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diffondiamo
Il Cie di corso Brunelleschi continua ad essere in buona parte inutilizzabile. Nonostante le notizie diffuse dai giornali, le camerate andate a fuoco durante le rivolte del 22 e 24 febbraio sono tutt’ora inagibili. Due dei cinque arrestati sono stati scarcerati: uno è stato liberato con un foglio di via dall’Italia, l’altro è stato riportato al Cie ed espulso immediatamente.
I reclusi sono ad oggi poco più di 60 (su 180 posti teoricamente disponibili). Dai giorni delle rivolte almeno 20 sono stati espulsi, 6 o 7 rilasciati con un foglio di via e due dovrebbero essere stati trasferiti a Trapani. In nessuna area, negli ultimi 10 giorni, ci sono stati nuovi ingressi.
Da tutte le aree comunicano che da un paio di giorni viene distribuito un riso che “puzza”. Tutti sono sicuri che il pasto sia condito con una forte dose di tranquillanti e qualcuno ha pensato bene di restituirlo dritto sulla testa dei militari che lo consegnavano…
Ieri un recluso ha trascorso la notte sul tetto dell’area viola per la paura di essere espulso. Qualche giorno fa aveva ingoiato un grosso numero di pile e lamette, ma, nonostante il parere contrario dei medici, era stato riportato al Cie. Sembra che abbia cercato di impiccarsi sul tetto. Questa mattina è stato riportato in ospedale apparentemente in gravi condizioni per gli oggetti ingeriti.
macerie @ Marzo 6, 2013
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Sul numero di “Invece” di febbraio 2013 – numero 21, è stata diffusa la seguente una proposta di intervento anticarcerario.
Per contattare i compagni: invece@autistici.org
Contro il carcere, una proposta
Giorno dopo giorno aumenta il numero delle persone che in questo mondo risultano di troppo. Inutili. Aggravando le pene per alcuni reati già esistenti e creandone di nuovi, lo Stato indica dove queste eccedenze debbano essere stipate, in carcere. Così continua costantemente a crescere il numero dei prigionieri, privati oltre che della libertà anche del benché minimo spazio vitale, ammassati gli uni sugli altri al di là di ogni limite d’immaginazione.
Purtroppo al peggioramento delle condizioni di detenzione non sta corrispondendo una reazione adeguata da parte dei prigionieri. Trent’anni di pace sociale, fuori come dentro, hanno scavato un solco profondo nella volontà di lottare, nel sentire che è possibile farlo come nella capacità di organizzarsi. Ogni tanto da quotidiani locali o siti specializzati si viene a conoscenza di piccole proteste e mobilitazioni o di atti di ribellione all’interno delle carceri che non riescono però quasi mai a raggiungere un’ampiezza e una radicalità maggiori. Ciò che sta invece scadenzando il tempo con una regolarità agghiacciante sono i suicidi di uomini e donne che non trovano altro modo per dire: “basta!”.
Fuori, le principali voci che di tanto in tanto si levano sono quelle dei pannella di turno o delle varie organizzazioni che denunciano il sovraffollamento nelle carceri italiane. Poco altro si muove. Le lotte o le azioni condotte da chi ritiene che il carcere vada distrutto e non reso più umano non risultano particolarmente significative e restano per lo più slegate da ciò che avviene dentro. Difficilmente, per sostenere una lotta o un particolare fatto repressivo avvenuto dentro, si riesce a fare qualcosa in più di un presidio.
Presidi che per quanto preziosi, dato che consentono di far sentire la propria solidarietà ai prigionieri in lotta e al contempo ribadire ai carcerieri che chi è dentro non è solo, come uniche o principale armi di una lotta contro il carcere risultano spuntati. Da soli infatti non sono in grado non tanto evidentemente di buttar giù le odiate mura ma neanche di rompere efficacemente quell’isolamento che sbarre e mura producono. E rompere l’isolamento a cui tutti i prigionieri sono condannati è uno degli obiettivi che chi fuori vuole lottare contro il carcere dovrebbe porsi.
Alcuni anni fa, in occasione di uno sciopero della fame contro l’ergastolo portato avanti da ergastolani ed altri prigionieri che avrebbe dovuto protrarsi anche a tempo indeterminato, alcuni compagni diedero vita a “La Bella”, un bollettino che intendeva sostenere questa lotta anche dando voce a chi la conduceva. Pur critici riguardo la scelta dello sciopero della fame e consapevoli che la fine dell’ergastolo non avrebbe risolto il problema della prigionia, diversi compagni sostennero questa lotta considerandola particolarmente importante perché autorganizzata da prigionieri di un po’ tutte le carceri italiane.
L’esser nata in occasione di una mobilitazione così partecipata dentro, garantì a La Bella una diffusione e un’attenzione nelle carceri che normalmente le pubblicazioni di movimento non hanno, dato che spesso i giornali anticarcerari “militanti” risultano magari anche molto interessanti ma vengono percepiti come qualcosa di lontano cui non è possibile per un prigioniero comune partecipare attivamente. La Bella invece, pur nel suo piccolo, fu sin da subito sentita da molti come uno spazio di confronto reale in cui i prigionieri potevano dialogare tra loro, scambiarsi notizie, suggerimenti, critiche e eventualmente proposte. Uno spazio condiviso poi non solo con chi intendeva lottare dentro, ma anche con chi voleva farlo fuori. Così ad esempio, grazie ai contributi tanto dei compagni quanto dei prigionieri, si sviluppò un confronto sull’efficacia delle pratiche da adottare in una lotta che superò la specificità per cui La Bella era nata.
Diversi prigionieri espressero critiche decise nei confronti dello sciopero della fame, ritenuto, oltre che autolesionista, inefficace data la cecità dell’opinione pubblica, proponendo poi altre pratiche come lo sciopero della spesa che consentivano invece di “colpire” le autorità carcerarie laddove può far loro più male, nei profitti.
Oggi sono diverse le mobilitazioni che avvengono in alcune carceri o sezioni per ottenere dei miglioramenti delle condizioni di prigionia. Indipendentemente dalla limitatezza delle loro rivendicazioni queste lotte sono importanti perché la determinazione, la capacità di osare e di organizzarsi non sono elementi fissi, immutabili, ma, dentro come fuori, si modificano anche in base alle esperienze vissute direttamente. Per tutti, compagni compresi, l’unico modo per imparare a lottare è farlo.
Oggi allora un bollettino simile, consentendo a mobilitazioni, proposte, atti di ribellione collettivi o individuali di oltrepassare le mura delle singole carceri oltre che consentire di avere un quadro complessivo più chiaro di cosa si muove oggi nelle carceri italiane, potrebbe favorire lo sviluppo di lotte nelle carceri ridando al contempo slancio e idee agli interventi anticarcerari fuori, facendoci trovare meno impreparati. A scanso di equivoci questa proposta non rappresenterebbe la soluzione alle mancanze degli attuali interventi anticarcerari, non può da sola colmare i vuoti accumulatisi negli anni per l’incapacità di agire con efficacia, ma rappresenterebbe piuttosto una valida intelaiatura per ripensare e riiniziare un intervento contro il carcere che sia meno estemporaneo.
