagliari in cui sono indagati il direttore dell’istituto di pena, Marco Porcu (difeso dall’avvocato Massimiliano Ravenna) e l’allora capo della polizia penitenziaria Gesuela Pullara (difesa dall’avvocato Guido Manca Bitti) poi trasferita in Sicilia.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tra i detenuti che godevano di qualche privilegio c’era Mario Sanna, ex agente di polizia penitenziaria accusato di concorso nell’omicidio di Marco Erittu detenuto assassinato nel 2007 nel carcere di San Sebastiano di Sassari, un delitto mascherato da suicidio e scoperto solo dopo la confessione di Giuseppe Bigella oggi super teste d’accusa. A Sanna era permesso di aggirarsi in zone che dovrebbero essere accessibili solo al personale dell’istituto. Tra i privilegiati, c’era anche Massimo Sebastiano Messina che non venne denunciato nonostante – sempre stando alle accuse – avesse pesantemente minacciato alcune educatrici del carcere. Per contro, c’era chi riceveva un trattamento meno favorevole come il detenuto straniero preso a pugni e trascinato dalla sua cella in un’altra, un episodio per cui è indagato un agente di polizia penitenziaria dell’istituto penitenziario.

Il direttore dell’istituto penitenziario (che regge anche quelli di Lanusei e Isili) è indagato per abuso d’ufficio: nel settembre 2012 avrebbe disposto una perquisizione alla ricerca di droga, nell’ufficio ragioneria della prigione senza informare gli interessati, nè redigere il verbale e senza informare le autorità competenti. Porcu sentito ai primi di marzo dagli inquirenti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per lo stesso fatto è indagata anche Pullara, che avrebbe eseguito la perquisizione. Alla comandante delle guardie vengono contestati anche i reati di omessa denuncia e rifiuto d’atti d’ufficio per non aver segnalato alle autorità competenti nè preso provvedimenti contro le violazioni compiute da alcuni detenuti, uno dei quali avrebbe minacciato il personale del carcere.

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Mancano carceri per transessuali

302494672_trans7_xlargeDell’emergenza carceri fa parte a pieno titolo anche una questione poco nota, ma assai delicata: quella che riguarda le condizioni dei detenuti transessuali. Condannati a una vera e propria doppia pena. Visto che, oltre ai problemi che affronta l’intera popolazione carceraria italiana, pagano le conseguenze del loro orientamento sessuale. Si tratta per lo più di persone che si trovano dietro le sbarre per reati minori, di prostituzione o uso di droga, che in mancanza di strutture o sezioni apposite sono costrette a condividere la cella con gli uomini o con le donne. Pur non appartenendo a nessuna delle due categorie.

Il problema è tale che Amnesty International Italia, in occasione della campagna elettorale nazionale, ha presentato ai candidati premier un’agenda in dieci punti per i diritti umani fra cui figura la lotta alla transfobia.

Vale la pena di ricordare, infatti, che secondo l’ultima rilevazione del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, negli istituti di detenzione sono solo 104 i transessuali e gli omosessuali dichiarati, reclusi in sezioni protette. In particolare, apposite ali sono presenti nel carcere milanese di San Vittore o in quello romano di Rebibbia, così come presso quello di Terni; a Pozzale ha poi aperto un carcere dedicato esclusivamente a detenuti transessuali.

Criticità che però, almeno per una volta, non riguardano soltanto il nostro paese. 

In Francia, ad esempio, il dibattito è di particolare attualità. In assenza di strutture ad hoc, Oltralpe si decide esclusivamente in base al sesso indicato sulla carta d’identità. Così, anche se nel frattempo la persona avesse iniziato terapie ormonali o effettuato operazioni chirurgiche di cambiamento di sesso, i transgender rischiano di trovarsi ad essere rinchiusi con persone fisicamente o sentimentalmente del sesso opposto.

In casi al momento molto rari, i dirigenti – con l’approvazione ministeriale – possono poi decidere di inviare un detenuto transessuale in una prigione per le donne. Alcune carceri, come Fleury-Merogis o Caem, hanno bracci riservati alle persone transgender, isolati dal resto della prigione e con regole su misura: per esempio vi si possono acquistare prodotti specifici come quelli necessari alla rimozione dei peli, il trucco o di biancheria intima femminile.

Nel Regno Unito il problema viene affrontata caso per caso, e per esempio Londra ha autorizzato nel 2009 il trasferimento di un transessuale in un carcere femminile, giustificandolo sulla base dei suoi diritti personali. Prassi che accumuna molti stati del Vecchio Continente. Anche se sul tema non sono disponibili fonti e informazioni certe.

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Dopo 23 anni da innocente in carcere, rischia di morire d’infarto a due giorni dalla scarcerazione

images11Dopo 23 anni trascorsi ingiustamente in carcere, David Ranta ha rischiato di morire d’infarto durante il suo secondo giorno di libertà. L’uomo, 58 anni, era stato scarcerato a New York dopo aver visto cadere le accuse nei suoi confronti per l’omicidio di un importante rabbino della città, Chaskel Werzberger, avvenuto nel 1990, e per cui era stato condannato a 37 anni e mezzo di detenzione.

Ranta era alloggiato in un albergo della città assieme alla sua famiglia, proprio per avere il tempo di abituarsi alla nuova situazione, dopo un quarto di secolo vissuto all’interno di un carcere. Poche ore prima di sentirsi male, Ranta aveva confessato in un’intervista televisiva: “Sono sopraffatto. Adesso, mi sento come se stessi nuotando sott’acqua”.

La notte di venerdì, Ranta ha accusato dolori alle spalle e alla schiena, poi ha sentito molto caldo; in un primo momento, i familiari avevano pensato a un attacco di panico; poi, è stato portato in ospedale, dove i dottori gli hanno riscontrato l’occlusione totale di un’arteria e quella parziale di un’altra, e gli hanno applicato uno stent. A raccontarlo al New York Times è stato l’avvocato di Ranta, Pierre Sussman, che ha specificato che il suo assistito non aveva mai avuto problemi cardiovascolari.

