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Aggiornamenti dal Cie di Torino

diffondiamo

1459_Foto3Il Cie di corso Brunelleschi continua ad essere in buona parte inutilizzabile. Nonostante le notizie diffuse dai giornali, le camerate andate a fuoco durante le rivolte del 22 e 24 febbraio sono tutt’ora inagibili. Due dei cinque arrestati sono stati scarcerati: uno è stato liberato con un foglio di via dall’Italia, l’altro è stato riportato al Cie ed espulso immediatamente.

I reclusi sono ad oggi poco più di 60 (su 180 posti teoricamente disponibili). Dai giorni delle rivolte almeno 20 sono stati espulsi, 6 o 7 rilasciati con un foglio di via e due dovrebbero essere stati trasferiti a Trapani. In nessuna area, negli ultimi 10 giorni, ci sono stati nuovi ingressi.

Da tutte le aree comunicano che da un paio di giorni viene distribuito un riso che “puzza”. Tutti sono sicuri che il pasto sia  condito con una forte dose di tranquillanti e qualcuno ha pensato bene di restituirlo dritto sulla testa dei militari che lo consegnavano…

Ieri un recluso ha trascorso la notte sul tetto dell’area viola per la paura di essere espulso. Qualche giorno fa aveva ingoiato un grosso numero di pile e lamette, ma, nonostante il parere contrario dei medici, era stato riportato al Cie. Sembra che abbia cercato di impiccarsi sul tetto. Questa mattina è stato riportato in ospedale apparentemente in gravi condizioni per gli oggetti ingeriti.

macerie @ Marzo 6, 2013


La protesta al Cie: «Due persone con le labbra cucite»

Labbra-cuciteBOLOGNA – «Anche oggi al Cie di Bologna ci sono due persone, un uomo e una donna, con le labbra cucite per protesta, contro la propria situazione e contro le condizioni della struttura». Lo rileva la Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, avvocato Desi Bruno, precisando di aver saputo ieri di queste due persone e di aver accertato che «ancora oggi sono nelle stesse condizioni». Questa protesta autolesionista, cominciata anni fa in carcere, è praticata anche nei Centri di identificazione ed espulsione per immigrati (Cie). La Garante spiega che l’uomo «proviene dal carcere e si chiede come mai si trovi al Cie. La donna l’ha fatto perchè non riesce a comunicare: anche ieri mancava il mediatore arabo»

Fonte


CIE Torino, tra espulsioni, tensioni, rivolte e fiamme

diffondiamo da Macerie

la_liberta_brucia_webUn’altra giornata movimentata al Cie di Torino. Nel primo pomeriggio un recluso sale sul tetto dell’area viola per evitare l’espulsione, e un gruppo di solidali si raduna fuori le mura per salutarlo e sostenerlo con slogan e petardoni di un certo calibro. Poco distante, un fotoreporter tradito dal flash della fotocamera viene raggiunto, circondato e maltrattato: riesce a mettere in salvo la macchina fotografica ma perde gli occhiali. In seguito si rivelerà essere un collaboratore dei peggiori quotidiani locali,forse l’autore di queste foto non esattamente da premio Pulitzer.

Quando arriva la conferma che l’espulsione del recluso sul tetto è rimandata, i manifestanti si allontanano, ma una dozzina viene bloccata poco distante da diverse volanti della polizia. Ascolta uno dei fermati al telefono con Radio Blackout 105.250, oppure scarica il file mp3.

I fermati vengono portati nel commissariato di via Tirreno, e trattenuti per diverse ore.  Verranno rilasciati in serata, tutti tranne una compagna francese: stando alle minacce della polizia, verrà accompagnata alla frontiera con un decreto di espulsione dall’Italia.

macerie @ Febbraio 28, 2013

Secondo le edizioni online di alcuni quotidiani locali, nella notte tra giovedì e venerdì ha preso fuoco una cabina elettrica dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino in corso Verona. Stando ai calcoli dei ragionieri della Questura, i danni dell’incendio ammonterebbero a 70mila euro. Per poter funzionare, gli uffici sarebbero stati collegati a un generatore di emergenza, gentilmente concesso dall’Iren. L’ipotesi dei giornali è che non si sia trattato di un corto-circuito, o di un fulmine a ciel sereno, ma di una azione legata alle recenti rivolte nel Cie di Torino, e alla minaccia di espellere una compagna francese fermata il giorno precedente dopo una manifestazione sotto al Cie. La compagna fermata, come già annunciato da qualche agenzia di stampa, è già stata deportata in Francia nel pomeriggio di oggi: sta bene e siamo sicuri che il suo morale sia alto.

Rispetto alla giornata di ieri, inoltre, c’è da aggiungere la notizia, sempre riportata da alcuni giornali, che mentre una dozzina di compagni era trattenuta nel commissariato di via Tirreno «un gruppo di anarchici ha rovesciato alcuni cassonetti in corso Regina Margherita, via Fiochetto e via Cigna e poi svuotato degli estintori sull’asfalto.»

macerie @ Marzo 1, 2013


Torino. Striscione a casa Baldacci

BALDACCISabato 23 febbraio. Nel primo pomeriggio un gruppo di antirazzisti ha fatto visita alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile per la Croce Rossa militare del CIE di Torino. Davanti alla villetta di via Zandonai 8 a Chieri è stato steso uno striscione con la scritta. “Baldacci ti ricordi di Fatih? Croce Rossa assassina!”.
La foto che correda il testo è stata scattata da un reporter di passaggio.

Fatih era un immigrato tunisino senza documenti rinchiuso nel CIE (allora CPT) di Torino. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. Per tutta la notte i suoi compagni di detenzione chiesero inutilmente aiuto.
Dichiareranno ad un giornalista “gridavamo come cani al canile, senza che nessuno ci ascoltasse”.
La mattina dopo Fatih era morto.
Non venne eseguita nessuna autopsia.
Non sappiamo di cosa sia morto Fatih. Sappiamo però che in una struttura detentiva gestita dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito, nessuno gli ha garantito alcuna cura.
Due giorni dopo il colonnello e medico Antonio Baldacci dichiarerà “gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa”.
Parole che non meritano commento, perché ricordano sin troppo bene quelle degli aguzzini di ogni dove.

Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti si recò alla casa di Baldacci per un “cacerolazo”. Si batterono le pentole davanti alla sua casa, si distribuirono volantini, si appesero striscioni.
Una normale protesta di persone indignate per una morte senza senso.
Oggi quella protesta di fronte alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci è entrata nel fascicolo del processo contro 67 antirazzisti, che lottarono e lottano contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade.

Nel CIE di Torino le lotte, le fughe, la gente che si taglia per sfuggire all’espulsione sono pane quotidiano, come quotidiana è la resistenza di chi crede che, nell’Italia dei CIE, delle deportazioni, dei morti in mare, ribellarsi sia un’urgenza che ci riguarda tutti.

Per questa ragione non accetteremo che le lotte di quegli anni vengano rinchiuse in un aula di tribunale: porteremo le nostre ragioni nelle strade di questa città, porteremo il CIE nel salotto di Torino.

La prima tranche del processo va in scena mercoledì 27 febbraio ore 9 in aula 46 del tribunale di Torino.

Sabato 2 marzo “Il CIE nel salotto della città” presidio itinerante per il centro cittadino. Appuntamento alle 15 in piazza Castello

Antirazzisti contro la repressione
Ti ricordi di Fatih?

anarresinfo.noblogs.org


I CIE sono dei Lager dei nostri giorni

Corrispondenza con un compagno recluso nel CIE di Bari e li’ deportato dopo le rivolte al CIE di Ponte Galeria a Roma


La Libertà brucia

Da Macerie

cordatesaGrossa rivolta al Cie di corso Brunelleschi a Torino. Tutto comincia verso le 9 di sera, quando alcuni reclusi tentano di scappare scavalcando le alte grate, ma vengono ripresi dalla polizia appena prima dell’ultimo muro. Immediatamente scoppia la rabbia in tutto il Centro: alcuni reclusi salgono sui tetti e altri incendiano le camerate di alcune sezioni. La reazione della polizia è durissima, con un massiccio uso di gas lacrimogeni che rendono l’aria irrespirabile anche oltre le mura. Un presidio di solidarietà viene caricato a più riprese lungo via Monginevro, e i celerini rimediano qualche bottiglia e un paio di bombe carta. Dentro, i reclusi raccontano di persone picchiate ed altre ammanettate, forse già pronte per essere arrestati e trasferiti al carcere delle Vallette. Mentre siamo in attesa di ulteriori notizie, vi ricordiamo ilpresidio indetto per sabato pomeriggio alle ore 16 in corso Brunelleschi.

macerie @ Febbraio 23, 2013

Dopo le fiamme: solidarietà e vendetta

Un partecipato presidio ha salutato sabato pomeriggio i prigionieri del Cie di Torino,reduci da una notte di rivolta. La solidarietà dei manifestanti si è fatta sentire con musica, interventi al microfono in italiano e in arabo, battiture sui pali della luce, lanci di palline da tennis contenenti messaggi di solidarietà e i tamburi della Samba Band. La polizia, nonostante fosse presente in forze, non è tuttavia riuscita ad impedire che il presidio si trasformasse in un corteo attorno le mura del centro, fino davanti all’ingresso del Centro e poi di nuovo indietro, bloccando il traffico su via Monginevro e via Mazzarello.

