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Tre sadici e una cella – A Poggioreale va in scena l’orrore.

violenza-familiare-00001_5Tre aguzzini sadici che di notte si divertono a inveire a suon di percosse sui detenuti nelle viscere di un carcere, lì dove l’occhio delle telecamere non arriva. Una storia agghiacciante che promette ulteriori sviluppi poco rassicuranti. Non si tratta di una pellicola dalla sceneggiatura drammatica, dove i “secondini” assumono tratti arroganti e spietati. Nessuna finzione. Il luogo degli orrori è reale e si trova a Napoli: il carcere di Poggioreale.  Continue reading


Poggioreale: «Nudo, umiliato e picchiato dalle guardie»

cordatesaSquadracce di agenti penitenziari che massacrano i detenuti in una camera chiamata “cella zero”. Violenze gratuite, trattamenti disumani, abusi continui e pareti macchiate dal sangue dei carcerati picchiati. Benvenuti nell’inferno del carcere di Poggioreale, Napoli. Un luogo dell’orrore che somiglia ad Abu Ghraib, almeno a leggere la terribile denuncia che il garante della Regione Campania per i diritti dei detenuti ha mandato alla procura partenopea. E Continue reading


Napoli, il degrado del carcere di Poggioreale

images (15)Lo chiamano carcere, ma chi ci è passato lo descrive come un inferno. L’istituto napoletano di Poggioreale ospita 2.800 detenuti su una capienza massima di 1.600, costretti a vivere ogni giorno in celle sovraffollate, popolate da topi e scarafaggi, con bagni turchi in condizioni di degrado e perdite d’acqua dai soffitti. E, secondo numerosi racconti, costretti a subire gli abusi delle guardie penitenziarie.
VIOLENZE IN CARCERE. Che ha portato all’apertura di un’interrogazione parlamentare su presunte violenze all’interno del carcere.
«Era estate e faceva caldo quando andai a trovare mio figlio. Enrico aveva la testa abbassata, non parlava. Pesava 40 chili e quel giorno aveva addosso due maglie, nonostante nella stanza dei colloqui si soffocasse. Le nocche delle mani erano nere, piene di ematomi. Prima di salutarlo riuscii ad alzargli la maglia: le guardie penitenziarie lo avevano massacrato con i manganelli e gli stracci bagnati, mio figlio era distrutto», racconta Maddalena Artucci, che ha scelto di denunciare il figlio tossicodipendente dopo le continue percosse e i furti in casa. Ma che ora, dopo aver visto il trattamento inumano a cui viene sottoposto, vorrebbe tanto fare un passo indietro.
«Dopo aver tentato la strada dei Servizi per le tossicodipendenze(Sert) e delle Case famiglia», racconta Maddalena con le lacrime agli occhi, «non sapevo cosa fare, avevo bisogno di salvarlo. Ho cercato in tutti i modi di fargli evitare il carcere, ma alla fine sono stata costretta a denunciarlo. Enrico entrava in casa e distruggeva tutto, cercava soldi in continuazione. Mi ha picchiato molte volte e una volta mi ha lesionato la milza. Annarita, la sorella piccola, si nascondeva in un angolo con le mani davanti agli occhi per non vedere».
NIENTE SPAZI PER LA SOCIALITÀ. Ma Maddalena, per suo figlio, sperava in una riabilitazione umana. «Perché non insegnano ai ragazzi un lavoro? Perché non li fanno studiare?», domanda con gli occhi sgranati. Divisa in 12 reparti, la casa circondariale di Napoli, costruita nel 1908, non ha al suo interno spazi di socialità: i passeggi sono quadrati di cemento senza panche o copertura. In carcere sono 930 i detenuti con sentenze passate in giudicato, 325 sono stranieri, mentre il 30% della popolazione detenuta è tossicodipendente.
«La situazione è drammatica. In cella si arriva fino a 10-12 detenuti e con letti a castello fino a tre livelli», spiega a Lettera43.it Mario Barone presidente di Antigone in Campania, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che funge da osservatorio sulle condizioni delle carceri italiane, «e con l’arrivo della calura estiva le cose peggiorano. D’estate, il sole entra nelle celle in maniera così prepotente che sono costretti a refrigerare la stanza con magliette bagnate. La contiguità fisica di fornelli e servizi igienici e il fatto che nella maggior parte dei padiglioni non c’è la doccia in cella fanno il resto».

