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La protesta al Cie: «Due persone con le labbra cucite»

Labbra-cuciteBOLOGNA – «Anche oggi al Cie di Bologna ci sono due persone, un uomo e una donna, con le labbra cucite per protesta, contro la propria situazione e contro le condizioni della struttura». Lo rileva la Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, avvocato Desi Bruno, precisando di aver saputo ieri di queste due persone e di aver accertato che «ancora oggi sono nelle stesse condizioni». Questa protesta autolesionista, cominciata anni fa in carcere, è praticata anche nei Centri di identificazione ed espulsione per immigrati (Cie). La Garante spiega che l’uomo «proviene dal carcere e si chiede come mai si trovi al Cie. La donna l’ha fatto perchè non riesce a comunicare: anche ieri mancava il mediatore arabo»

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L’ingiustizia Minorile

area_pen_internaLa situazione delle carceri minorili in Italia non è esattamente la riproduzione in scala ridotta della sistematica infrazione dei diritti basilari di quelle per adulti, ma non ci si allontana troppo.

La fotografia espressa dall’ultimo bollettino statistico elaborato dal Dipartimento di Giustizia Minorile racconta di un disagio che cresce inesorabilmente. Di fronte a una capienza ormai quasi saturata, il numero di minorenni inviati alle carceri è aumentato quasi del 20% dal 2006. Ma è l’identità dei detenuti il dato che desta più preoccupazione: mentre nel 2006 gli stranieri superavano nettamente gli italiani, ora accade esattamente il contrario. Sui 509 minori che passano le loro giornate negli Istituti Penitenziari, 309 sono italiani. La differenza di nazionalità rappresenta anche una differenza di genere: mentre le italiane minorenni autrici di reato rappresentano l’1% dei loro coetanei maschi, tra i detenuti non italiani la percentuale di donne raggiunge il 15%.

Anche per quanto riguarda le Comunità, centri di accoglienza destinati non esclusivamente ai minori autori di reato, la situazione non è buona. Si è passati da un totale di 463 minori collocati diariamente in queste strutture nel 2006 ai 958 nel 2012. Se questo fosse successo a scapito della misura più dura, il carcere, lo si potrebbe interpretare come un segnale positivo. Ma visto l’aumento descritto di sopra, si può solamente concludere osservando che i minori entrati nel circuito penale sono aumentati drammaticamente. I soggetti presi a carico dagli Uffici Sociali, enti locali del Dipartimento di Giustizia Minorile, sono passati infatti da 15.000 a 20.000. Questi enti devono quindi far fronte a una vera emergenza sociale, che riguarda soprattutto i minori italiani, senza poter attingere da nuove risorse.

Osservando i dati sull’ingresso nel circuito penale scorporati per nazionalità e genere, si nota come tra gli stranieri il numero di ragazze sia stabile da sette anni, mentre quello dei ragazzi sia raddoppiato. Per quanto riguarda gli italiani si osserva il contrario: con un aumento rispettivamente del 75 e del 50%. Confrontando questo dato coi precedenti, si osserva come per le ragazze italiane l’uso del carcere sia una misura residuale, anche perché l’Istituto Penale di Pontremoli, l’unico a servire l’Italia settentrionale, ha solo 16 posti ed è sempre completo.

In definitiva, a fronte di una costante spending review il budget, già risicato, della giustizia minorile non permette di far fronte a tutte le spese sostenute dalle Comunità (il tipo di centro più utilizzato) per l’alloggio dei minorenni autori di reato. Questo mentre le situazioni di povertà e di devianza sociale aumentano costantemente, con una crescita sistematica delle infrazioni più gravi da parte degli italiani e un conseguente aumento dell’uso delle carceri. Di questo passo, il traguardo del sovraffollamento sarà raggiunto anche per quanto riguarda i minorenni.

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Gli stati modificati della/nella reclusione: l’impatto con la detenzione

diffondiamo da Polvere da sparo

images (2)“La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio. Chi l’attraversa non può evitare uno sfregio la cui rimarginazione non è affatto scontata.
La prima rasoiata isola il neo-recluso dai suoi mondi consueti, lo decontestualizza totalmente e in un lampo lo getta in uno stato di spaesamento radicale. Il noto, il familiare, l’abituale, scompaiono dal suo orizzonte sensoriale ed egli brancola, smarrito, nel vortice d’un risucchio che lo aspira entro un orrido di cui non percepisce altro che i pericoli.

Lo stato di spaesamento trova nella vertigine la sua forma più consueta.
Secondo Daniel Gonin, medico penitenziario e coordinatore di una ricerca condotta nelle carceri francesi per conto del Consiglio di Ricerca del Ministero della Giustizia, almeno “un quarto degli entranti in prigione soffre di vertigini (…). Quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equlibrio è piu’ precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso” [1].
La seconda rasoiata investe il flusso polimorfo degli stimoli ambientali che, improvvisamente, viene disseccato. La riduzione drastica degli stimoli ambientali riduce, in chi la subisce, un grappolo di fenomenologie riconducibili alle transe di ipostimolazione.
Arnold Ludwig nella sua celebre catalogazione degli stati di coscienza osserva che la riduzione delle stimolazioni esterne può essere considerata il dispositivo induttore portante degli stati conseguente alla reclusione [2].
Le persone soggette alla Riduzione degli Stimoli Ambientali accusano, secondo le ricerche, disfunzioni sensoriali, motorie, percettive, cognitive ed emozionali. Ed inoltre, in un estremo tentativo di difesa, esse recuperano memorie cruciali sepolte, che possono favorire un processo di adattamento come pure suscitare ansie aggiuntive le cui radici restano sfuggenti [3].
Stati di allucinazione visiva, auditiva, tattile; del gusto e dell’olfatto; difficolta’ a camminare, scrivere, leggere; distorsioni della percezione del tempo e dello spazio; sconvolgimenti dell’alimentazione, del sonno,della sessualita’ accompagnano chi vive quest’esperienza spesso anche per lunghi periodi dopo la sua fine.
Queste prime manipolazioni collocano a tutti gli effetti le torsioni relazionali esercitate dall’istituzione nell’ordine della tortura;
traducono le pene reclusive inflitte dai giudici in manipolazioni dei sensi e della coscienza le cui implicazioni sono del tutto trascurate da chi le innesca. Come pure trascurate sono pure le reazioni. Prima fra tutte, la morte [4]. Che e’ l’esito, talvolta immediato, di una dissociazione fallita; dell’incapacita’ o del rifiuto di elaborare, nel vortice della vertigine, un Senso qualsivoglia per la propria esistenza nella nuova condizione. D’altra parte, l’elaborazione, sia pur embrionale, di un Senso, se per un verso mette al riparo dalla morte, per un altro spinge una parte di se’ a vestire la divisa del carceriere e con cio’ ad avviare una dinamica penosissima di dissociazione.”

1. D.Gonin, Il corpo incarcerato, Torino 1994, Edizioni Gruppo Abele.
2. A. Ludwig “Alerated states of conscousness”, in Archives of General psychiatry, 26, 1968.
3. Anthony Suraci, Environmental Stmolus Reduction, Rew. Ment. Dis. 138, 1964, 172-180.
4. R.Curcio, S.Petrelli, N.Valentino “Nel bosco di Bistorco”, Roma, 1997, Sensibili alle foglie.

Questo uno stralcio di un testo di Renato Curcio,
per ora come assaggio del materiale che ho voglia di mettere,
perché per smontare il carcere abbiamo bisogno di iniziare a minare quello, anzi quelli, che abbiamo dentro di noi.
Quello che costruiamo, non sempre inconsapevolmente, all’interno dei rapporti nei contesti gruppali,
così come in relazione con le istituzioni che volenti o nolenti siamo costretti ad affrontare nella vita.
Perché per liberarsi dal carcere, dal fine pena mai, e da ogni dispositivo di obbedienza,
eeeeeeeh, c’è da faticà.

Adottate il logo contro l’ergastolo, è un modo per sancire che nei vostri luoghi, fisici o virtuali, non esiste l’aberrazione della reclusione perpetua.