Una volta sciolto il presidio, arriva la notizia che la polizia ha arrestato un recluso dell’area viola, colpevole di esser salito sul tetto per salutare i manifestanti. Assieme ai quattro arresti di ieri, con quest’ultimo sale quindi a 5 il numero di reclusi trasferiti nel carcere delle Vallette.

macerie @ Febbraio 23, 2013

Quel che mancava

Verso le 8 di domenica sera i reclusi dell’area gialla completano il lavoro cominciato nei giorni scorsi dai prigionieri del Cie di Torino, incendiando tutta la sezione. L’intervento della polizia con gli idranti è servito solo a far cessare il fumo, perché le fiamme avevano già bruciato tutto ciò che poteva bruciare. Ora i 35 prigionieri dell’area gialla, alcuni dei quali appena trasferiti lì dalle altre sezioni già bruciate, si trovano sotto la pioggia nel cortile della sezione, perché dentro non è possibile stare.

macerie @ Febbraio 24, 2013

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Dentro al Cie di Bologna tra freddo e sporcizia

CIE-BoCarta igienica che scarseggia, centellinata. Ragazze e donne costrette a pietire gli assorbenti. Porte divelte e vetri rotti non sostituiti. Una lavatrice sola, di seconda mano, per tutti. Una struttura logora e insana, come è stato ripetutamente denunciato dalle garanti dei detenuti, dall’onorevole Pd Sandra Zampa, da associazioni e Ausl e, di recente, anche dal sindaco Virginio Merola. Il cambio di gestione al Cie, l’ex caserma di via Mattei in cui vengono rinchiusi gli stranieri non regolari da identificare e espellere, si sta facendo sentire.
Il consorzio siracusano l’Oasi si è aggiudicato l’appalto al massimo ribasso bandito da Viminale e Prefettura, accettando un rimborso quotidiano pro-capire di 28,5 euro, contro i quasi 70 del passato. Con una media di 50-55 presenze – lo hanno calcolato operatori e patronati – le entrate non bastano nemmeno a coprire le buste paga. La Prefettura è stata costretta ad anticipare i contanti per saldare gli stipendi di dicembre.
Non ci sono attività ricreative. sebbene siano previste dal capitolato, così come la fornitura di biancheria e abiti, i corsi di italiano, la prevenzione dei conflitti. A breve verrà ridotto l’orario del medico interno. Da quello che si vede, girando per le stanze, si risparmia su tutto.
La stuttura, con una capienza complessiva di 95 posti, ha un’ala del maschile inagibile, distrutta durante le azioni di rivolta. Ma anche negli spazi utilizzati, 53 letti occupati a ieri, la situazione è pesante.
Nella struttura, in una coabitazione forzata, si mescolano le persone e le storie più disparate, in una promiscuità che pesa e che non fa distinzioni.  I trattenuti, chiamati “ospiti”, denunciano condizioni di vita insopportabili e non umane

Fonte


Presidio al CIE di Torino

Da Maceriepresidio_cie_16022013_web


Fuga e rivolta al Cie di Gradisca

Magrebini minacciano con spranghe i vigilanti e scappano dal Cie di Gradisca

Altri ospiti hanno incendiato un cumulo di materassi nel tentativo di danneggiare tutta la struttura. Situazione sempre più grave e ormai insostenibile nel Centro

immigrati_bariTentata fuga e rivolta al Cie di Gradisca. Ennesima conferma della situazione infernale che si vive nel centro immigrati di Gradisca.

Primo episodio. Secondo fonti della polizia una trentina di trattenuti servendosi delle chiavi, hanno tentato la fuga uscendo dall’ingresso principale e poi dividendosi in tutte le direzioni.

Per cinque magrebini il tentativo è riuscito dopo avere affrontato il personale di vigilanza armati di spranghe.

Secondo episodio. Un gruppo di immigrati ha dato fuoco ai materassi all’interno delle camere nel tentativo, non riuscito, di incendiare la struttura.

La situazione diventa ogni giorno più esplosiva e mette a repentaglio l’incolumità del personale che gestisce il centro-prigione. Anche le forze dell’ordine sono sotto pressione. Così il pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia costantemente invaso da immigrati rinchiusi al Cie e che si producono in atti di autolesionismo nel tentativo di scappare.

Fonte


Rivolta al Cie di Ponte Galeria Appiccato rogo sul tetto

Un gruppo di immigrati che devono essere espulsi ha dato vita alla protesta bruciando materassi e suppelletili

cieRivolta al centro di accoglienza di Ponte Galeria. Un gruppo di immigrati nigeriani, in attesa di espulsione, è salito sui tetti appiccando anche un incendio e dando alle fiamme materassi e suppellettili.

I vigili del fuoco sono intervenuti con tre squadre per spegnere l’incendio. La questura della capitale ha inviato alcuni contingenti del reparto mobile. Sul posto anche il commissariato di Fiumicino. Ci sarebbero due feriti: una funzionaria di polizia e un finanziere in servizio nel Cie

Fonte Repubblica

ROMA – Rivolta al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma, che ospita gli stranieri in attesa di essere rimpatriati. Alcuni immigrati sono saliti sul tetto, altri hanno dato fuoco a coperte, materassi e vestiti. L’incendio ha sprigionato una lunga colonna di fumo nero rendendo inagibile una parte della struttura. La rivolta non è che l’ultimo degli episodi di scontri interni al Cie romano, lo stesso dove nel marzo 2012 si tenne un lungo sciopero della fame per protesta contro il suicidio di un ex recluso catturato e picchiato dopo una fuga dal centro.

IMMIGRATI ASSERRAGLIATI – Sono intervenuti i vigili del fuoco, che stanno ancora tentando di farsi strada nel Centro dove gli immigrati si sarebbero asserragliati. Sul posto anche alcuni contingenti del reparto Mobile della Questura e del commissariato di Fiumicino. Per ora non risultano feriti ma la situazione è tesa e i dirigenti di polizia stanno tentando una mediazione con gli ospiti rivoltosi.

«SITUAZIONE PRECARIA» – Il Cie di Ponte Galeria, situato tra Fiumicino e la Magliana, ospita centinaia di immigrati irregolari in attesa di esplusione «in precarie condizioni di vita – spiega il Garante dei Detenuti, Angiolo Marroni -. Una situazione estremamente complessa e precaria dove basta poco per scatenare la miccia della protesta e della contestazione». Il 14 settembre del 2011 alcuni gruppi di ospiti del Cie romano furono protagonisti di una serie di fughe : evasioni di massa che portarono ad una modifica degli apparati di sicurezza del centro.

Fonte Roma online


Torino, tenta fuga dal Cie bevendo lo shampoo: arrestato

fugaUn ragazzo tunisino di 24 anni per scappare dalla polizia del Cie (centro identificazione ed espulsione) di corso Brunelleschi ha tentato un doppio tentativo di fuga, ma è stato bloccato.
Aymen, questo il nome del ragazzo, ha prima ingerito dello shampoo convinto di poter scappare durante la degenza in ospedale, ma una volta arrivato all’ospedale Martini il suo tentativo non è andato a buon fine, la polizia lo ha subito bloccato. Infine, il giovane ha rifiutato le cure mediche e durante il trasporto in ambulanza verso il centro ha tentato nuovamente di scappare sfondando il vetro posteriore del mezzo e colpendo con calci e pugni gli agenti polizia.

Il tunisino è stato quindi arrestato per danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale.

Solidarietà ad Aymen!


Francia – Da una prigione all’altra

CIEIl 16 dicembre 2012, cinque persone cercano di evadere dal CIE di Palaiseau [una ventina di km a sud di Parigi, NdT]. In quattro ce la fanno, ma la quinta persona, Ibrahim, resta nelle mani della polizia, che lo pesta. Viene arrestato e due giorni dopo passa in tribunale, accusato di aver tenuto fermo uno sbirro, al fine di rubargli un badge magnetico che ha permesso agli altri di evadere. Viene poi messo in detenzione preventiva a Fleury-Mérogis [prigione che si trova nel sud della regione di Parigi – è la più grande d’Europa, NdT], fino al 18 gennaio 2013, quando viene condannato a due anni di prigione e a versare 1200 euro ai due sbirri che lo hanno denunciato per lesioni. Visto che l’evasione da un CIE non è reato, sbirri e giudici cercano di appioppargli altri capi d’imputazione.