Se a differenza de “La Bella” oggi un eventuale bollettino non nascerebbe in occasione di una lotta e quindi la sua diffusione e soprattutto la chiarezza dei suoi intenti richiederebbero, almeno inizialmente, maggiori sforzi ed attenzioni, la sua minor specificità potrebbe del resto favorire un radicamento maggiore nelle varie carceri in cui i compagni hanno già delle corrispondenze attive e un minimo di continuità d’intervento. Anche le giornate di colloqui con i familiari potrebbero essere una buona occasione tanto per diffondere il bollettino quanto per discuterne dei contenuti.
Se questa proposta dovesse incontrare l’interesse di altri compagni o prigionieri, Invece potrebbe ospitare suggerimenti, critiche ed approfondimenti a riguardo in previsione magari di organizzare un incontro evidentemente autonomo da questo giornale per discuterne apertamente.
i compagni di Invece
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Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto nel carcere di San Gimignano. Lo rende noto la Cisl-Fns. E’ accaduto stamane intorno alle 10: l’agente è stato preso a pugni in volto da un detenuto bosniaco di 24 anni, con fine pena nel 2013 per reati di rapina.
L’intervento dei colleghi ha evitato conseguenze peggiori. L’agente è stato trasportato con l’ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Campostaggia di Poggibonsi.
L’uomo è stato medicato e dimesso con una prognosi di 10 giorni. Il segretario generale della Cisl-Fns, Giuseppe Sottile “condanna il miserabile atto” di “aggressione brutale nei confronti del poliziotto” e sottolinea come il penitenziario sia “gravemente sovraffollato di detenuti di oltre il 40% della capienza regolamentare, con una presenza quotidiana superiore a 400 unita”.
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Boise. Idaho. Lo ha denunciato la moglie Naghmeh in un suo Tweet: “Vi chiedo di pregare per mio marito, Saeed Abedini. Soffre di emorragie interne a causa dei continui pestaggi di cui è vittima. 8 anni di carcere sono una condanna a morte. Ho il cuore rotto nell’apprendere la notizia di emorragie interne.
Saeed Abedini è un giovane pastore evangelico di origini iraniane ma con passaporto statunitense. E’ in carcere dal 26 settembre del 2012 con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale”, un’imputazione creata ad arte per punirlo per la sua conversione dall’Islam e per le sue attività evangelistiche.
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BERNA – Un uomo di 51 anni, che si trovava nel centro di recupero St. Johannsen di Berna, ha fatto perdere le proprie tracce. L’uomo era stato arrestato nel 1998 e ha scontato una pena di 8 anni. Beneficiava della possibilità di svolgere un lavoro all’esterno. Al termine della giornata lavorativa, ha salutato i colleghi e con un “ciao, me ne vado” non è più ritornato presso il centro che lo ospitava. L’accompagnatore che era con lui non è riuscito a trattenerlo. Dopo 15 minuti dalla sua fuga è scattata l’inchiesta.
Stando a quanto ha anticipato il Blick si tratta di René G. Era stato condannato a otto anni di carcere per aver ucciso il figlioletto di 4 mesi. Fra qualche mese avrebbe goduto della libertà totale. Il suo comportamento nel centro di recupero non aveva mai suscitato il dubbio di una sua imminente fuga. La polizia si è già messo alla ricerca dell’evaso, ma non ha fornito indicazioni o foto sull’uomo, tranquillizzando la popolazione locale che non correrebbe alcun pericolo.
Non è la prima volta che qualcuno evade dal centro di recupero di St. Johannsen di Berna. In passato ci sono state due persone che sono riuscite a fuggire dalla struttura, e sono tuttora uccell di bosco.
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PADOVA — Ha avuto un malore e si è accasciato nella cella del carcere di Treviso, dove si trova da circa due settimane. Luciano Franceschi, 54enne imprenditore di Borgoricco che l’11 febbraio scorso ha sparato a Pierluigi Gambarotto, direttore del credito cooperativo di Campodarsego, si trova ora in gravi condizioni nell’ospedale Ca’ Foncello. Franceschi, agli arresti per tentato omicidio volontario, è stato sottoposto ad accertamenti e cure e le sue condizioni sarebbero stazionarie. Dal punto di vista giudiziario invece la sua posizione sembra vacillare: è stato infatti depositato il verbale delle dichiarazioni fatte in ospedale dal direttore della banca colpito al ventre, e sembra che le due versioni, quella di Gambarotto e quella di Franceschi, siano discordanti. Il ferito dice infatti di aver discusso inizialmente con Franceschi della rinegoziazione di un fido, sul quale l’imprenditore avrebbe posto delle condizioni inaccettabili dal punto di vista della banca.
Alla risposta negativa del direttore, Franceschi avrebbe cominciato ad agitarsi, e quando Gambarotto si è alzato per accompagnarlo alla porta, il 54enne di Borgoricco avrebbe preso la pistola sparandogli all’addome. L’indagato invece aveva detto che ci sarebbe stata un momento di concitazione, e che non aveva intenzione di sparare al direttore, ma solo di mettergli paura e creare panico in banca, sequestrando tutti per attirare l’attenzione sulla «causa venetista». Relativamente alle dichiarazioni di Gambarotto, c’è da dire che l’uomo è apparso lucido e consapevole nel racconto di quell’incontro, salvo poi svelare qualche difficoltà nel definire nel dettaglio i momenti immediatamente precedenti allo sparo. Probabilmente il trauma subito non consente al direttore della banca di mettere ancora ordine negli attimi prima dei due colpi che gli hanno perforato l’addome. Di certo c’è che secondo la sua versione Franceschi avrebbe alzato la pistola all’improvviso e premuto il grilletto. Gambarotto è ancora in ospedale, ma sta migliorando, la sua vita è rimasta appesa a un filo per una settimana, ha subito un lungo intervento, ma da una decina di giorni circa l’uomo è fuori pericolo. E per un beffardo gioco del destino ora è proprio l’uomo che gli ha sparato ad essere in gravi condizioni in ospedale. Prima di sentirsi male Franceschi ha fatto richiesta di scarcerazione davanti al tribunale del Riesame.
Il documento ai magistrati lo ha scritto di suo pugno e in completa autonomia, all’insaputa anche del legale che lo sta seguendo, l’avvocato penalista padovano Giovanni Lamonica. Si tratta di un altro gesto di dimostrativo contro lo Stato italiano, una presa di posizione che in carcere si è andata rafforzando, stando a quanto diceva qualche giorno fa il fratello Enzo. Sembra infatti che tra i pensieri di Franceschi dall’11 febbraio a oggi i problemi finanziari dei caseificio di Borgoricco siano andati in secondo piano. Quelle ansie che lo avevano preso per aver sforato il fido, che lo preoccupavano dopo la perdita della moglie, sono state travolte dalla volontà di portare avanti la causa del Veneto libero e indipendente rispetto a uno Stato visto solo come un’invasore che chiede tasse senza dare nulla in cambio. L’obiettivo è infatti proseguire, anche dal carcere con la battaglia di carte e burocrazia che lo porteranno, dice lui, fino a Bruxelles. Di certo quello Stato italiano che Franceschi non riconosce dovrà processarlo per quei due colpi sparati contro un direttore di banca che peraltro conosceva da tempo. In ogni caso ora Franceschi dovrà superare l’attacco di cuore che lo ha colpito sabato e che lo vede sul letto di un ospedale, sottoposto a cure che gli stanno salvando la vita, prestate gratis da quello stesso Stato che lui detesta.
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Continuano le aggressioni in carcere da parte dei detenuti nei confronti dei Poliziotti penitenziari. Carceri sovraffollate con carenza d’organico di Polizia Penitenziaria.