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Piove dentro il carcere di Sollicciano.

gocciaNel carcere fiorentino di Sollicciano “piove nei corridoi, si verificano infiltrazioni e ci sono situazioni di difficoltà strutturali di vario genere, oltre al ben noto problema del sovraffollamento”. Lo ha detto oggi a margine di un incontro a Firenze il direttore del penitenziario, Oreste Cacurri.

 A fronte di una capienza regolamentare di circa 400 unità “i detenuti presenti nel carcere sono, a stamani, 988″, ha ricordato il direttore, sottolineando anche le condizioni precarie a livello strutturale” in cui versa il complesso. Questo avviene perché, ha poi spiegato, “abbiamo carenza di fondi, non possiamo fare tutti i lavori che sono necessari per mettere il carcere in condizioni di vivibilità”.
 “Abbiamo parlato di queste difficoltà ai nostri vertici – ha aggiunto Cacurri – ma questa situazione di crisi generale non aiuta e le risorse che arrivano agli istituti sono sempre minori rispetto alle necessità. Ogni anno ci danno sempre meno soldi, dunque ovviamente tutto diventa sempre più complicato e più difficile”.

Grecia, assalto al carcere di Trikala: 11 evasi, due guardie ferite

the_great_escape_60271-1280x720Trikala (Grecia), 23 mar. (LaPresse/AP) – Almeno undici detenuti sono fuggiti da una prigione nella Grecia centrale dopo che un gruppo di uomini armati hanno attaccato il carcere con granate e armi automatiche, dando il via ad un braccio di ferro che è durato tutta la notte tra polizia e detenuti.

Un alto funzionario di polizia ha riferito oggi alla Associated Press che si è persa traccia di 11 detenuti dopo la sparatoria e la conseguente situazione di stallo che si è conclusa all’alba, quando le forze speciali di polizia hanno fatto irruzione nel carcere. Il funzionario ha parlato in condizione di anonimato perché si è ancora in attesa di un annuncio ufficiale.

Il blitz è avvenuto vicino alla città di Trikala, nella Grecia centrale, a 320 chilometri a nord-ovest di Atene. Almeno sei uomini armati hanno attaccato il carcere dopo aver guidato fino al sito su di un furgone e un pick-up, secondo i funzionari. Durante il pesante scambio a fuoco è durato più di mezzora e ha trasformato la zona in un campo di battaglia, ha reso noto il ministero di Giustizia greco, due guardie sono rimaste ferite, di cui una gravemente all’addome. Almeno cinque le granate esplose, mentre altre due sono rimaste sul campo mentre si attendono glio artificieri dell’esercito per farle brillare. È stato come se fosse in corso una guerra, c’erano così tanti colpi” ha raccontato un consigliere comunale di Trikala, Costas Tassios, che abita nel centro abitato di Krinitsa vicino alla prigione. Un proiettile vagante ha danneggiato la verina di una caffetteria ed è ora oggetto di investigazione.

I prigionieri fuggiti hanno usato corde e lenzuola legate insieme per scendere da una torre di guardia che si trovava sotto attaccato. Dovevano poi passare oltre due recinzioni perimetrali, sormontate da filo spinato, prima di poter scappare. Sono stati recuperati utensili per tagliare il filo. La polizia ha istituito posti di blocco nei pressi del carcere e ha perquisito case vuote e fabbricati agricoli, impiegando anche due elicotteri nella caccia all’uomo. Il mese scorso, le guardie del carcere di Trikala hanno sventato un tentativo di evasione di quattro detenuti che hanno tentato di fuggire in elicottero.


Napoli, il degrado del carcere di Poggioreale

images (15)Lo chiamano carcere, ma chi ci è passato lo descrive come un inferno. L’istituto napoletano di Poggioreale ospita 2.800 detenuti su una capienza massima di 1.600, costretti a vivere ogni giorno in celle sovraffollate, popolate da topi e scarafaggi, con bagni turchi in condizioni di degrado e perdite d’acqua dai soffitti. E, secondo numerosi racconti, costretti a subire gli abusi delle guardie penitenziarie.
VIOLENZE IN CARCERE. Che ha portato all’apertura di un’interrogazione parlamentare su presunte violenze all’interno del carcere.
«Era estate e faceva caldo quando andai a trovare mio figlio. Enrico aveva la testa abbassata, non parlava. Pesava 40 chili e quel giorno aveva addosso due maglie, nonostante nella stanza dei colloqui si soffocasse. Le nocche delle mani erano nere, piene di ematomi. Prima di salutarlo riuscii ad alzargli la maglia: le guardie penitenziarie lo avevano massacrato con i manganelli e gli stracci bagnati, mio figlio era distrutto», racconta Maddalena Artucci, che ha scelto di denunciare il figlio tossicodipendente dopo le continue percosse e i furti in casa. Ma che ora, dopo aver visto il trattamento inumano a cui viene sottoposto, vorrebbe tanto fare un passo indietro.
«Dopo aver tentato la strada dei Servizi per le tossicodipendenze(Sert) e delle Case famiglia», racconta Maddalena con le lacrime agli occhi, «non sapevo cosa fare, avevo bisogno di salvarlo. Ho cercato in tutti i modi di fargli evitare il carcere, ma alla fine sono stata costretta a denunciarlo. Enrico entrava in casa e distruggeva tutto, cercava soldi in continuazione. Mi ha picchiato molte volte e una volta mi ha lesionato la milza. Annarita, la sorella piccola, si nascondeva in un angolo con le mani davanti agli occhi per non vedere».
NIENTE SPAZI PER LA SOCIALITÀ. Ma Maddalena, per suo figlio, sperava in una riabilitazione umana. «Perché non insegnano ai ragazzi un lavoro? Perché non li fanno studiare?», domanda con gli occhi sgranati. Divisa in 12 reparti, la casa circondariale di Napoli, costruita nel 1908, non ha al suo interno spazi di socialità: i passeggi sono quadrati di cemento senza panche o copertura. In carcere sono 930 i detenuti con sentenze passate in giudicato, 325 sono stranieri, mentre il 30% della popolazione detenuta è tossicodipendente.
«La situazione è drammatica. In cella si arriva fino a 10-12 detenuti e con letti a castello fino a tre livelli», spiega a Lettera43.it Mario Barone presidente di Antigone in Campania, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che funge da osservatorio sulle condizioni delle carceri italiane, «e con l’arrivo della calura estiva le cose peggiorano. D’estate, il sole entra nelle celle in maniera così prepotente che sono costretti a refrigerare la stanza con magliette bagnate. La contiguità fisica di fornelli e servizi igienici e il fatto che nella maggior parte dei padiglioni non c’è la doccia in cella fanno il resto».