Ibrahim si trova ora detenuto a Fleury-Mérogis. Non ha fatto appello contro la sua condanna. Quando si è isolato, senza avvocato, straniero e non si parla francese, è quasi impossibile capire che si hanno solo dieci giorni per fare appello. Se si è poveri e clandestini, si viene schiacciati ancor di più dalla giustizia.

Da una prigione all’altra, dalla prigione per stranieri alla casa di reclusione, la strada è tracciata,  in un senso come nell’altro. Il potere prenderà sempre a pretesto le rivolte, i tentativi di evasione, i rifiuti di imbarcarsi [sugli aerei, per le espulsioni dei clandestini, NdT], per rinchiudere sempre di più i recalcitranti. E, all’inverso, quando si esce di prigione e si è clandestini, nella maggior parte dei casi quello che ci attende sono il CIE e l’espulsione.

Quando si è rinchiusi in un CIE, quando tutti i ricorsi legali sono stati inutili e l’espulsione è imminente, le sole alternative sono l’evasione e la rivolta. Ecco perché casi come questo si ripetono: qualche giorno prima dell’evasione di Palaiseau, tre persone sono fuggite dal CIE di Vincennes, e speriamo che siano sempre liberi. A Marsiglia, nel marzo 2011, alcuni detenuti hanno incendiato la prigione per stranieri del Canet. Da allora, due persone sono in libertà vigilata in attesa del processo, dopo essere passate per la casella prigione preventiva.

Nel caso di Ibrahim come in quello degli accusati dell’incendio di Marsiglia, è importante essere solidali con quelle e quelli che si rivoltano per la propria libertà, siano essi colpevoli od innocenti. Perché finchè ci saranno prigioni, documenti e frontiere, la libertà non resterà che un sogno.

Fuoco a tutte le prigioni!
Libertà per tutte e tutti!


Per non lasciare Ibrahim isolato di fronte alla giustizia, si può scrivergli:

Ibrahim El Louar
écrou n°399815
Bâtiment D4 – MAH de Fleury-Mérogis
7 avenue des Peupliers
91705 Sainte-Geneviève-des-Bois

Gli vengono inviati dei soldi. Se volete contribuire, potete mandare del denaro a Kaliméro – Cassa di solidarietà con gli accusati della guerra sociale in corso.
Se volete mandargli dei vestiti o pacchi, o per ogni contatto, mail: evasionpalaiseau@riseup.net

Informa-azione  da non-fides.fr

 


Immigrazione: inchiesta “Betwixt and Between Turin’s Cie”, incertezza e rabbia oltre le sbarre

immigratiAssenza di comunicazione con i familiari, isolamento, casi di autolesionismo sempre più frequenti, minori separati dalle famiglie. Sono gli aspetti dalla Ricerca “Betwixt and Between: Turin’s Cie”, sui diritti umani nel Cie di Torino e sulla detenzione amministrativa degli immigrati in Italia, a cura dell’International University College di Torino e dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione.
Comunicazioni carenti con i familiari, ritardi nell’assistenza sanitaria, isolamento, casi di autolesionismo sempre più numerosi, separazione dai minori. Sono questi alcuni degli aspetti “misurati” dalla ricerca “Betwixt and Between: Turin’s Cie”, un’indagine sui diritti umani nel Cie di Torino e sulla detenzione amministrativa degli immigrati in Italia, curato da sei ricercatori tra cui Emanuela Roman, Carla Landri e Margherita Mini sotto la supervisione del professor Ulrich Stege dell’International University College di Torino e l’avvocato Maurizio Veglio, membro dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione).
“Vorrei che questo centro scomparisse”. Attraverso interviste dirette ai trattenuti, le ricercatrici hanno potuto stilare un quadro zeppo di difficoltà in cui sono costretti a vivere i trattenuti del Centro torinese. “Vorrei che questo Centro scomparisse” è il commento di uno degli intervistati per descrivere questa struttura aperta nel 1998 per ospitare al suo interno 210 persone. Oggi ce ne sono 131 a causa di alcune zone danneggiate e perciò impraticabili. Persone divise su 7 aree senza criterio, mancanza questa che a volte crea gerarchie pericolose.
Una struttura, gestita dalla Croce Rossa, che rimpatria il 52,4% dei suoi “ospiti” dopo una permanenza media di 40 giorni e con un costo pro capite medio di 45 euro al giorno. Un investimento da 11 milioni di euro nel giro di tre anni a cui vanno aggiunte le spese per le forze di sicurezza, “considerata una dei migliori Centri di Identificazione ed Espulsione d’Italia” come ha dichiarato Rosanna Lavezzaro, Dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino, durante la presentazione pubblica del rapporto. Ma un Cie anche carico di contraddizioni.
Nessun legame con l’esterno. L’aspetto che viene maggiormente confermato dalle parole dei reclusi è l’estrema difficoltà che si incontra nel tentativo di portare avanti i legami con l’esterno, sia con le famiglie che con i legali che li difendono. Una parte significativa dei trattenuti ha una famiglia che vive in Italia e alcuni di loro si sono stabiliti qui in via permanente.
Sono finiti nel Cie per varie ragioni: per ingresso irregolare, per non aver richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno dopo la scadenza, per la perdita del lavoro o per aver commesso un reato. Nel giorno di visita vengono tutti ammassati in una sola stanza che può ospitare fino a un massimo di 250 persone sia che si tratti di incontri privati con i propri familiari sia che si parli della propria libertà con un legale. Il parallelo con il carcere è scontato: infatti molti degli utenti intervistati hanno assicurato che il carcere è molto meglio perché ha regole più precise.
Nessuna sa che fine farà. Un secondo elemento importante che condiziona la vita dei trattenuti è l’indeterminatezza dei tempi di permanenza: i trattenuti non conoscono il proprio futuro e questo non fa altro che alimentare rabbia, frustrazione e senso di isolamento. “La prima parola che si impara qui dentro è dopo” afferma in un’intervista uno dei trattenuti. Non migliori sono le relazioni con l’esterno: per ogni cosa gli immigrati possono solo rivolgersi alle forze dell’ordine (che in carcere sono di 4 tipi diversi: Esercito, Gdf, Polizia e Carabinieri).
Aumentano i casi di autolesionismo. Il punto di vista sanitario è preoccupante. Aumentano i casi di autolesionismo in quanto nel trattenuto nasce sempre più spesso l’idea che violare il proprio corpo possa accelerare il trasferimento dal Cie ad altra struttura. Aumenta la richiesta di somministrazione di psicofarmaci ma parallelamente non c’è una sola figura di psichiatra all’interno della struttura. Nel caso di tentato suicidio, malori o urgenze, le testimonianze dei trattenuti confermano i ritardi nell’intervento da parte dell’assistenza sanitaria causati dalla burocrazia comunicativa tra l’interno e l’esterno della struttura.
Un anno terribile per i Cie. “I Cie esistono perché la direttiva europea in materia prevede un’immigrazione condizionata” riprende Lavezzaro “nel senso che vengano garantiti gli spazi di sopravvivenza e quindi migliorare gli standard di vita, non peggiorarli. Ciò nonostante il 2011 è stato un anno terribile per il Cie: 15 rivolte e 28 arresti. Nel 2012 è andata decisamente meglio: 5 rivolte e solo 5 arresti. Da sottolineare resta la scarsa collaborazione con i consolati: talvolta le ambasciate rispondono a logiche politiche che ci sfuggono”.
Cinque anni prima dell’identificazione. L’altro aspetto indagato dal rapporto di ricerca è quello della detenzione amministrativa: “In Italia – dichiara una delle ricercatrici – vi sono casi di persone che hanno passato 5 anni nelle nostre carceri senza che sia stato avviato il processo di identificazione per poi essere trasferiti nei Centri appositi e ricominciare l’intero iter da capo. Dal 2007 una proposta di legge cerca di anticipare l’identificazione in carcere ma ad oggi nessuno l’ha esaminata come si sarebbe dovuto fare”.
I problemi, secondo la ricerca, nel campo giudiziario sono molti. Quelli su cui prestare maggiore attenzione sono elencati nel rapporto: “i trattenuti non partecipano alle udienze di proroga del trattenimento, nonostante le numerose pronunce della Corte di Cassazione in merito”; “la normativa italiana in materia di patrocinio a spese dello Stato non garantisce consulenze esterne di medici o psicologi dove queste sono necessarie”; “manca una piena assistenza linguistica nel corso di trattenimento, circostanza che ostacola l’accesso alla consulenza legale” e “il personale militare non riceve una formazione giuridica e socio – culturale specifica per lavorare a contatto con i trattenuti”.
La gestione del flusso è fallita. “Il sistema di gestione del flusso è fallito: lo dimostra il fatto che il periodo di trattenimento è passato da 30 giorni a 60, poi è diventato sei mesi, un anno e oggi è stato prolungato un anno e mezzo” sono le parole dell’avvocato Lorenzo Trucco, Presidente dell’Asgi. “Non v’è un codice chiaro: si tratta di privare della libertà persone umane. Dal punto di vista penalistico, un anno e mezzo di detenzione significa bruciarsi la condizionale e farsi una discreta carriera delinquenziale. Perché i trattenuti dei Cie devono essere trattati peggio dei carcerati? E come se non bastasse, la loro pratica circa la convalida del trattenimento è affidata al Giudice di Pace, che nasce con funzioni completamente diverse: da sanzioni pecuniarie il Giudice si ritrova a dover decidere della libertà di un essere umano”.