 


Dure critiche al carcere di Bois-Mermet

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Svizzera – La Commissione nazionale di prevenzione della tortura definisce «intollerabili» le condizioni materiali di detenzione del carcere losannese Bois-Mermet, nel quale sono ospitati 168 detenuti, mentre lo stabile è previsto per 100 prigionieri.

Nelle celle per un detenuto sono sistemate da due a tre persone. Avolte, i carcerati sono persino costretti a dormire su un materasso per terra. L’ora d’aria non è sempre rispettata e l’accesso alle docce limitato.

La Commissione ha espresso recentemente critiche analoghe nei riguardi del carcere ginevrino di Champ-Dollon.


Turchia: Erdogan esclude ipotesi dell’amnistia generale per il Pkk “niente grazia agli assassini”

images (1)Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha escluso qualsiasi ipotesi di amnistia generale verso i ribelli indipendentisti curdi, mentre sono in corso dei negoziati fra in servizi segreti di Ankara e il leader storico del Pkk, Abdullah Ocalan. “Non siamo autorizzati a concedere la grazia agli assassini, non ci occuperemo di tale questione”, ha ribadito Erdogan le cui dichiarazioni sono state riportate dall’agenzia ufficiale turca, Anatolia. I contatti con Ocalan – condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Imrali – hanno come obbiettivo il disarmo del Pkk, organizzazione considerata come terroristica dalla Turchia e dagli alleati occidentali di Ankara.

Fonte: Tm news


Libia: da carcerati a secondini… il nuovo volto delle prigioni post-Gheddafi

LIBYA-CONFLICTHanno le barbe lunghe e incolte la maggior parte delle guardie carcerarie delle prigioni libiche dell’era post Gheddafi. Proprio come quelle che portavano gli islamici nel mirino del deposto regime di Muammar Gheddafi. E sono proprio loro, gli ex detenuti, a essere diventati i secondini delle carceri della nuova Libia, le cui celle ospitano ora coloro che torturarono gli oppositori di allora.
Si stima che nel Paese molti degli uomini che ora controllano i circa ottomila prigionieri arrestati durante e dopo la Rivoluzione libica siano ex ribelli o ex detenuti. Alla guida del governo libico e dei servizi di sicurezza ci sono persone legate al Gruppo combattente islamico libico che ha contrastato il regime di Gheddafi negli anni Novanta. Ex membri di questo gruppo estremista fanno anche parte della nuova guardia nazionale.
Il nuovo capo del carcere di Tripoli, Mohamed Gweider, è un ex ribelle islamico che ha trascorso oltre dieci anni in una prigione libica. Due delle guardie che lo hanno torturato sono ora suoi prigionieri, così come l’ex capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi. Gweider spiega che è “impossibile” che la Libia invii all’estero questi detenuti, anche se Senussi e Saif al-Islam Gheddafi sono accusati dal Tribunale penale internazionale di crimini per crimini di massa e altre atrocità durante la rivoluzione libica del 17 febbraio 2011. Per Gweider, come per molti altri, si tratta di una missione personale. Gweider, 49 anni, fu arrestato nel 1986 con l’accusa di cospirazione all’interno di una cellula jihadista mentre era agente dell’intelligence guidata da Senussi. Uscito dal carcere di Abu Salim nel 1997, ha sofferto delle torture subite per dieci anni sia sul piano fisico, sia su quello psicologico.
La maggior parte dei prigionieri libici è stato “detenuto per oltre un anno senza un’accusa e senza aver accesso a un legame”, ha denunciato Human Rights Watch nel suo rapporto del 2013, nel quale si legge che in alcune strutture i carcerati erano “ripetutamente torturati e morti in custodia”. E ora il rischio è quello di ritorsioni e vendette.

Fonte: Aki


Pistoia: corso di Tai Chi Chuan per i detenuti, discipline orientali al carcere di Santa Caterina

czljianIl Tai Chi Chuan, antica tecnica psicofisica cinese, per migliorare il benessere e la disciplina interiore dei detenuti del carcere di Pistoia. È questa l’idea portata avanti da Jessica Venturi e Alessio Tinturli, entrambi maestri di discipline orientali, incaricati dell’insegnamento delle tecniche a una quindicina di detenuti della casa circondariale pistoiese. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Tazio Bianchi e dell’educatrice Liliana Lupaioli. Gli organizzatori dell’iniziativa sostengono così la volontà di mettere la struttura carceraria e i detenuti in contatto con il mondo esterno: il carcere come luogo di rieducazione, non isolamento.

Fonte: La nazione


Immigrazione, gli Usa aprono le carceri

carcere-california-300x193Molti è previsto debbano portare il braccialetto elettronico, quasi tutti devono invece presentarsi con regolarità presso gli uffici immigrazione.
Sono centinaia gli immigrati irregolari che, in attesa di processo, in meno di una settimana sono stati scarcerati in varie città degli Stati Uniti. Non ci sono più i soldi per mantenerli nei centri di detenzione.
L’Ice, l’agenzia dell’immigrazione che fa capo al dipartimento della Sicurezza guidato da Janet Napolitano, ha deciso di iniziare a risparmiare in vista dell’entrata in vigore dei tagli automatici alla spesa pubblica, avvenuta in seguito al decreto firmato dal presidente Usa Barack Obama: 85 miliardi di dollari in meno nel 2013, 1.200 miliardi nei prossimi 10 anni. E 4 miliardi è previsto siano recuperati proprio dalle casse della Sicurezza.
TAGLIO SULLA SPESA DECISO NEL 2011. La scure sulla spesa pubblica, soprannominato il «sequestro», è stata decisa nel 2011 per motivare repubblicani e democratici a trovare un accordo, rivelatosi impossibile, sul tetto del debito.
«Non riesco a credere che non ci fossero altri modi per contenere i costi. Svuotare le carceri solo per questioni economiche è una decisione assurda. Non mi faccio influenzare, ma è normale che mi sento meno sicura. C’è una ragione se le persone sono in prigione», commenta rammaricata a Lettera 43.it Barbara Zarrett, mentre compra le verdure nel famoso mercato di Union Square a New York.
L’ARIZONA È UNO DEI PIÙ COLPITI. Il numero degli immigrati messi in libertà vigilata non si conosce ancora con precisione. Non tutti i centri hanno applicato la misura. Scarcerazioni sono state registrate in alcune prigioni della Lousiana, New Jersey, Texas e New York, tra gli altri.
Uno degli Stati più colpiti è stato sicuramente l’Arizona, dove è più ferrea la legge sull’immigrazione. Più di 300 rilasci e un’aspra polemica tra i repubblicani e le associazioni che difendono i diritti degli immigrati.
«La sicurezza pubblica è in pericolo. Sono stati rimessi in libertà criminali con la scusa dei tagli al bilancio», tuona Paul Babeu, lo sceriffo della Contea di Pinal. «Obama non avrebbe mai permesso che questo avvenisse nelle strade della sua città, ma non ha avuto problemi a farlo da noi».
VIA I DETENUTI MENO PERICOLOSI. Anche il senatore repubblicano John MacCain, impegnato in questi mesi, insieme con una commissione bipartisan, a mettere in piedi le basi per una comprensiva riforma dell’immigrazione, si è detto «contrariato», così come hanno espresso disappunto e paura molti cittadini su Twitter, o attraverso i commenti agli articoli che riportavano la notizia sui network americani.
L’Ice ha però assicurato che i cancelli dei centri di detenzione sono stati aperti solo per gli immigrati irregolari che hanno alle spalle «reati lievi», che non costituiscono quindi un «pericolo per la comunità».