Aggressioni ad agenti, violenze ripetute: episodi, molto gravi, che sono soltanto uno specchio di una situazione che non è più sostenibile da parte del personale che opera presso il carcere di Vigevano. Di qui viene un allarme carceri che non risparmia nemmeno Pavia. Nei giorni scorsi, per due volte, nella prigione della Lomellina agenti della Polizia Penitenziaria sono stati oggetto di aggressioni che li hanno costretti ad andare all’ospedale. In un primo caso un detenuto ha dato in escandescenze nella propria camera e, una volta all’ora d’aria, si è scagliato contro chiunque incontrasse. Nel secondo, un detenuto insofferente allo stato di detenzione, ha preso per il collo un agente di vigilanza.
Dati altrettanto allarmanti arrivano dal carcere di Pavia, che sta letteralmente scoppiando. Rispetto a una capienza sulla carta di 247 persone, infatti, i detenuti sono quasi il doppio, 488. Inferiore a quanto previsto in pianta organica anche il numero di agenti impegnati che è di 241 persone, a fronte delle 285 ipotizzate. Ma il carcere di Torre del Gallo è destinato ad ampliarsi. A maggio, dopo qualche ritardo a causa di problemi strutturali che hanno fatto slittare l’inaugurazione, si aprirà un nuovo padiglione, il rischio è però che non venga adeguata la pianta organica.
E, come è destinata ad ampliarsi la casa circondariale di Pavia, lo è anche quella di Voghera dove al momento, però, si sta leggermente meglio. A fronte di una capienza di 163 detenuti, si trovano ristretti in 211. Inferiori al previsto pure gli agenti che sono 165 e non 187 come dovrebbe essere.
Fonte; il giorno
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BOLOGNA – «Anche oggi al Cie di Bologna ci sono due persone, un uomo e una donna, con le labbra cucite per protesta, contro la propria situazione e contro le condizioni della struttura». Lo rileva la Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, avvocato Desi Bruno, precisando di aver saputo ieri di queste due persone e di aver accertato che «ancora oggi sono nelle stesse condizioni». Questa protesta autolesionista, cominciata anni fa in carcere, è praticata anche nei Centri di identificazione ed espulsione per immigrati (Cie). La Garante spiega che l’uomo «proviene dal carcere e si chiede come mai si trovi al Cie. La donna l’ha fatto perchè non riesce a comunicare: anche ieri mancava il mediatore arabo»
Fonte
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La situazione delle carceri minorili in Italia non è esattamente la riproduzione in scala ridotta della sistematica infrazione dei diritti basilari di quelle per adulti, ma non ci si allontana troppo.
La fotografia espressa dall’ultimo bollettino statistico elaborato dal Dipartimento di Giustizia Minorile racconta di un disagio che cresce inesorabilmente. Di fronte a una capienza ormai quasi saturata, il numero di minorenni inviati alle carceri è aumentato quasi del 20% dal 2006. Ma è l’identità dei detenuti il dato che desta più preoccupazione: mentre nel 2006 gli stranieri superavano nettamente gli italiani, ora accade esattamente il contrario. Sui 509 minori che passano le loro giornate negli Istituti Penitenziari, 309 sono italiani. La differenza di nazionalità rappresenta anche una differenza di genere: mentre le italiane minorenni autrici di reato rappresentano l’1% dei loro coetanei maschi, tra i detenuti non italiani la percentuale di donne raggiunge il 15%.
Anche per quanto riguarda le Comunità, centri di accoglienza destinati non esclusivamente ai minori autori di reato, la situazione non è buona. Si è passati da un totale di 463 minori collocati diariamente in queste strutture nel 2006 ai 958 nel 2012. Se questo fosse successo a scapito della misura più dura, il carcere, lo si potrebbe interpretare come un segnale positivo. Ma visto l’aumento descritto di sopra, si può solamente concludere osservando che i minori entrati nel circuito penale sono aumentati drammaticamente. I soggetti presi a carico dagli Uffici Sociali, enti locali del Dipartimento di Giustizia Minorile, sono passati infatti da 15.000 a 20.000. Questi enti devono quindi far fronte a una vera emergenza sociale, che riguarda soprattutto i minori italiani, senza poter attingere da nuove risorse.
Osservando i dati sull’ingresso nel circuito penale scorporati per nazionalità e genere, si nota come tra gli stranieri il numero di ragazze sia stabile da sette anni, mentre quello dei ragazzi sia raddoppiato. Per quanto riguarda gli italiani si osserva il contrario: con un aumento rispettivamente del 75 e del 50%. Confrontando questo dato coi precedenti, si osserva come per le ragazze italiane l’uso del carcere sia una misura residuale, anche perché l’Istituto Penale di Pontremoli, l’unico a servire l’Italia settentrionale, ha solo 16 posti ed è sempre completo.
In definitiva, a fronte di una costante spending review il budget, già risicato, della giustizia minorile non permette di far fronte a tutte le spese sostenute dalle Comunità (il tipo di centro più utilizzato) per l’alloggio dei minorenni autori di reato. Questo mentre le situazioni di povertà e di devianza sociale aumentano costantemente, con una crescita sistematica delle infrazioni più gravi da parte degli italiani e un conseguente aumento dell’uso delle carceri. Di questo passo, il traguardo del sovraffollamento sarà raggiunto anche per quanto riguarda i minorenni.
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diffondiamo da Polvere da sparo
“La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio. Chi l’attraversa non può evitare uno sfregio la cui rimarginazione non è affatto scontata.
La prima rasoiata isola il neo-recluso dai suoi mondi consueti, lo decontestualizza totalmente e in un lampo lo getta in uno stato di spaesamento radicale. Il noto, il familiare, l’abituale, scompaiono dal suo orizzonte sensoriale ed egli brancola, smarrito, nel vortice d’un risucchio che lo aspira entro un orrido di cui non percepisce altro che i pericoli.
Lo stato di spaesamento trova nella vertigine la sua forma più consueta.
Secondo Daniel Gonin, medico penitenziario e coordinatore di una ricerca condotta nelle carceri francesi per conto del Consiglio di Ricerca del Ministero della Giustizia, almeno “un quarto degli entranti in prigione soffre di vertigini (…). Quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equlibrio è piu’ precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso” [1].
La seconda rasoiata investe il flusso polimorfo degli stimoli ambientali che, improvvisamente, viene disseccato. La riduzione drastica degli stimoli ambientali riduce, in chi la subisce, un grappolo di fenomenologie riconducibili alle transe di ipostimolazione.
Arnold Ludwig nella sua celebre catalogazione degli stati di coscienza osserva che la riduzione delle stimolazioni esterne può essere considerata il dispositivo induttore portante degli stati conseguente alla reclusione [2].
Le persone soggette alla Riduzione degli Stimoli Ambientali accusano, secondo le ricerche, disfunzioni sensoriali, motorie, percettive, cognitive ed emozionali. Ed inoltre, in un estremo tentativo di difesa, esse recuperano memorie cruciali sepolte, che possono favorire un processo di adattamento come pure suscitare ansie aggiuntive le cui radici restano sfuggenti [3].
Stati di allucinazione visiva, auditiva, tattile; del gusto e dell’olfatto; difficolta’ a camminare, scrivere, leggere; distorsioni della percezione del tempo e dello spazio; sconvolgimenti dell’alimentazione, del sonno,della sessualita’ accompagnano chi vive quest’esperienza spesso anche per lunghi periodi dopo la sua fine.