La Repubblica, 11 febbraio 2013


Garante dei diritti dei detenuti: il Cie di Bologna va chiuso

“E’ questo il momento opportuno per chiudere definitivamente una struttura ampiamente sottoutilizzata da tempo”. Sono chiare le parole di Desi Bruno, Garante regionale dei diritti dei detenuti, rispetto al Cie di via Mattei, a Bologna, le cui condizioni igienico-strutturali sono state definite dal Garante “inaccettabili”.

libero-dalle-cateneDurante le visite effettuate nella struttura detentiva, Bruno ha riscontrato che “le persone trattenute vivono in una situazione degradante, con rischio per la loro salute e per quella degli operatori presenti”.

Una situazione che ha portato lo stesso Garante a chiedere una visita ispettiva dell’Asl, lamentando che l’Azienda sanitaria non avesse mai effettuato alcun controllo sulla struttura, come invece succede per il carcere.

La visita, effettuata il 14 gennaio scorso, non ha potuto fare altro che confermare le parole di Bruno: gli ispettori hanno segnalato “la richiesta di psicofarmaci da parte di oltre un terzo dei trattenuti” per proseguire terapie che avevano iniziato nei periodi di carcerazione in penitenziario, e “quattro casi di sospetta scabbia”.

L’Asl segnala inoltre che “la struttura necessita di significativi e urgenti interventi di manutenzione”, oltre che di “una pulizia straordinaria in tutto l’edificio”.

“Di fronte alla mancanza di beni di prima necessità e di interventi strutturali di natura idraulica, muraria, elettrica e igienico-sanitaria, ritengo che la struttura sia inidonea tanto per i ristretti quanto per gli operatori”, ha dichiarato Bruno.

In seguito alla visita, l’Asl ha avanzato precise richieste alla direzione del Cie: la consegna regolare di indumenti, biancheria e prodotti per l’igiene; la definizione di procedure per la corretta gestione dei nuovi ingressi; riunioni periodiche di coordinamento; un registro di infortuni per un programma di prevenzione degli stessi e l’attivazione di attività ludico-ricreative degli ospiti.

Cronache di ordinario razzismo

Fonte


Nuova rivolta al Cie: i clandestini protestano salendo sui tetti

Torino 31/2/2013 – Urla, confusione e il timore che tutto sfociasse in una nuova rivolta. È trascorso così il pomeriggio di ieri, in corso Brunelleschi; per i residenti, ha avuto inizio il solito spettacolo: i clandestini del Cie hanno protestato animatamente, costringendo l’arrivo delle volanti della polizia, che hanno sorvegliato l’ingresso all’angolo con via Monginevro.

cptAlcuni immigrati del settore maschile hanno inscenato una nuova protesta poco dopo le 15.00, gridando a gran voce e salendo sui tetti delle strutture loro assegnate. Il motivo? Quella di ieri sarebbe, nuovamente, una manifestazione per il riscaldamento delle strutture, come già successo altre volte: per tutto il pomeriggio gli extracomunitari hanno mantenuto, comunque, in stato di allerta la struttura.

Alcuni di loro, saliti sulla sommità delle casette, hanno iniziato a saltellare animatamente sul tetto, con l’intento di danneggiare la struttura e procurare il maggior rumore possibile; dal basso, altre persone hanno proseguito con la manifestazione rumorosa, percuotendo pali e cancellate della struttura con oggetti metallici. La protesta, alla fine, si è conclusa senza particolare rilevanza: al tramonto, era già tornata la calma.

Ancora una volta, dunque, il caos e le urla dei clandestini hanno accompagnato il pomeriggio dei residenti di corso Brunelleschi, i quali hanno temuto una nuova fuga: non è passato un mese dall’ultimo tentativo di evasione dal centro per l’identificazione e l’espulsione, in piena notte, a inizio gennaio, durante l’ultimo attacco anarchico.

Fonte: Torinotoday

 

Resistere alle espulsioni

Diffondiamo da macerie

rabbia (1)Jamal e’ da un mese prigioniero nel Cie di corso Brunelleschi a Torino. Non ha i documenti in regola, ma a Torino ha una moglie incinta di 8 mesi, tant’e’ che il suo avvocato aveva immediatamente presentato ricorso contro l’espulsione, e Jamal era in attesa fiducioso di essere liberato. Ma all’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino sono furbi, e ieri pomeriggio chiamano Jamal fuori dalla sezione per “notificargli qualcosa”. Negli uffici del Cie, Jamal capisce che quello che devono notificargli non e’ ne’ la liberazione, ne’ la proroga della reclusione, ma un biglietto di sola andata per il Marocco. Solo contro una decina di poliziotti, isolato dai suoi compagni di reclusione, Jamal capisce che e’ il momento di lottare: chiama la moglie, che lancia l’allarme all’avvocato e ad alcuni solidali.

La notizia rimbalza su Radio Blackout 105.250 Fm, e nel giro di poco si forma un presidio di fronte all’ingresso principale su via Mazzarello, e con slogan e battiture si attira l’attenzione dei passanti e dei reclusi, alcuni dei quali salgono sui tetti. L’avvocato manda un fax urgente in Questura per evitare l’espulsione, e attende la risposta. Poco dopo arriva a difendere il Centro arriva la celere, e arriva anche la notizia che Jamal per evitare l’espulsione si e’ tagliato su tutto il corpo. Il presidio si trasforma in blocco stradale per intasare il traffico davanti all’ingresso, e la Celere quasi carica i manifestanti. Nel frattempo, arriva al Cie anche la moglie di Jamal, che riesce ad entrare per un colloquio. Verso le sei di pomeriggio, dal retro del Cie esce una camionetta a sirene spiegate con due reclusi: dovevano espellerne tre, e tra di loro Jamal non c’e’, e’ ancora a colloquio con la moglie.

Quando la moglie esce e arriva la conferma che Jamal e’ stato medicato e riportato nella sezione e non in isolamento, il presidio si scioglie, con l’amaro in bocca per non essere stati abbastanza per riuscire a bloccare entrambe le uscite e tutte e tre le espulsioni, ma con la conferma che resistere alle espulsioni e’ possibile davvero, quando alla determinazione dentro si aggiunge la solidarieta’ vera e rapida fuori. E questa e’ una cosa su cui tutti i nemici delle espulsioni dovranno riflettere nei prossimi giorni.

macerie @ Gennaio 31, 2013

 


Centri di identificazione ed espulsione: i dati nazionali del 2012

carcereSecondo i dati forniti dalla Polizia di Stato, nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione (CIE) operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) del 50,54%. Si conferma dunque la sostanziale inutilità dell’estensione della durata massima del trattenimento da 6 a 18 mesi (giugno 2011) ai fini di un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni, dal momento che il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei CIE è incrementato di appena il 2,3% rispetto al 2010, anno in cui il limite massimo per la detenzione amministrativa era ancora di sei mesi. Rispetto al 2011, poi, l’incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3%). Per di più, se si compara il numero effettivo di rimpatri effettuati nel 2008 (anno in cui i termini massimi di trattenimento erano ancora di 60 giorni) con quello del 2012, si registra una flessione da 4.320 a 4.015 (si veda grafico rendimento CIE). Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i CIE nel 2012 risulta essere l’1,2% del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326.000 secondo le stime dell’ISMU al primo gennaio 2012).

