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Brasile: usavano un gatto per evadere dal carcere

Molti sono i sistemi che fino ad oggi sono stati usati dai detenuti da ogni parte del mondo per tentare di evadere dalla loro prigione dove si ritrovano, di caso in caso, a scontare la loro pena per il loro reato, ma, di certo, tra i tanti e i diversi modi, quello usato da alcuni detenuti brasiliani ha destato la sorpresa di molti.

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Un felino complice dei detenuti brasiliani – Un gruppo di prigionieri brasiliani, scoperti solo pochi giorni fa, utilizzavano un gatto come complice per far entrare in galera e far arrivare alle loro celle telefoni cellulari e strumenti per organizzare una fuga: l’originale idea è stata resa nota dai media

 della città di Arapiraca. Quello che agli occhi delle guardie sembrava un innocuo gattino era in realtà l’aiutante e il complice di narcotrafficanti e assassini che erano rinchiusi a scontare la loro pena nella prigione di Alagoa, nel Nordest del Brasile.

Lo smascheramento del gatto – A scoprire l’ingegnoso sistema dei criminali, che avevano addestrato il gatto ad andare e venire dal carcere con i preziosi ‘carichi’, è stato un poliziotto. La guardia, infatti, la notte di Capodanno, vedendo il felino entrare dalla porta del carcere con passo appesantito, e capendo che qualcosa non andava, ha fermato il furtivo animale e ha controllato. Nel controllo ha scoperto l’arcano, ovvero, che il gatto era usato da tramite per far entrare all’interno della struttura carceraria oggetti che servivano ai detenuti per la fuga. In effetti, il poliziotto ha trovato addosso al gatto una piccola borsa con lime, punte di trapano e un telefono cellulare con caricatore. Il micio andava e veniva spesso dalla prigione e i parenti dei detenuti a volte lo avevano riportato con loro dopo alcune visite. Per i detenuti ora si prospettano controlli più serrati.


Presidio anticarcerario Pordenone

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Sicilia: carceri, poliziotti aggrediti da detenuto a Siracusa

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Siracusa, 4 gen. – Un detenuto straniero ha aggredito violentemente diversi poliziotti in servizio nel carcere di Siracusa. I Baschi Azzurri sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari per diverse contusioni. Un’ennesima aggressione “che deve preoccupare”, dice il Sappe, secondo cui “la carenza di personale di Polizia penitenziaria e di educatori, di psicologi e di personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento dei carceri italiani sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi”. Spesso, come a Siracusa, “il personale di Polizia Penitenziaria e’ stato ed e’ lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno”.

Fonte: agi.it


LORO DECIDONO

Loro decidono a che ora dovete mangiare e cosa dovete mangiare.
Loro decidono a che ora dovete andare a letto, come dovete dormire, 
la testa rivolta verso lo spioncino e mai sotto il lenzuolo.
Altrimenti tirano colpi sulla porta.
Loro decidono a che ora dovete alzarvi.
Loro decidono in quale momento dovete fare l'aria. Il luogo, la 
gabbia che chiamano “passeggiata”.
Loro decidono a chi dovete scrivere, quello che dovete scrivere, 
il tempo di inoltro postale.
Loro decidono chi può vedervi ai colloqui, chi non ha il diritto 
di farvi visita.
Loro decidono che non dovete più avere una sessualità.
Loro decidono ciò che dovete leggere e ciò che non dovete leggere.
Loro decidono che il dentista può strappavi i denti, non curarli.
Loro decidono che possono somministrarvi dei neurolettici e 
spegnervi il cervello se non avete più la forza di sputare il il veleno.
Loro decidono che noi non dobbiamo più avere rapporti umani...

Roger Knobelspeiss, QHS

gabbia
Figlio di zingari sedentarizzati, Roger Knobelspeiss è nato in Normandia 
nel 1947.
Vive un'infanzia fatta di piccoli furti, con il fratello Jean, che verrà 
ucciso da un commerciante a cui stava rubando l'autoradio.
Nel 1972 è condannato a quindici anni di prigione per una rapina che ha 
sempre negato di aver commesso. In prigione conosce Jacques Mesrine. 
Graziato dal presidente della Repubblica Mitterrand nel 1981, è di nuovo 
arrestato e fatto prigioniero nel 1983, per una rapina che nega nuovamente 
di aver commesso e per la quale verrà assolto nel gennaio 1986.
Nell'aprile 1987 è arrestato in flagranza di reato nel corso di una rapina
alla Banca Popolare di Thuir nei Pirenei Orientali. Condannato il 17 
aprile dello stesso anno a sette anni di prigione dalla corte d'assise di 
Rouen per una sparatoria (Fusillade de la rue aux Saulniers) con dei 
poliziotti, viene trovato a Saint-Pierre-les-Elbeuf nella notte tra il 23 
e il 24 settembre 1982, è condannato di nuovo, il 27 ottobre 1989, a nove 
anni di isolamento dalla corte d'assise di Perpignan per la rapina di Thuir.
Viene liberato nell'agosto 1990 grazie a una riduzione di pena. Ha passato 
26 anni dietro le sbarre. Ribelle di sempre, era un uomo sempre arrabbiato. 
Negli anni 70 è stato al centro della lotta contro l'Alta Sicurezza. Il suo 
primo libro, QHS, testimonianza spietata sul regime di isolamento, rivela 
in lui un grande talento di scrittore.

IN ATTESA DEL BOTTO FINALE

Vorrebbe diventare una tradizione quella di salutare l’anno nuovo ai piedi delle mura di Sanquirico.
Anche quest’anno durante la notte di San Silvestro abbiamo voluto condividere i festeggiamenti con chi, nella città di Monza, brinda rinchiuso tra quattro mura.
Può sembrare poca cosa accendere fuochi d’artificio tra uno slogan e una battitura fuori da un carcere come quello monzese considerato dalla maggior parte dei detenuti come un carcere punitivo.
In realtà in un momento in cui la maggior parte della gente mangia e beve a volontà, la città è un tripudio di ingannevole contentezza e nelle strade iniziano a riversarsi a migliaia i cacciatori del divertimento metropolitano, crediamo che possa significare moltissimo la condivisione dei primi attimi del 2013 con uomini e donne a noi così vicini, e così terribilmente lontani.

Anche in questo 2012 ci sono state diverse sezioni allagate, problema ormai costante che capita ad ogni precipitazione più o meno consistente.
Quest’anno il problema si è aggravato arrivando persino all’evacuazione di intere aree ormai inutilizzabili poiché l’acqua è penetrata fin dentro gli interstizi delle pareti, fatto che ha causato il trasferimento di alcune centinaia di detenuti.
Oltre ai problemi della struttura sono sempre più gravi le condizioni di sovraffollamento e di violazione continua della dignità umana che si vivono dietro le mura del carcere cittadino.
Offese all’individuo che non tutti sono in grado di sopportare e che sfociano spesso in suicidi come quello che ha visto coinvolto un detenuto di 50 anni nel novembre dell’anno appena conclusosi.
Come si può vedere anche il carcere monzese volge ad una situazione che ormai riguarda tutte le carceri italiane.
Il governo ha provato a metterci una pezza, chiamata “emergenza carceri”, ma le pretese erano esorbitanti e presto la riforma Severino si è rivelata un grande bluff.
Come al solito lo stato gioca sulla pelle dei detenuti e qualcuno, come i radicali, pensa bene di sfruttare il malcontento e le sofferenze dei detenuti per garantirsi un bacino elettorale tramite richieste parziali che sono solo fumo gettato negli occhi.
Il carcere rimane un baluardo della società che viviamo e mai come adesso, lo stato ne ha un gran bisogno per reprimere le voci dissidenti e per far fronte ad una generale crisi della finzione democratica.
Crediamo che sia importante per ogni individuo che fa dell’azione politica confrontarsi con il carcere e con la possibilità della sua distruzione.

Ecco perché anche il primo giorno del 2013 eravamo sotto il carcere di Monza.
Le nostre voci non si sono piegate e non si sono confuse nel festoso frastuono, ma hanno valicato i muri cavalcando l’aria gelida di gennaio e si sono insinuate nelle celle chiuse, perché non ci sono muri che possono trattenere l’energia vibrante di cui sono fatte.botto finale
Il nostro augurio per l’anno nuovo?
Che dentro e fuori la rabbia diventi incontenibile.

Contro il carcere e la società che lo crea.

CordaTesa
cordatesa.noblogs.org


Maurizio Alfieri trasferito a Saluzzo

Maurizio Alfieri viene nuovamente trasferito da un carcere all’altro e il motivo è sempre lo stesso: è un prigioniero che non si piega ai ricatti e alla brutalità delle guardie e della direzione, è un prigioniero che ha sempre cercato di organizzarsi con i propri compagni, dentro e fuori le mura della galera, per segnalare e contrastare la violenza e la vigliaccheria degli aguzzini. Dopo mesi di resistenza, in cui la solidarietà verso i prigionieri di Tolmezzo ha travalicato di molto i confini del Friuli, fino a raggiungere con un presidio il Ministero della Giustizia in quel di Roma, la direzione del carcere ha cercato con questa mossa di disinnescarne il potenziale conflittuale.
Non solo un trasferimento da carcere a carcere, ma da sezione di isolamento a sezione di isolamento, con destinazione Saluzzo; carcere attorno al quale si era creato, fino alla scarcerazione del prigioniero No Tav Giorgio Rossetto lì detenuto, un coordinamento (NoISOL) contro le condizioni di segregazione dei prigionieri di quella sezione. Invitiamo tutti i nemici e le nemiche di ogni gabbia a scrivere a Maurizio e a sostenerne la resistenza anche a Saluzzo, continuando a
tenere sempre alta l’attenzione sul brutale carcere Tolmezzo, affinché si moltiplichino le occasioni di lotta dentro e fuori le galere.

giudiceRiceviamo e diffondiamo:

MAURIZIO ALFIERI TRASFERITO NEL CARCERE DI SALUZZO (CUNEO)