Ogni clandestino costa agli Usa 164 dollari al giorno

L’azione legale che deve decidere sulla deportazione degli immigrati scarcerati però non si ferma e tutti coloro che sono stati fatti uscire dai centri di detenzione sono destinati a essere guardati a vista dalle forze dell’ordine.
Si è trattato di una «misura necessaria, per fare in modo che i livelli di detenzione siano mantenuti anche con il budget attuale», ha spiegato la portavoce dell’Ice, Gillian Christensen.
Il risparmio, in effetti, è notevole se si pensa che il costo per il «mantenimento» di un clandestino nei centri di detenzione è di circa 164 dollari al giorno, mentre, secondo quanto riporta il New York Times, riprendendo le stime dell’associazione National immigration forum, i costi si abbatterebbero fino a poche decine di dollari con altre forme alternative di detenzione.
RILASCIATI SOLO I «NON CRIMINALI». Chiamata in causa dai repubblicani, la Casa Bianca ha fatto sapere di non aver giocato nessun ruolo nella decisione dell’agenzia, ma di ritenere i detenuti rilasciati «non criminali».
Se Obama cerca di mantenersi neutro, a festeggiare sono le associazioni umanitarie che si occupano dei diritti dei clandestini. «Ci sono molte persone in carcere che semplicemente non ci dovrebbero stare», ha spiegato al Washington Post, Lindsay Marshall, la responsabile di un gruppo chiamato Florence immigrant and refugee right project.
Molti di questi, secondo gli attivisti, non sono un pericolo per la comunità, non hanno commesso crimini, ma sono comunque costretti ad attendere la deportazione nei centri di detenzione, lontani dalle loro famiglie.
LA SEPARAZIONE DALLA FAMIGLIA. Tra questi c’è Ronei Ferreira De Souza, il Boston Globe ha raccontato la sua storia: 36enne, in Brasile faceva il giardiniere; ora da cinque mesi lotta contro il provvedimento che impone la deportazione.
È padre di due bambini, il suo avvocato lo descrive come un uomo di Chiesa e buon lavoratore, arrestato dalla polizia alcuni mesi fa per guida senza patente. La deportazione significa la separazione dai suoi figli.
«Abbiamo disperatamente bisogno di una riforma dell’immigrazione», spiega Gabrielle Young, una ragazza dai lunghi capelli biondi che studia a New York per fare l’attrice, «conosco tante persone che lavorano qui da anni. Non hanno i documenti e sono terrorizzati all’idea di essere rispediti nei Paesi di origine. Molti di loro hanno avuto figli, che in America hanno studiato e che qui vogliono vivere. Quando ho sentito la notizia, non ho pensato alla mia incolumità, ma solo al fatto che una mossa così improvvisa, aggiungerà nuovo caos».
NEL PAESE 11 MLN DI IMMIGRATI. La pensa così anche Michael Ruth, studente di legge: «È pericoloso lasciare il campo alla soggettività. L’Ice dice che sono stati rilasciati perché colpevoli solo di reati lievi. Ma cosa vuol dire? Qual è la linea di demarcazione tra un reato e l’altro? Credo che in America vengano arrestate molte persone ingiustamente, per motivi che non meritano il carcere».
Attualmente negli Stati Uniti ci sono circa 11 milioni di immigrati irregolari. Da un mese, un gruppo bipartisan di otto senatori sta studiando una riforma che porti progressivamente sia all’acquisizione della cittadinanza dei clandestini che per anni hanno lavorato e studiato negli Usa, sia alla definizione di severe misure di sicurezza alla frontiera con il Messico.
La riforma dell’immigrazione è uno dei punti cardine del secondo mandato alla Casa Bianca di Obama. Il presidente è convinto che questa possa vedere la luce prima della fine del 2013.

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Monza, tagliato il bus navetta Stazione-carcere per pochi intimi

imagesMonza – Addio (almeno parziale) al bus che collega il centro di Monza con il carcere. Dopo un solo mese di sperimentazione, e «visto lo scarso utilizzo del mini bus» (così recita il comunicato del Comune di Monza), l’amministrazione ha deciso di ridurre il servizio navetta attivato per collegare la stazione di Monza al carcere. Il servizio ora funzionerà offrendo due corse quotidiane dal lunedì al sabato: ore 7,30 dalla stazione al carcere; ore 14,30 dal carcere alla stazione. In precedenza le corse erano 6, tre la mattina e tre al pomeriggio.

La soluzione del bus navetta era stata presa giusto un mese fa, dopo le proteste seguite ai tagli operati da Net, e i disagi per l’isolamento di via Sanquirico. Da venerdì 1 febbraio era dunque stato attivato in via sperimentale un servizio navetta che ristabilisce il collegamento tra la stazione ferroviaria e il carcere: da piazza Castello, vicino al teatro Binario 7, all’ingresso della casa circondariale di via Sanquirico. Il servizio, svolto con minibus da 16 posti e concordato con la direzione del carcere, prevedeva sei corse giornaliere: tre al mattino dalla stazione al carcere e tre al pomeriggio dal carcere alla stazione. Sarà attivo dal lunedì al sabato secondo i seguenti orari: il mattino la partenza dalla stazione è fissata alle 7.30, 8.30 e 9.30, mentre il pomeriggio le partenze dal carcere sono stabilite alle 12.30, 13.30 e 14.30. Dopo un mese, però, i passeggeri imbarcati sono stati troppo pochi: da qui la riduzione a una sola corsa.

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Egitto, due bambini copto-ortodossi di 9 e 10 anni rischiano la condanna per blasfemia

Una corte di Bani Suef (Alto Egitto) respinge il ricorso dei familiari di Nagy Rzik, 10 anni e Mina Fara, di nove. I due avrebbero dissacrato le pagine del Corano. Arrestati nell’aprile 2012 essi resteranno rinchiusi in un carcere minorile fino alla condanna definitiva. P. Rafic Greiche denuncia i tentativi dei Fratelli Musulmani di controllare di nascosto ogni ambito della società.

NoReligionIl Cairo (AsiaNews) – Ancora soprusi e violenze contro i cristiani copti. Lo scorso 26 febbraio la Corte di Bani Suef (alto Egitto) ha respinto il ricorso in  appello dei familiari dei due bambini Nagy Rzik, di 10 anni, and Mina Farag di 9 accusati di aver dissacrato il Corano.  Essi sono rinchiusi in un carcere minorile dall’aprile 2012. Il caso ha suscitato molte critiche nel Paese. In molti giudicano il processo illegale e privo di qualsiasi logica.

Sami Harak, avvocato e membro del movimento Egyptian Against Religious Discrimination, sottolinea che “il caso di Bani Suef rappresenta un triste precedente e in futuro vi potrebbero essere altri processi per diffamazioni religiosa, soprattutto a danno di minori di fede cristiana”.

Lo scorso 9 aprile 2012 i due sono stati fermati dall’imam locale che li ha accusati di aver urinato sulle pagine del Corano. Prima di rivolgersi alla polizia, il religioso musulmano ha portato Nabil e Nady in chiesa chiedendo al parroco di punirli. Al rifiuto del sacerdote l’imam ha preso i due bambini e si è recato in tribunale insieme ad altri tre musulmani del villaggio. Senza alcun processo il giudice ha rinchiuso i due giovani in un carcere minorile, con l’accusa di dissacrazione religiosa. A nulla sono serviti gli appelli del padre e della comunità cristiana locale alle autorità locali. Nabil e Nady sono entrambi analfabeti e secondo i genitori non potevano sapere cosa vi era scritto su quelle pagine, trovate in un cumulo di rifiuti.

Se verrà portato avanti fino alla condanna, il caso segnerà un grave precedente per il Paese. Per Saaid Abdel Hafez, avvocato per i diritti umani, è stato commesso un doppio errore. Essendo minori e cristiani essi non possono essere puniti in base alla sharia. I musulmani locali avrebbero dovuto chiedere un risarcimento ai genitori e  rappresentanti della comunità copta locale. Il secondo e più grave sbaglio è il processo fatto da una corte civile su pressioni di un leader religioso.

P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, lancia un allarme sull’islamizzazione del Paese. “I Fratelli musulmani – afferma – stanno sostituendo in sordina tutti funzionari dei governatorati locali con persone a loro fedeli. L’Egitto sta diventando sempre di più un Paese islamico, con gravi rischi soprattutto per la minoranza cristiana”. Secondo il sacerdote tale cambiamento avviene nel silenzio generale e lontano dagli occhi dei media. Gli islamisti rimpiazzano funzionari di secondo e terzo rango, che fungono da “consiglieri” per i responsabili dei vari settori dalla Giustizia all’economia. “La popolazione – afferma – non si accorge di nulla. Ma sono decine le persone licenziate e sostituite con altri personaggi dichiaratamente vicini all’establishment estremista”. Proprio grazie a questi “infiltrati le ali più intransigenti dei Fratelli Musulmani e i salafiti agiscono indisturbati, senza il timore di essere puniti”.