Se dal punto di vista della rilevanza dei numeri e dell’efficacia, la detenzione amministrativa si conferma essere uno strumento sostanzialmente fallimentare nel contrasto dell’immigrazione irregolare, il prolungamento del tempo massimo di detenzione nei CIE ha invece drammaticamente peggiorato le condizioni di vita dei migranti all’interno di queste strutture. Tale evidenza è stata sistematicamente riscontrata dai team di Medici per i Diritti Umani (MEDU) durante le viste effettuate in tutti i CIE nel corso dell’ultimo anno e confermata dagli stessi enti gestori e, sovente, anche dai rappresentanti delle Prefetture. In effetti per quanto concerne il prolungamento dei tempi massimi di trattenimento è pressoché unanime il giudizio negativo espresso dai responsabili degli enti gestori dei 10 CIE monitorati da MEDU nel corso degli ultimi 12 mesi. Tale misura ha infatti seriamente compromesso la gestione complessiva dei centri causando gravi problemi organizzativi, logistici e sanitari. A conferma dell’aggravamento del clima di tensione e dell’ulteriore deterioramento delle condizioni di vivibilità all’interno dei centri di identificazione ed espulsione, vi sono le numerose rivolte e fughe che si sono verificate nel corso dell’anno appena trascorso: nel 2012 sono stati 1.049 i migranti fuggiti dai CIE, vale a dire il 33% in più rispetto al 2011.

Alla luce delle ulteriori evidenze acquisite in un anno di monitoraggio, Medici per i Diritti Umani ritiene necessario riportare la questione del superamento dei CIE nel dibattito elettorale delle prossime elezioni politiche. Le gravi e ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti – ancor più dell’evidente inefficacia dei centri di identificazione ed espulsione – impongono una radicale revisione dell’attuale sistema di detenzione amministrativa. Tale revisione non può che avvenire nell’ambito di una profonda riforma della legge “Bossi-Fini” che porti a politiche migratorie atte a garantire reali possibilità di ingresso regolare e di inserimento sociale. Su questi argomenti è quanto mai urgente che le forze che si candidano a governare l’Italia si esprimano con la dovuta chiarezza.

Roma, 30 gennaio 2013

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Tabella con i dati nazionali 2012 e 2011 sui CIE
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Grafico rendimento CIE

fonte: Medici per i Diritti Umani


Malato e trattenuto in un CIE dal 2011. Il caso di M.

soloM., giovane migrante, è rinchiuso in un CIE dal 2011, è affetto da una grave forma di depressione e da una settimana rifiuta cibo, acqua e farmaci. Contrariamente a quanto recentemente annunciato dal Ministro Cancellieri (“limiteremo la durata massima per il tempo di riconoscimento a 12 mesi” audizione presso la Commissione Diritti Umani del Senato, 27 novembre 2012), M. è in stato di detenzione amministrativa da quasi quattordici mesi, prima presso il CIE di Gradisca d’Isonzo, poi nel centro di identificazione ed espulsione di Trapani e infine di nuovo a Gradisca. M. ha già compiuto un grave atto di autolesionismo e dal suo ultimo ingresso nel CIE friulano, a maggio del 2012, ha perso 10 chili di peso. Medici per i Diritti umani (MEDU), che segue il caso da diverse settimane, ritiene le condizioni psico-fisiche di M. incompatibili con il trattenimento all’interno del CIE e chiede che il paziente sia urgentemente rilasciato dalla struttura in modo da poter accedere alle adeguate cure specialistiche.

E’ M. stesso a rendere pubblica la sua drammatica storia. Arriva per la prima volta in Italia, a Lampedusa, nell’ottobre del 2010. Nel dicembre del 2011 viene internato nel CIE di Gradisca, poi successivamente è trasferito a Trapani e poi ancora riportato al centro di identificazione ed espulsione di Gradisca senza che si possa procedere al suo rimpatrio. Ai primi di dicembre, dopo che il Giudice di pace decreta l’ennesima proroga di due mesi del suo trattenimento, M. viene trasferito d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia dopo aver ingerito numerosi farmaci e innumerevoli monete. Gli viene praticata la lavanda gastrica e successivamente viene ricondotto al CIE. Il giorno seguente viene sottoposto presso lo stesso nosocomio a visita psichiatrica con diagnosi di reazione da stress ambientale, calo ponderale importante in sindrome depressiva reattiva. Lo psichiatra, nel prescrivere la terapia farmacologica per l’insonnia e l’ansia, ritiene “assolutamente urgente” velocizzare il più possibile l’uscita dal CIE ritenendo che la situazione ambientale possa peggiorare ulteriormente il quadro. Nonostante ciò il trattenimento nel CIE prosegue. Alla fine di dicembre una nuova visita psichiatrica riscontra un peggioramento del quadro (“grave sindrome depressiva con importante dimagrimento”), specificando che “la situazione psico-patologica è sicuramente reattiva al trattenimento nel CIE”.

Il primo di gennaio M. comincia a rifiutare acqua, farmaci e cibo. In otto giorni perde sette chili. Il tre gennaio compie un ulteriore atto di autolesionismo riportando una ferita superficiale al gomito sinistro. Viene chiamato il 118 ma il paziente rifiuta il trasporto in ospedale. Una relazione dello psicologo del CIE sottolinea le buone condizioni generali di salute di M. all’ingresso nel CIE e un atteggiamento collaborativo e positivo del paziente nei confronti degli operatori del centro e degli altri migranti. La relazione prosegue evidenziando un progressivo peggioramento dello stato psico-fisico nel corso del tempo e la graduale comparsa di una sintomatologia ansioso-depressiva con conseguente e significativo calo ponderale. Lo psicologo riscontra inoltre la compatibilità dei sintomi di M. con i criteri propri del disturbo depressivo maggiore. Il giorno otto gennaio, i sanitari del centro, certificandone lo “stato cachettico” e l’evidente condizione di disidratazione, inviano nuovamente il paziente al pronto soccorso per accertamenti.

Dopo nove giorni dall’inizio del digiuno, la direzione sanitaria del centro annota che “l’ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il CIE Gradisca salvo ulteriori ripensamenti autolesionistici”. Il 12 gennaio M. è nuovamente ricondotto ai servizi psichiatrici territoriali dove un’ulteriore consulenza specialistica conferma il quadro di grave sindrome depressiva reattiva e chiede, per la terza volta, l’urgente rilascio dal CIE. Il paziente rifiuta di assumere la terapia psichiatrica prescrittagli. Il 22 gennaio il paziente comincia di nuovo a rifiutare alimenti e bevande andando incontro ad un nuovo calo ponderale. M. chiede di poter essere visitato da un medico di MEDU di sua fiducia. Il colloquio viene concesso ma, da regolamento, per soli venti minuti, attraverso una barriera di plexiglass e in presenza di due agenti di pubblica sicurezza. Al momento dell’incontro, il medico riscontra lo stato di notevole sofferenza del paziente e, dopo aver a lungo interloquito con gli agenti, ottiene unicamente un breve tempo supplementare per il colloquio.

Il provvedimento di detenzione amministrativa in un CIE, che secondo la normativa europea e la legge italiana dovrebbe essere finalizzato esclusivamente ad effettuare il rimpatrio del cittadino straniero, appare essere stato protratto in questo caso oltre ogni ragionevolezza, ledendo gravemente valori fondamentali come la salute e la dignità umana.

Come riscontrato da un suo team in una recente visita (ottobre 2012), Medici per i Diritti Umani ritiene le condizioni di vita all’interno del CIE di Gradisca, estremamente afflittive e del tutto inadeguate a garantire i fondamentali diritti della persona e pertanto non compatibili con il trattenimento di un paziente sofferente come M. MEDU richiede pertanto che M. sia urgentemente rilasciato in modo tale da evitare ulteriori e imprevedibili aggravamenti e da potergli assicurare le adeguate cure specialistiche.

a cura di medici per i diritti umani, Roma, 30 gennaio 2013


Mineo. Una discarica per richiedenti asilo

africa1Era la primavera del 2011. Migliaia di tunisini presero la via del mare per cercarsi un’altra vita in Europa. La rivolta che aveva scosso il paese, contagiando quelli vicini, aveva reso meno chiuse le frontiere. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, affrontò l’ondata di sbarchi da par suo, trasformando Lampedusa in un gigantesco carcere a cielo aperto, nella vana speranza di scaricare la patata bollente agli altri Stati Europei. Quando la situazione divenne incandescente decise di aprire campi-tenda e vecchie caserme per rinchiudere gente che voleva solo proseguire il proprio viaggio.
Finì all’italiana. Quelli arrivati entro il 5 aprile ottennero un permesso di sei mesi, quelli sbarcati dopo erano clandestini.
In questo caos in cui la criminalità del governo era pari solo alla sua cialtroneria i CIE si riempirono all’inverosimile di gente più che disponibile ad animare rivolte su rivolte. L’intero sistema concentrazionario italiano andò in crisi. In questo clima maturò l’affare Mineo.
A Mineo, 35 chilometri dalla base militare di Sigonella, la ditta della famiglia Pizzarotti aveva costruito un residence per le famiglie dei militari statunitensi. Nella primavera del 2011 il residence è vuoto, perché gli americani hanno optato per soluzioni più comode ed economiche.
Pizzarotti si ritrova una patata bollente che non riesce a piazzare in nessun modo, finché un governo amico non decise di togliergli le castagne dal fuoco trasformando il residence in CARA, ossia un centro per richiedenti asilo. Lì vennero deportati richiedenti asilo da ogni angolo di’Italia, interrompendo le pratiche già in atto, spezzando le relazioni con la gente del luogo. In questo modo i CARA si potevano trasformare in CIE e la famiglia Pizzarotti non ci rimetteva un euro. 
Due anni dopo il CARA di Mineo è strapieno, luogo di proteste e rivolte da parte di profughi e rifugiati, dimenticati in questa prigione nel deserto. Le pratiche, tutte concentrate a Catania, si sono allungate all’infinito, le risposte tardano, Mineo è diventata una polveriera.