Apprendiamo che il 18 dicembre Maurizio Alfieri è stato trasferito dalla sezione di isolamento del carcere di Tolmezzo alla sezione di isolamento del carcere di Saluzzo. Chiamato al mattino in matricola e accompagnato da 6 o 7 guardie aveva capito subito che c’era qualcosa di strano. Dopo qualche ora di sosta in una celletta vuota, Maurizio viene portato in una saletta dove trova tutti i suoi vestiti buttati a terra e dove viene fatto spogliare e perquisire, mentre il comandante insulta i compagni che avevano partecipato al presidio di solidarietà perché avevano fatto il suo nome al microfono. Dopo un po’ il comandante Raffaele Barbieri arriva con un coltello di ghisa nero lungo circa 30 centimetri e accusa Maurizio, sulla base di una dichiarazione scritta di un delatore, di averlo nascosto nella sua cella. Maurizio risponde che a trovarlo è stato chi lo ha nascosto e che la dichiarazione dell’infame (una doppia merda, visto che nei suoi confronti Maurizio è sempre stato generoso e solidale!) è stata concordata con la promessa di un lavoro e della salita in sezione. Dopo di che Maurizio viene trasferito senza nemmeno poter raccogliere vestiti, fornello, cibo, radio, buste, francobolli ecc. Nel cellulare ci sono sette guardie e un fuoristrada con altre quattro lo segue. Gli dicono che la destinazione è Trani, ma alle ore 24,00 si ritrova a Saluzzo, in isolamento. Qui Maurizio ha potuto contare sulla solidarietà degli altri detenuti, che si ricordano del compagno NO TAV che era stato lì e del presidio di solidarietà che si era svolto all’esterno.
Maurizio si trova ora con dieci sanzioni disciplinari di 15 giorni di isolamento ciascuna, espressione della rappresaglia e delle ritorsioni nei suoi confronti da parte della direzione del carcere di Tolmezzo per tutte le denunce e le lotte da lui fatte. Tra l’altro, sia detto tra parentesi, una guardia che denuncia un prigioniero non dovrebbe poi “prestare servizio” nella stessa sezione del detenuto, mentre Maurizio ha accumulato fino a 6 denunce (per 90 giorni di isolamento) da parte di due guardie, rimaste sempre allo stesso posto. Che la direzione del carcere di Saluzzo decida o meno di farsi complice delle ritorsioni decise a Tolmezzo dipenderà, come sempre, anche dalla solidarietà che si svilupperà all’esterno. Maurizio, quanto a lui, non abbasserà certo la testa.
Maurizio ci informa anche che poco prima di essere trasferito stava raccogliendo delle firme in solidarietà con i compagni in AS2 ad Alessandria. Ringrazia poi uno ad uno, una ad una, tutti quelli e tutte quelle che gli hanno scritto.“Sono riuscito a portarmi la posta e ci tenevo ad abbracciarvi tutti/e al mio cuore compagni/e per dirvi che il vostro calore e la vostra vicinanza non mi fanno mai sentire solo. Vi voglio bene e vi abbraccio fraternamente, Maurizio”.
Maurizio ha espresso il desiderio di ricevere libri e pubblicazioni sull’anarchismo.

Per scrivergli:
MAURIZIO ALFIERI
VIA REGIONE BRONTA N. 19/BIS
12037 SALUZZO (CUNEO)

Fonte: informa-azione.info


Perù: maxi evasione dal carcere minorile di Lima

Escaping_from_JailNella notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio, 27 minori sono evasi dal Centro Juvenil de Diagnóstico y Rehabilitación di Lima.

Citato da Radio Programas del Perú (RPP), il ministro dell’Interno peruviano, Wilfredo Pedraza, ha sostenuto che il loro arresto è “questione di ore”.

Finora la polizia ha effettuato l’arresto di 8 dei 27 fuggitivi nel quartiere di San Miguel, dove si trova il carcere minorile.

Tra i fuggitivi c’è anche “Gringasho”, di 17 anni, considerato dalle autorità e dalla stampa locale uno dei sicari più pericolosi del paese. In passato era riuscito ad eludere la sorveglianza e scappare da altri centri penitenziari peruviani.

Non è ancora chiaro come i 27 – fuggiti in due gruppi di 13 e 14 persone in momenti diversi – abbiano messo in atto il loro piano. Il procuratore di Lima, Jorge Sáenz, non ha escluso il coinvolgimento di alcuni secondini del centro.


Carceri: detenuto tenta il suicidio a Reggio Calabria

Un detenuto di 50 anni ha tentato il suicidio impiccandosi alle grate della finestra del carcere. È accaduto ieri pomeriggio, nel penitenziario di Reggio Calabria A dare notizia stamane dell’episodio sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. L’uomo, di nazionalità italiana, era solo in cella ed era rientrato da poco dalla comunità terapeutica esterna ed era in carcere per reati legati alla droga ed altro. “Solo grazie al pronto intervento dell’agente della polizia penitenziaria in servizio nella sezione detentiva – comunica il Sappe -è stato evitato il peggio.


Carcere: detenuto s’impicca nella sua cella all’Ucciardone

Un detenuto del carcere Ucciardone di Palermo stamane si e’ tolto la vita nella sua cella, impiccandosi con un lenzuolo alla parte piu’ alta delle sbarre poste alla finestra. Si tratta di Giuseppe Pizzo, imputato per l’omicidio di una prostituta, fatto per il quale doveva essere giudicato nei prossimi giorni con il rito abbreviato.

A trovarlo agonizzante e in fin di vita sono stati gli agenti penitenziari che appena due ore prima avevano fatto un controllo. I medici hanno tentato di salvarlo, ma non c’e’ stato nulla da fare.

 


Morte e carcere

di Ilaria Cucchi

Finisce l’anno con Pannella che digiuna fin quasi a morire. E con l’affermazione dei periti nominati dalla corte: Stefano Cucchi sarebbe morto di fame dopo l’arresto il 15 ottobre 2009. Morte e carcere: parole ormai sempre più pensate, dette e scritte insieme. A indignarsi è solo chi non ha a che fare con la giustizia. Dentro le aule dei tribunali lo si dà per scontato che nei confronti di coloro che sono nelle mani dello Stato possano essere compiuti atti di violenza psicologica e fisica. Terribile.

Quando ci si rivolge direttamente ai giudici tutti i segni, imbarazzanti e agghiaccianti. Di tali violenze diventano equivoci, dubbi, quando addirittura non scompaiono. I consulenti diventano incerti, possibilisti, balbettanti. Salvo poi recuperare sicurezza e determinazione quando devono escludere, negare, difendere. Da tre anni giro per i tribunali di tutta Italia e le scene si ripetono uguali. Un esempio piccolo: Yaya Samura, teste fondamentale per l’accusa, ha riferito in aula del pestaggio subito da mio fratello.

Ha parlato dei calci, del tonfo del trascinamento del suo corpo a terra, del suo successivo colloquio con lui, dove Stefano si lamentava di essere stato picchiato mostrandogli le ferite e il sangue che ne usciva. Quel sangue è stato ritrovato su quei pantaloni sequestrati dal PM. Il consulente nominato dalla procura ha scritto che è sangue fresco e di mio fratello. E’ la prova che non si è procurato quelle lesioni in una caduta accidentale, ma per un pestaggio. Questo però non esiste per i periti che non ne fanno cenno.

Perché? Perché semplicemente quelle ferite come quelle sulle mani e sul corpo risalgono prima del suo arresto. Certo. Ma per tutto questo è realmente accaduto. Perché è “normale”. Tutto normale. Per la nostra Costituzione non lo è. Ma è vecchia e inadeguata ai tempi, come afferma qualcuno. Forse ha ragione.


Buoncammino, amara sorpresa per un detenuto: in carcere arriva il conto di Equitalia

Equitalia arriva anche in carcere. “Amaro fine d’anno per un cittadino recluso a Buoncammino. D.C., messinese, 68 anni, che all’inizio del 2012 aveva ottenuto ‘per le disagiate condizioni economiche’ la remissione dei debiti di giustizia, si è visto recapitare nel carcere di Buoncammino un sollecito di pagamento da Equitalia Nord. La nota lo ha gettato nello sconforto”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, sottolineando “il disappunto e la preoccupazione con cui l’uomo ha accolto la lettera”.

CAGLIARI – “L’ordinanza dell’Ufficio di Sorveglianza di Cagliari aveva disposto – ricorda Caligaris – la cessazione con effetto immediato di tutti gli atti in corso e la comunicazione all’ufficio incaricato del recupero dei crediti. Dopo un anno invece Equitalia si è rifatta viva esigendo il pagamento di 1.685,55 euro comprensivi di interessi di mora calcolati al 28 novembre 2012. Il sollecito ha gettato nel panico l’uomo che nel corso di un colloquio ha manifestato il timore che l’atto in suo possesso potesse non essere valido. Il successivo chiarimento ha fugato le ansie ma resta il fatto che la remissione del debito per chi versa in condizioni di indigenza deve essere rispettata in pieno dagli enti creditori evitando situazioni imbarazzanti soprattutto per chi si trova privato della libertà. La burocrazia non può accanirsi, come purtroppo spesso accade, con chi è debole e non è in grado di difendersi soprattutto quando i documenti parlano chiaro”.

Fonte: sardegnaoggi.it


Tutti i presidi contro il carcere di capodanno

BERGAMO

TOLMEZZO

COMO

ROMA

31 Dicembre, 2012 – 10:00
Via Bartolo Longo-angolo Via U. Majetti

 

 

Ogni giorno, 250 persone vengono rinchiuse in carcere.

90mila ogni anno.

Nelle carceri italiane sono stipate quasi 70.000 persone in STRUTTURE che

ne potrebbero contenere 40mila.

E’ il sovraffollamento, che moltiplica le sofferenza di chi viene

rinchiuso dalla repressione dello stato. Ma è l’esistenza stessa del

carcere il problema: affollato o meno che sia.

Oggi più che mai, il carcere tende a essere la naturale prosecuzione delle condizioni di esclusione sociale e di poverta’ in cui molte e molti si vengono a trovare, per questo il carcere è sempre più uno strumento in mano alla classe dominante, utile a controllare e reprimere la massa di sfruttate e sfruttati.Pensiamo all’inasprimento delle leggi contro l’uso delle droghe, alle

leggi contro l’immigrazione, alle norme che irregimentano la vita nelle citta’. sta diventando sempre piu’ facile cadere nelle maglie della giustizia prima e del carcere, poi.

L’esistenza del carcere decreta, in modo terroristico, il risultato della guerra tra vincenti e perdenti, rinchiudendo questi ultimi.

Per farla finita con la legge della giungla, con l’arroganza dei potenti, con la disuguaglianza, attiviamoci per abolire il carcere.

Per una società senza galere e senza sfruttamento.

Svuotiamo le carceri: libere tutte liberi tutti

COSENZA

CONTRO IL CARCERE, GIORNO DOPO GIORNO!
il 31 dicembre, come ogni anno, invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio di solidarietà davanti la casa circondariale di via popilia a Cosenza per far sentire la nostra vicinanza a chi è privato della libertà e ribadire la nostra totale avversione contro il sistema carcerario e repressivo.
APPUNTAMENTO IL 31 DICEMBRE ALLE ORE 18

Cosenza Contro il Carcere!