Lo scorso 24 febbraio un gruppo di islamisti ha circondato la chiesa di Abu Maqar nel quartiere cairota di Shubra al-Kheima, interrompendo per la seconda volta i lavori di costruzione di una parte dell’edificio. Gli estremisti sono giunti indisturbati sul luogo, sostenendo che non vi erano le necessarie autorizzazioni. Lo scorso 6 luglio centinaia di salafiti hanno presidiato il luogo per più di 24 ore e issato uno striscione con la scritta “Moschea Ebad al-Rahman”, intimando ai cristiani di lasciare il luogo. Molti di loro erano armati.  (S.C.)


Campania: Antigone; tre morti in un solo mese nella Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale

diffondiamo da ristretti-orizzonti

le-croci-rosa-ciudad-jarezNel solo mese di febbraio sono morti, per cause da appurare, tre detenuti nel carcere di Poggioreale, nel quale sono “ospiti” circa 2.781 unità su una capienza di 1.679 posti. Lo rende noto oggi Mario Barone, Presidente dell’Associazione Antigone-Campania.
“L’1 Febbraio 2013 C.D., già ricoverato al Centro Clinico interno al Carcere di Poggioreale, è deceduto dopo un ricovero urgente al Loreto Mare. F.M. è morto il 6 Febbraio 2013 in Ospedale, dove era stato ricoverato dal 26 gennaio 2013. R.F. è deceduto a seguito di un malore in istituto il 16 febbraio 2013: il 118 ne ha constatato il decesso”.
Questa la drammatica sequenza di morti secondo il portavoce dell’associazione. “È davvero un dato preoccupante” – ha detto Barone – “la sequenza di tre decessi per ragioni legate alla salute. Nei primi due casi, il ricovero in una struttura ospedaliera extra-muraria, avvenuta solo pochi giorni prima del decesso, solleva non pochi interrogativi sugli standard delle prestazioni sanitarie rese all’interno del carcere. Per quanto riguarda l’ultima morte improvvisa, ci chiediamo quali siano le procedure previste nei casi di emergenza e quali interventi di pronto soccorso si attivino in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118”.
“Nonostante siano passati cinque anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla competenza delle Asl” – continua Barone – “ad oggi, non abbiamo dati affidabili e certi sui quali effettuare un monitoraggio. Secondo le nostre stime oltre il 60% dei detenuti presenta una patologia cronica. La tutela della salute in carcere rimane una zona grigia dei diritti fondamentali del detenuti”.
“Il nuovo Parlamento” – ha concluso il presidente campano di Antigone – “dovrà occuparsi, non solo delle drammatiche condizioni di sovraffollamento carcerario che hanno portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma anche della tutela del diritto universale alla salute all’interno degli istituti di pena. Noi da subito segnaleremo questi decessi al Garante campano dei diritti dei detenuti e al Presidente della Commissione Sanità e Sicurezza sociale del Consiglio regionale perché se ne approfondiscano le cause e le dinamiche”.

 


L’inferno del carcere di Rossano Scalo. Un ex detenuto: “Lì non sei un uomo ma un numero”

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Nei giorni scorsi abbiamo incontrato un cittadino da poco uscito dal carcere calabrese di Rossano Scalo, segnatamente dalla sezione “media sicurezza”. Una struttura che sorge in una terra di nessuno, lontana dal centro abitato e che ospita più del doppio dei ristretti che potrebbe contenere. Le parole di questo cittadino danno ancora una volta il senso di un degrado già raccontatoci da un uomo nella stessa condizione del nostro interlocutore (clicca qui) che dimostra come non solo a Poggioreale o a Santa Maria Capua Vetere (clicca qui) esistano situazioni dove la dignità umana è quotidianamente calpestata. Eppure in Calabria esiste anche un altro carcere, come quello di Locri o come il reparto alta sicurezza di quello di Rossano, dove per fortuna non avvengono le tragedie che il cittadino da poco uscito da suo tunnel giudiziario ha deciso di raccontarci. Tragedie che avvengono ogni giorno anche in altri penitenziari, come quello di Poggioreale che nelle ultime settimane ha fatto registrare tre decessi per presunte carenze negli standard igienico sanitari all’interno della struttura.

Partiamo dalla situazione igienica e dalla vivibilità del penitenziario di Rossano Scalo

“Nel carcere di Rossano Scalo non c’è acqua calda in cella. Le docce sono divise in base ai due reparti e ci sono 4 docce per ogni 100 detenuti in celle che, pur essendo da due, ospitano quattro detenuti. Abbiamo fatto anche le battiture e lo sciopero del carrello per protestare contro la quinta branda che in alcune celle era presente. Ricordo che chi dormiva all’ultimo piano del letto a castello, urtava praticamente con la testa sotto al soffitto. L’acqua calda non è disponibile per tutti i detenuti quando è il momento di fare la doccia e per molti l’acqua è tiepida, quando non fredda. Le docce sono poste all’esterno e quindi, una volta lavato – per modo di dire – il rischio concreto è quello di ammalarsi, come anche a me è capitato con febbri molto alte. In caso di malattia, poi, sei abbandonato a te stesso e se stai male ti conviene stare zitto e restare sulla branda. Consideri che molti detenuti sono non calabresi e ci sono anche tanti immigrati. Per questi il dramma è doppio perché c’è anche la solitudine”.

Cosa faceva o che servizi offriva il carcere nei momenti in cui non eravate chiusi in cella?

“Non offre nulla e non funziona niente, si può dire che funzioni meglio il reparto alta sicurezza rispetto a quello di media sicurezza dove io ero detenuto. A differenza dei detenuti del reparto alta sicurezza, noi non avevamo né cuochi né corsi di ceramica o altre attività. L’unica cosa che ho potuto fare è stata iscrivermi al catechismo”.

Ha assistito a suicidi o a scene di autolesionismo dietro le sbarre?

“L’autolesionismo l’ho visto coi miei occhi. Una scena che non dimenticherò mai più. Era un detenuto marocchino che si tagliò le braccia e uscì dalla cella sanguinando in modo spaventoso. Ricordo che scagliò degli oggetti, uno sgabello contro una porta e vennero gli agenti a prenderlo. Lo misero in isolamento, al primo piano. L’indomani mattina, all’alba, presero questa persona e – parliamo di poche settimane fa e faceva un gran freddo – la buttarono nel “passeggio” dove trascorrevamo l’ora d’aria. Lo buttarono in mutande e sentivamo strillare tutti i detenuti stranieri che si accorsero di quanto era accaduto. Il detenuto marocchino fu anche minacciato di ricevere come trattamento punitivo la doccia con l’estintore. Successe un macello quel giorno in carcere”.

Che ci può dire del vitto a Rossano Scalo?

“Il vitto più di una volta è stato una patata bollita a testa, non c’era nulla. La domenica sera non passa il carrello e i prezzi nello spaccio sono astronomici. Dal tabacco ai generi di prima necessità, i prezzi sono più che raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. Inoltre la colazione era preparata ogni mattina in maniera antigienica. Ricordo fusti di latte che venivano lasciati per ore a pochi metri da enormi cataste di spazzatura con topi, scarafaggi e sporcizia tutt’attorno. Quel latte era destinato a noi detenuti, uno schifo solo a pensarci”.

Oltre a quel marocchino, c’è qualche altro caso umano che l’ha colpita a Rossano Scalo?

“Certo, più di uno ma in particolare ricordo un anziano signore che era in carcere da oltre vent’anni e che ha più di 70 anni. E’ in condizioni pietose e non riceve visite da tempo, anche se i colloqui non sono per nulla riservati dato che ovunque ci sono cimici e telecamere. Per noi non esiste privacy. Tornando all’anziano, ha bisogno di cure che non riceve e spesso in carcere siamo noi detenuti a dover svolgere assistenza. Anche a me è capitato, quando ero in infermeria e a mia volta avevo bisogno di cure urgenti. Un’esperienza incredibile e terribile da vivere. Posso dire che in carcere a Rossano Scalo non c’è alcun rispetto per la dignità. In quel carcere sei un numero, un pacco postale”.