Queste prime manipolazioni collocano a tutti gli effetti le torsioni relazionali esercitate dall’istituzione nell’ordine della tortura;
traducono le pene reclusive inflitte dai giudici in manipolazioni dei sensi e della coscienza le cui implicazioni sono del tutto trascurate da chi le innesca. Come pure trascurate sono pure le reazioni. Prima fra tutte, la morte [4]. Che e’ l’esito, talvolta immediato, di una dissociazione fallita; dell’incapacita’ o del rifiuto di elaborare, nel vortice della vertigine, un Senso qualsivoglia per la propria esistenza nella nuova condizione. D’altra parte, l’elaborazione, sia pur embrionale, di un Senso, se per un verso mette al riparo dalla morte, per un altro spinge una parte di se’ a vestire la divisa del carceriere e con cio’ ad avviare una dinamica penosissima di dissociazione.”
1. D.Gonin, Il corpo incarcerato, Torino 1994, Edizioni Gruppo Abele.
2. A. Ludwig “Alerated states of conscousness”, in Archives of General psychiatry, 26, 1968.
3. Anthony Suraci, Environmental Stmolus Reduction, Rew. Ment. Dis. 138, 1964, 172-180.
4. R.Curcio, S.Petrelli, N.Valentino “Nel bosco di Bistorco”, Roma, 1997, Sensibili alle foglie.
Questo uno stralcio di un testo di Renato Curcio,
per ora come assaggio del materiale che ho voglia di mettere,
perché per smontare il carcere abbiamo bisogno di iniziare a minare quello, anzi quelli, che abbiamo dentro di noi.
Quello che costruiamo, non sempre inconsapevolmente, all’interno dei rapporti nei contesti gruppali,
così come in relazione con le istituzioni che volenti o nolenti siamo costretti ad affrontare nella vita.
Perché per liberarsi dal carcere, dal fine pena mai, e da ogni dispositivo di obbedienza,
eeeeeeeh, c’è da faticà.
Adottate il logo contro l’ergastolo, è un modo per sancire che nei vostri luoghi, fisici o virtuali, non esiste l’aberrazione della reclusione perpetua.
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Svizzera – La Commissione nazionale di prevenzione della tortura definisce «intollerabili» le condizioni materiali di detenzione del carcere losannese Bois-Mermet, nel quale sono ospitati 168 detenuti, mentre lo stabile è previsto per 100 prigionieri.
Nelle celle per un detenuto sono sistemate da due a tre persone. Avolte, i carcerati sono persino costretti a dormire su un materasso per terra. L’ora d’aria non è sempre rispettata e l’accesso alle docce limitato.
La Commissione ha espresso recentemente critiche analoghe nei riguardi del carcere ginevrino di Champ-Dollon.
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Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha escluso qualsiasi ipotesi di amnistia generale verso i ribelli indipendentisti curdi, mentre sono in corso dei negoziati fra in servizi segreti di Ankara e il leader storico del Pkk, Abdullah Ocalan. “Non siamo autorizzati a concedere la grazia agli assassini, non ci occuperemo di tale questione”, ha ribadito Erdogan le cui dichiarazioni sono state riportate dall’agenzia ufficiale turca, Anatolia. I contatti con Ocalan – condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Imrali – hanno come obbiettivo il disarmo del Pkk, organizzazione considerata come terroristica dalla Turchia e dagli alleati occidentali di Ankara.
Fonte: Tm news
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Hanno le barbe lunghe e incolte la maggior parte delle guardie carcerarie delle prigioni libiche dell’era post Gheddafi. Proprio come quelle che portavano gli islamici nel mirino del deposto regime di Muammar Gheddafi. E sono proprio loro, gli ex detenuti, a essere diventati i secondini delle carceri della nuova Libia, le cui celle ospitano ora coloro che torturarono gli oppositori di allora.
Si stima che nel Paese molti degli uomini che ora controllano i circa ottomila prigionieri arrestati durante e dopo la Rivoluzione libica siano ex ribelli o ex detenuti. Alla guida del governo libico e dei servizi di sicurezza ci sono persone legate al Gruppo combattente islamico libico che ha contrastato il regime di Gheddafi negli anni Novanta. Ex membri di questo gruppo estremista fanno anche parte della nuova guardia nazionale.
Il nuovo capo del carcere di Tripoli, Mohamed Gweider, è un ex ribelle islamico che ha trascorso oltre dieci anni in una prigione libica. Due delle guardie che lo hanno torturato sono ora suoi prigionieri, così come l’ex capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi. Gweider spiega che è “impossibile” che la Libia invii all’estero questi detenuti, anche se Senussi e Saif al-Islam Gheddafi sono accusati dal Tribunale penale internazionale di crimini per crimini di massa e altre atrocità durante la rivoluzione libica del 17 febbraio 2011. Per Gweider, come per molti altri, si tratta di una missione personale. Gweider, 49 anni, fu arrestato nel 1986 con l’accusa di cospirazione all’interno di una cellula jihadista mentre era agente dell’intelligence guidata da Senussi. Uscito dal carcere di Abu Salim nel 1997, ha sofferto delle torture subite per dieci anni sia sul piano fisico, sia su quello psicologico.
La maggior parte dei prigionieri libici è stato “detenuto per oltre un anno senza un’accusa e senza aver accesso a un legame”, ha denunciato Human Rights Watch nel suo rapporto del 2013, nel quale si legge che in alcune strutture i carcerati erano “ripetutamente torturati e morti in custodia”. E ora il rischio è quello di ritorsioni e vendette.
Fonte: Aki
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Il Tai Chi Chuan, antica tecnica psicofisica cinese, per migliorare il benessere e la disciplina interiore dei detenuti del carcere di Pistoia. È questa l’idea portata avanti da Jessica Venturi e Alessio Tinturli, entrambi maestri di discipline orientali, incaricati dell’insegnamento delle tecniche a una quindicina di detenuti della casa circondariale pistoiese. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Tazio Bianchi e dell’educatrice Liliana Lupaioli. Gli organizzatori dell’iniziativa sostengono così la volontà di mettere la struttura carceraria e i detenuti in contatto con il mondo esterno: il carcere come luogo di rieducazione, non isolamento.
Fonte: La nazione
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Molti è previsto debbano portare il braccialetto elettronico, quasi tutti devono invece presentarsi con regolarità presso gli uffici immigrazione.
Sono centinaia gli immigrati irregolari che, in attesa di processo, in meno di una settimana sono stati scarcerati in varie città degli Stati Uniti. Non ci sono più i soldi per mantenerli nei centri di detenzione.
L’Ice, l’agenzia dell’immigrazione che fa capo al dipartimento della Sicurezza guidato da Janet Napolitano, ha deciso di iniziare a risparmiare in vista dell’entrata in vigore dei tagli automatici alla spesa pubblica, avvenuta in seguito al decreto firmato dal presidente Usa Barack Obama: 85 miliardi di dollari in meno nel 2013, 1.200 miliardi nei prossimi 10 anni. E 4 miliardi è previsto siano recuperati proprio dalle casse della Sicurezza.
TAGLIO SULLA SPESA DECISO NEL 2011. La scure sulla spesa pubblica, soprannominato il «sequestro», è stata decisa nel 2011 per motivare repubblicani e democratici a trovare un accordo, rivelatosi impossibile, sul tetto del debito.