 

 


Il manicomio impossibile. La lunga strada per chiudere gli Opg

Il sequestro dell’intero Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (ex manicomio criminale) disposto dalla commissione parlamentare di inchiesta sul servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, ha rimesso il tema della chiusura degli Opg al centro dell’attenzione nazionale. Come è noto, mercoledì scorso i carabinieri dei Nas, su disposizione della Commissione, che possiede poteri analoghi al potere giudiziario, hanno posto sotto sequestro l’Opg, a causa delle sue pessime condizioni igienico-strutturali. L’ordinanza di sequestro assegna un termine di trenta giorni per il trasferimento dei circa duecento internati presenti. Ma che senso ha sequestrare una struttura che, per legge, dovrebbe chiudere entro marzo 2013? Per comprenderlo è bene fare un passo indietro, in una storia che diviene sempre più complicata.

Sopravvissuti alla chiusura dei manicomi civili, i vecchi manicomi criminali hanno assunto il nome di Opg, ma non hanno mutato sostanza. Sono strutture detentive nelle quali finiscono sofferenti psichici autori di reato che sono condannati a una misura di sicurezza detentiva. Una misura di sicurezza che, se sussistono condizioni di pericolosità sociale o un’assenza di alternative, può essere prorogata un numero infinite di volte. Oggetto di numerose inchieste nel anni Settanta per violenze e maltrattamenti, ma anche di denunce, in anni recenti, da parte di singoli deputati e dell’associazione Antigone, gli Opg sono tornati al centro dell’attenzione pubblica nel 2010. Fondamentale è stato il rapporto del comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), organismo di tutela dei diritti del consiglio d’Europa, presieduto allora da Mauro Palma, sulla visita effettuata nell’Opg di Aversa. Il quadro disegnato dal Cpt – letti di contenzione, isolamento prolungato, condizioni inumane e degradanti, povertà estrema, abbandono psichiatrico, assenza di terapie – ha spinto la commissione presieduta da Marino a recarsi in visita ispettiva non solo ad Aversa, ma anche negli altri cinque Opg nelle quali erano presenti circa 1.300 persone.

È così venuto alla luce un diffuso sistema di abbandono, deprivazioni e inumanità esteso in particolare alle strutture di Aversa, Barcellona e Montelupo Fiorentino. Ed è emerso anche un altro elemento inquietante. Centinaia di persone internate vedono prorogata la propria misura di sicurezza perché non ricevevano assistenza dai propri servizi di salute mentale o perché non hanno famiglie in grado di farsi carico di loro. E così molti sofferenti psichici, entrati in Opg per aver commesso o solo tentato piccoli furti, si sono trovati a scontare decine di anni di detenzione in assoluta incertezza sulla fine della pena e in condizioni inumane.

La commissione parlamentare è riuscita, con una tenacia che va riconosciuta, a non far mai cadere l’attenzione sul tema. Ha sequestrato reparti, effettuato sopralluoghi e audizioni, e girato un video in cui le terribili condizioni detentive emergevano in tutta la loro brutalità. Tanto che persino il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano non ha potuto che definire gli Opg come “un orrore medioevale”. Si è così giunti all’approvazione, in modo unanime, della legge n. 9/2012 che dispone il termine della chiusura al marzo 2013, ma non incide sul meccanismo delle misure di sicurezza e sulla loro prorogabilità prevista dal codice penale. La norma ha stabilito che gli Opg devono essere sostituiti da mini- strutture sanitarie regionali (venti-trenta posti) e ha stanziato anche risorse significative per le regioni, per la gestione ( trentotto milioni nel 2012, cinquantacinque milioni nel 2013) e per la costruzione (centosettantatre milioni di euro per il 2012 e il 2013). Dove sorgono i problemi allora?

Il primo problema nasce dal fatto che questi soldi sono stati ripartiti solo a dicembre e che, pertanto, tecnicamente, non saranno mai disponibili per le regioni prima di qualche mese. Il ritardo delle regioni nella definizione e individuazione di queste nuove strutture, le cui caratteristiche sono state definite solo nel mese di novembre, è uno degli elementi che spinge in molti a ritenere che sia necessaria una proroga. Proroga della quale Ignazio Marino non vuole sentir parlare. Ha piuttosto proposto al presidente uscente Mario Monti, a nome della commissione di inchiesta, di nominare “una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione”. Ma al momento nessuna risposta. Ecco il perché del sequestro, segnale forte e deciso da parte della Commissione. Ma sono in molti a segnalare problemi ancora più gravi dei ritardi. Il Comitato stopOpg (Antigone, Forum Salute Mentale, Psichiatria Democratica, CGIL) segnala il rischio forte che queste strutture regionali possa trasformarsi in mini-OPG. Secondo i portavoce del comitato, “le persone internate negli OPG non sono dei ‘pacchi’ da trasferire da un ‘contenitore’ ad un altro. Sono persone che hanno diritto di essere riportate nella regione di appartenenza per ricevere un’assistenza individuale: con progetti terapeutico riabilitativi, differenziati a seconda del bisogno assistenziale, a cura del Dipartimento di salute mentale di residenza”. E del resto, considerato che queste strutture sanitarie saranno affidate a soggetti privati e senza che sia stato modificato il sistema delle misure di sicurezza, il rischio di nuove forme di internamento è davvero molto alto.

Un altro rischio è evidenziato da Rita Bernardini che, polemicamente, ha commentato “mi auguro che il senatore Ignazio Marino si sia posto il problema dei duecentodieci pazienti che dovranno essere ‘trasferiti’ entro trenta giorni. Dove verranno trasferiti? In altri OPG a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia, lontani dai loro familiari? Nei repartini che si stanno predisponendo inopinatamente negli istituti penitenziari per incarcerarli?” Rischio più che concreto se consideriamo che, solo per fare un elenco parziale e certo incompleto a campione in tre regioni (Abruzzo, Campania, Lazio), l’amministrazione penitenziaria sta predisponendo reparti detentivi per sofferenti psichici nelle carceri di Rebibbia, Regina Coeli, Civitavecchia, Velletri, Vasto, Teramo, L’Aquila, Sulmona, Lanciano, Pescara, Santa Maria Capua Vetere, Pozzuoli e Salerno. C’è dunque la concreta possibilità che una parte degli internati che non verrà dimessa e che non andrà a finire nelle nuove strutture sanitarie, finirà dispersa nel circuito penitenziario dove si stima siano già presenti circa ventiduemila detenuti con un disagio psichico.

Sarebbe davvero una sconfitta per tutti quelli che desiderano il reale superamento dei dispositivi di internamento manicomiali. La mancata modifica del codice penale rende certo più fragili le speranze di un cambiamento che rimane necessario. “Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura e tutela medicina e giustizia dovrebbero esistere”. Questo scriveva Franco Basaglia, nel 1973 a proposito di quelli che oggi si chiamano ospedali psichiatrici giudiziari. Allora sembrava impossibile che si potessero davvero chiudere i manicomi. Oggi appare incredibile che siano ancora aperti.

di dario stefano dell’aquila

Fonte: il manifesto


La notte mai terminata di Giuseppe Uva

Adriano Chiarelli, l’autore di “Malapolizia” ricostruisce in un docufilm, “Nei secoli fedele”, le ultime ore di vita del giovane varesino. Fermato da una pattuglia di carabinieri nella notte fra il 14 e il 15 giugno 2008, il 43enne varesino, morì il giorno dopo nell’ospedale della sua città

ASCOLI PICENO – In una notte di metà giugno Giuseppe Uva eAlberto Biggiogero, dopo una cena, raggiungono a piedi il centro di Varese. Hanno bevuto un po’ e spostano delle transenne al centro della strada. Arriva sul posto una pattuglia di carabinieri e l’agente Dal Bosco inizia ad aggredire verbalmente e fisicamente i due uomini. Per Uva è l’inizio di una lunga notte, che non riuscirà a superare.

 Adriano Chiarelli, già autore di “Malapolizia” (Newton & Compton, pp. 336, 9,90 euro) e assistente alla regia di Paolo Sorrentino, ha deciso di ricostruire questa triste vicenda perché “Qui si uniscono tre tipi di mala gestione: quella dei carabinieri, della polizia e delle sanità” come ha affermato sabato sera, 22dicembre, presso la sala della Biblioteca di Storia Contemporanea “Ugo Toria”, in occasione della proiezione di “Nei secoli fedele.

All’evento, promosso dal collettivo Brigata 3 Ottobre, non è potuta intervenire per problemi di salute la battagliera protagonista del docufilm, Lucia Uva, sorella della vittima, che si batte da anni insieme all’avvocato Fabio AnselmoIlaria Cucchi e Patrizia Moretti (madre si Federico Aldrovandi) per l’introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura.

Chiarelli piacciono poco i giri di parole e, per niente interessato a caratterizzare il suo lavoro con una estetica enfatica, si preoccupa di far emergere in maniera chiara quei pochi fatti faticosamente riconosciuti come verità processuali e quelli che ancora rimangono fuori dal procedimento, per incuria o non si sa bene cos’altro, ma che sarebbero determinanti per stabilire la verità.

Il 14 marzo 2013 inizierà il processo bis relativo al caso Uva. Per i familiari e la sorella Lucia in particolare rappresenta l’occasione per fare chiarezza su quanto accaduto al fratello più di 4 anni fa. L’anno scorso il tribunale di primo grado, dopo aver disposto una nuova perizia sul cadavere di Giuseppe, ha assolto i due medici accusati di omicidio colposo durante l’espletamento del trattamento sanitario obbligatorio a cui l’uomo fu sottoposto. Dal secondo esame medico-legale è emerso che a causare la morte del gruista varesino non sarebbero stati i farmaci somministrati e l’assunzione di alcool.

La speranza della famiglia Uva e dell’avvocato Anselmo è che il fascicolo non sia rimesso in mano al P.M. Abateresponsabile secondo loro di aver formulato dei capi d’accusa errati. Sarebbe inoltre importante capire che cosa sia successo durante le 3 ore in cui Giuseppe è stato trattenuto in caserma da8 tra carabinieri e poliziotti. Biggiogero, unico testimone presente in caserma non è mai stato sentito, come non sono mai stati interrogati gli esponenti delle forze dell’ordine presenti. Sono molto eloquenti invece le foto del cadavere, in particolar modo quelle che ritraggono la parte posteriore dei suoi pantaloni, macchiata da un’estesa chiazza di sangue, riconducibile, secondo il dottor Fineschi consulente della difesa, a gravi lesioni interne.

Casi come questo, come quello di Cucchi e altri ancora meno conosciuti, che Chiarelli affronta nel suo libro, dimostrano quanto sia labile, in alcuni casi, il confine fra tutela dell’ordine pubblico e abuso di potere e come spesso si preferisca insabbiare realtà scomode. Maturare una coscienza civile riguardo a questi casi, seppur spiacevole, è necessario. Troppo spesso, prima dei fatti del G8, non si è data la giusta attenzione agli abusi commessi dalle forze dell’ordine, perché magari le vittime venivano etichettate come sbandati, innescando così una sorta di legittimazione alla “pulizia” sociale da parte di polizia e carabinieri.