Nel 2012, ci sono stati 56 suicici nelle carceri italiane

In fila per ore i parenti dei carcerati, per un totale di 102 mila colloqui annui, aspettano, a volte fin dalla sera prima della visita, di incontrare i loro cari: sono preoccupati per la loro salute. Nelle ultime settimane, infatti, ci sono stati tre decessi che ancora devono essere accertati e che sollevano interrogativi sulle prestazioni sanitarie del carcere. «Mentre Roma bruciava, Nerone suonava. E questo è quello che succede oggi nelle nostre strutture», spiega a Lettera43.it il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) Donato Capece, «in Italia su 66 mila detenuti ci sono solo 43 mila posti letto detentivi. Le condizioni sono drammatiche, il tasso di suicidi è molto alto. Nel 2012, ce ne sono stati 56».
CONDIZIONI DRAMMATICHE. Fuori e dentro alla struttura si uniscono i destini di madri in pena, alcune costrette per necessità a denunciare i figli, nella speranza che il carcere potesse rieducarli. Ma è solo un’illusione. A Poggioreale non esistono lavori extramurari o interni che facilitino il reinserimento esterno, né è attivo alcun corso di formazione professionale. Una volta usciti dal carcere, è quasi impossibile riuscire a trovare un’occupazione e rifarsi una vita.
L’INCUBO DELLA CELLA ZERO. Pietro Iorio, presidente ex detenuti di Napoli-Poggioreale, ha parlato alcuni mesi fa di una ‘cella zero’, la stessa di cui ha parlato anche Maddalena: una stanza in cui i carcerati verrebbero picchiati quando fanno qualcosa che non va. Sul pavimento ci sarebbe un materasso per attutirne i colpi.
Eppure, dai piani alti qualcuno non crede a queste storie, come Capece. «Sono solo leggende metropolitane. Noi siamo dalla parte dello Stato e della legge». Affermazioni alle quali il presidente di Antigone risponde così: «Se pendesse nei miei confronti un’ordine di esecuzione di una condanna definitiva, l’ultimo posto in cui mi andrei a costituire è la casa circondariale di Napoli-Poggioreale».
Più provocatoria Maddalena: «Capece dovrebbe passare lì le ferie per capire cosa si prova. O vedere dove hanno messo mio figlio, in cella zero. Enrico era nudo, a fare i suoi bisogni nella stess stanza dove dormiva. Massacrato dalla penitenziaria. Avevo paura che facesse la fine di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Se uno ha sbagliato deve pagare, ma non con la vita. È giusto che gli venga tolta la libertà, ma non la dignità. Non siamo animali».

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Le Vallette. 30 detenuti dormono per terra senza materassi e senza servizi igienici

Incredibile denuncia dell’Osapp, che dovrebbe far riflettere soprattutto alla luce dei recenti discorsi affrontati relativamente ai problemi economici in cui versa oggi il nostro Paese: nel carcere delle Vallette di Torino, ci sarebbero 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo previsto per l’istituto.

Notizia vecchia, questa, potremmo quasi dire, se non fosse che almeno una trentina di questi carcerati starebbero dormendo per terra, senza materassi in locali che, secondo quanto riferito da Leo Beneducci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria, sarebbero addirittura privi di servizi igienici.

“Purtroppo a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema” ha riferito Beneducci, “le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino, dove per una capienza di 1050 detenuti ve ne sono invece 1580”.

Quasi il 50% in più di persone rinchiuse, quindi, rispetto a quante ne prevede il carcere, le quali inevitabilmente si ritrovano a dover vivere incondizioni a dir poco improponibili, a causa delle inevitabili carenze dei servizi.

Il problema del sovraffollamento delle carceri è un aspetto della nostra società che non può passare inosservato o in secondo piano, considerando soprattutto il fatto che i tagli economici che inevitabilmente verranno effettuati per far fronte alla crisi non faranno altro che peggiorare questa situazione se non si interverrà adeguatamente per assicurare la garanzia e il mantenimento di tutta quella serie di diritti basilari di cui nessuno al mondo, nemmeno un criminale, può in alcun modo e per nessuna ragione essere privato in uno stato sociale e democratico come il nostro.

Troppo spesso, forse, si tende a dimenticare l’esistenza dei detenuti, chiudendo gli occhi, voltando lo sguardo dall’altra parte, considerandoli addirittura, in alcuni casi, alla stregua di animali da stipare in una gabbia il più a lungo possibile, mentre bisognerebbe invece ricordarli, e ricordare insieme ad essi quanto espresso dalla nostra Costituzione cioè che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” art. 27 comma 3 della nostra Legge Fondamentale.

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Ancora un sucidio nelle carceri italiane

images (14)Il dramma delle carceri si consuma nel silenzio. Ieri un uomo di 53 anni, detenuto nel carcere di Ivrea, si è tolto la vita impiccandosi. L’uomo aveva soltanto un anno ancora di detenzione da scontare.Si tratta del 13° suicidio in un carcere italiano dall’inizio del 2013.

La notizia è stata data dal segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci. “Nonostante gli appelli accorati e le dichiarazioni di intento della politica e delle massime cariche istituzionali, la situazione non cambia”, è l’amara conclusione del sindacato di polizia penitenziaria.