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La visita ai detenuti? Da oggi si fa in webcam

Per spostare un carcerato dalle Sughere a viale Alfieri servono cinque agenti «Adesso quel personale verrà utilizzato per altre mansioni»

webcamLIVORNO. La telemedicina sbarca nel carcere di Livorno. Tra pochi giorni, infatti, il servizio sarà attivo anche presso la casa circondariale delle Sughere, dopo Porto Azzurro e isola di Gorgona. Il servizio, messo a disposizione dall’Usl 6, permette di collegare le strutture di reclusione con il reparto di Dermatologia dell’ospedale di Livorno. Il medico, presente all’interno della struttura carceraria trasmetterà, tramite videocamera digitale, le immagini del paziente al reparto di dermatologia. Qui, in tempo reale, lo specialista dermatologo individuerà presunti melanomi, infezioni cutanee o altre lesioni della pelle, acquisirà esami, dati clinici e stabilirà l’eventuale terapia da somministrare al paziente o le visite da effettuare. «Questo servizio – spiega Andrea Belardinelli, responsabile dell’Area programmazione e innovazione dell’Usl 6 – permette di eseguire visite dermatologiche senza effettuare spostamenti di detenuti all’esterno del carcere o di professionisti all’interno, limitando i costi e le difficoltà logistiche». Per spostare un detenuto dal carcere all’ospedale «vengono impiegati fino a cinque persone tra autista e agenti di guardia – precisa Carmelo Cantone, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Toscana – che potrebbero essere utilizzati per altre mansioni».

Sono 2200 le visite specialistiche a cui, ogni anno, vengono sottoposti i detenuti del carcere livornese, di queste 2mila sono quelle interne (230 di tipo dermatologico) e 200 quelle esterne; venti i ricoveri. I dati aggiornati all’1 giugno 2012, indicano che il totale dei detenuti presenti all’interno delle Sughere è di 140, in diminuzione per la chiusura di due padiglioni (nel 2011 erano 420), tuttavia ogni anno passano dal carcere circa 2500 detenuti che poi vengono spostati altrove. Il personale che svolge servizio medico e infermieristico è composto da 10 medici e 11 infermieri che lavorano 27 ore al giorno. A rendere possibile il servizio di dermatologia, tramite telemedicina, è l’uso della banda larga, cioè quell’infrastruttura che permette di far viaggiare in maniera veloce e sicura grandi quantità di dati. Ogni paziente avrà a disposizione una cartella clinica elettronica, non più cartacea, che conterrà l’intero percorso medico del detenuto, potrà essere aggiornata in tempo reale e rimarrà a disposizione anche in caso di trasferimento da un carcere all’altro. «Siamo partiti con il servizio di dermatologia – spiega Maria Gloria Marinari, responsabile della Sanità carceraria – perché è quello che si presta meglio alla telemedicina. A breve partirà anche quello di cardiologia con la possibilità di inviare i referti degli elettrocardiogrammi». «Questo è il primo passo per permettere ai cittadini reclusi di avere pari opportunità sanitarie», conclude il dg Monica Calamai.

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Israele: morto un secondo detenuto palestinese in carcere israeliano in Cisgiordania

palestinaUn secondo detenuto palestinese è morto ieri in un carcere israeliano in Cisgiordania. Ne dà notizia il sito di al Arabiya, aggiungendo che l’Anp ha lanciato una inchiesta su questo nuovo decesso. Secondo la famiglia, citata dall’emittente araba, Ayman Abu Sufian, 40 anni, era diabetico e prima di morire aveva la pressione alta. Abu Sufian era stato arrestato mercoledì dalle autorità israeliane. Il 23 febbraio era morto in un carcere israeliano un altro detenuto palestinese, Arafat Jaradat, 30 anni. Le cause del decesso, che ha innescato violente proteste in tutta la Cisgiordania, non sono state ancora accertate, ma anche per il Presidente palestinese Abu Mazen l’uomo è stato torturato. Migliaia di palestinesi manifestano in Cisgiordania da settimane per esprimere la loro solidarietà ad almeno 11 loro concittadini detenuti da Israele, da tempo in sciopero della fame per protestare contro la politica di detenzione di Israele.

Fonte TM News


Violenta aggressione da parte di un detenuto ad una guardia

photo_contest (1)Enna – Viene riferito a questa Segreteria Regionale SAPPe che giorno 28
FEBBRAIO 2013 un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria assistente capo
in servizio presso la Casa Circondariale di Piazza Armerina , durante l’espletamento
dell’attività lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario presso il reparto detentivo
primo piano senza alcuna motivazione è stato aggredito da un detenuto di origini
catanesi solo perché l’ utente non aveva accettato di buon grado una rilevazione
disciplinare.
Per quanto si è venuto a sapere ,il poliziotto penitenziario era solo presso il
reparto detentivo durante il cambio per usufruire del tempo necessario per pranzare .
L’appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria ha riportato varie contusioni
con prognosi di giorni 10 salvo complicazioni.

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Salerno: detenuti a rischio, solo quattro medici per 550 persone

Socialmente Pericolosi-Dangerous To SocietyLa storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica.
“La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente – spiega Salzano – Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”.
Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”.
Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis – incalza l’esponente dei Radicali – Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta.

Fonte: La Città di Salerno


CIE Torino, tra espulsioni, tensioni, rivolte e fiamme

diffondiamo da Macerie

la_liberta_brucia_webUn’altra giornata movimentata al Cie di Torino. Nel primo pomeriggio un recluso sale sul tetto dell’area viola per evitare l’espulsione, e un gruppo di solidali si raduna fuori le mura per salutarlo e sostenerlo con slogan e petardoni di un certo calibro. Poco distante, un fotoreporter tradito dal flash della fotocamera viene raggiunto, circondato e maltrattato: riesce a mettere in salvo la macchina fotografica ma perde gli occhiali. In seguito si rivelerà essere un collaboratore dei peggiori quotidiani locali,forse l’autore di queste foto non esattamente da premio Pulitzer.

Quando arriva la conferma che l’espulsione del recluso sul tetto è rimandata, i manifestanti si allontanano, ma una dozzina viene bloccata poco distante da diverse volanti della polizia. Ascolta uno dei fermati al telefono con Radio Blackout 105.250, oppure scarica il file mp3.

I fermati vengono portati nel commissariato di via Tirreno, e trattenuti per diverse ore.  Verranno rilasciati in serata, tutti tranne una compagna francese: stando alle minacce della polizia, verrà accompagnata alla frontiera con un decreto di espulsione dall’Italia.

macerie @ Febbraio 28, 2013

Secondo le edizioni online di alcuni quotidiani locali, nella notte tra giovedì e venerdì ha preso fuoco una cabina elettrica dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino in corso Verona. Stando ai calcoli dei ragionieri della Questura, i danni dell’incendio ammonterebbero a 70mila euro. Per poter funzionare, gli uffici sarebbero stati collegati a un generatore di emergenza, gentilmente concesso dall’Iren. L’ipotesi dei giornali è che non si sia trattato di un corto-circuito, o di un fulmine a ciel sereno, ma di una azione legata alle recenti rivolte nel Cie di Torino, e alla minaccia di espellere una compagna francese fermata il giorno precedente dopo una manifestazione sotto al Cie. La compagna fermata, come già annunciato da qualche agenzia di stampa, è già stata deportata in Francia nel pomeriggio di oggi: sta bene e siamo sicuri che il suo morale sia alto.