Anarres ne ha parlato con Antonio Mazzeo. Ascolta l’intervista a radio blackout

Fonte


Presidio al CIE di Torino

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CIE – Prima schiave poi detenute…

schiaveTra le immigrate rinchiuse al Cie di Ponte Galeria (Roma) quattro su cinque sono vittime di tratta. E dopo essere fuggite da criminali che le hanno costrette a prostituirsi, diventano prigioniere della legge Bossi-Fini(23 gennaio 2013)Rita è salita sull’aereo in partenza da Roma Fiumicino con gli occhi gonfi di lacrime. Destinazione Lagos, Nigeria. Trecento chilometri a nord est da Benin City. La città da cui tre anni prima era partita inseguendo il sogno europeo, cadendo nel tranello di false promesse dei trafficanti di essere umani. L’undici gennaio scorso è stata rimpatriata contro la sua volontà. Mettendola in serio pericolo. Rita è una schiava, vittima della tratta. Il suo corpo è una merce a buon mercato. Arrivata con grandi sogni da realizzare e abbandonata al proprio destino sui marciapiedi della fortezza Europa.

Insieme ad altre donne e uomini ha affrontato un viaggio lungo due mesi. Sessanta giorni di pane e acqua. Senza potersi lavare né rinfrescare dopo ore di traversata nel deserto. Ogni giorno un autobus differente. Così fino in Iran. Qui è stata rinchiusa in una casa di transito affollata da altri fantasmi come lei. Poi ancora un pullman l’ha portata al confine tra Iran e Turchia: la frontiera doveva attraversarla a piedi. Infine un ennesimo autobus per raggiungere Smirne, la terza città turca . C’è rimasta otto mesi, trincerata in un’altra baracca di transito, piena di persone che, come lei, erano in attesa di arrivare in Europa. Lei, diretta in Grecia, ci prova in tutti i modi a conquistare le coste dell’isola di Lesbo. Tenta la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta volta. Respinta. Ancora prima di aggrapparsi all’ultima speranza: il barcone delle forze dell’ordine.

Poi arriva il giorno fortunato e la Grecia diventa realtà per Rita. Appena il tempo di poggiare il piede sulla terra promessa e viene arrestata come clandestina. Comincia la trafila di carte e richieste. Ottiene la protezione internazionale e riceve il cedolino del permesso di soggiorno da richiedente asilo. Era salva, pensava. Non le rimaneva che contattare Queen, la sua futura sfruttatrice, che le ha pagato il biglietto fino ad Atene, portandola a casa sua. A quel punto del suo lungo viaggio scopre di aver contratto un debito di 45 mila euro: l’ha costretta con le botte e le minacce a prostituirsi, forzandola a andare in strada tutte le notti, dalle dieci di sera alle cinque di mattina. A Rita non restava che subire. Non poteva rifiutarsi, neanche quando era malata. Una vita impossibile, da cui riesce a divincolarsi. Nonostante la paura della maledizione del rito voodo a cui la madame l’aveva sottoposta, e che tutte le ragazze nigeriane temono più di ogni altra cosa. Convinte che spezzare il patto siglato possa comportare la morte o la follia.

Dopo due mesi di vita negli inferi della prostituzione alla mercè di violenti e malattie, Rita ha avuto il coraggio di fuggire dalla sua aguzzina. E fugge fino in Italia. Arriva a Padova dove le si aprono le porte del Centro di indentificazione ed espulsione. “Appena portata al Cie, siamo state allertata dalla dalla Caritas di Padova, l’hanno incontrata, più e più volte, spiegandole che in Italia esiste l’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione che poteva proteggerla”, osserva Francesca De Masi, responsabile dell’associazione Be Free che assiste le donne vittime di tratta all’interno del centro di Ponte Galeria a Roma.

E attacca: “Una volta arrivata a Ponte Galeria, abbiamo steso insieme una denuncia contro la sua sfruttatrice, l’abbiamo portata al Tribunale di Roma, consapevoli, da un lato, che la tratta è un crimine transanzionale, e quindi anche se una ragazza ha subito lo sfruttamento in un altro Paese è comunque vittima di una gravissima violazione dei diritti umani, e deve imprescindibilmente essere tutelata; dall’altro lato, eravamo però conscie della miopia delle nostre Istituzioni, per cui in Italia si contano sulle dita delle mani i giudici, le forze dell’Ordine, le procure, i governi, che pongono attenzione su tale problema, troppo impegnati come sono a perseguire i “clandestini” e a sbatterli nelle gabbie, reali e simboliche, in cui le persone straniere vengono rinchiuse, cancellandone la storia di vita, di sfruttamento,e tutti i traumi subiti”.

di Giovanni Tizian

Fonte


Immigrazione: nei Cie molti tentativi di suicidio… e non è garantito il diritto alla salute

cie-1-1-2-4b2732437e7ceAl di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come da capitolato d’appalto del ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che però non è più adeguato ad un trattenimento dilatato fino a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e le cure di medio – lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 13 Cie operativi in Italia. 7.735 persone, per le quali un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’Ong Medici per i diritti umani (Medu), non è stato sempre garantito. All’ingresso in quell’istituzione chiusa, il check-up iniziale è superficiale. Il personale sanitario delle Asl non ha accesso.

I medici che ci operano sono privati, “chiamati” dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt Standards).

Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende sanitarie locali (Asl), in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste alcun regolamento per l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come Tbc, Hiv o epatiti.

Per una visita medica fuori dal Cie è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro il timore delle simulazioni. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere – sorvegliato.

OER MURI IMBRATTATIDetenzione peggiore del carcere

Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa… Dall’indagine dell’International University College sul Cie di Torino emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche, avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu e raccontato qui a fianco, i ritardi nella corretta diagnosi, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure potrebbero essere ancora per lo più sconosciuti e più numerosi.

Quando non è il corpo, in quelle “gabbie”, è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita anche. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’Ue (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi che hanno esigenze diverse. La prospettiva di 18 mesi separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei famigliari, è un incubo.

Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti “ospiti”, per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio – temporale che il Rapporto della commissione diritti umani del Senato non esitava a definire “peggiore del carcere”, per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita. Il profondo e diffuso malessere è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate pur di essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011, nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile è poi denunciato dalle dirompenti perdite di peso, dall’insonnia, dalla depressione, dalle patologie ansiose e mentali.

Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti Violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino sono stati introdotti degli psicologi, ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio ricorso ai psicotropi a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc..

Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. “Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera”, confessa una detenuta nel Cie di Torino. 0 come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: “Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua”. Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire tutti i casi. Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche.

I dati sanitari sono gravemente carenti – per assente raccolta e sistematizzazione – e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del ministero dell’Interno di rendere disponibili a Medu o a Msf, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza. Oltre quelle mura, le veridicità delle condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe – raddoppiate rispetto all’anno precedente in quasi tutti centri visitati da Medu. Senza nominare le denunce di abuso – punizioni, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali – che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana. “Qui è peggio di un carcere” è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. “Vorrei che questo centro scomparisse e basta”, dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come “corpi a disposizione totale della struttura”. In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo si esce in generale con condizioni peggiori di salute.

di Flore Murard-Yovanovitch

Fonte: L’Unità


Torino – rivolta e fiamme al Cie di corso Brunelleschi

14 Gennaio – Momenti di fuoco e rivolta stasera al Centro di Identificazione ed Espulsione di Corso Brunelleschi a Torino.

cie 2Scintilla della rabbia: la mancanza di riscaldamento in una delle sezioni del lager, con gravi conseguenze sui prigionieri più anziani.