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Prossimi presidi contro il carcere

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Sulmona. Rubava i soldi dalla posta dei detenuti, poliziotto a processo

oSULMONA (L’AQUILA), 21 MAR – Ritirava la posta del carcere, rubando poi i soldi di alcuni dei vaglia destinati ai detenuti: protagonista della vicenda un agente di polizia penitenziaria, M.C. di 47 anni, sospeso dal servizio a Sulmona, rinviato a giudizio con l’accusa di peculato.

A far partire l’inchiesta sono stati proprio alcuni reclusi che aspettavano soldi per Natale dai parenti.

Denaro che, secondo le accuse, l’imputato avrebbe trattenuto per sé: dopo aver ritirato la posta, l’agente di polizia penitenziaria, separava i vaglia dalle lettere per poi tornare il giorno dopo all’ufficio postale a cambiarli, con i detenuti ad attendere invano l’arrivo dei soldi dei parenti.

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Lettera di Davide Rosci dal carcere di Viterbo

PowerTorno a scrivere dopo alcuni giorni passati in isolamento. Sì, mi sono fatto 4 giorni di isolamento dopo essere stato trasferito dal carcere di Rieti al carcere di Viterbo.

Ora voi vi chiederete cosa mai io abbia potuto fare. La risposta è niente, giuro niente! Così come quando mi tradussero da Teramo a Rieti: non avevo fatto nulla e, per di più non ho potuto conoscere le motivazioni che giustificato questi trasferimenti.
C’è la chiara volontà di punirmi, facendomi capire con questo modo di fare, che la mia voglia di informare chi è fuori e la lotta di tutti coloro che mi sono vicini sono da arginare. Hanno dapprima trattenuto tutta la posta in arrivo che gli scorsi lunedì e martedì mi era arrivata a Rieti, giustificando, in maniera fantasiosa, che all’interno vi fosse qualcosa di pericoloso(?) anche se le avevano aperte e avevano visto che non c’era niente (per la cronaca si trattava di due lettere di miei amici, 4 lettere di mia zia contenenti le foto dei miei adorati nipoti e due cartoline). Hanno di fatto violato la mia privacy e deliberatamente censurato ogni tipo di corrispondenza in arrivo. È palese che hanno agito in modo illegale ed incostituzionale

Poi, non contenti, hanno fatto la cosa più vile ed infame, trasferendomi qui a Viterbo e mettendomi in isolamento! Non mi hanno giustificato la cosa e mi hanno sbattuto in una cella di 5 mq senza riscaldamento e senza poter avere contatti con nessuno. Mi hanno vietato di prendere una coperta e ho dormito tre notti(!) al gelo con solo il giubbino. Ditemi voi se questo è un atteggiamento da paese civile! Trasferire, lasciare al freddo e in isolamento una persona che non ha avuto rapporti disciplinari o altro è il chiaro modo di fare di chi, nel buio e nel silenzio delle carceri italiane, ignora ogni legge morale e giuridica.

Non nascondo di aver provato sconforto, provate a mettervi al posto mio e a vivere in 20 giorni tre cambi di carcere, la censura delle lettere e l’isolamento totale senza sapere quanto tempo duri. È qualcosa che ti fa perdere la fiducia nelle istituzioni, oltre che la testa. Così mi sono affidato ai miei libri e solo la lettura di “Gramsci in carcere e il Partito” e “Oltretorrente”, che narra le gesta di Guido Picelli, gli Arditi del Popolo e le barricate di Parma, mi ha dato la forza e la serenità per affrontare queste vicissitudini. L’esempio di Gramsci e quello di Picelli sono stati per me qualcosa di indescrivibile. Attraverso quelle pagine rigo dopo rigo ho ricaricato il mio cuore e la mia mente.
Ormai pensavo al peggio, convinto di dover rimanere in quello scempio di posto fino all’11 Aprile, data nella quale a Roma ci sarà l’appello per l’aggravamento degli arresti domiciliari in custodia cautelare, invece mi hanno portato in sezione. Solo dopo che il consigliere regionale di Rifondazione Comunista del Lazio, che ringrazio di cuore, era venuto a trovarmi.

Concludo con la mia convinzione personale che continuerò ad urlare: potranno imprigionare il mio corpo, mai la mia mente.
A testa alta! La lotta non si arresta!

Viterbo, Domenica 17/03/13

Davide Rosci

 

da controlacrisi


66mila detenuti in carceri italiane, da inizio anno 221 tentati suicidi e 6 evasioni

Jail (2)Dato del Dap aggiornato al 18 marzo 2013. Oltre 12mila in attesa di primo giudizio, mentre sono 39.653 i condannati in via definitiva. La capienza regolamentare è di quasi 46 mila posti.

Sono 65.995 i detenuti in Italia al 18 marzo 2013, di cui ben il 18,7 per cento (oltre 12 mila) in attesa di primo giudizio, su una capienza regolamentare delle strutture detentive di quasi 46 mila posti. Questo l’ultimo dato aggiornato fornito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria durante la conferenza stampa in corso presso il Museo criminologico a Roma di presentazione del “Progetto circuiti regionali”. Secondo i dati del Dap, i condannati in via definitiva sono il 60 per cento, cioè 39.653. Lombardia, Campania, Lazio e Sicilia le regioni col maggior numero di detenuti: 9.233 per la regione Lombardia, 8.412 in Campania, 7.201 nel Lazio e 7.080 in Sicilia.

Nel 2013 già 221 tentati suicidi, 6 evasioni

Dall’inizio del 2013 sono 221 i tentati suicidi registrati nei penitenziari italiani. A fornire il dato è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che rileva come siano avvenute nel periodo compreso tra l’1 gennaio e il 19 marzo, 6 evasioni, 3 dal carcere di Varese, 2 da quello di Parma e 1 da quello di Modica. “C’è un numero enorme di tentati suicidi – ha rilevato il vice capo vicario del Dap Simonetta Mattone, durante una conferenza stampa – ma grazie al personale di polizia penitenziaria e alla sua preparazione, si riesce a sventarli. I suicidi sono una realtà drammatica, ma rispetto alla popolazione in carcere, sono un fenomeno estremamente contenuto”. Sulle evasioni dal carcere, Mattone ha aggiunto: “Si tratta di fatti gravi, ma non c’è nessuna emergenza. I casi italiani sono meno rispetto alla media europea”.