Chiarelli sottolinea che l’Italia non ha ancora recepito il codice di condotta europeo per le forze dell’ordine, ma la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo dal 2009 produce degli obblighi internazionali, anche più stringenti, che il nostro Paese ha il dovere costituzionale di rispettare. L’articolo 3 di questa Convenzione annovera il reato di tortura. Se la famiglia Uva e il suo difensore decidessero di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti, avrebbero a disposizione un precedente anche in caso di prescrizione del reato: con sentenza emessa nel marzo del 2011, la Corte di Strasburgo dichiarava l’incompatibilità rispetto al diritto alla vita del proscioglimento per prescrizione di un imputato riconosciuto colpevole di omicidio a distanza di meno di 10 anni dal compimento del reato.

Il ricorso alla Corte Europea, se diventasse un’abitudine costante in questi casi, potrebbe aiutare a superare le resistenze interne del nostro ordinamento, visto che le parole e le petizioni sul web hanno dato prova di non essere il mezzo adeguato, incidendo così sui lavori della Commissione Giustizia, che si sta occupando dell’inserimento nel nostro codice penale del reato di tortura.


Cie. Il silenzio sugli innocenti

Si scrive Cie, si legge carcere per chi non ha commesso reati. Doveva essere un fermo in attesa dell’espulsione, invece è detenzione. Così la questione immigrazione è diventata caso umanitario

Cancelli, telecamere di sorveglianza, celle con inferriate antievasione, agenti di sicurezza e forze di polizia che vigilano affinché nessuno degli ospiti si muova da lì. Benvenuti in un Cie. L’odissea dei Centri di identificazione ed espulsione – inizialmente chiamati Cpt – comincia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano al fine di trattenere gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, nei casi in cui non sia possibile «eseguire con immediatezza l’espulsione». A giustificare il “trattenimento” secondo il legislatore è la necessità di procedere «al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità», come recita l’art. 12. Mai fino ad allora l’ordinamento italiano aveva previsto la detenzione di individui se non a seguito di reati penali e della decisione di un giudice. Le leggi successive – la Bossi Fini del 2002 e il pacchetto sicurezza del 2009 voluto fortemente dall’allora ministro Maroni – hanno intrapreso un cammino legislativo sempre più repressivo. Irrigidendo gli ingressi alla frontiera, rendendo sempre più difficile la permanenza regolare sul territorio italiano e allungando «il tempo strettamente necessario» di permanenza nei Cie, da 2 a 18 mesi. Con la nuova virata repressiva, in Italia può entrare solo chi ha già un lavoro. Chi lo perde ha solo sei mesi (un anno con la riforma del lavoro del 2012) per trovarne un altro, pena la clandestinità. Un quadro normativo schizofrenico che da una parte genera clandestini e dall’altra introduce il reato penale di clandestinità, da scontare nelle carceri ordinarie, da 1 a 4 anni. Questa stretta sull’immigrazione ha ricevuto più di una bocciatura e una dichiarazioni di illegittimità da parte della Ue. Il 28 aprile 2011 la Corte di giustizia europea ha bacchettato l’Italia per il mancato recepimento della direttiva 115 del 2008, che avrebbe dovuto essere accolta entro il 24 dicembre 2010. Perché per il diritto comunitario la clandestinità non è punibile con il carcere. Eppure con l’aumento dei tempi di permanenza è stato compiuto l’ultimo passo per trasformare strutture nate come temporanee in luoghi di detenzione per cittadini stranieri che non hanno commesso alcun reato.

Clandestini uguale delinquenti

Gli stranieri “detenuti” perché privi di regolare permesso di soggiorno sono circa 11mila. Nel corso del 2011 sono ancora in 3mila a scontare la pena all’interno delle carceri ordinarie, il 22 per cento di loro a carico ha solo questo reato. Sono molti i giudici che stanno applicando correttamente la normativa europea, ma anche se liberassero fino all’ultimo dei 3mila detenuti clandestini “ordinari” rimarrebbe irrisolta la questione dei Cie. Sono migliaia, quasi 8mila nel 2011, gli internati in questi centri e scontano una pena detentiva che può durare fino a 18 mesi. Le strutture in funzione sono 15: 12 permanenti e 3 provvisorie, create a seguito degli avvenimenti politici e dei conflitti dell’Africa del Nord che il ministero ha già dichiarato di voler rendere utilizzabili in via definitiva. A queste si aggiungono 3 centri momentaneamente chiusi. Sono edifici costruiti ex novo oppure convertiti per l’uso: ex caserme, fabbriche dismesse, ex centri di accoglienza, ex ospizi. A gestirli sono Croce rossa italiana, confraternita delle Misericordie d’Italia, cooperative del privato sociale. Il business è mediamente di 50 euro al giorno per migrante trattenuto.

Di emergenza in emergenza 

Cercando su internet la parola “Cie” si trova una lunga serie di denunce, reportage, notizie feroci su quanto accade all’interno di queste strutture. Da Trapani a Torino, da Lampedusa a Roma, si susseguono quotidianamente rivolte, incendi, tentativi di fuga. Le ragioni per cui molte organizzazioni umanitarie chiedono l’immediata chiusura di questi centri detentivi sono di natura economica, legislativa, di inefficacia del sistema, di ordine pubblico. Vale la pena soffermarsi sulla violazione dei diritti umani. È ormai evidente che l’emergenza immigrazione, che l’ordinamento intendeva superare introducendo queste strutture, si è di fatto trasformata in emergenza umanitaria. Giornalisti e Ong hanno stilato per ognuno di questi centri fiumi di denunce e inchieste che documentano le condizioni disumane a cui sono costretti gli internati. Qui non si rispettano neppure i parametri vigenti per gli istituti penitenziari. Nessun contatto con l’esterno, bagni senza porte, camerate anguste e sovraffollate. E le conseguenze sui trattenuti si fanno sempre più morbose: abuso di psicofarmaci, alto tasso di fenomeni di autolesionismo, tentativi disperati di fuga. Una situazione così grave che per i Cie bisognerebbe «introdurre il reato di tortura», ha detto il presidente della Caritas Roberto Davanzo: «Diciotto mesi vissuti lì dentro sono alienanti, annichiliscono le persone e fanno perdere la percezione della propria identità». Finora, in Italia, nessuna sentenza ha riconosciuto che queste strutture sono divenute, di fatto, carceri extra ordinem. Il 20 gennaio 2011 gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci dell’associazione Class action procedimentale hanno presentato al tribunale di Bari un ricorso d’urgenza per l’immediata chiusura del Cie di quella città. Il giudice ha trattenuto in decisione l’istanza: la sentenza è ormai vicina. E se il ricorso dovesse essere accolto potrebbe avere un effetto domino sugli altri centri d’Italia, diventando il precedente che mette in discussione l’intero sistema Cie.

Fortezza Europa

Centri come questi non hanno il marchio esclusivo del made in Italy. I campi di detenzione per migranti in Europa e nei Paesi mediterranei sono passati dai 324 del 2000 ai 421 del 2011, per un totale di circa 40mila internati. Muri dentro i muri, che si accompagnano a politiche migratorie sempre più repressive col solo scopo di espellere e rimpatriare. Mentre aumentano i tempi di permanenza, quindi di detenzione, e continua a diminuire la visibilità di ciò che accade dentro quei recinti. È la vecchia Europa che chiude porte e finestre ai flussi migratori. Sono passati secoli da quando gli schiavi venivano portati via dall’Africa in catene, oggi si fa di tutto per rispedirceli. Ma le catene restano.

di Tiziana Barillà – Left


Francia – Riflessioni sulle misure alternative al carcere

“La rottura nei confronti delle autorità giudiziarie”
Notizie da Mike, condannato a causa dell’esplosione di Chambéry del 1 maggio 2009. 

Nota per il lettore di lingua italiana.

Verso la mezzanotte del 1 maggio 2009, una bomba esplode in una fabbrica abbandonata vicino a Chambéry. Zoé vi perde la vita, Mike rimane gravemente ferito. La polizia dirà che i due stavano preparando un ordigno esplosivo ed in seguito Mike ammetterà di aver confezionato la bomba insieme a Zoé, sempre negando una qualunque intenzione sovversiva quanto al suo utilizzo. Visto che i due sono schedati come “anarchici” è l’antiterrorismo che viene incaricato delle indagini. Altre quattro persone vengono messe sotto inchiesta con l’accusa di aver “ripulito”, dopo l’incidente, il furgone di Mike ed il domicilio di Zoé da materiale “scottante” (in realtà, per lo più libri e scritti anarchici). La condotta di queste persone al momento dell’arresto varia molto: si va da un comportamento degno, al fare dichiarazioni su sé stesso ed altri (fornendo indicazioni su una persona ricercata, come fa J.), fino al limite di William, che inventa particolari su obiettivi immaginari della bomba ed altrettanto immaginarie scorte di clorato di sodio.
Alla fine il “caso” viene derubricato dall’antiterrorismo al diritto ordinario. Nel maggio 2012, Mike e tre suoi coimputati vanno a processo (il quarto non è giudicabile, grazie ad un cavillo tecnico). Anche in questa occasione, diversi sono gli atteggiamenti nel rapporto alla giustizia: c’è chi sottolinea il suo “reinserimento”, chi minimizza il proprio operato (a scapito di altri) e chi assume a pieno le proprie idee e scelte.

Chi volesse approfondire può leggere, in francese, il resoconto del processo, che contiene anche una ricostruzione dell’incidente:
http://cettesemaine.free.fr/spip/article.php3?id_article=5076

Il 16 ottobre 2012 sono stato convocato dalla JAP [Juge d’Application des Peines – ha funzioni simili a quelle del Magistrato di sorveglianza dell’ordinamento italiano, NdT], per discutere delle forme che prenderà la condanna ad un anno di carcere, di cui sei mesi passati in condizionale, pronunciata contro di me nel processo del 25 maggio 2012, in relazione all’esplosione del 1 maggio 2009 a Cognin (Savoia).
Dopo lunghe e numerose riflessioni, sono alla fine rimasto su una linea politica vicina alla rottura nei confronti delle autorità giudiziarie, situando questa rottura all’interno di un profondo conflitto con lo stesso concetto di autorità e le derive carcerali e statali che ne derivano.

Allo stesso tempo, ho rifiutato di entrare nelle categorie della sedentarizzazione e del lavoro salariato, confermando così la mia determinazione a non integrarmi nella loro miseria sociale.

Le conseguenze della mia posizione e la mia volontà di non entrare in qualche forma di dialogo e di pacificazione del conflitto che ci oppone hanno fatto sì che l’argomento delle pene alternative alla detenzione non sia stato nemmeno affrontato dall’AP (amministrazione penitenziaria) e che io sia convocato per il 7 gennaio 2013 alla Casa Circondariale di Chambéry, per espiarvi quello che mi resta della pena (4 mesi di prigione, 2 e mezzo tenendo conto degli ipotetici sconti di pena).