Alcuni rivoltosi si sono arrampicati sul tetto della struttura e lì hanno dato fuoco a dei materassi. Altri hanno incendiato masserizie in un’altra parte dell’edificio.

Fonte: Radioblackout

Ore 1.00 – Riportiamo anche che alcuni compagni sono stati fermati fuori dal lager dai servi di stato.

ore 1:42 – Quattro macchine ancora fermate dalla polizia in piazza Sabotino. Chi può vada a portare solidarietà ai fermati.

ore 1:52 – Tutti liberi i compagni precedentemente fermati. Buonanotte.


Il Garante regionale dei detenuti in visita al CIE di Bologna

“Non è più rinviabile una visita ispettiva dell’Azienda Usl, la situazione è vistosamente degradante per le persone rinchiuse e può mettere a rischio la salute pubblica. Abbiamo riscontrato almeno tre casi di scabbia, in un contesto di forte promiscuità in cui mancano beni di prima necessità e appaiono necessari vari interventi strutturali, di natura idraulica, muraria, elettrica, igienico-sanitaria. È poi inaccettabile l’insufficienza di beni di prima necessità – carta igienica, sapone, biancheria intima, abbigliamento – a cui sono sottoposte le persone trattenute nel Cie di Bologna”.

cie (1)Lo dice Desi Bruno, Garante regionale per le persone private della libertà personale, che ha appena visitato il Centro di identificazione e di espulsione di via Mattei. Si tratta della prima verifica dopo l’avvio della nuova gestione del Centro (dal primo dicembre, il Consorzio Oasi ha sostituito la Confraternita della Misericordia). Oggi sono trattenuti nel Cie 51 persone, 21 donne e 30 uomini.

Già dopo le visite precedenti – settembre e novembre 2012 – la Garante aveva denunciato una situazione di forte degrado, con particolare riferimento agli incombenti rischi igienico-sanitari (è costante la presenza di persone sieropositive). Perciò si era rivolta alle autorità sanitarie, alla Prefettura, al sindaco di Bologna e all’assessorato della Regione, chiedendo un’ispezione finalizzata a verificare le condizioni di vivibilità del Cie. In passato, l’Azienda Usl non ha mai effettuato visite ispettive, come avviene solitamente in carcere, perché il luogo veniva considerato alla stregua di una zona militare, dunque sottratto ai poteri di controllo del servizio pubblico. Ma il 21 novembre scorso, la Prefettura di Bologna ha scritto al Direttore del Dipartimento di Sanità pubblica dell’Azienda Usl di Bologna che nulla osta al compimento di questa visita, ravvisandone l’utilità anche ai fini delle verifiche di competenza della Prefettura. “Sono passati 50 giorni – sottolinea Desi Bruno – e questa visita non è ancora avvenuta”.

Oggi alla Garante è stata consegnata una lettera, sottoscritta da 31 persone trattenute nel Cie e già indirizzata alla Guardia di Finanza: nel testo si elencano le condizioni “disumane” a cui sono sottoposti i reclusi, definite assai peggiori del carcere. “Non abbiamo i nostri minimi diritti di base, per esempio, dentifricio, spazzolino, un cambio di indumenti puliti, un pasto decente, materassi igienici, un cambio di lenzuola, riscaldamento nelle camere e finestre rotte… Mancano medicinali importanti per la nostra salute e non ci sentiamo seguiti bene dal personale medico”.

Va ricordato come la nuova società del gestione del Centro, che certo non porta responsabilità per le carenze strutturali, sia subentrata dopo aver vinto una gara al massimo ribasso, al termine della quale da più parti si era segnalata la preoccupazione sul rispetto dei requisiti minimi a garanzia delle persone trattenute nel Cie.

Fonte: modena2000.it


Rivolta nel Cie. “Assolti, fu legittima difesa”

Tre immigrati trattenuti nel centro d’espulsione di Crotone erano imputati per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice non li punisce:  erano lì illegittimamente e in condizioni al “limite della decenza” , quindi reagirono a “offese ingiuste”.

cielager_erRoma – 8 gennaio 2012 –  Dal 9 al 15 ottobre scorso tre cittadini stranieri, un tunisino, un algerino e un marocchino, furono i protagonisti di una rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Isola capo Rizzuto, Crotone. Tra le altre cose, salirono sul tetto e lanciarono sulla Polizia suppellettili, rubinetti e grate. Lo fecero, però, per “legittima difesa” e quindi non risponderanno dei reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale.

Ad assolverli, il 12 dicembre scorso, è stato  il  Tribunale di Crotone, con il giudice Edoardo D’Ambrosio che ha sposato la linea dei difensori, gli avvocati Natale De Meco, Eugenio Naccarato e Giuseppe Malena. E non ha accolto la richiesta del pm Francesco Carluccio, che voleva una condanna a 1 anno e 8 mesi di reclusione.

Secondo D’Ambrosio, quella rivolta era una “difesa proporzionata all’offesa”. Innanzitutto perché i provvedimenti di trattenimento “erano privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell’articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea”. Omettevano infatti “del tutto l’indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie”.

C’erano poi da considerare le condizioni di vita nel centro, con “materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli”. Strutture ”al limite della decenza”, cioè, ha spiegato il giudice,  “non convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza”.

Gli imputati sono stati quindi vittima di “offese ingiuste”, alle quali hanno opposto una “legittima difesa”. Senza alcuna sproporzione, anzi: “il confronto tra i beni giuridici in conflitto – si legge nella sentenza – è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione”.

Fonte: stranieriinitalia.it


Nuova rivolta e fuga in massa al Cie di Gradisca

Sette maghrebini evadono utilizzando delle chiavi: ricercati. Al via un’indagine. Metà dei 70 immigrati chiusi nel centro hanno preso parte all’azione. Bottiglie piene di sabbia e sassi contro le forze dell’ordine

Nuova rivolta e fuga al Cie di Gradisca. Sette ospiti di nazionalità maghrebina sono riusciti a fuggire dopo aver aperto con le chiavi tre porte e scavalcato la rete di recinzione nella parte posteriore del centro immigrati. I sette sono fuggiti nella campagna approfittando dell’oscurità. Alla rivolta hanno partecipato trentacinque immigrati, la metà delle persone attualmente detenute all’interno della struttura. Gli immigrati hanno utilizzato contro le forze dell’ordine e gli operatori delle bottiglie piene di sassi e sabbia e hanno svuotato contro di loro alcuni estintori.

Attualmente la situazione è sotto controllo, resta alto l’allarme tra le forze dell’ordine incaricate di vigilare sul perimetro esterno della struttura. Sarà probabilmente avviata un’indagine sulle modalità della fuga: il fatto che i sette immigrati fossero in possesso di alcune chiavi rende infatti necessario scoprire come siano riusciti ad appropriarsene.

Fonte: ilpiccolo.gelocal.it

Immigrati tentano la fuga la notte di capodanno

Ennesima rivolta al Cie di Bologna, anche durante l’ultima notte dell’anno: quattro nordafricani, ospiti della struttura di via Mattei, hanno tentato la fuga, ma la loro azione e’ stata bloccata dalla polizia. In due sono stati fermati quando avevano ormai scavalcato le recinzioni. E’ successo verso l’una e la calma e’ stata riportata verso le 2.30. C’e’ stato anche un lancio di oggetti verso le forze dell’ordine.


Sagome umane in memoria degli immigrati del “Serraino Vulpitta”

Sei sagome umane, con i nomi dei migranti morti nell’incendio divampato nella notte tra il 28 e 29 dicembre del ’99 nell’allora Cpt Serraino Vulpitta di Trapani, oggi Cie, sono state disseminate la notte scorsa nel centro di Trapani.

L’iniziativa è dei giovani comunisti del circolo Mauro Rostagno, che hanno ricordato nel tredicesimo anniversario della tragedia gli immigrati Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim. Le sagome di cartone sono state posizionati sul portone del Palazzo Cavarretta, sede del Consiglio comunale di Trapani, davanti alla Prefettura e ai Cie Serraino Vulpitta e di contrada Milo.