«Non riesco a credere che non ci fossero altri modi per contenere i costi. Svuotare le carceri solo per questioni economiche è una decisione assurda. Non mi faccio influenzare, ma è normale che mi sento meno sicura. C’è una ragione se le persone sono in prigione», commenta rammaricata a Lettera 43.it Barbara Zarrett, mentre compra le verdure nel famoso mercato di Union Square a New York.
L’ARIZONA È UNO DEI PIÙ COLPITI. Il numero degli immigrati messi in libertà vigilata non si conosce ancora con precisione. Non tutti i centri hanno applicato la misura. Scarcerazioni sono state registrate in alcune prigioni della Lousiana, New Jersey, Texas e New York, tra gli altri.
Uno degli Stati più colpiti è stato sicuramente l’Arizona, dove è più ferrea la legge sull’immigrazione. Più di 300 rilasci e un’aspra polemica tra i repubblicani e le associazioni che difendono i diritti degli immigrati.
«La sicurezza pubblica è in pericolo. Sono stati rimessi in libertà criminali con la scusa dei tagli al bilancio», tuona Paul Babeu, lo sceriffo della Contea di Pinal. «Obama non avrebbe mai permesso che questo avvenisse nelle strade della sua città, ma non ha avuto problemi a farlo da noi».
VIA I DETENUTI MENO PERICOLOSI. Anche il senatore repubblicano John MacCain, impegnato in questi mesi, insieme con una commissione bipartisan, a mettere in piedi le basi per una comprensiva riforma dell’immigrazione, si è detto «contrariato», così come hanno espresso disappunto e paura molti cittadini su Twitter, o attraverso i commenti agli articoli che riportavano la notizia sui network americani.
L’Ice ha però assicurato che i cancelli dei centri di detenzione sono stati aperti solo per gli immigrati irregolari che hanno alle spalle «reati lievi», che non costituiscono quindi un «pericolo per la comunità».
Ogni clandestino costa agli Usa 164 dollari al giorno
L’azione legale che deve decidere sulla deportazione degli immigrati scarcerati però non si ferma e tutti coloro che sono stati fatti uscire dai centri di detenzione sono destinati a essere guardati a vista dalle forze dell’ordine.
Si è trattato di una «misura necessaria, per fare in modo che i livelli di detenzione siano mantenuti anche con il budget attuale», ha spiegato la portavoce dell’Ice, Gillian Christensen.
Il risparmio, in effetti, è notevole se si pensa che il costo per il «mantenimento» di un clandestino nei centri di detenzione è di circa 164 dollari al giorno, mentre, secondo quanto riporta il New York Times, riprendendo le stime dell’associazione National immigration forum, i costi si abbatterebbero fino a poche decine di dollari con altre forme alternative di detenzione.
RILASCIATI SOLO I «NON CRIMINALI». Chiamata in causa dai repubblicani, la Casa Bianca ha fatto sapere di non aver giocato nessun ruolo nella decisione dell’agenzia, ma di ritenere i detenuti rilasciati «non criminali».
Se Obama cerca di mantenersi neutro, a festeggiare sono le associazioni umanitarie che si occupano dei diritti dei clandestini. «Ci sono molte persone in carcere che semplicemente non ci dovrebbero stare», ha spiegato al Washington Post, Lindsay Marshall, la responsabile di un gruppo chiamato Florence immigrant and refugee right project.
Molti di questi, secondo gli attivisti, non sono un pericolo per la comunità, non hanno commesso crimini, ma sono comunque costretti ad attendere la deportazione nei centri di detenzione, lontani dalle loro famiglie.
LA SEPARAZIONE DALLA FAMIGLIA. Tra questi c’è Ronei Ferreira De Souza, il Boston Globe ha raccontato la sua storia: 36enne, in Brasile faceva il giardiniere; ora da cinque mesi lotta contro il provvedimento che impone la deportazione.
È padre di due bambini, il suo avvocato lo descrive come un uomo di Chiesa e buon lavoratore, arrestato dalla polizia alcuni mesi fa per guida senza patente. La deportazione significa la separazione dai suoi figli.
«Abbiamo disperatamente bisogno di una riforma dell’immigrazione», spiega Gabrielle Young, una ragazza dai lunghi capelli biondi che studia a New York per fare l’attrice, «conosco tante persone che lavorano qui da anni. Non hanno i documenti e sono terrorizzati all’idea di essere rispediti nei Paesi di origine. Molti di loro hanno avuto figli, che in America hanno studiato e che qui vogliono vivere. Quando ho sentito la notizia, non ho pensato alla mia incolumità, ma solo al fatto che una mossa così improvvisa, aggiungerà nuovo caos».
NEL PAESE 11 MLN DI IMMIGRATI. La pensa così anche Michael Ruth, studente di legge: «È pericoloso lasciare il campo alla soggettività. L’Ice dice che sono stati rilasciati perché colpevoli solo di reati lievi. Ma cosa vuol dire? Qual è la linea di demarcazione tra un reato e l’altro? Credo che in America vengano arrestate molte persone ingiustamente, per motivi che non meritano il carcere».
Attualmente negli Stati Uniti ci sono circa 11 milioni di immigrati irregolari. Da un mese, un gruppo bipartisan di otto senatori sta studiando una riforma che porti progressivamente sia all’acquisizione della cittadinanza dei clandestini che per anni hanno lavorato e studiato negli Usa, sia alla definizione di severe misure di sicurezza alla frontiera con il Messico.
La riforma dell’immigrazione è uno dei punti cardine del secondo mandato alla Casa Bianca di Obama. Il presidente è convinto che questa possa vedere la luce prima della fine del 2013.
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Monza – Addio (almeno parziale) al bus che collega il centro di Monza con il carcere. Dopo un solo mese di sperimentazione, e «visto lo scarso utilizzo del mini bus» (così recita il comunicato del Comune di Monza), l’amministrazione ha deciso di ridurre il servizio navetta attivato per collegare la stazione di Monza al carcere. Il servizio ora funzionerà offrendo due corse quotidiane dal lunedì al sabato: ore 7,30 dalla stazione al carcere; ore 14,30 dal carcere alla stazione. In precedenza le corse erano 6, tre la mattina e tre al pomeriggio.
La soluzione del bus navetta era stata presa giusto un mese fa, dopo le proteste seguite ai tagli operati da Net, e i disagi per l’isolamento di via Sanquirico. Da venerdì 1 febbraio era dunque stato attivato in via sperimentale un servizio navetta che ristabilisce il collegamento tra la stazione ferroviaria e il carcere: da piazza Castello, vicino al teatro Binario 7, all’ingresso della casa circondariale di via Sanquirico. Il servizio, svolto con minibus da 16 posti e concordato con la direzione del carcere, prevedeva sei corse giornaliere: tre al mattino dalla stazione al carcere e tre al pomeriggio dal carcere alla stazione. Sarà attivo dal lunedì al sabato secondo i seguenti orari: il mattino la partenza dalla stazione è fissata alle 7.30, 8.30 e 9.30, mentre il pomeriggio le partenze dal carcere sono stabilite alle 12.30, 13.30 e 14.30. Dopo un mese, però, i passeggeri imbarcati sono stati troppo pochi: da qui la riduzione a una sola corsa.
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Una corte di Bani Suef (Alto Egitto) respinge il ricorso dei familiari di Nagy Rzik, 10 anni e Mina Fara, di nove. I due avrebbero dissacrato le pagine del Corano. Arrestati nell’aprile 2012 essi resteranno rinchiusi in un carcere minorile fino alla condanna definitiva. P. Rafic Greiche denuncia i tentativi dei Fratelli Musulmani di controllare di nascosto ogni ambito della società.