Al contrario di ciò che pretenderebbe la giustizia, che in vano ha cercato di farmelo controfirmare, non si tratta di una detenzione volontaria. Si tratta della messa a nudo di un rapporto di forza nel quale le armi sono ineguali ed il loro potere di nuocere alla mia vita è tale che io ho deciso (mantenendo la possibilità di cambiare idea) di recarmi in prigione. Malgrado tale rapporto di forze, il mio desiderio di un mondo senza dominazione non è che rinforzato e la mia determinazione a lottare contro tutte le forme di autorità non può che essere sempre più grande.

Ne approfitto, allo stesso tempo, per ringraziare i diversi gruppi ed individui che hanno condiviso le discussioni e le riflessioni che mi hanno aiutato ad arrivare alle mie attuali prese di posizione.

Al momento della mia incarcerazione, il mio indirizzo ed il mio numero di matricola verranno resi pubblici e le lettere saranno le benvenute.

Poiché, qui ed altrove, le nostre esistenze ed i nostri spazi di vita non sono gestibili, distruggiamo ciò che ci distrugge e facciamola finita con il concetto di autorità e di dominazione.

Che crepi questo mondo di merda!

Mike
Germogli di Libertà.
Riflessioni sulle misure alternative alla carcerazione
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In seguito alla sentenza ed alle diverse forme di reclusione che possono esserne le conseguenze, mi sembra importante cercare di mettere giù alcune delle mie riflessioni.

Considerando i due mesi di preventiva già fatti, mi restano da scontare quattro mesi di carcere, più sei mesi di condizionale (che restano in sospeso per i prossimi cinque anni). Spontaneamente, il mio primo riflesso è stato la voglia di fuggire questa situazione, ma sono stato rapidamente scoraggiato dall’isolamento, l’energia ed i mezzi tecnici che richiederebbe una latitanza come si deve e dalla paura di vedere il mio quotidiano, i miei progetti ed i miei legami sociali ritmati una volta di più dalla psicosi della reclusione. Nonostante la mia volontà politica di non sottomissione all’AP (amministrazione penitenziaria) ed il desiderio di rendere loro il lavoro il più duro possibile, ho comunque rapidamente concluso che la fuga causerebbe più disastri alla mia vita e a quella delle persone che mi circondano che i pochi mesi di prigione a cui sono stato condannato.

Ho quindi cercato di immaginarmi le diverse forme che la mia reclusione potrebbe prendere, per anticipare le conseguenze che questa condanna avrà sul mio quotidiano e su quello delle persone a me vicine.

Di fronte alle diverse forme detentive messe in atto dall’AP per le pene brevi o i fine pena (semi-libertà, braccialetto elettronico), numerose questioni a proposito di queste misure alternative alla prigione sono comparse e si sono affinate lungo le riflessioni individuali e collettive.
Il seguito di questo testo si snoderà quindi lungo la dualità fra  la “scelta” di pene alternative e quella della prigione.

Visto che la scelta di una pena alternativa al carcere classico, intesa come miglioramento del quotidiano, è valida solo all’interno di una logica carceraria, è primordiale per me pormi delle vere domande sulle forme che può prendere la reclusione durante questo periodo, affinché la mia “decisione” non sia condizionata dall’AP, ma sia il frutto di riflessioni collettive ed individuali che mirino a limitare le conseguenze delle restrizioni che ne derivano, sempre mantenendo una coerenza politica.

In una situazione in cui le pene alternative al carcere permettono di aumentare massicciamente il numero di persone sotto restrizioni carcerali, allo stesso tempo riducendo considerevolmente i costi di queste restrizioni, esse  introducono quotidianamente queste restrizioni nel seno stesso delle sfere pubblica e privata della popolazione e garantiscono una manodopera docile e sfruttabile a basso prezzo, grazie a mezzi di ricatto e restrizione ancora più forti che in una situazione salariale classica; mi è quindi impossibile non essere scettico di fronte a pratiche giudiziarie che mirano ad estendere la reclusione al di fuori delle mura delle prigioni.

È ciononostante vero che una pena alternativa al carcere può permettere di avere più legami sociali con i propri prossimi, visto che le possibilità di incontro e di comunicazione non sono sottomesse al formalismo ed all’arbitrio dei colloqui [in carcere, NdT], che senza l’intermediario e i limiti della spesina e con la possibilità di poter cucinare, procurarsi i propri alimenti, fare la doccia quando lo si vuole, mantenere una parte della propria vita sociale, affettiva e sessuale… si conserva una maggiore autonomia in quel che resta del quotidiano, in confronto a quello vissuto fra le mura di una prigione.
Ma tutto ciò è davvero rappresentativo della realtà di una pena alternativa al cercere?

Nella mia situazione personale di rifiuto della sedentarizzazione e del lavoro salariato, gestire questa pena significherebbe inevitabilmente partecipare all’elaborazione delle forme che prenderebbe la sanzione e di conseguenza entrare in una forma di partnership con l’AP.

Durante gli anni vissuti in libertà vigilata, ho avuto il tempo e le occasioni per affinare qualche riflessione sulle restrizioni carcerali al di fuori delle mura, ho potuto constatare che quando si è “rinchiusi fuori” le nostre attese si volgono automaticamente verso le persone che ci circondano e, quali che siano gli strumenti messi in atto, compaiono delle delusioni. Fare la scelta di una pena alternativa significherebbe quindi avere delle frustrazioni nei confronti delle persone a me vicine, invece che dirigerle contro lo Stato, che è alla base delle mie oppressioni.

Vivere una realtà carceraria all’esterno mi metterebbe in una condizione d’isolamento, poiché mi ritroverei ad essere il solo a vivere questa oppressione, in mezzo a persone avvantaggiate quanto alla propria libertà di movimento. Vivere una tale situazione d’isolamento causerebbe obbligatoriamente delle gerarchie nella ripartizione dei compiti e delle attese affettive nel seno delle mie relazioni sociali e, anche con una reale volontà e mettendoci un’attenzione particolare, mi sembra impossibile che le conseguenze non si incrostino nei miei legami sociali e nei confronti dei miei prossimi.

Essere rinchiuso in una cella la cui porta resta aperta mi obbligherebbe a rifare la scelta della reclusione ogni volta che sarei tentato di oltrepassarla; ciò significherebbe autodisciplinarmi di continuo, in modo da vietarmi ogni pulsione che miri alla mia emancipazione sociale, politica ed affettiva. In un modo di vita collettivo, ciò significherebbe condividere i ruoli del secondino e condurrebbe inevitabilmente a relazioni sociali in cui la repressione si mescolerebbe agli altri parametri che richiedono una gestione quotidiana.

Nel periodo della libertà vigilata, ho gestito il mio equilibrio sociale creando delle fessure nelle restrizioni impostemi ed accettare un braccialetto elettronico significherebbe sopprimere questi spazi di libertà, in assenza dei quali il mio equilibrio sociale non può che essere pesantemente danneggiato.
Ciononostante, la realtà carceraria attuale non permette di conoscere la data della propria scarcerazione, poiché ad ogni momento un’infrazione commessa durante la detenzione può portare ad una nuova condanna e significare quindi un prolungamento della durata della carcerazione.

Avendo delle rivendicazioni e cercando di avere delle pratiche antiautoritarie nel mio quotidiano, mi è difficile immaginare una realtà carceraria senza conflitti con l’AP e ciò significa proiettarmi in un periodo in cui sarei costantemente tentato di soffocare la mia coscienza ed i miei istinti di rivolta, nella prospettiva di non prendere delle pene supplementari durante la detenzione.

Fare la scelta di essere incarcerato significherebbe perdere il controllo sulle forme che prenderebbe questa condanna e lascerebbe la possibilità all’AP di organizzare il mio quotidiano durante il periodo della reclusione, scegliere il luogo di detenzione, poter vedere i miei legami sociali all’esterno attraverso i colloqui, le lettere etc. Questa scelta significherebbe ugualmente che le mie amicizie sarebbero colpite da una separazione fisica e si manterrebbero unicamente sulla fiducia esistente e quella che potrebbe essere creata ed intrattenuta attraverso la solidarietà, fatta di azioni, lettere o colloqui e la mia cerchia di relazioni fisiche sarà molto ristretta e limitata alle poche persone che avranno diritto ai colloqui. Senza fare particolare attenzione alle sensazioni di ogni persona a me vicina, mi sembra probabile che venga accentuata una certa gerarchizzazione fra le mie relazioni e che ciò possa essere fonte di conflitto, per persone già abbastanza colpite dalla situazione.

Ma questa scelta significherebbe ugualmente costruire dei nuovi legami sociali nel mio quotidiano, senza disequilibri, poiché li condividerei con persone che vivono la stessa realtà carceraria e ciò mi spingerebbe a dirigere le mie frustrazioni verso le cause della mia oppressione e non contro le persone a me vicine.

Nel periodo di carcerazione preventiva, ricordo, fantasmavo sul mondo esterno, sulla forza delle mie relazioni affettive, e avevo voglia di mordere la vita a pieni denti, appena fuori. Di fronte ai ricordi di depressione e di frustrazioni sociali provati all’inizio della libertà vigilata e delle difficoltà a ritrovare un pieno sviluppo sociale ed affettivo, mi sembra più facile progettarmi in una realtà carceraria, in modo da preservarmi dalle frustrazioni sociali, piuttosto che progettarmi in una situazione in cui numerosi eventi mi farebbero ricordare un periodo della mia vita particolarmente difficile. Ho anche coscienza che la morte di Zoé mi ha gettato in una realtà in cui tutto il mi equilibrio sociale ed affettivo è stato modificato. I pochi mesi di preventiva [già fatta, NdT] mi hanno permesso di vivere tutto ciò isolato in una specie di bolla e non ho avuto veramente percezione del vuoto causato dalla sua morte e dalle conseguenze che questa ha avuto sulla mia vita, che una volta uscito di prigione.

Dato che la mia detenzione preventiva si è aggiunta ad una situazione di ricostruzione fisica e psichica, ho vissuto quel periodo in un modo “di sopravvivenza”, non lasciando che poco spazio ai miei sentimenti e frustrazioni, e questi non hanno potuto emergere che una volta in libertà vigilata.

Scrivendo queste poche righe, mi rendo conto che è difficile per me essere razionale riguardo a quello che sento di fronte alla dicotomia braccialetto elettronico / prigione, poiché tutto ciò mi rimanda a periodi difficili della mia vita, dai quali non ho ancora preso abbastanza distanza per poter capire ed affrontare i ruoli della repressione, del lutto, delle ripercussioni fisiche dell’incidente, le numerose altre conseguenze affettive ed i loro legami con la mia situazione attuale.
Perché, alla fine, questa scelta non è la mia e mai farei spontaneamente la scelta fra essere rinchiuso in una prigione oppure essere sotto sorveglianza elettronica; la mia scelta si limiterebbe ad evitare le pene alternative o la detenzione.