Redattore Sociale


Cile: Accendere la miccia della sovversione, Marcelo Villarroel.

diffondiamo da contrainfo Lettera del compagno Marcelo Villarroel per l’attività “Sono anticarcerario” realizzata il 14/12 all’occupazione La Mákina, Santiago.

Colpo_di_cannone_Pasque_VeronesiAccendere la miccia della sovversione. Attizzare il fuoco insorgente della guerra sociale, giù le mura delle prigioni:

La prigione è il destino circostanziale o potenziale di ogni persona che prenda il controllo della sua vita, avanzando sul cammino dell’emancipazione, controcorrente rispetto a una normalità capitalista che impone la routine del cittadino, costringendo al lavoro salariato, agli studi per convalidare un sistema borghese di educazione e mantenerti sotto i parametri dell’ordine giuridico, che ci impone il capitale.

La prigione è un luogo che ti offre la democrazia, come uno spazio che cristallizza la sottomissione normalizzatrice.

Là finiscono, cominciano e passano tutti e tutte quelli/e che, in un modo o in un altro, non si sottomettono e trasgrediscono la pace sociale dei ricchi.

Colui/colei che commette dei crimini, che protesta, che attacca, che cospira, quelli/e che per le diverse scelte o decisioni non rispettano l’ordine giuridico, si trovano di fronte alla mano repressiva di tutto un sistema di repressione, controllo e punizione.

Ho ripetuto mille volte: in tutte le prigioni del mondo più del 90% delle persone rinchiuse provengono dalla classe sfruttata. Siamo oppressi e ribelli, diveniamo inevitabilmente sovversivi, quando decidiamo di smettere di andare avanti nella vita come degli schiavi.

Se sei nato povero, tu sei condannato in Cile, con un destino in una delle 91 prigioni del paese. Di luoghi controllati, che hanno per scopo lo sterminio, dove i moduli, pavimenti e gallerie altamente assassini lavorano ogni giorno con la morte contro l’indolenza sociale che ignora, demonizza e naturalizza il quotidiano, e che considera normale la punizione sui prigionieri.

La prigione è anche considerata al giorno d’oggi come un’azienda produttrice di servizi, in cui i prigionieri sono visti come gli utenti soggetti al paradosso proprio di una società malata, che assume che è il cammino da seguire per quelli che non rispettano la sua legge.

É importante capire che nessuno è libero in una società che è la dittatura della merce, la democrazia del capitale, società di classi in cui appena ribellatici potremmo demolire fino all’ultimo pezzo di cemento di ogni centro di sterminio costruito fino ad oggi.

Allo stesso modo non vi è alcuna lotta anticarceraria senza conoscenza specifica delle loro quotidiane situazioni di tensione, senza comunicare con i prigionieri in lotta, questo è il motivo per cui è una sfida costante per rompere l’isolamento, rompere le spesse mura del confinamento, e comprendere che è essenziale per rafforzare i legami in tutti i campi, ma ancora di più con i prigionieri sovversivi in guerra contro tutto ciò che è esistente. Questo viene fatto con la paura e l’indifferenza; la solidarietà impegnata è un’esigenza individuale e collettiva per demolire questa posizione conveniente e auto-soddisfacente di credere che la nostra lotta è temporale e non un’opzione di vita fiera come quella che molti di noi oggi assumono dopo molto tempo in totale armonia con le nostre azioni.

Moltiplicare tutti i tipi di atti, fatti, azioni e iniziative è una necessità di lottare contro stato-prigione-capitale , che è quella che ci fa avanzare, senza alcuna limitazione.

Insistere all’infinito nella ricerca della nostra libertà è dare degnamente e senza timore colpi fino all’ultimo pezzo di cemento della nostra società putrida… che il vento non porta queste parole, che si trasformano in fatti…

Apri gli occhi: è il momento di combattere!
Contro stato- prigione- capitale: guerra sociale!
Finché ci sarà miseria ci sarà ribellione!

Marcelo Villarroel Sepúlveda
Prigioniero libertario
14 Dicembre 2012
Modulo 2 -. H norte. CAS-STGO Cile.

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Inaugurato il nuovo carcere di Heidering in Germania: carcere modello con ogni comfort

76Si inaugura oggi a Grossbeeren, una trentina di chilometri a sud di Berlino, la nuovissima prigione di Heidering, una struttura a cinque stelle in grado di ospitare 648 detenuti, con ampia libertà di movimento all’interno ed una modernissima cucina comune ogni 18 persone.

Diversi giornali tedeschi polemizzano mettendo in evidenza che il nuovo carcere ha palestre e strutture sportive migliori di quelle delle scuole e dei licei berlinesi. A differenza dell’aeroporto della capitale, i cui costi di costruzione sono esplosi e la cui inaugurazione è stata già rinviata tre volte, senza che ancora si sappia quando entrerà finalmente in servizio, Heidering è stata realizzata nei tempi previsti e con un costo di 118 milioni di euro, come era stato preventivato.

La struttura è dotata solo di celle singole, ognuna delle quali ha una superficie di oltre 10mq e dispone di un vano separato per il bagno, oltre al fatto che le finestre hanno un’altezza di un metro e mezzo e sono del tutto apribili. Ma il fiore all’occhiello della nuovissima prigione sono le strutture sportive, con tre campi di calcio, una pista per la corsa ed una palestra di 800 metri quadri. Nelle zone comuni di soggiorno, che possono accogliere fino a 18 detenuti, c’è anche una loggia con un balcone protetto da inferriate sul quale è possibile prendere aria, fumare e bere anche un caffè.

L’architetto che ha progettato il carcere, Josef Hohensinn, spiega che ogni loggia della struttura è “un simbolo, una piccolezza con cui si riesce ad ottenere un’alta qualità della vita”.

Josef Hohensinn è lo stesso architetto che ha progettato il il Centro della Giustizia con l’annesso carcere di Loeben in Austria.