Il Cairo (AsiaNews) – Ancora soprusi e violenze contro i cristiani copti. Lo scorso 26 febbraio la Corte di Bani Suef (alto Egitto) ha respinto il ricorso in appello dei familiari dei due bambini Nagy Rzik, di 10 anni, and Mina Farag di 9 accusati di aver dissacrato il Corano. Essi sono rinchiusi in un carcere minorile dall’aprile 2012. Il caso ha suscitato molte critiche nel Paese. In molti giudicano il processo illegale e privo di qualsiasi logica.
Sami Harak, avvocato e membro del movimento Egyptian Against Religious Discrimination, sottolinea che “il caso di Bani Suef rappresenta un triste precedente e in futuro vi potrebbero essere altri processi per diffamazioni religiosa, soprattutto a danno di minori di fede cristiana”.
Lo scorso 9 aprile 2012 i due sono stati fermati dall’imam locale che li ha accusati di aver urinato sulle pagine del Corano. Prima di rivolgersi alla polizia, il religioso musulmano ha portato Nabil e Nady in chiesa chiedendo al parroco di punirli. Al rifiuto del sacerdote l’imam ha preso i due bambini e si è recato in tribunale insieme ad altri tre musulmani del villaggio. Senza alcun processo il giudice ha rinchiuso i due giovani in un carcere minorile, con l’accusa di dissacrazione religiosa. A nulla sono serviti gli appelli del padre e della comunità cristiana locale alle autorità locali. Nabil e Nady sono entrambi analfabeti e secondo i genitori non potevano sapere cosa vi era scritto su quelle pagine, trovate in un cumulo di rifiuti.
Se verrà portato avanti fino alla condanna, il caso segnerà un grave precedente per il Paese. Per Saaid Abdel Hafez, avvocato per i diritti umani, è stato commesso un doppio errore. Essendo minori e cristiani essi non possono essere puniti in base alla sharia. I musulmani locali avrebbero dovuto chiedere un risarcimento ai genitori e rappresentanti della comunità copta locale. Il secondo e più grave sbaglio è il processo fatto da una corte civile su pressioni di un leader religioso.
P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, lancia un allarme sull’islamizzazione del Paese. “I Fratelli musulmani – afferma – stanno sostituendo in sordina tutti funzionari dei governatorati locali con persone a loro fedeli. L’Egitto sta diventando sempre di più un Paese islamico, con gravi rischi soprattutto per la minoranza cristiana”. Secondo il sacerdote tale cambiamento avviene nel silenzio generale e lontano dagli occhi dei media. Gli islamisti rimpiazzano funzionari di secondo e terzo rango, che fungono da “consiglieri” per i responsabili dei vari settori dalla Giustizia all’economia. “La popolazione – afferma – non si accorge di nulla. Ma sono decine le persone licenziate e sostituite con altri personaggi dichiaratamente vicini all’establishment estremista”. Proprio grazie a questi “infiltrati le ali più intransigenti dei Fratelli Musulmani e i salafiti agiscono indisturbati, senza il timore di essere puniti”.
Lo scorso 24 febbraio un gruppo di islamisti ha circondato la chiesa di Abu Maqar nel quartiere cairota di Shubra al-Kheima, interrompendo per la seconda volta i lavori di costruzione di una parte dell’edificio. Gli estremisti sono giunti indisturbati sul luogo, sostenendo che non vi erano le necessarie autorizzazioni. Lo scorso 6 luglio centinaia di salafiti hanno presidiato il luogo per più di 24 ore e issato uno striscione con la scritta “Moschea Ebad al-Rahman”, intimando ai cristiani di lasciare il luogo. Molti di loro erano armati. (S.C.)
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diffondiamo da ristretti-orizzonti
Nel solo mese di febbraio sono morti, per cause da appurare, tre detenuti nel carcere di Poggioreale, nel quale sono “ospiti” circa 2.781 unità su una capienza di 1.679 posti. Lo rende noto oggi Mario Barone, Presidente dell’Associazione Antigone-Campania.
“L’1 Febbraio 2013 C.D., già ricoverato al Centro Clinico interno al Carcere di Poggioreale, è deceduto dopo un ricovero urgente al Loreto Mare. F.M. è morto il 6 Febbraio 2013 in Ospedale, dove era stato ricoverato dal 26 gennaio 2013. R.F. è deceduto a seguito di un malore in istituto il 16 febbraio 2013: il 118 ne ha constatato il decesso”.
Questa la drammatica sequenza di morti secondo il portavoce dell’associazione. “È davvero un dato preoccupante” – ha detto Barone – “la sequenza di tre decessi per ragioni legate alla salute. Nei primi due casi, il ricovero in una struttura ospedaliera extra-muraria, avvenuta solo pochi giorni prima del decesso, solleva non pochi interrogativi sugli standard delle prestazioni sanitarie rese all’interno del carcere. Per quanto riguarda l’ultima morte improvvisa, ci chiediamo quali siano le procedure previste nei casi di emergenza e quali interventi di pronto soccorso si attivino in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118”.
“Nonostante siano passati cinque anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla competenza delle Asl” – continua Barone – “ad oggi, non abbiamo dati affidabili e certi sui quali effettuare un monitoraggio. Secondo le nostre stime oltre il 60% dei detenuti presenta una patologia cronica. La tutela della salute in carcere rimane una zona grigia dei diritti fondamentali del detenuti”.
“Il nuovo Parlamento” – ha concluso il presidente campano di Antigone – “dovrà occuparsi, non solo delle drammatiche condizioni di sovraffollamento carcerario che hanno portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma anche della tutela del diritto universale alla salute all’interno degli istituti di pena. Noi da subito segnaleremo questi decessi al Garante campano dei diritti dei detenuti e al Presidente della Commissione Sanità e Sicurezza sociale del Consiglio regionale perché se ne approfondiscano le cause e le dinamiche”.
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Nei giorni scorsi abbiamo incontrato un cittadino da poco uscito dal carcere calabrese di Rossano Scalo, segnatamente dalla sezione “media sicurezza”. Una struttura che sorge in una terra di nessuno, lontana dal centro abitato e che ospita più del doppio dei ristretti che potrebbe contenere. Le parole di questo cittadino danno ancora una volta il senso di un degrado già raccontatoci da un uomo nella stessa condizione del nostro interlocutore (clicca qui) che dimostra come non solo a Poggioreale o a Santa Maria Capua Vetere (clicca qui) esistano situazioni dove la dignità umana è quotidianamente calpestata. Eppure in Calabria esiste anche un altro carcere, come quello di Locri o come il reparto alta sicurezza di quello di Rossano, dove per fortuna non avvengono le tragedie che il cittadino da poco uscito da suo tunnel giudiziario ha deciso di raccontarci. Tragedie che avvengono ogni giorno anche in altri penitenziari, come quello di Poggioreale che nelle ultime settimane ha fatto registrare tre decessi per presunte carenze negli standard igienico sanitari all’interno della struttura.