Da un punto di vista personale, non riesco ancora a prevedere la posizione che terrò di fronte al JAP, se cercherò o meno di avere una pena alternativa al carcere, e trovo primordiale il fatto di avere la libertà di cambiare opinione tante volte quante sarà necessario. Ciononostante, la mia coscienza politica e le mie pratiche di lotta antiautoritaria fanno sì che, se cerco una coerenza, non posso che essere contrario alle pene alternative e che l’opzione che renderà il lavoro il più difficile ed il più costoso possibile all’AP è quella della detenzione in carcere. Ma allo stesso tempo mi sembra indispensabile essere attento al mio equilibrio affettivo e sociale nel momento in cui vi sarò confrontato, affinché non sia un dogma politico il solo parametro ad influenzare la mia posizione. La cosa più importante ai miei occhi non è quindi la decisione finale che sarà il frutto di questa situazione, ma gli strumenti che permettono di costruire e di affinare delle riflessioni attorno a questa questione, e fare in modo che essi possano alimentare delle discussioni e delle pratiche, collettive così come individuali, all’interno delle lotte anti-carcerarie e antiautoritarie di questa società.

Forza e coraggio a quelli/e che lottano contro tutte le forme di detenzione.

Mike
[ottobre 2012]

Per un contatto, critiche o altro: soutien25mai [a] riseup.net

Fonte:non-fides


Benevento, 4 agenti penitenziari risultati positivi al test TBC

BENEVENTO- Si aggrava a Benevento il rischio di una epidemia di tubercolosi nel carcere di Contrada Capodimonte: “Dopo la scoperta il 23 dicembre di un detenuto straniero affetto da tubercolosi – riferisce il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria – erano stati disposti provvedimenti di profilassi per i poliziotti penitenziari in servizio in quella sezione detentiva e dagli accertamenti e’ risultato che quattro agenti sono risultati positivi al test della tbc.

Ma il numero potrebbe essere piu’ elevato, perche’ il detenuto era un lavorante, libero di muoversi nel carcere”. Per il segretario generale del Sappe Donato Capece, “quanto accaduto a Benevento e’ gravissimo e le responsabilita’ di avere ammesso al lavoro un detenuto con la tubercolosi sono ben precise: il direttore del carcere deve essere avvicendato. Non puo’ infatti costituire un alibi per l’amministrazione penitenziaria centrale l’assenza di un programma di prevenzione sui rischi di contagio, affinche’ si evitino ingiustificati allarmismi, con la sottoposizione periodica degli operatori penitenziari a vaccinazioni, la dotazione di kit di protezione, l’indicazione di una scrupolosa profilassi da eseguire. Tutto questo a Benevento non e’ stato fatto”.

Il Sappe auspica che “il ministro della Giustizia Severino assuma urgenti iniziative. Sono evidenti anche le responsabilita’ del capo del Dap Tamburino e del vicecapoPagano. La necessita’ di uno screening su scala nazionale risulta quanto piu’ utile e opportuno in considerazione dell’alto tasso di detenuti stranieri provenienti da Paesi dove patologie, che in Italia sono state debellate, sono assai radicate e diffuse, anche in considerazione che il sovraffollamento favorisce la possibilita’ di contagio”.

Fonte: eolopress.it


Sovraffollamento e personale all’osso, l’anno terribile del carcere leccese

Nemmeno di fronte ad alcune sentenze definite epocali, con l’amministrazione penitenziaria obbligata a risarcire alcuni detenuti, è cambiato nulla. E si sprecano gli appelli, anche dei sindacati di polizia penitenziaria nazionali

LECCE – L’anno appena trascorso ha evidenziato, ancora una volta, la situazione di degrado e profondo malessere che attraversa gli istituti penitenziari pugliesi e in particolare quello di Lecce, dove, a fronte di una capienza di 660 posti disponibili, si registra una presenza costante di oltre mille 300 detenuti.

Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, mancanza di supporto psicologico e la cronica insufficienza di personale, sono solo alcuni tra i mali che affliggono il penitenziario salentino. Quella dell’emergenza sanitaria e delle carenze legate all’assistenza medica dei detenuti, sono solo alcuni dei tanti mali con cui da tempo convive il carcere di Borgo San Nicola.

L’ultima inchiesta della magistratura, in ordine di tempo, riguarda il lavoro svolto dai medici dell’Asl in servizio presso l’istituto penitenziario. Degli oltre 800 i ricoveri presi in considerazione, tra il gennaio 2010 e il febbraio 2011, solo il 13 per cento di quelli definiti di estrema urgenza, in ospedale sarebbero stati riconosciuti come tali. In tutti gli altri casi, il trasferimento risulterebbe superfluo. Uno spreco di denaro pubblico che potrebbe essere utilizzato in altro modo.

Il grido d’allarme è giunto, ancora una volta, dal vicesegretario nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che ha evidenziato come in dodici mesi siano stati oltre mille 350 gli eventi negativi accaduti nel carcere di Lecce. Una situazione esplosiva che solo il grande lavoro della polizia penitenziaria, costretta a svolgere le proprie mansioni in situazioni difficili, ha evitato che portasse a conseguenze gravi. La sede di Lecce, infatti, necessita di almeno 150 agenti uomini e venti donne. La polizia penitenziaria, già in forte carenza, si è vista ulteriormente ridurre l’organico a seguito dei tanti pensionamenti di uomini e donne.

Quello del sovraffollamento delle carceri pugliesi è da tempo un dato di fatto, riconosciuto anche da alcune sentenze. I detenuti sono rinchiusi in tre dentro celle da circa 10 metri quadrati; dormono in letti a castello (il materasso più in alto è a 50 centimetri dal soffitto); in cella c’è una sola finestra ed un bagno cieco senza acqua calda; il riscaldamento funziona d’inverno un’ora al giorno; le grate sono chiuse per 18 ore al giorno; carta igienica, shampoo, bagno schiuma, detersivi solo per chi può comprarli nello spaccio interno.

Nei mesi scorsi il Tribunale di sorveglianza, con alcune sentenze definite epocali, aveva condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire alcuni detenuti, assistititi dall’avvocato Alessandro Stomeo. Nel 2012 è stata la stessa Asl di Lecce a certificare le carenze strutturali e igienico-sanitarie dell’istituto di pena alla periferia del capoluogo salentino. Nella relazione, a firma del direttore Alberto Fedele, è stato evidenziato come il gruppo docce “presenti carenze funzionali”. “In relazione al numero dei detenuti occupanti la cella”, è stato certificato ancora nella relazione indirizzata al magistrato di sorveglianza, “dovrebbe essere necessari 42 metri quadri, a fronte dei 9 disponibili”.

Un referto (nato come richiesta istruttoria presentata dall’avvocato Stomeo), che sottolinea ancora una volta la situazione di invivibilità all’interno del carcere. Tutto ciò in violazione della normativa italiana che regola il sistema penitenziario, della Costituzione (secondo la quale la limitazione della libertà dovrebbe avere come obiettivo la riabilitazione dell’uomo e il suo reinserimento in società) e gli orientamenti giuridici comunitari.

Per non dimenticare che, a poca distanza dalle nostre vite, ce ne sono altre racchiuse in un mondo parallelo, fatto di regole e ritmi assai diversi. Vite che, al di là del perché, scontano pene in maniera spesso disumana e degradante. Una lunga cinta muraria e un pesante cancello separano il mondo di fuori da quello di “dentro”, i sogni dalla realtà.

Fonte: lecceprima.it

 


“La direzione assicuri i diritti dei carcerati”

PALERMO – Il giudice ha ingiunto la direzione del carcere palermitano ad adottare gli opportuni provvedimenti per assicurare il rispetto della persona dei detenuti. Il garante Fleres: “E’ l’ennesima conferma delle generali condizioni di disagio vissute dai reclusi italiani e siciliani”.

Il magistrato di sorveglianza di Palermo ha ingiunto alla direzione del carcere Pagliarelli di assicurare condizioni di vita adeguate ai detenuti. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana, Salvo Fleres. “Il giudice – spiega Fleres – ha ingiunto la direzione ad adottare gli opportuni provvedimenti per rimuovere le violazioni dei diritti sul rispetto dello spazio vitale all’interno della cella, per assicurare il diritto di occupare una cella con compagni non fumatori, il diritto a fruire di adeguati periodi di tempo all’esterno delle celle, sfruttando la cosiddetta socialità, il diritto all’uso adeguato di bagni e docce e degli altri oggetti necessari alla cura ed alla pulizia della persona”.

Il provvedimento ha origine da una iniziativa promossa da un recluso che si è rivolto a Fleres e all’avvocato Vito Pirrone, presidente dell’associazione nazionale forense di Catania, con cui il Garante ha stipulato un protocollo di intesa. “La pronunzia del magistrato di sorveglianza di Palermo – ha detto Fleres – costituisce l’ennesima conferma delle generali condizioni di disagio vissute dai reclusi italiani e siciliani a causa del sovraffollamento e delle endemiche carenze di personale, sottoposto a turni estenuanti di servizio”. “Ulteriori iniziative giudiziarie – ha proseguito – sono in corso in altre carceri dell’Isola e puntano, oltre che al risarcimento del danno, anche al varo di interventi normativi, organizzativi e strutturali capaci di adeguare l’esecuzione penale ai dettati della legge”.

Fonte: livesicilia.it

Carcere di Foggia: 3 bimbi tra detenuti e suicidi

FOGGIA – Una bimba di 10 giorni nel carcere di Foggia: che ci fa? E’ con la sua mamma detenuta nella sezione femminile della casa Circondariale foggiana, in attesa di giudizio incensurata. E se da una parte è giusto che la bimba riceva il calore materno, dall’altro una infante non può crescere in un ambiente dove il riscaldamento è acceso per una sola ora al giorno.

Il 24 dicembre scorso, mentre tutti eravamo indaffarati con gli ultimi regali e con i preparativi del cenone di Natale, i radicali dell’associazione ‘Mariateresa Di Lascia’ ispezionavano il carcere di Foggia.

Una visita ispettiva, la seconda dall’inizio dell’anno, che non ha portato a evidenti miglioramenti rispetto alla precedente, avvenuta a marzo: “stesso sovraffollamento. Capienza del carcere 450 posti, detenuti presenti 680, stessa carenza di personale: 312 agenti previsti dall’organico, 294 agenti effettivi” sottolinea  Elisabetta Tomaiuolo Segretaria dell’associazione.