Nel 2012, ci sono stati 56 suicici nelle carceri italiane

In fila per ore i parenti dei carcerati, per un totale di 102 mila colloqui annui, aspettano, a volte fin dalla sera prima della visita, di incontrare i loro cari: sono preoccupati per la loro salute. Nelle ultime settimane, infatti, ci sono stati tre decessi che ancora devono essere accertati e che sollevano interrogativi sulle prestazioni sanitarie del carcere. «Mentre Roma bruciava, Nerone suonava. E questo è quello che succede oggi nelle nostre strutture», spiega a Lettera43.it il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) Donato Capece, «in Italia su 66 mila detenuti ci sono solo 43 mila posti letto detentivi. Le condizioni sono drammatiche, il tasso di suicidi è molto alto. Nel 2012, ce ne sono stati 56».
CONDIZIONI DRAMMATICHE. Fuori e dentro alla struttura si uniscono i destini di madri in pena, alcune costrette per necessità a denunciare i figli, nella speranza che il carcere potesse rieducarli. Ma è solo un’illusione. A Poggioreale non esistono lavori extramurari o interni che facilitino il reinserimento esterno, né è attivo alcun corso di formazione professionale. Una volta usciti dal carcere, è quasi impossibile riuscire a trovare un’occupazione e rifarsi una vita.
L’INCUBO DELLA CELLA ZERO. Pietro Iorio, presidente ex detenuti di Napoli-Poggioreale, ha parlato alcuni mesi fa di una ‘cella zero’, la stessa di cui ha parlato anche Maddalena: una stanza in cui i carcerati verrebbero picchiati quando fanno qualcosa che non va. Sul pavimento ci sarebbe un materasso per attutirne i colpi.
Eppure, dai piani alti qualcuno non crede a queste storie, come Capece. «Sono solo leggende metropolitane. Noi siamo dalla parte dello Stato e della legge». Affermazioni alle quali il presidente di Antigone risponde così: «Se pendesse nei miei confronti un’ordine di esecuzione di una condanna definitiva, l’ultimo posto in cui mi andrei a costituire è la casa circondariale di Napoli-Poggioreale».
Più provocatoria Maddalena: «Capece dovrebbe passare lì le ferie per capire cosa si prova. O vedere dove hanno messo mio figlio, in cella zero. Enrico era nudo, a fare i suoi bisogni nella stess stanza dove dormiva. Massacrato dalla penitenziaria. Avevo paura che facesse la fine di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Se uno ha sbagliato deve pagare, ma non con la vita. È giusto che gli venga tolta la libertà, ma non la dignità. Non siamo animali».

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Pestaggi a San Sebastiano, interviene l’Europa

SASSARI. «San Sebastiano, una Guantanamo ante litteram». Dove nel 2000 la violenza di agenti della Penitenziaria contro una trentina di detenuti – in quella che i giudici hanno ribattezzato «galleria degli orrori» – «fu un vero e proprio atto di tortura».

omicidioSono passati tredici anni da quegli abusi, otto trascorsi in un’aula di Tribunale per arrivare a una sentenza di prescrizione. Ma solo ora, per uno dei reclusi che subì umiliazioni da chi doveva prendersene cura, botte con pezze bagnate, manganellate sui genitali, ora forse si apre lo spiraglio della giustizia europea. La Corte di Strasburgo ha avviato l’istruttoria per l’allora detenuto V.S., originario del Sassarese, che si è rivolto ai magistrati garanti della Convenzione sui diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3, che vieta la tortura e «pene o trattamenti inumani o degradanti». Il ragionamento del suo avvocato, Giuseppe Onorato, è semplice. V.S., come tantissimi altri “ospiti” del carcere sassarese, in quel 3 aprile 2000 era affidato all’amministrazione penitenziaria. Eppure, è la stessa sentenza di primo grado (2009) a riconoscere come «la Repubblica italiana non sia stata in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione». Dunque, chiede alla Corte di condannare il nostro Paese, così come l’8 gennaio Strasburgo ha fatto con la sentenza che ci bacchetta per la stessa violazione – trattamento inumano e degradante – ma per il sovraffollamento nelle galere di Stato. Un verdetto che ha riaperto il dibattito sulla necessità di codificare il reato di tortura, che avrebbe potuto evitare, ad esempio, la prescrizione delle lesioni inflitte dagli agenti di polizia alla Diaz, durante il G8, in qualche modo simili a quelle di San Sebastiano. Perché quello di tortura sarebbe un reato che il tempo non può scalfire. V.S. non ha ottenuto alcun risarcimento per essere passato attraverso la «galleria degli orrori», caso che sollevò un’onda di indignazione in tutta Italia. Anche per la freddezza con la quale sarebbe stata portata avanti. Quella esplosa tra le mura dell’istituto sembrò violenza su commissione dell’allora amministrazione penitenziaria regionale, con agenti chiamati da altri penitenziari. Ma la verità processuale sconfessa in parte questa ricostruzione. Dopo le botte molti detenuti vennero trasferiti per evitare contatti con i parenti e denunce. Forse proprio per l’unicità del caso, a tre anni dal ricorso, la Camera – così si chiama il collegio composto da 7 giudici – sta valutando il merito delle richieste e ha informato la parte convenuta, cioè il Governo italiano. Lo ha comunicato all’avvocato del ricorrente con una lettera datata 8 gennaio.

Alla rappresentanza nostrana a Strasburgo si impone di rispondere a sei quesiti entro il prossimo 30 aprile, poi potrebbe essere fissata la data di udienza e sentenza. All’Italia si chiede, ad esempio, se chi è stato processato per quei fatti sia poi stato oggetto di procedimenti disciplinari e quali sanzioni, eventualmente, abbia subito. E poi se il ricorrente abbia la possibilità di ottenere una “compensazione” economica in altri modi; se l’inchiesta penale, alla luce della tutela processuale, abbia soddisfatto i criteri della Convenzione, oppure se il detenuto non abbia già ottenuto un ristoro per quei fatti. Ma non potrebbe mai averlo avuto, proprio perché non si può chiedere il risarcimento per un reato che non esiste, la tortura.

All’inaugurazione dell’Anno giudiziario il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha ricordato come sull’introduzione di questa fattispecie nel nostro ordinamento, l’Italia sia «in notevole ritardo».

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