Rispetto alla giornata di ieri, inoltre, c’è da aggiungere la notizia, sempre riportata da alcuni giornali, che mentre una dozzina di compagni era trattenuta nel commissariato di via Tirreno «un gruppo di anarchici ha rovesciato alcuni cassonetti in corso Regina Margherita, via Fiochetto e via Cigna e poi svuotato degli estintori sull’asfalto.»

macerie @ Marzo 1, 2013


Assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto

assistenza_sanitariaEU(ASP) – Catanzaro, 2 marzo 2013 – Nell’ambito del progetto “Salute senza barriere”, finanziato dal FEI (Fondo Europeo per l’Integrazione dei cittadini dei Paesi Terzi), proposto dal Ministero dell’Interno e attuato da un partenariato composto da Ministero della Salute e INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà), si è tenuto a Catanzaro, nella Casa circondariale “Ugo Caridi”, uno dei seminari informativi previsti in dodici istituti di pena d’Italia, in collaborazione con le ASL di riferimento, sul diritto all’assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto, sulla riforma della medicina penitenziaria e il funzionamento del SSN.
Il progetto, che mira a promuovere l’integrazione sanitaria dei cittadini dei Paesi Terzi, ospiti temporaneamente degli Istituti di pena, coinvolge anche il personale sanitario dell’ Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro che ha in carico la salute dei detenuti nelle Case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e nell’Istituto penale per minori di Catanzaro.
Per il Dott. Antonio Montuoro, che si occupa da due anni di Sanità penitenziaria nell’Asp di Catanzaro e che è stato uno dei relatori del seminario “la situazione della sanità negli istituti penitenziari è a macchia di leopardo, con punte evidenti di criticità, ma anche con realtà, e la Calabria è tra queste, nelle quali, seppure con difficoltà, si riesce ad assicurare buoni standard di assistenza. E se la sanità penitenziaria calabrese è nel suo complesso virtuosa il merito va ascritto a tutte le professionalità mediche e non che operano in questi istituti “. Con riferimenti più specifici, Montuoro ha sottolineato che il Direttore generale dell’Asp di Catanzaro, dott. Gerardo Mancuso, dimostrando “una sensibilità davvero non comune verso le problematiche della salute in carcere, il 6 maggio 2011, dopo un lavoro preparatorio, ha sottoscritto insieme ai dirigenti degli istituti penitenziari, il protocollo d’intesa tra l’Asp, le case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e L’Istituto penale per minori di Catanzaro. Protocollo che definisce le forme di collaborazione tra l’Ordinamento Sanitario e l”Ordinamento Penitenziario della Giustizia Minorile per garantire la tutela della salute ed il recupero sociale dei detenuti, degli internati adulti e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. Per Montuoro “la professionalità degli operatori sanitari (medici incaricati, medici Sias – Servizio integrativo di assistenza sanitaria, medici di continuità assistenziale, infermieri, psicologi, ecc) che lavorano nelle carceri, l’impegno, l’attenzione, la capacità d’ascolto delle persone affidate interamente alle loro cure, si sono rivelati fattori fondamentali per affrontare adeguatamente la domanda di salute in carcere”.
Un altro punto di forza è rappresentato dalla specialistica ambulatoriale. Nella Casa Circondariale di Catanzaro dalle 136 ore settimanali del 2010 si è passati alle attuali 162 ore nelle varie branche specialistiche, mentre ben 8931 sono state le visite effettuate in sede intramuraria solo le prestazioni sanitarie non altrimenti eseguibili all’interno degli istituti sono state effettuate nelle varie strutture ospedaliere del territorio. Anche i Ser.T.  di Catanzaro e Lamezia, pur con carenza di organico, come sottolinea Montuoro, “garantiscono la prevenzione, la cura e la riabilitazione degli stati di dipendenza patologica dei detenuti”. “Diversamente da altre realtà carcerarie – aggiunge Montuoro – negli istituti di pena dell’ASP di Catanzaro, negli ultimi anni, si sono verificati pochi casi di suicidio ed una bassa incidenza di atti di autolesionismo e tentativi di suicidarsi. Un risultato ottenuto certamente grazie all’alta professionalità e al lavoro di chi dirige e gestisce le nostre carceri”.
Ricorda, poi, che “si deve alla proficua collaborazione tra operatori sanitari e operatori della giustizia minorile il progetto voluto dal Dipartimento Tutela della salute : “Percorso socio-sanitario per la tutela dei minori e dei giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile”, definito modello d’eccellenza dal Direttore Generale del Dipartimento Giustizia Minorile del Ministero”. Montuoro conclude dichiarando che “c’è ancora molto da fare, ci sono limiti da superare, tuttavia, in un momento di difficoltà e di tagli per la Sanità, l’Asp di Catanzaro ha dimostrato di “camminare ” per assicurare durante il periodo di detenzione nelle case circondariali il diritto alla salute, garantito costituzionalmente ad ogni cittadino della repubblica ed ai cittadini stranieri.

“Insofferente” ai domiciliari dà di matto e viene ricoverato

Detenuto agli arresti domiciliari dà in escandescenza ed accusa un malore. E’ successo giovedì mattina in un’abitazione a Rimini. A chiedere l’intervento del 112 è stato un familiari.

toroE’ successo giovedì mattina in un’abitazione a Rimini. A chiedere l’intervento del 112 è stato un familiare poichè non riusciva a calmare l’indagato. Giunti sul posto i Carabinieri ed i sanitari hanno appurato che il detenuto ai domiciliari, di nazionalità straniera, era talmente in stato di agitazione che era necessario ricoverarlo in ospedale.

Sottoposto a varie visite, tra cui quella di uno specialista psichiatra, è emerso che la causa del suo male, che gli provocava dolori al petto, è la sua “insofferenza” alla detenzione domiciliare che, a suo dire, gli impediva di praticare sport. Riportato alla ragione e tranquillizzato, veniva riaccompagnato presso il domicilio.

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Celle a numero chiuso

Carcere_Lodi_Celle_080812_01Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro Paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani.

In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato al Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40 mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47 enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese.

Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale.

Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto.

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Iniziative benefit condannati per L’Aquila

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Detenuto tenta il suicidio ingerendo delle pile

suicidioE’ in gravi condizioni il detenuto che, nella tarda serata di ieri 28 febbraio, intorno alle 23,15, ha tentato il suicidio nel carcere di Mammagialla.

Si tratterebbe di un tunisino sulla trentina che, secondo quando si apprende, avrebbe inizialmente ingerito pile per poi procurarsi un profondo taglio all’avambraccio e infine avrebbe provato a impiccarsi.

Subito intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria che hanno scongiurato il peggio.

Sono stati allertati i sanitari del 118 che hanno trasferito il trentenne a Belcolle dove è ricoverato in gravissime condizioni.

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Cina: in diretta tv trasferimento al patibolo di banda narcotrafficanti

Esecuzioni-in-Cina-da-Amnesty-International_imagelarge(ASCa-AFP) – Beijing, 1 mar – La televisione di Stato cinese, la Cctv, ha trasmesso in diretta il trasferimento di quattro detenuti condannati a morte e diretti al patibolo.

I quattro sono colpevoli di aver rapito e ucciso 13 turisti cinesi sul fiume Mekong lo scorso anno.

Il narcotrafficante birmano Naw Kham – capo dell’organizzione operante in Cina, Laos, Birmania, Tailandia, Cambogia e Vietnam – e’ stato il primo ad essere inqadrato dalle telecamere alle quali ha rivolto un sorriso prima di entrare nel blindato della polizia cinese, seguito dai suoi complici, tutti accusati di omicidio volontario, traffico di droga e squestro di persona.

I media cinesi hanno precisato che la polizia inizialmente aveva programmato un attacco con i droni per uccidere Naw Kham – considerato uno dei ”signori della droga” del sud-est asiatico e soprannominato ”il padrino” – per poi cambiare idea e tentare di catturarlo vivo in Birmania.


Canton Mombello, caso di tubercolosi in cella

Cristobal_Rojas_37aAllarme tubercolosi a Canton Mombello. Un detenuto di 42 anni, di nazionalità italiana, in cella dalla metà di gennaio, è risultato positivo al test di di Mantoux. L’uomo era in stanza con altre otto persone, immeditamente sottoposte all’esame della “tubercolina” e alla profilassi del caso. 
Stessa procedura per il personale di polizia penitenziaria e
 per le altre persone venute a contatto con il malato durante la sua permanenza in carcere.
La malattia, in una situazione come quella in cui si trovano i carcerati della casa circondariale di Brescia, può creare davvero un pericolo epidemia, date le condizioni di sovraffollamento della struttura.
Il 42enne è stato ricoverato in ospedale, nel reparto infettivi dell’Ospedale civile di Brescia, in isolamento, e sottoposto a terapia antibiotica.