“Gli agenti presenti – continua la segretaria – non sarebbero sufficienti nemmeno a gestire il numero di detenuti regolamentare di 450, figuriamoci sostenere una situazione di emergenza di questo tipo. Stessi problemi strutturali: gli impianti sovracaricati si guastano e non è possibile nemmeno fare una doccia tiepida”.

In condizioni simili, difficilmete riescono a sopravvivere gli adulti, figuriamoci come possa farlo una bambina di 10 giorni in luogo simile. Il 12 dicembre scorso, infatti Arcangelo Navarrino, 44enne originario di Fasano (Br) condannato a 20 anni di reclusione (ossia fino al 2029), per l’omicidio del 41enne Giuseppe Fragasso, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo. Nella casa Circondariale di Foggia, nel corso del 2012 ci sono stati 5 episodi di ingerimento di sostanze nocive, 12 colluttazioni, 14 episodi di autolesionismo, un decesso per morte naturale e 10 tentativi di suicidio.

I detenuti hanno commesso reati per i quali scontano una pena, ma restano persone che hanno bisogno di cure e attenzioni. “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettano che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa” scriveva Cesare Beccaria ne ‘Dei delitti e delle pene’. E nei penitenziari, dove sono le leggi?

Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini sotto i 3 anni, ma poche sono dotate di nido. Tra queste c’è la Casa Cicondariale di Foggia: “Ma possiamo definire una stanza con una culla malconcia, priva di qualsiasi suppellettile e genere di conforto riscaldata da una stufetta, una struttura nido? Quale società civile permetterebbe ad un’innocente di 10 giorni di vivere in queste condizioni?” dice la Segretaria radicale. Insieme alla bimba di 10 giorni, ci sono altri 2 bambini.

“Per farli sentire meno abbandonati abbiamo portato loro in regalo dei giocattoli, perché in fondo è Natale anche per loro. Ma questo non è che un gesto simbolico e certo non basta a restituire loro gioia e serenità. Occorre trovare delle soluzioni alternative, per tutelare questi bambini” ha affermato Tomaiuolo.

di Doriana Davenia

Fonte: foggia.ilquotidianoitaliano.it


Presidio di capodanno a Tolmezzo

Già nei presidi dell’ 8 settembre e del 24 novembre scorsi, portando fuori dalle mura carcerarie le voci dei detenuti, abbiamo denunciato i pestaggi delle “squadrette speciali”, l’isolamento punitivo, le minacce fisiche e psicologiche, le pessime condizioni igienico-sanitarie, il vitto scarso e immangiabile, lo sfruttamento del lavoro, l’insabbiamento delle denunce inviate dai detenuti alla procura di Udine e al magistrato di sorveglianza,

Le azioni di rappresaglia della direzione verso chi non piega la testa e ha deciso di rompere il muro dell’omertà, non riescono a fermare la protesta collettiva dei prigionieri, che valica le mura dell’inferno tolmezzino, a cui fanno eco le azioni dei/delle solidali fuori dalle carceri.
Percorsi di vita che si intrecciano: iniziative anticarcerarie di fronte alle mura di Tolmezzo; uno sciopero del vitto in solidarietà con Maurizio Alfieri, un prigioniero che per il suo coraggio e determinazione nella denuncia degli abusi è tenuto in regime di isolamento e nonostante ciò trova la forza, assieme ad altri detenuti, per appoggiare la lotta dei compagni anarchici detenuti ad Alessandria nella sezione AS2 contro le finestre a bocca di lupo; un presidio solidale a Roma davanti al ministero di grazia e giustizia;…

Per dare forza a questi percorsi di liberazione nella notte di capodanno saremo ancora a Tolmezzo.
Saremo presenti con le nostre voci ed i nostri corpi per dire ai prigionieri che non sono soli e che la loro lotta è la nostra lotta.
Alla direzione del carcere diciamo che il silenzio è rotto e che il tempo dell’impunità è finito.


Presidio di capodanno al carcere di Bergamo


Presidio di capodanno al Bassone, Como


Niki Aprile Gatti: il nuovo “tassello” mancante

La menzogna non può durare per sempre, e soprattutto quelli che si credono invincibili, potenti perché coperti dallo Stato, dovrebbero ben sapere che quest’ultimo non è mai “buono”, non si fa scrupoli, non possiede l’anima e ne coscienza. Lo Stato, in qualsiasi forma sia (o dittatoriale, democratico o in forma diretta), per determinati meccanismi decide ad un certo punto di non coprirli più. I motivi possono essere molteplici: un passo falso, un riequilibro degli assetti (e molto spesso, non sempre, le inchieste giudiziarie servono proprio per quello visto che anche la Magistratura è un Potere dello Stato), un cambiamento di linea o semplicemente una lotta tra “bande”.

Sapete che sono oramai ben quattro anni che ci si sta occupando della maledetta storia della morte di Niki Aprile Gatti. Un giovane informatico che lavorava presso una società di San Marino. Si chiamava OSCORP e fu coinvolta, assieme ad altre società e loschi personaggi, in un’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze: l’operazione Premium.

Ad oggi non si sa che fine abbia fatto: da una parte abbiamo la chiusura a riccio dei coinvolti(ovviamente) e dall’altra abbiamo la Procura di Firenze che non ha fatto trapelare nulla e la cosa è alquanto fuori dal normale visto che di solito, se pensassimo alle altre inchieste massmediatiche, sappiamo tutto. Perfino cose che non dovrebbero interessarci visto che è puro gossip per distrarre le masse.
Sappiamo solo che Niki Aprile Gatti, nel lontano giugno del 2008, fu ritrovato a soli quattro giorni dall’arrestoimpiccato nel bagno della sua cella. Secondo il Magistrato che ha archiviato tutto, non ci sono dubbi: con il suo peso di più di 90 kg (era anche alto), avrebbe utilizzato un solo laccio delle scarpe per impiccarsi.
Inutile che i familiari abbiano denunciato le innumerevoli contraddizioni come le testimonianza dei due detenuti che erano in cella con Niki (una cella super controllata perché erano detenuti con problemi di autolesionismo). Inutile aver denunciato l’avvenuto furto (c’è un processo in corso ad Avezzano) nell’appartamento di Niki a San Marino e a pochi giorni dell’arresto. E c’è da chiedersi anche il perché della non avvenuta perquisizione del materiale informatico.
Ma come, arrestano Niki e non gli hanno nemmeno sequestrato il computer? Se pensassimo agli arresti degli anarchici nelle ultime assurde operazioni! Hanno sequestrato perfino i chiodi pur di trovare un pretesto per accusarli di terrorismo. Ma c’è una novità importante, e qui ritorniamo alla falsa convinzione di “onnipotenza” dei tanti personaggi coinvolti direttamente o indirettamente in questa maledetta storia.

San Marino, lo si sapeva da tempo, è un luogo diriciclaggio di denaro sporco che avviene tramitesocietà finanziarie che pullulano come funghi. E’ un luogo dove le banche, ad esempio, servivano per depositare i fondi neri del SISDE (gli ex servizi segreti italiani), dove le mafie (in particolar modo la ‘ndrangheta e la camorra) portano il loro sporco denaro. E dove i politici (come da noi) ne sono le marionette e tramite ricatti e intimidazioni ne rimangono coinvolti. In tutte le inchieste come la Premium, il caso Eutelia, la “Telecom-Fastweb” e via discorrendo ci sono sempre San Marino e Londra.
Sì, avete capito bene, la capitale dello Stato inglese sempre presa ad esempio dai vari nuovi reazionari e legalitari come l’osannato Travaglio (ove i politici si dimettono anche per una stupidaggine, dice sempre quest’ultimo) è un’altra oasi per i criminali organizzati in combutta con la finanza e società telefoniche (questo è uno dei migliori business).
Ora si dirà che questo è un problema di legalità e i paradisi fiscali appartengono ad una finanza criminale. Niente di più falso.

In realtà sono organismi politici perfettamente “legali” nei quali vengono ammassati i fondi, il denaro accumulato dalle criminalità organizzate insieme a Banche, imprenditori senza scrupoli e vari Istituti finanziari. Non esiste il capitalismo pulito: questo è un ossimoro e non lo si combatte tramite la “legalità”. Ritorniamo a San Marino e a Niki Aprile Gatti perché il nesso con quello che ho appena detto c’è, esiste.
A Niki, mentre era in cella di isolamento, fu recapitato un telegramma (all’insaputa dei familiari), ove in maniera fredda gli si consigliava di cambiare avvocato: una donna avvocatessa che era dipendente dello studio legale di un facoltoso avvocato di Bologna. Il titolare di questo studio è un uomo sul quale, nel passato, aleggiavano sospetti riguardo la sua condotta come difensore dei familiari delle vittime della Strage di Bologna. Secondo un’informativa di un giudice, pare che avesse intrattenuto rapporti con alcuni esponenti dei servizi segreti (fonte). Il suddetto avvocato era anche Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società finanziaria di San Marino (la SOFISA) che aveva rapporti anche con l’OSCORP (la società coinvolta nell’inchiesta Premium).
In questi giorni a San Marino c’è stata per la prima volta una commissione parlamentare sui rapporti criminalità organizzata e politica. Ma non solo, si sono occupati anche del ruolo delle società finanziarie e hanno parlato della FINCAPITAL laddove intratteneva rapporti con esponenti della camorra (qui potrete scaricare il documento della commissione).
Pochi giorni dopo, la Banca centrale di San Marino mette sotto commissariamento la società finanziaria SIBI, nome cambiato della originaria SOFISA. Sì, la società del cui Cda il noto avvocato di Bologna era Presidente.

Vogliamo conoscere il motivo del commissariamento. Cosa c’era di poco chiaro? E soprattutto confidiamo sui nuovi amministratori affinché facciano chiarezza su una storia cupa e piena di muri di gomma come la morte di Niki Aprile Gatti.
Non ho finito, avevo parlato di Londra. Non la dimentico. Tutto legale per carità (sopra ho spiegato bene questo concetto non a caso), ma è curioso vedere che l’avvocato abbia aperto, recentemente, una società proprio a Londra: la SOSISA UK LTDNon proprio originale come nome, visto che ricorda l’ex SOFISA, appena commissariata. 
Fonte: agoravox.it

Firenze, al carcere di Sollicciano piove nelle celle

L’avevano annunciato alla vigilia che la mattina di Natale avrebbero visitato il carcere fiorentino di Sollicciano. E infatti una delegazione dei radicali si è presentata ai cancelli per controllare lo stato di questa struttura: “Una struttura fatiscente con infiltrazioni di acqua”, “in diverse celle piove anche sui letti dei detenuti” ha spiegato Matteo Mecacci, parlamentare radicale eletto nelle file del Pd, che stamani, insieme a una delegazione composta anche da Maurizio Buzzegoli e Rosa Marca, ha compiuto una visita ispettiva all’interno del penitenziario.
“La situazione è molto critica ormai da anni, ma le diffuse infiltrazioni di acqua – ha spiegato Mecacci al termine della visita, durata alcune ore – rendono invivibili non solo le celle ma anche i locali per la polizia penitenziaria. La mia impressione è che quel carcere deve essere abbattuto e ricostruito interamente”.