Per il portavoce dei Verdi nel parlamento della città-Stato di Berlino, Dirk Behrendt, la nuova struttura è invece “la prigione più superflua della Germania”, anche perché nella capitale il numero di reclusi è in diminuzione rispetto alle previsioni.

AGI


Guantanamo: aumentano detenuti in sciopero fame, è allarme

wallpaper_neon_02Il numero di detenuti in sciopero della fame nel super carcere di Guantanamo è in forte aumento. Lo afferma il Dipartimento di Giustizia americano, sottolineando che si contano 25 detenuti che rifiutano cibo, di cui otto sono alimentati in modo forzato attraverso sondine nel naso. Due sono stati ricoverati per disidratazione.

Ma secondo i legali di alcuni detenuti – riporta il New York Times – il bilancio di coloro in sciopero della fame è decisamente più elevato, tanto che gli avvocati si sono rivolti alle autorità militari per chiedere un intervento che migliori la situazione.

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Carceri: Dap, via a differenziazione circuito penitenziario

4.1.1(ASCA) – Roma, 21 mar – Contro i mali che affliggono le nostre carceri, al via nel nostro paese il piano che prevede un nuovo (e innovativo) circuito penitenziario con una maggiore territorialita’ e penitenziari piu’ socializzanti per quanti sono considerati a bassa e media pericolosita’.

Un nuovo sistema, ha spiegato oggi il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Tamburino che avra’ come filosofia quella della ”sorveglianza dinamica, un modo – ha detto – di intendere istituti maggiormente aperti, con una proposta a detenuti selezionati, per poter vivere un’esperienza carceraria dando prova di una maggiore responsabilita”’.

Scopo del trattamento – ha detto il capo del Dap – e’ quello di formare un cittadino che non delinqua piu’. E questo e’ possibile solo se gia’ in carcere si sollecita il piu’ possibile l’assunzione delle proprie responsabilita’.

”Occorre, insomma, differenziare i regimi carcerari creando spazi comuni e far vivere il minor tempo possibile nelle camere detentive”, ha spiegato Tamburino. Quello che si pensa, e’ stato spiegato, e’ la graduale trasformazione di alcuni istituti penitenziari con spazi comuni come la mensa, anche perche’, ha spiegato sempre Tamburino, ”l’esperienza ci dice che rendere meno ‘ingabbiata’ la vita dei detenuti porta risultati positivi”.


Slitta di un anno la chiusura degli Opg

OPG_Aversa1Viene prorogata al 1 aprile 2014 la chiusura degli Opg, «in attesa della realizzazione da parte delle Regioni delle strutture sanitarie sostitutive». Lo ha deciso il Consiglio dei ministri che oggi ha approvato, su proposta del ministro della Salute, un decreto legge con interventi urgenti in materia sanitaria riguardanti gli ospedali psichiatrici giudiziari e l’impiego di medicinali per terapie avanzate.

Nel decreto si sollecitano le Regioni a prevedere «interventi che comunque supportino l’adozione da parte dei magistrati di misure alternative all’internamento, potenziando i servizi di salute mentale sul territorio. In caso di inadempienza, si prevede un unico commissario per tutte le Regioni per le quali si rendono necessari gli interventi sostitutivi».

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Presidi anticarcerari

30_marzo


Mai rinnegato, mai arreso, mai domo. Ciao Nicola!

Ciao Nicola! Un posto importante nei nostri ricordi

nicola-2Nella serata di ieri è morto Nicola Pellecchia, compagno napoletano considerato come uno dei fondatori dei Nap, successivamente passato in carcere nelle Br. Nicola venne arrestato il 13 luglio 1975 a Roma, due anni dopo venne condannato dalla Corte d’Assise di Napoli a 21 anni e 5 mesi di carcere.

Mai dissociato dalla sua scelta, mai pentito per quel percorso che aveva deciso di intraprendere e mai rinnegando il suo impegno politico, Nicola uscì dal carcere scontando tutta la pena, sempre a testa alta nelle durissime condizioni delle carceri speciali, rifiutando qualsiasi collaborazione con lo stato anche quando quest’ultimo, nelle sue innumerevoli strategie, ha cercato di avere il coltello dalla parte del manico, cercando in Nicola un tramite tra brigatisti fuori e in carcere. Un tramite che non trovarono in Nicola, che nella sua fermezza e serenità politica affrontò gli anni del carcere con lucidità e estrema coerenza. Una coerenza dimostrata anche una volta uscito dal carcere, quando si è trasferito nell’isola di Procida, dedicandosi ad organizzare i pescatori dell’isola contro lo strapotere dei grossi mercanti, per difendere i diritti di 200 pescatori, mettendoli insieme.

E se Nicola ha combattuto fino all’ultimo anche con la stessa malattia incurabile che lo ha condotto alla morte, rimane nel ricordo la sua storia, il suo impegno e il suo sguardo fiero che ha saputo guardare oltre i confini di quel mare che lo circondava, mai rinnegato, mai arreso, mai domo.

Da infoaut


Esce di prigione dopo 23 anni, era innocente

images (13)Per David Ranta, ora 58enne, le porte del carcere di New York si erano aperte dopo l’omicidio l’8 febbraio 1990 del rabbino Chaskel Werzberger, un sopravvissuto di Auschwitz, morto dopo un’agonia di quattro giorni a seguito di un tentativo di rapina da parte di un ladro di gioielli che gli aveva sparato alla testa. Ora è libero dopo 23 anni di prigione per un crimine mai commesso.

Il caso scosse l’intera comunità ebraica di Brooklyn e le indagini furono seguite dal detective Louis Scarcella, che usando, come scrive il New York Times, procedure poco ortodosse mise le manette a Ranta, un disoccupato con problemi di droga.

L’uomo fu condannato al massimo della pena, 37 anni e mezzo, e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Domani dopo oltre vent’anni, Ranta potrebbe essere un uomo libero, grazie al lavoro di un’apposita unità costituita dal procuratore distrettuale di Brooklyn, Charles Hynes, per indagare sui casi di condanne piu’ discussi.