Partiamo dalla situazione igienica e dalla vivibilità del penitenziario di Rossano Scalo
“Nel carcere di Rossano Scalo non c’è acqua calda in cella. Le docce sono divise in base ai due reparti e ci sono 4 docce per ogni 100 detenuti in celle che, pur essendo da due, ospitano quattro detenuti. Abbiamo fatto anche le battiture e lo sciopero del carrello per protestare contro la quinta branda che in alcune celle era presente. Ricordo che chi dormiva all’ultimo piano del letto a castello, urtava praticamente con la testa sotto al soffitto. L’acqua calda non è disponibile per tutti i detenuti quando è il momento di fare la doccia e per molti l’acqua è tiepida, quando non fredda. Le docce sono poste all’esterno e quindi, una volta lavato – per modo di dire – il rischio concreto è quello di ammalarsi, come anche a me è capitato con febbri molto alte. In caso di malattia, poi, sei abbandonato a te stesso e se stai male ti conviene stare zitto e restare sulla branda. Consideri che molti detenuti sono non calabresi e ci sono anche tanti immigrati. Per questi il dramma è doppio perché c’è anche la solitudine”.
Cosa faceva o che servizi offriva il carcere nei momenti in cui non eravate chiusi in cella?
“Non offre nulla e non funziona niente, si può dire che funzioni meglio il reparto alta sicurezza rispetto a quello di media sicurezza dove io ero detenuto. A differenza dei detenuti del reparto alta sicurezza, noi non avevamo né cuochi né corsi di ceramica o altre attività. L’unica cosa che ho potuto fare è stata iscrivermi al catechismo”.
Ha assistito a suicidi o a scene di autolesionismo dietro le sbarre?
“L’autolesionismo l’ho visto coi miei occhi. Una scena che non dimenticherò mai più. Era un detenuto marocchino che si tagliò le braccia e uscì dalla cella sanguinando in modo spaventoso. Ricordo che scagliò degli oggetti, uno sgabello contro una porta e vennero gli agenti a prenderlo. Lo misero in isolamento, al primo piano. L’indomani mattina, all’alba, presero questa persona e – parliamo di poche settimane fa e faceva un gran freddo – la buttarono nel “passeggio” dove trascorrevamo l’ora d’aria. Lo buttarono in mutande e sentivamo strillare tutti i detenuti stranieri che si accorsero di quanto era accaduto. Il detenuto marocchino fu anche minacciato di ricevere come trattamento punitivo la doccia con l’estintore. Successe un macello quel giorno in carcere”.
Che ci può dire del vitto a Rossano Scalo?
“Il vitto più di una volta è stato una patata bollita a testa, non c’era nulla. La domenica sera non passa il carrello e i prezzi nello spaccio sono astronomici. Dal tabacco ai generi di prima necessità, i prezzi sono più che raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. Inoltre la colazione era preparata ogni mattina in maniera antigienica. Ricordo fusti di latte che venivano lasciati per ore a pochi metri da enormi cataste di spazzatura con topi, scarafaggi e sporcizia tutt’attorno. Quel latte era destinato a noi detenuti, uno schifo solo a pensarci”.
Oltre a quel marocchino, c’è qualche altro caso umano che l’ha colpita a Rossano Scalo?
“Certo, più di uno ma in particolare ricordo un anziano signore che era in carcere da oltre vent’anni e che ha più di 70 anni. E’ in condizioni pietose e non riceve visite da tempo, anche se i colloqui non sono per nulla riservati dato che ovunque ci sono cimici e telecamere. Per noi non esiste privacy. Tornando all’anziano, ha bisogno di cure che non riceve e spesso in carcere siamo noi detenuti a dover svolgere assistenza. Anche a me è capitato, quando ero in infermeria e a mia volta avevo bisogno di cure urgenti. Un’esperienza incredibile e terribile da vivere. Posso dire che in carcere a Rossano Scalo non c’è alcun rispetto per la dignità. In quel carcere sei un numero, un pacco postale”.
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Commenti disabilitati su L’inferno del carcere di Rossano Scalo. Un ex detenuto: “Lì non sei un uomo ma un numero” | tags: anticarceraria, calabria, carcere, CordaTesa, detenuti, ex-detenuto racconta, rossano scalo, situazione carceraria | posted in Contro carcere, CIE e OPG, Dentro le mura, Tutti
Per spostare un carcerato dalle Sughere a viale Alfieri servono cinque agenti «Adesso quel personale verrà utilizzato per altre mansioni»
LIVORNO. La telemedicina sbarca nel carcere di Livorno. Tra pochi giorni, infatti, il servizio sarà attivo anche presso la casa circondariale delle Sughere, dopo Porto Azzurro e isola di Gorgona. Il servizio, messo a disposizione dall’Usl 6, permette di collegare le strutture di reclusione con il reparto di Dermatologia dell’ospedale di Livorno. Il medico, presente all’interno della struttura carceraria trasmetterà, tramite videocamera digitale, le immagini del paziente al reparto di dermatologia. Qui, in tempo reale, lo specialista dermatologo individuerà presunti melanomi, infezioni cutanee o altre lesioni della pelle, acquisirà esami, dati clinici e stabilirà l’eventuale terapia da somministrare al paziente o le visite da effettuare. «Questo servizio – spiega Andrea Belardinelli, responsabile dell’Area programmazione e innovazione dell’Usl 6 – permette di eseguire visite dermatologiche senza effettuare spostamenti di detenuti all’esterno del carcere o di professionisti all’interno, limitando i costi e le difficoltà logistiche». Per spostare un detenuto dal carcere all’ospedale «vengono impiegati fino a cinque persone tra autista e agenti di guardia – precisa Carmelo Cantone, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Toscana – che potrebbero essere utilizzati per altre mansioni».
Sono 2200 le visite specialistiche a cui, ogni anno, vengono sottoposti i detenuti del carcere livornese, di queste 2mila sono quelle interne (230 di tipo dermatologico) e 200 quelle esterne; venti i ricoveri. I dati aggiornati all’1 giugno 2012, indicano che il totale dei detenuti presenti all’interno delle Sughere è di 140, in diminuzione per la chiusura di due padiglioni (nel 2011 erano 420), tuttavia ogni anno passano dal carcere circa 2500 detenuti che poi vengono spostati altrove. Il personale che svolge servizio medico e infermieristico è composto da 10 medici e 11 infermieri che lavorano 27 ore al giorno. A rendere possibile il servizio di dermatologia, tramite telemedicina, è l’uso della banda larga, cioè quell’infrastruttura che permette di far viaggiare in maniera veloce e sicura grandi quantità di dati. Ogni paziente avrà a disposizione una cartella clinica elettronica, non più cartacea, che conterrà l’intero percorso medico del detenuto, potrà essere aggiornata in tempo reale e rimarrà a disposizione anche in caso di trasferimento da un carcere all’altro. «Siamo partiti con il servizio di dermatologia – spiega Maria Gloria Marinari, responsabile della Sanità carceraria – perché è quello che si presta meglio alla telemedicina. A breve partirà anche quello di cardiologia con la possibilità di inviare i referti degli elettrocardiogrammi». «Questo è il primo passo per permettere ai cittadini reclusi di avere pari opportunità sanitarie», conclude il dg Monica Calamai.