“Quelle sagome non vogliono tacere nè essere un feticcio o dei burattini -ha affermato il coordinatore provinciale dei Giovani comunisti Francesco Bellina- ma chiedono ancora giustizia, diritti, libertà, per tutti i migranti rinchiusi nei Cie, per tutti quelli morti nel canale di Sicilia, per quelli sfruttati o sottopagati e poi denunciati”. Ieri pomeriggio, sempre nel centro storico di Trapani, si è svolta una passeggiata antirazzista”.

fonte: http://trapani.blogsicilia.it


Cie. Il silenzio sugli innocenti

Si scrive Cie, si legge carcere per chi non ha commesso reati. Doveva essere un fermo in attesa dell’espulsione, invece è detenzione. Così la questione immigrazione è diventata caso umanitario

Cancelli, telecamere di sorveglianza, celle con inferriate antievasione, agenti di sicurezza e forze di polizia che vigilano affinché nessuno degli ospiti si muova da lì. Benvenuti in un Cie. L’odissea dei Centri di identificazione ed espulsione – inizialmente chiamati Cpt – comincia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano al fine di trattenere gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, nei casi in cui non sia possibile «eseguire con immediatezza l’espulsione». A giustificare il “trattenimento” secondo il legislatore è la necessità di procedere «al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità», come recita l’art. 12. Mai fino ad allora l’ordinamento italiano aveva previsto la detenzione di individui se non a seguito di reati penali e della decisione di un giudice. Le leggi successive – la Bossi Fini del 2002 e il pacchetto sicurezza del 2009 voluto fortemente dall’allora ministro Maroni – hanno intrapreso un cammino legislativo sempre più repressivo. Irrigidendo gli ingressi alla frontiera, rendendo sempre più difficile la permanenza regolare sul territorio italiano e allungando «il tempo strettamente necessario» di permanenza nei Cie, da 2 a 18 mesi. Con la nuova virata repressiva, in Italia può entrare solo chi ha già un lavoro. Chi lo perde ha solo sei mesi (un anno con la riforma del lavoro del 2012) per trovarne un altro, pena la clandestinità. Un quadro normativo schizofrenico che da una parte genera clandestini e dall’altra introduce il reato penale di clandestinità, da scontare nelle carceri ordinarie, da 1 a 4 anni. Questa stretta sull’immigrazione ha ricevuto più di una bocciatura e una dichiarazioni di illegittimità da parte della Ue. Il 28 aprile 2011 la Corte di giustizia europea ha bacchettato l’Italia per il mancato recepimento della direttiva 115 del 2008, che avrebbe dovuto essere accolta entro il 24 dicembre 2010. Perché per il diritto comunitario la clandestinità non è punibile con il carcere. Eppure con l’aumento dei tempi di permanenza è stato compiuto l’ultimo passo per trasformare strutture nate come temporanee in luoghi di detenzione per cittadini stranieri che non hanno commesso alcun reato.

Clandestini uguale delinquenti

Gli stranieri “detenuti” perché privi di regolare permesso di soggiorno sono circa 11mila. Nel corso del 2011 sono ancora in 3mila a scontare la pena all’interno delle carceri ordinarie, il 22 per cento di loro a carico ha solo questo reato. Sono molti i giudici che stanno applicando correttamente la normativa europea, ma anche se liberassero fino all’ultimo dei 3mila detenuti clandestini “ordinari” rimarrebbe irrisolta la questione dei Cie. Sono migliaia, quasi 8mila nel 2011, gli internati in questi centri e scontano una pena detentiva che può durare fino a 18 mesi. Le strutture in funzione sono 15: 12 permanenti e 3 provvisorie, create a seguito degli avvenimenti politici e dei conflitti dell’Africa del Nord che il ministero ha già dichiarato di voler rendere utilizzabili in via definitiva. A queste si aggiungono 3 centri momentaneamente chiusi. Sono edifici costruiti ex novo oppure convertiti per l’uso: ex caserme, fabbriche dismesse, ex centri di accoglienza, ex ospizi. A gestirli sono Croce rossa italiana, confraternita delle Misericordie d’Italia, cooperative del privato sociale. Il business è mediamente di 50 euro al giorno per migrante trattenuto.

Di emergenza in emergenza 

Cercando su internet la parola “Cie” si trova una lunga serie di denunce, reportage, notizie feroci su quanto accade all’interno di queste strutture. Da Trapani a Torino, da Lampedusa a Roma, si susseguono quotidianamente rivolte, incendi, tentativi di fuga. Le ragioni per cui molte organizzazioni umanitarie chiedono l’immediata chiusura di questi centri detentivi sono di natura economica, legislativa, di inefficacia del sistema, di ordine pubblico. Vale la pena soffermarsi sulla violazione dei diritti umani. È ormai evidente che l’emergenza immigrazione, che l’ordinamento intendeva superare introducendo queste strutture, si è di fatto trasformata in emergenza umanitaria. Giornalisti e Ong hanno stilato per ognuno di questi centri fiumi di denunce e inchieste che documentano le condizioni disumane a cui sono costretti gli internati. Qui non si rispettano neppure i parametri vigenti per gli istituti penitenziari. Nessun contatto con l’esterno, bagni senza porte, camerate anguste e sovraffollate. E le conseguenze sui trattenuti si fanno sempre più morbose: abuso di psicofarmaci, alto tasso di fenomeni di autolesionismo, tentativi disperati di fuga. Una situazione così grave che per i Cie bisognerebbe «introdurre il reato di tortura», ha detto il presidente della Caritas Roberto Davanzo: «Diciotto mesi vissuti lì dentro sono alienanti, annichiliscono le persone e fanno perdere la percezione della propria identità». Finora, in Italia, nessuna sentenza ha riconosciuto che queste strutture sono divenute, di fatto, carceri extra ordinem. Il 20 gennaio 2011 gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci dell’associazione Class action procedimentale hanno presentato al tribunale di Bari un ricorso d’urgenza per l’immediata chiusura del Cie di quella città. Il giudice ha trattenuto in decisione l’istanza: la sentenza è ormai vicina. E se il ricorso dovesse essere accolto potrebbe avere un effetto domino sugli altri centri d’Italia, diventando il precedente che mette in discussione l’intero sistema Cie.

Fortezza Europa

Centri come questi non hanno il marchio esclusivo del made in Italy. I campi di detenzione per migranti in Europa e nei Paesi mediterranei sono passati dai 324 del 2000 ai 421 del 2011, per un totale di circa 40mila internati. Muri dentro i muri, che si accompagnano a politiche migratorie sempre più repressive col solo scopo di espellere e rimpatriare. Mentre aumentano i tempi di permanenza, quindi di detenzione, e continua a diminuire la visibilità di ciò che accade dentro quei recinti. È la vecchia Europa che chiude porte e finestre ai flussi migratori. Sono passati secoli da quando gli schiavi venivano portati via dall’Africa in catene, oggi si fa di tutto per rispedirceli. Ma le catene restano.

di Tiziana Barillà – Left


Rivolta al Cie nella notte di Natale

MODENA – Materassi gettati nel cortile interni e ore di tensione per gli ospiti della struttura ingannati da alcuni messaggi che annunciavano la liberazione per il giorno di Natale

Una rivolta al Cie di Modena dalla dinamica inusuale per lo meno per quel che riguarda “l’innesco”: nella giornata di ieri, alcune palline da tennis sono state lanciate da mani ignote dentro la struttura di via La Marmora e al loro interno erano presenti bigliettini recanti la dicitura “Liberi tutti” un numero di telefono. Sta di fatto che il messaggio giunto agli ospiti era quello di un’imminente liberazione, di un’apertura dei cancelli prevista per il giorno di Natale. Peccato però che la notizia fosse privo di ogni fondamento. La cosa ha quindi provocato malumore generale e la rabbia delle persone rinchiuse nel Cie è esplosa con una rivolta: decine di ospiti hanno gettato nel cortile interno del centro e hanno iniziato a inveire contro il personale e le forze dell’ordine presenti sul posto. Tre ospiti, colti dalla disperazione, hanno addirittura tentato il suicidio impiccandosi. La situazione, se così si può dire, è rientrata nei binari della normalità a notte fonda. Non sono stati registrati danni né feriti a personale e forze dell’ordine.

“C’è un forte clima di stress e disagio, sia per gli ospiti che per il personale che lavora in quella struttura”, ha raccontato Cécile Kyengé, portavoce nazionale Rete Primo Marzo e consigliere provinciale Pd. “La situazione è intollerabile e peggiora nei periodi di festa, momento in cui si sente maggiormente la lontananza dai propri cari”. Assieme a Paola Manzini, Cécile Kyenge stamattina presto si è recata in via La Marmora, dopo essere stata informata ieri sera dell’accaduto da parte degli attivisti Medici per i Diritti Umani: “Per denunciare le difficoltà del Cie – ha aggiunto la portavoce della Rete Primo Marzo – gli ospiti della struttura di Modena hanno iniziato un nuovo sciopero della fame. Per quanto riguarda le persone che hanno tentato il suicidio, gli operatori sono riusciti a intervenire in tempo per soccorrerli e a condurle in infermeria”. Anche Desi Bruno è stata subito informata della rivolta: nei prossimi giorni, la garante regionale dei detenuti giungerà a Modena per un sopralluogo e verificare le condizioni degli ospiti.

Fonte: Modenatoday.it