Le nuove indagini hanno accertato che nelle procedure che hanno portato all’arresto di Ranta sono state infrante diverse regole. Scarcella aveva infatti convinto dei testimoni a dichiarare il falso su Ranta e non ha aveva tenuto traccia dei diversi interrogatori compiuti. Ora in pensione, raggiunto dal Ny Times, il detective ha detto che in vita sua non ha mai incastrato nessuno. Tuttavia nessuna prova metteva in relazione Ranta con l’omocidio.

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Carcere di Nicosia, chiusura certa

tumblr_ltogxmVx781qbk0bxo1_400NICOSIA. Era nell’aria ma adesso la notizia della chiusura del carcere cittadino è certa, sebbene ancora ufficiosa. Pare che il decreto sia alla firma e che quindi la notizia possa essere ufficializzata nei prossimi giorni. Sebbene ufficiosa la notizia, diffusa dalla Uil – Pa, lascia l’amaro in bocca perché arriva all’indomani del partecipato consiglio comunale del 18 marzo convocato in seduta straordinaria davanti al carcere cittadino proprio per protestare contro la paventata soppressione della casa circondariale. 

“Certa è ferma è stata la convinzione di tutti, che il carcere va difeso – scrive Giuseppe Trapani per la Uil – Pa provinciale nel documento inviato ieri al Ministero, al Dap e al Provveditorato regionale – va difeso perché è una risorsa storica della cittadinanza , perché è funzionale, perché può vantare un’ottima gestione dei detenuti, va difeso perché la struttura permetterebbe un’efficace ristrutturazione per l’aumento dei posti disponibili e il miglioramento delle condizioni di vita generali, in attesa della nuova struttura penitenziaria”.

Il consiglio comunale del 18 aveva deliberato l’impegno dell’amministrazione comunale a partecipare alla ristrutturazione del carcere, a sollecitare la costruzione di un nuovo Istituto penitenziario, il cui iter che aveva preso avvio circa 8 anni fa si è interrotto senza motivazioni. Era emersa anche la volontà di investire del problema le deputazioni locali a livello nazionale e regionale. Come si sa bene la città sta subendo, da oltre un anno, una serie di scippi e tra questi spiccano la soppressione del Tribunale cittadino che dal 13 settembre prossimo sarà accorpato a quello di Enna. Ha rischiato seriamente, e ancora non c’è una decisione definitiva, di perdere il punto nascita e adesso si aggiunge la soppressione, certa da ieri, della casa circondariale. In tutti i casi si tratta di scelte prese dall’alto senza alcuna interlocuzione con il territorio già mortificato dalla mancanza di infrastrutture, soprattutto viarie. A determinare le scelte dei tagli sono motivi economici legati alla spending review.

“Laddove vi sono delle carenze – continua Trapani, che da tempo ha intrapreso la battaglia contro la soppressione dell’istituto penitenziario cittadino – anziché potenziare e migliorare si pensa solo a sopprimere, macellando, di fatto, lo stato sociale esistente sulla base di un pseudo risparmio che, di fatto, si traduce in un disservizio al cittadino sia in termini di sicurezza, sia in termini di servizi sanitari, sia in termini di cultura e studio, sia in termini di perdita di diritti”.


Opuscolo OLGa N°77

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Detenuto grave. La provocazione del suo legale :«Io in cella per lui»

images (12)«Le sue condizioni di salute sono talmente gravi, la sua sofferenza fisica e psichica talmente atroce, che propongo al giudice di incarcerare me al posto di questo mio cliente ammalato. Sì, avete capito bene: la sconto io la pena al posto suo, nella sua cella, per il tempo necessario a visitarlo, operarlo e consentirgli di riprendersi».
LA PROVOCAZIONE dell’avvocato Paolo Mele senior, da sempre attento ai problemi dei carcerati, è tale fino ad un certo punto: la gravissima forma di tumore che ha colpito un suo cliente non ha ancora smosso la pietà dei giudici del tribunale di sorveglianza. Dopo l’ultima, accorata richiesta del 6 marzo scorso, alla quale non ha avuto risposta, l’avvocato Mele ieri ne ha presentato una nuova, in cui baratta la sua libertà a favore dell’assistito. «Come uomo, come legale, come cittadino di uno Stato civile e come cristiano chiedo di dare la possibilità a quel detenuto di curarsi».
LA MALATTIA di cui soffre Carmine Multari, 48 anni, residente a Lonigo, ha subito un progressivo peggioramento. Il malato sta scontando una condanna definitiva a 2 anni e mezzo di reclusione per truffa, appropriazione indebita e ricettazione commesse in passato fra il Veneto e la Toscana. «L’ho visto lunedì pomeriggio – ha detto il legale – e la situazione è sempre ed estremamente grave». Lo sfortunato detenuto è stato infatti colpito da una seria forma di neoplasia alla lingua. Nell’ultimo mese è dimagrito di 12 chili, ed ha riferito al suo avvocato che «da una settimana non riesce a mangiare, nè a deglutire». Avverte dolori lancinanti che «si irradiano all’orecchio, alla testa e al collo». Fatica moltissimo a parlare, ed è costretto a restare con la bocca aperta in maniera innaturale. «Che la situazione sia gravissima viene confermato anche dalla documentazione sanitaria».

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Egitto. La rivoluzione che muore nelle carceri

Se sotto il regime di Hosni Mubarak la violazione dei diritti dei detenuti era prassi quotidiana, anche dopo il 25 gennaio 2011 le cose non sembrano cambiate. Viaggio nelle carceri egiziane, tra torture e abusi.

4071986-3x2-700x467Il caso di Mustafa Abd al-Baset Mohamed è solo l’ultimo denunciato della Egyptian Initiative for Personal Rights, organizzazione che si occupa di garantire la tutela dei diritti dei detenuti.

Abd al-Baset è entrato in carcere già paraplegico dopo aver ricevuto un colpo di pistola che gli ha frantumato la spina dorsale. La sua è una storia di abusi, di diritti negati. 

Dopo essere stato detenuto per un mese nella stazione di polizia di Zaqaziq, necessiterebbe di un ricovero ospedaliero con esami approfonditi che ne accertino l’effettivo stato di salute.