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In carcere senza motivo, cronaca di quotidiani soprusi israeliani

Cinque giorni di carcere, senza poter bere per quasi 48 ore, senza la possibilità di contattare le autorità competenti o i familiari e in condizioni igieniche pessime.
È stato questo in sintesi il viaggio in Israele di Francesco, un ragazzo 30 anni, che il 28 gennaio scorso era partito alla volta di Tel Aviv per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza di una decina di giorni in Terra Santa e che si è invece tramutata in una detenzione forzata, per la quale ancora oggi non sono state fornite motivazioni ufficiali.
“Già da Roma i controlli sono stati eccessivi – racconta a Rinascita Francesco, partito dal terminal 5 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino – un piccolo interrogatorio viene fatto già alla partenza da agenti israeliani, che successivamente separano i propri concittadini dai semplici viaggiatori ebrei e dalle altre persone in partenza, attribuendo loro un diverso livello di sicurezza”.
Urlo_Mod_by_ClaMzeroSi tratta di un valore che va da 0 a 6, in base al rischio che ogni passeggero potrebbe rappresentare per la sicurezza del Paese e che viene segnalato applicando una targhetta adesiva scritta in ebraico su ogni passaporto. Dopo questa prima fase il turista italiano passa per la perquisizione e il controllo dei bagagli a mano, che gli saranno restituiti dopo oltre due ore di attesa. Francesco viene quindi accompagnato all’interno dell’area duty free dello scalo romano ed è qui che scopre che gli agenti hanno deciso di separare lui, una ragazza e due giovani palestinesi dal resto dei viaggiatori, e che a loro è stata affibbiata una scorta che li seguirà perfino in bagno fino al momento dell’imbarco.
“Hanno fatto prima riempire l’aereo e poi hanno fatto salire noi per non farci avere contatti con gli altri passeggeri”, prosegue il ragazzo, precisando però che durante il volo il trattamento riservato loro è stato assolutamente normale.
Giunti a Tel Aviv i quattro vengono nuovamente separati dagli altri, poiché le procedure di controllo dei viaggiatori ai quali è stato assegnato un punteggio superiore a 3 sono ben diverse da quelle degli altri. Francesco viene quindi privato nuovamente dei suoi bagagli a mano, fatto spogliare e i suoi vestiti passati ai raggi x.
“E fin qui rientra tutto nella normalità – spiega il giovane turista – circa il 25 per cento delle persone che si recano in Israele subiscono questa trafila. Un gruppo di 40 persone provenienti dalla Turchia per un giro religioso, è stato obbligato a restare un paio d’ore in sala d’attesa per approfondire i controlli”. Attesa che per Francesco è durata più di otto ore, nel corso delle quali è stato interrogato a più riprese dagli agenti della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
“Il colloquio verte inizialmente sulle generalità, sul tipo di lavoro che si fa e cose simili. Poi si entra invece nel merito del viaggio, mi hanno chiesto il perché fossi lì, se avessi prenotato alberghi, se avessi con me appunti, computer, videocamera o macchina fotografica e se conoscessi qualche palestinese”, racconta ancora il ragazzo, precisando che l’agente ha insistito molto su quest’ultimo punto. Sebbene a farlo innervosire sia stato il non aver né un posto prenotato per il pernotto, né annotazioni sulle aree da visitare, né il computer e neppure una scheda di memoria per la macchina digitale. Ma Francesco è abituato a viaggiare senza prefissare date precise per i suoi spostamenti, facendosi consigliare di volta in volta dove alloggiare e sa inoltre bene che le autorità aeroportuali israeliane sono solite copiare i dati contenuti nei dispositivi elettronici, motivo per quale aveva scelto di acquistare direttamente sul posto una nuova memory card. È a questo punto che il militare inizia a fargli domande sui suoi recenti viaggi nei Paesi arabi e in particolare in Libano, dove si è recato per lavoro, chiedendogli dove avesse alloggiato. Francesco risponde senza problemi, ma l’impossibilità per l’agente doganale di verificare la veridicità delle sue risposte, visto anche che il giovane per scelta non possiede uno smartphone con il quale tracciare i suoi ultimi spostamenti, lo fa innervosire.
“A quel punto mi ha chiesto l’indirizzo e il telefono di casa mia e di quella dei miei genitori e ha iniziato a ripetermi più volte domande fatte in precedenza, per farmi cadere in contraddizione, ma senza riuscirci”, aggiunge Francesco, che rivela di essere stato costretto nuovamente a spogliarsi e a subire altri controlli. Il tutto senza la possibilità di bere o di poter contattare qualcuno, dalla famiglia, all’ambasciata italiana a Tel Aviv.
“A mezzanotte e mezza vengo infine informato che il mio visto è stato rifiutato e vengo quindi portato in un altro ufficio per essere schedato – ci dice ancora – mi vengono prese le impronte e fatta una foto. Una procedura standard che subiscono tutti i rifiutati, ai quali non sarà permesso di tornare in Israele per 10 anni successivi al rifiuto”.
Francesco viene quindi accompagnato in un edificio esterno all’aeroporto che gli agenti chiamano Asility, una struttura di accoglienza momentanea in attesa del rimpatrio, che lui non esita a definire “una prigione, al pari di quelle del Burkina Faso e Burundi”.
“Una volta sequestratomi il bagaglio a mano e il cellulare mi portano al primo piano dove ci sono le celle e mi mettono dentro. Chiudono la porta blindata che ha solo un piccolo vetro che permette di vedere fuori, e mi ritrovo in una stanza di 5 metri per 6 che conteneva: tre letti a castello e un bagno, con solo il water e un lavabo dal quale usciva acqua non potabile”, rivela Francesco, che parla di condizioni igieniche pessime.
“All’interno – prosegue trentenne italiano – c’erano un ragazzo sudafricano in evidente stato di depressione e un sessantenne svedese che si lisciava la barba e parlava da solo fissando il muro. Ogni tanto quest’ultimo bussava alla porta e chiedeva acqua, le guardie dicevano sempre di sì ma non portavano nulla”. Solo dopo 48 ore di prigionia i militari si sono degnati di portare una brocca d’acqua, neppure la necessità di predere alcuni medicinali da parte di Francesco riesce a smuovere i carcerieri, sebbene almeno i pasti venissero serviti con regolarità. Alla fine del secondo giorno arriva però la telefonata della speranza del console italiano, avvisato dai familiari e dagli amici di Francesco preoccupati per il suo inspiegabile silenzio. Il diplomatico si mostra sorpreso e infuriato dall’atteggiamento delle autorità aeroportuali e si premura che Francesco abbia tutto il necessario, nonostante non possa aiutarlo a ripartire prima del volo fissato dagli agenti israeliani per il primo febbraio. “Quando sei in un posto così anche una telefonata di dieci minuti con una persona che ti parla in un certo modo e si mette a tua disposizione, ti rincuora – spiega il giovane turista – Per di più la chiamata del console in persona ha stupito le guardie della struttura essendo una procedura anomala”.
“In cinque giorni non ho preso nemmeno 10 minuti d’aria e ho perso la cognizione del tempo a causa dei fari fissati sul soffitto della cella che rimanevano sempre accesi, giorno e notte. Non mi son potuto lavare o cambiare, per bere ho detto che dovevo prendere medicine ma se ne fregavano”, rivela ancora Francesco, che sottolinea come nei suoi confronti e in quelli degli altri detenuti non sia stata fatta non violenza fisica, ma una terribile violenza psicologica, facendolo sentire “trattato come un terrorista”.
La cosa più triste di tutta questa vicenda, però, è la scelta forzata di Francesco di non presentare nessuna protesta formale al suo rientro in Italia, conscio del fatto che tanto non servirebbe a nulla, poiché, afferma: “Tutte le autorità del mondo sanno di queste procedure eppure nessuno fa niente, se ne fregano”. Quello riservato al trentenne italiano è infatti un destino che molti subiscono in silenzio ogni giorno e che rappresenta una violazione della dignità umana, poiché si viene sbattuti in carcere per aver, di fatto, solo osato chiedere il visto d’ingresso in Israele.
E, infine, come se tutto questo non bastasse, Francesco ha scoperto solo al suo ritorno in Italia che il bagaglio imbarcato era partito ben 24 ore dopo di lui per Tel Aviv a causa dei controlli. Bagaglio che ha ricevuto, poi, solo dopo due settimane dal suo rientro in Italia, con tutti i disagi del caso.