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Un secondo detenuto palestinese è morto ieri in un carcere israeliano in Cisgiordania. Ne dà notizia il sito di al Arabiya, aggiungendo che l’Anp ha lanciato una inchiesta su questo nuovo decesso. Secondo la famiglia, citata dall’emittente araba, Ayman Abu Sufian, 40 anni, era diabetico e prima di morire aveva la pressione alta. Abu Sufian era stato arrestato mercoledì dalle autorità israeliane. Il 23 febbraio era morto in un carcere israeliano un altro detenuto palestinese, Arafat Jaradat, 30 anni. Le cause del decesso, che ha innescato violente proteste in tutta la Cisgiordania, non sono state ancora accertate, ma anche per il Presidente palestinese Abu Mazen l’uomo è stato torturato. Migliaia di palestinesi manifestano in Cisgiordania da settimane per esprimere la loro solidarietà ad almeno 11 loro concittadini detenuti da Israele, da tempo in sciopero della fame per protestare contro la politica di detenzione di Israele.
Fonte TM News
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Enna – Viene riferito a questa Segreteria Regionale SAPPe che giorno 28
FEBBRAIO 2013 un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria assistente capo
in servizio presso la Casa Circondariale di Piazza Armerina , durante l’espletamento
dell’attività lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario presso il reparto detentivo
primo piano senza alcuna motivazione è stato aggredito da un detenuto di origini
catanesi solo perché l’ utente non aveva accettato di buon grado una rilevazione
disciplinare.
Per quanto si è venuto a sapere ,il poliziotto penitenziario era solo presso il
reparto detentivo durante il cambio per usufruire del tempo necessario per pranzare .
L’appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria ha riportato varie contusioni
con prognosi di giorni 10 salvo complicazioni.
Fonte
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La storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica.
“La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente – spiega Salzano – Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”.
Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”.
Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis – incalza l’esponente dei Radicali – Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta.
Fonte: La Città di Salerno
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diffondiamo da Macerie
Un’altra giornata movimentata al Cie di Torino. Nel primo pomeriggio un recluso sale sul tetto dell’area viola per evitare l’espulsione, e un gruppo di solidali si raduna fuori le mura per salutarlo e sostenerlo con slogan e petardoni di un certo calibro. Poco distante, un fotoreporter tradito dal flash della fotocamera viene raggiunto, circondato e maltrattato: riesce a mettere in salvo la macchina fotografica ma perde gli occhiali. In seguito si rivelerà essere un collaboratore dei peggiori quotidiani locali,forse l’autore di queste foto non esattamente da premio Pulitzer.
Quando arriva la conferma che l’espulsione del recluso sul tetto è rimandata, i manifestanti si allontanano, ma una dozzina viene bloccata poco distante da diverse volanti della polizia. Ascolta uno dei fermati al telefono con Radio Blackout 105.250, oppure scarica il file mp3.
I fermati vengono portati nel commissariato di via Tirreno, e trattenuti per diverse ore. Verranno rilasciati in serata, tutti tranne una compagna francese: stando alle minacce della polizia, verrà accompagnata alla frontiera con un decreto di espulsione dall’Italia.
macerie @ Febbraio 28, 2013
Secondo le edizioni online di alcuni quotidiani locali, nella notte tra giovedì e venerdì ha preso fuoco una cabina elettrica dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino in corso Verona. Stando ai calcoli dei ragionieri della Questura, i danni dell’incendio ammonterebbero a 70mila euro. Per poter funzionare, gli uffici sarebbero stati collegati a un generatore di emergenza, gentilmente concesso dall’Iren. L’ipotesi dei giornali è che non si sia trattato di un corto-circuito, o di un fulmine a ciel sereno, ma di una azione legata alle recenti rivolte nel Cie di Torino, e alla minaccia di espellere una compagna francese fermata il giorno precedente dopo una manifestazione sotto al Cie. La compagna fermata, come già annunciato da qualche agenzia di stampa, è già stata deportata in Francia nel pomeriggio di oggi: sta bene e siamo sicuri che il suo morale sia alto.
Rispetto alla giornata di ieri, inoltre, c’è da aggiungere la notizia, sempre riportata da alcuni giornali, che mentre una dozzina di compagni era trattenuta nel commissariato di via Tirreno «un gruppo di anarchici ha rovesciato alcuni cassonetti in corso Regina Margherita, via Fiochetto e via Cigna e poi svuotato degli estintori sull’asfalto.»
macerie @ Marzo 1, 2013
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Detenuto agli arresti domiciliari dà in escandescenza ed accusa un malore. E’ successo giovedì mattina in un’abitazione a Rimini. A chiedere l’intervento del 112 è stato un familiari.
E’ successo giovedì mattina in un’abitazione a Rimini. A chiedere l’intervento del 112 è stato un familiare poichè non riusciva a calmare l’indagato. Giunti sul posto i Carabinieri ed i sanitari hanno appurato che il detenuto ai domiciliari, di nazionalità straniera, era talmente in stato di agitazione che era necessario ricoverarlo in ospedale.
Sottoposto a varie visite, tra cui quella di uno specialista psichiatra, è emerso che la causa del suo male, che gli provocava dolori al petto, è la sua “insofferenza” alla detenzione domiciliare che, a suo dire, gli impediva di praticare sport. Riportato alla ragione e tranquillizzato, veniva riaccompagnato presso il domicilio.
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Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro Paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani.
In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato al Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40 mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47 enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese.
Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale.
Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto.
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E’ in gravi condizioni il detenuto che, nella tarda serata di ieri 28 febbraio, intorno alle 23,15, ha tentato il suicidio nel carcere di Mammagialla.
Si tratterebbe di un tunisino sulla trentina che, secondo quando si apprende, avrebbe inizialmente ingerito pile per poi procurarsi un profondo taglio all’avambraccio e infine avrebbe provato a impiccarsi.
Subito intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria che hanno scongiurato il peggio.
Sono stati allertati i sanitari del 118 che hanno trasferito il trentenne a Belcolle dove è ricoverato in gravissime condizioni.
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(ASCa-AFP) – Beijing, 1 mar – La televisione di Stato cinese, la Cctv, ha trasmesso in diretta il trasferimento di quattro detenuti condannati a morte e diretti al patibolo.
I quattro sono colpevoli di aver rapito e ucciso 13 turisti cinesi sul fiume Mekong lo scorso anno.
Il narcotrafficante birmano Naw Kham – capo dell’organizzione operante in Cina, Laos, Birmania, Tailandia, Cambogia e Vietnam – e’ stato il primo ad essere inqadrato dalle telecamere alle quali ha rivolto un sorriso prima di entrare nel blindato della polizia cinese, seguito dai suoi complici, tutti accusati di omicidio volontario, traffico di droga e squestro di persona.
I media cinesi hanno precisato che la polizia inizialmente aveva programmato un attacco con i droni per uccidere Naw Kham – considerato uno dei ”signori della droga” del sud-est asiatico e soprannominato ”il padrino” – per poi cambiare idea e tentare di catturarlo vivo in Birmania.
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Allarme tubercolosi a Canton Mombello. Un detenuto di 42 anni, di nazionalità italiana, in cella dalla metà di gennaio, è risultato positivo al test di di Mantoux. L’uomo era in stanza con altre otto persone, immeditamente sottoposte all’esame della “tubercolina” e alla profilassi del caso.
Stessa procedura per il personale di polizia penitenziaria e per le altre persone venute a contatto con il malato durante la sua permanenza in carcere.
La malattia, in una situazione come quella in cui si trovano i carcerati della casa circondariale di Brescia, può creare davvero un pericolo epidemia, date le condizioni di sovraffollamento della struttura.
Il 42enne è stato ricoverato in ospedale, nel reparto infettivi dell’Ospedale civile di Brescia, in isolamento, e sottoposto a terapia antibiotica.
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