Il rischio è che faccia la fine di Hassan Shaaban, detenuto malato di diabete, che è morto la settimana scorsa a causa delle insufficienti cure mediche ricevute durante il suo periodo di detenzione.

Sarebbe bastata – sostengono gli avvocati dell’organizzazione – una iniezione di insulina.  Che però non è mai arrivata.

Cambiano i nomi, ma le storie restano drammaticamente simili.

Secondo l’avvocato di Sa’ad Said, il suo assistito sarebbe stato torturato nella stazione di polizia di Giza dal maggiore Hisham Abdel Gawwad, subendo traumi non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici. Sarebbero stati proprio questi ultimi, sostiene l’avvocato, a contribuire in maniera decisiva alla sua morte.

Le loro, purtroppo, non sono realtà isolate.

Secondo un recente report di alcune Ong egiziane (l’Egyptian centre for economic and social rights,l’Hisham Mubarak law centre, l’Al-Nadeem centre for the rehabilitation of victims of violence and torture, e la stessa Egyptian initiative for personal rights), nel carcere di Hadra, ad Alessandria d’Egitto, la tortura sarebbe ormai una prassi consolidata.

Hadra e Bourg al-Arab (la prigione dove è morto Hassan Shaaban) sono non a caso fra gli istituti penitenziari più duri di tutto il paese.

Sotto Morsi nulla sembra essere cambiato. Lo ricordava già l’anno scorso Aida Seif al-Dawla, del Nadeem Center, sottolineando come durante i primi 100 giorni di presidenza fossero stati registrati 150 casi di tortura: più di uno al giorno. 

Ma le critiche delle Ong e le pur palesi violazioni degli organismi di sicurezza egiziani sono solo uno degli aspetti da prendere in considerazione.

Le prigioni egiziane stanno divenendo sempre più il simbolo dell’oppressione, dell’ingiustizia ai danni di un popolo che subisce la dura repressione delle forze dell’ordine.

Basti pensare a quello che è successo a Port Said, dove proprio la prigione locale è stata l’epicentro degliscontri fra manifestanti e poliziotti.

Come dimenticare inoltre che (molta) parte di quella baltaghiyya che fece irruzione in piazza Tahrir per fermare le proteste nella cosiddetta ‘battaglia dei cammelli’, proprio da quelle prigioni fuoriusciva.

L’8 marzo 2011, Amnesty International riportava come dal 28 gennaio 2011 in avanti almeno 21.600 prigionieri fossero scappati in circostanze poco chiare dalle carceri locali.

I malumori, gli scontri, le violenze di oggi nascono dall’indignazione di una società che considera la giustizia locale come fautrice di un giudizio del tutto arbitrario.

E’ il caso delle denunce degli abitanti di Port Said, o ancora più recentemente di Hassan Mustafa, attivista la cui “ingiusta sentenza” è stata portata all’attenzione dei media dall’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI).

Ci sono dunque detenuti che, pur sottoposti alle dure condizioni carcerarie, hanno un sostegno esterno, possono contare su campagne di protesta e di sensibilizzazione.

Poi ci sono gli ultimi, i più poveri, i bambini di strada, gli stranieri immigrati, raccolti magari al confine con il Sudan o negli anni passati con la Libia, e arrestati.

E ci sono i casi in cui i detenuti sono vittime di giochi politici.

Lo scorso febbraio gli uffici di Abu Dhabi hanno rifiutato la richiesta della diplomazia egiziana di scarcerare undici uomini di nazionalità egiziana apparentemente legati alla Fratellanza.

Secondo Mukhtar Ashri, uno fra i responsabili per gli affari legali del partito Libertà e Giustizia, il processo intentato dagli Emirati Arabi Uniti altro non è che una farsa, dal momento che i suoi 11 connazionali non avrebbero libero accesso alla difesa.

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Repressione 15 Ottobre – Davide Rosci trasferito a Viterbo e altri aggiornamenti

potere-repressione_fondo-magazineDavide è stato nuovamente trasferito, dal carcere di Rieti a quello di Viterbo. In realtà a Rieti è stato in isolamento solo i primi giorni, probabilmente perchè in sezione nuovi giunti.
L’11 Aprile avrà un’udienza al tribunale di Roma per tentata evasione dai domiciliari.

Altri imputati per il 15 ottobre, avranno invece l’udienza preliminare a Roma il giorno 4 aprile, e ci sarà probabilmente un presidio davanti al tribunale. Tra questi anche l’udienza per Mauro accusato di tentato omicidio (carabiniere della camionetta).

Si è invece capito che Massimiliano, il sesto condannato di Roma, oltre ai 5 teramani, è un fascio. Sempre troppo tardi, però è importante diffondere la notizia.

per scrivere e dare solidarietà a Davide:

DAVIDE ROSCI
Casa circondariale di VITERBO
Strada Santissimo Salvatore, 14/b
01100 –   VITERBO


Detenuto di 40 anni muore in cella alla vigilia del permesso premio

crepaMassa Carrara – Sarà l’autopsia a chiarire le cause dell’improvviso decesso di un quarantenne, avvenuto venerdì pomeriggio nella struttura penitenziaria della città. L’uomo, massese, è stato ritrovato privo di sensi dai compagni di cella al risveglio dal riposo pomeridiano e niente sarebbero valsi i tentativi di rianimarlo. Pare che negli ultimi tempi l’uomo non godesse di buona salute ma nulla di così serio da far presagire un decesso fulmineo, giunto a pochi giorni dal primo permesso premio di cui avrebbe goduto per un comportamento ineccepibile.

Fonte: La Nazione


Corea del Nord: se questo è un uomo, nato in catene

CINA_(s)_0917_-_Torture“Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato.
È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità.
È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord.
Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne – bambine di due anni o ottuagenarie – sono stati violentati.
Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo.
Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto – confessa in un primo momento – . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena.
Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”.
Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello.
“Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso.
Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”.
“Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong – un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex – agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.

Fonte: Il Sole 24 Ore