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Senza Sosta, in un libro la vita al carcere delle Novate

libri-carcereRicordi, nostalgie, radici – quelle spezzate, quelle cresciute intorno alle sbarre – e speranze da far vivere magari lontano da celle anguste. “Senza Sosta”, il volume presentato al Tribunale di Piacenza e curato dall’associazione Tessere Trame in collaborazione con Oltre il muro e con Asp Città di Piacenza, spinge il lettore all’interno della realtà – spesso considerata ai margini non solo della città, ma anche dei pensieri – del carcere delle Novate.

Un’iniziativa che da Barbara Garlaschelli ed Elisabetta Spaini, di Tessere Trame, è descritta così: «E’ un volume nato per testimoniare la vitalità di un mondo considerato a parte, come quello del carcere, e dal momento che la nostra associazione si occupa di letteratura, uno dei modi per meglio illustrare le attività della casa circondariale è senza dubbio quello di raccogliere pensieri e scritti dei detenuti». «Esaminati e scelti – ci tengono a sottolinearlo – in base al loro valore letterario, anteponendo la qualità letteraria alla condizione degli autori, scritti tra i quali sono state anche aggiunte frasi di grandi scrittori che hanno vissuto l’esperienza carceraria».

Dopo la presentazione di Valeria Parietti (presidente dell’associazione Oltre il muro) e di Brunello Buonocore (Asp Città di Piacenza), sono stati letti alcuni testi dei detenuti. Ricordando quello che ha detto Garlaschelli in apertura dell’incontro in merito a letteratura e detenzione, vale a dire che «nel momento in cui si scrive paradossalmente si è liberi, la letteratura è una grande forma di libertà». Ed è quello che spiega poco dopo Ugo, ex detenuto che racconta la sua storia e dice: «Rileggo oggi quello che scrissi in carcere. Fa effetto, ma quanto mi è servito». E nero su bianco lo ribadisce a suo modo T.L. nel primo dei racconti che si trovano nel libro, piccolo e prezioso: “A volte mi capita di vedere un po’ di primavera nella mia anima. Per l’estate credo ci vorrà tempo”.

Senza Sosta, supplemento del giornale del carcere “Sosta forzata” gestito da Carla Chiappini, si potrà trovare anche nella sede di Oltre il muro in via Scalabrini 21.

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Venezuela – Detenuto tenta di evadere in un trolley

VENEZUELA / scoperto dalla polizia al portone dell’uscita

Detenuto tenta di evadere in un trolley

Juan-Ramirez-TijerinaGavinson García, alto 1,60 metri, si era rannicchiato avvolgendo la testa tra le ginocchia

Garcia viene scoperto dalla polizia penitenziaria (Epa/Ultimas Noticias)

In Venezuela, d’ora in poi, i visitatori che entrano in un carcere non potranno più portare con sé valige o borsoni. Il motivo della nuova direttiva? Domenica scorsa, a Caracas, un detenuto ha cercato di evadere di prigione nascondendosi dentro una piccola valigia quadrata con le ruote.

FUGA SFUMATA – Gavinson García non ha portato a termine la bizzarra fuga: è stato scoperto dalla polizia carceraria davanti al portone dell’uscita. L’evasione era stata progettata con una visitatrice, la sua fidanzata 22enne, che aveva consegnato il baule all’uomo condannato per omicidio. García, alto un metro e 60 centimetri, si era rannicchiato dentro il trolley avvolgendo la testa tra le ginocchia.

 Fonte Corriere

Non dà segni di vita nel letto (ma sta “bene”). Detenuto nordafricano soccorso in carcere

stesoUn detenuto delle carceri di valle Armea a Sanremo: R.M., di 47 anni, di origine nordafricana, è stato soccorso nel pomeriggio da un equipaggio della Croce Verde di Arma, assieme all’automedica Alfa 2, inviati dalla centrale operativa del 118. L’uomo non dava segni di vita nel letto, ma sembrava cosciente. E’ stato portato al pronto soccorso, dove i medici stanno valutando le sue condizioni.

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Rivolta Bari agosto 2011, comminati 34 anni di carcere

rivolta-immigrati-cara-bariSono 34 gli anni di carcere complessivi comminati a 14 immigrati ospiti del Cetro di accoglienza richiedenti asilo di Bari-Palese accusati di aver messo a ferro e fuoco la citta’ durante la rivolta del primo agosto 2011. Nel pomeriggio, il gup Giovanni Abbattista ha letto la sentenza di primo grado nei confronti degli extracomunitari che diedero vita alla dura protesta, assaltando un autobus dell’Amtab, occupando la tangenziale e una linea ferroviaria. Quel giorno circa cento poliziotti e carabinieri restarono feriti durante gli scontri.

Il giudice ha condannato tutti gli imputati a pene comprese tra i due e i tre anni e dieci mesi. Per nove di loro ha anche ordinato l’espulsione immediata dallo Stato italiano. Gli immigrati sono stati, inoltre, condannati a risarcire la Ferrotramviaria Spa-Ferrovie del nord barese per i danni subiti durante la protesta.

Fonte Adnkronos


Varese – Il carcere scoppia di nuovo I detenuti oltre quota 400

jail1Busto Arsizio, 28 febbraio 2013 – Di nuovo oltre la soglia dei 400 i detenuti la casa circondariale bustese che da anni soffre di sovraffollamento. Negli ultimi tempi la struttura carceraria in via per Cassano è finita al centro dell’attenzione prima per la condanna della Corte europea dei diritti umaniarrivata all’Italia per le condizioni dei detenuti in celle sovraffollate, poi per alcuni personaggi noti, finiti dietro le sbarre. Spenti i riflettori mediatici che si erano accesi sui detenuti famosi, la casa circondariale bustese si ritrova con i problemi che la riguardano da tempo, a cominciare dal sovraffollamento. Situazione difficile che tuttavia e per fortuna non impedisce di promuovere all’interno esperienze di lavoro importanti, come la cioccolateria e la panetteria, avviata con successo pochi mesi fa e già “affamata” di nuovi spazi per potenziare la produzione. Intanto sono di nuovo aumentati i carcerati.

«Eravamo scesi a 380 – spiega il direttore Orazio Sorrentini – ora siamo di nuovo a 409 detenuti, a fronte di una capacità di 167 posti». La maggior parte dei carcerati sono stranieri, oltre 60%, effetto della presenza di Malpensa. Due anni fa sembrava essere vicina la soluzione del grave problema del sovraffollamento grazie al protocollo d’intesa che l’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano aveva firmato con il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Era il mese di marzo 2011: l’intesa prevedeva interventi a Opera, Bergamo e Busto Arsizio. Per il carcere bustese si trattava di realizzare una nuova struttura con una capacità di 200 posti (costo 11 milioni di euro).
La città di Busto Arsizio aveva addirittura ricevuto un encomio dal Ministero e dalla Regione per la tempestività con cui aveva dato la disponibilità all’ampliamento, segno di attenzione ai problemi della realtà carceraria. Invece quel piano è rimasto sulla carta, messo “nel cassetto” dai tagli decisi dal Governo Monti. Ma il sindaco Gigi Farioli è pronto a sollecitare i nuovi eletti in Parlamento affinché riconsiderino il progetto di ampliamento per il carcere bustese.
Martedì 5 marzo sarà visitato dalla Commissione consiliare dei Servizi sociali del comune di Busto Arsizio, che di recente ha avviato in collaborazione con la casa circondariale un progetto di inserimento lavorativo per due detenuti. «Siamo pronti e siamo lieti per la visita della commissione consiliare – dice il direttore Sorrentini – è uno dei segnali importanti di attenzione da parte dell’istituzione».

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