Mecacci, che è stato accompagnato nella visita anche dal cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, ha riferito che attualmente il carcere fiorentino ospita 935 detenuti a fronte di una capienza di 450 persone. Tra i reclusi anche 88 donne e due bambini, uno di 3 e l’altro di 5 anni. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 480 ma la pianta organica – ha spiegato il parlamentare – ne prevede 620.


Maxirissa alla Dozza

Provocazione e alcol alla base dei diverbi e della rissa nel carcere di Bologna

Nel tardo pomeriggio una decina di detenuti del reparto penale del carcere della Dozza, un gruppo di albanesi dopo un diverbio tra due detenuti sono entrati nella cella di uno di essi e lo hanno malmenato. Il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe riferisce che: “Solo grazie al pronto intervento degli agenti la rissa è stata sedata e sono state evitate conseguenze peggiori”. L’aggredito è stato trasportato in ospedale e avrebbe un polso rotto.

L’ABUSO DI ALCOL. Secondo il segretario generale aggiunto del Sappe Giovanni Battista Dutante, a scatenare l’aggressione il diverbio tra i due detenuti e “l’uso eccessivo di sostanze alcoliche. Sarebbe opportuno che l’amministrazione vietasse la consumazione di bevande alcoliche, anche nel reparto penale, così come è stato già fatto nel reparto giudiziario”.

Sempre nel carcere di Bologna, ha reso noto ancora il Sappe, questa mattina c’é stata una colluttazione tra due detenute nel reparto femminile. Un’agente intervenuta per sedare la rissa ha riportato lesioni guaribili in dieci giorni.

Fonte: bolognatoday.it

 

Conversazioni di comuni cittadini sul carcere

Carcere, pena, condanna, rieducazione, sovraffollamento…l’immaginario comune diffuso relativo alla realtà carceraria, alle sue condizioni e implicazioni sociali si sviluppa spesso a partire dalla percezione di una distanza profonda dall’oggetto in questione. Ciascuno di noi si sente in grado di esprimere un’opinione, ma difficilmente conosciamo davvero problematiche nascoste e recluse lontano dagli occhi e dalle orecchie della cittadinanza.


Quei natali in carcere a contare milioni di passi

Il pallone, la messa e i milioni di passi dei Natali in carcere.
La festa dietro le sbarre tra soprusi e speranze

È una ragazza rom, ha un bambino di neanche due anni, ed è incinta. Ci sono altri due bambini nella sezione femminile che hanno meno di tre anni. Nel corridoio c’è un albero di Natale finto coperto di stagnola e di strisce di cotone. C’è un albero artificiale anche nel corridoio della sezione maschile, con dei pendagli di cartone colorato.

Vengono sua madre, sua moglie e la bambina, che ha 11 anni. Hanno fatto la coda per quattro ore, in strada, e pioveva, ma non glielo diranno. Lui si è preparato fin dalle sette, benché le celle vengano aperte solo alle dieci. Ha fatto la doccia, anche se le caldaie sono guaste e l’acqua è fredda, ma non glielo dirà. Ha fatto una domandina per portare dei cioccolatini alla bambina. Lei ha imparato una poesia e gliela reciterà: “Il campanile scocca / la mezzanotte santa”.
La ragazza rom incinta incontra suo marito, un ragazzo anche lui, e un altro suo bambino che avrà quattro anni. Il ragazzo a un tratto la insulta, lei piange, anche i bambini piangono, poi passa. I colloqui finiscono dopo l’una. Quelli, la maggioranza, che non ricevono visite, sono chiusi già da più di un’ora. Alcuni erano andati all’aria, non tanti, fa freddo. Chi era al colloquio mangerà freddo, tanto non ha fame. Chi ha ricevuto posta sta sdraiato in branda e la legge per un’ennesima volta. Anche chi non l’ha ricevuta sta in branda, perché non c’è altro posto in cui stare.
Alle due si può tornare all’aria. Oggi alla sezione penale spetta il campetto di terra, dove si può giocare a pallone se si trova un pallone, e poi si sentono le voci del femminile. A Natale le voci dei bambini incarcerati fanno più impressione. C’è un tubo da cui esce un filo d’acqua rugginosa. C. raccoglie il filo d’acqua nel cavo di una mano, tiene l’altra appoggiata al muro. Ha posato in terra gli occhiali da miope, con la montatura tenuta da un nastro adesivo. Avrà una sessantina d’anni, è tarchiato.
Arriva N., uno di pochi anni e pochi muscoli, istoriato di tatuaggi da strapazzo, vuole il posto. “Scansati, pezzo di merda!”, intima. L’altro è chinato e fa finta di non sentire, o davvero non sente. Il ragazzo gli sferra un calcio nel fianco, e lo manda a sbattere sul muro. L’uomo si volta e mostra i denti, ma solo per un momento, poi si allontana piegato com’è, con una specie di guaito. Il ragazzo dà un calcio agli occhiali e si prende il suo filo d’acqua sporca, poi torna alla partita.
Il pivello è nessuno, uno scapparifero da-casa. L’uomo è un assassino. Ha ucciso sua moglie, due anni fa, con un coltello da cucina. Quarantatré coltellate, secondo la perizia. Erano una coppia di paese, non più giovane, la cosa è sì e no arrivata alle cronache locali: “Tragedia della gelosia”. Gli altri vanno e vengono. Tengono gli occhi bassi, per lo più, sembrano assorti in qualcosa di essenziale. Forse, semplicemente, contano i passi. Non è appropriato, per la verità, dire “semplicemente”, per un’operazione impegnativa come contare i passi. È come pregare coi piedi. Fuori la gente dice, alla leggera: “Conto i minuti”, “Conto le ore”, “Conto i giorni” — “Conto gli anni no”, non lo dice — e vuol dire che non vede l’ora che qualcosa succeda.
Qui contano davvero gli anni, e anche le notti e le ore e i minuti, ma soprattutto, per vendicarsi del tempo che ti passa addosso a fondo perduto, contano i passi. Migliaia, centinaia di migliaia, milioni di passi.
Su e giù all’aria, da un muro all’altro, quaranta all’andata e quaranta al ritorno, e anche in cella, se la ressa lo permette, tre dal muro al blindo e ritorno, come se i passi accumulati avvicinassero la meta. Ma sono passi davvero perduti, come chiamano futilmente il corridoio di quel parlamento dove due giorni fa, alla vigilia di Natale, hanno cancellato i pochi fondi per il lavoro in carcere e la misera legge sulle pene alternative. Se i giudici sapessero di che cosa parlano, farebbero alzare in piedi l’imputato e gli direbbero: “Per questo e quest’altro, caro signore, la Corte la condanna a quattordici milioni e seicentotrentaset-temilacinquecentododici passi”.
M. è un ergastolano cui è vietata la speranza, lui non conta i passi, e nemmeno i Natali che gli mancano: tutti i Natali della vita. Alle quattro di pomeriggio sono tutti chiusi di nuovo, passa la conta e la battitura ferri, e poi la terapia. J. prende il metadone e finge di inghiottire: lo fa benissimo. Poi lo risputa in un bicchierino di carta, lo venderà a uno del secondo piano per un rotolo di
igienica. R. ingoia sul serio il suo Tavor — è obbligatorio prendere i farmaci davanti a infermiere e agente, anche se è un analgesico e il mal di denti arriverà fra cinque ore. R. ha un solo desiderio: addormento-
tarsi e risvegliarsi quando le feste saranno passate. Le celle restano chiuse dalle sedici alle dieci del giorno dopo.
A mezzanotte lo scampanio arriva fin qui dentro. P. è polacco e si tiene sveglio perché sa che a casa preparano anche per lui e suo padre versa anche nel suo bicchiere e beve per suo conto.
La mattina di Natale quasi tutti si preparano per la messa, anche quelli che non ci vanno mai. Viene il vescovo oggi, poi andrà a dire la messa solenne per la brava gente in Duomo. Vengono anche i musulmani — solo qualche duro se ne astiene. I musulmani hanno una devozione per Maria e per Gesù, e poi la messa del Natale è la più grande occasione per incontrarsi. Il vescovo dice che è questo il posto giusto per il Natale, che le celle sono il luogo più somigliante alla grotta al freddo e al gelo. Dice che c’è una differenza fra la giustizia e Dio, e che Dio non può farli uscire dalla galera, ma può liberarli dalla schiavitù del peccato, perché li ama.
Qualche vescovo dice che Dio ama loro specialmente. L’idea che un Dio bambinello appena nato in una stalla ami specialmente loro fa venire le lacrime agli occhi, e anche certi gran farabutti sono un po’ sinceri, come ragazzini presi in fallo. I detenuti sono devoti soprattutto alla Madonna, e il Natale in carcere è una festa della mamma. Quando l’officiante esorta a scambiarsi un segno di pace, i detenuti vorrebbero darla e prenderla a tutti i presenti, mano di carcerato con mano di carceriere, mano di nigeriana con mano di romeno, finché maresciallo e appuntati non mettono fine a quell’allarmante viavai.
E comunque C., che ha accoltellato la sua anziana moglie, avrà dato la mano al pivello N. e alla suorina, e per un momento tutti i debiti saranno rimessi a tutti. Intanto, approfittando della ridotta vigilanza, il giovane B., all’isolamento, che aveva fatto il matto per essere portato alla messa anche lui, si è impiccato con la sua canottiera a un calocarta freddo: se muoia o si salvi, non lo diremo.
Dopo la messa gli agenti incalzeranno i fedeli che indugiano come scolari alla fine della ricreazione. Passerà però ancora la suora con qualche regaluccio. C’è un pranzo speciale, oggi, e chi può ha fatto una spesa da festa. (Ognuno dei 67 mila detenuti costa 250 euro al giorno allo Stato, il quale spende 3 — tre — euro per il mantenimento quotidiano del detenuto, colazione pranzo e cena…). Così uno strascico di euforia dura ancora, nonostante una sequela di cancelli blindati si sia richiusa su ogni rapporto col mondo di fuori. Volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne sono andati, ciascuno a fare Natale con i suoi. È come se si fossero portati dietro l’aria bianca e rossa del Natale.
Per due giorni — anche domani è festa — si resterà soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Senza. Si capisce che la vera aria del Natale, l’aria triste, si insedi ora sovrana nelle celle.
Una volta si dava a Natale un bicchiere di cattivo spumante a ogni detenuto, e un piccolo mercato moltiplicava le dosi di chi anelava al sonno o alla rissa. I propositi di bontà della mattina scadevano prima del tramonto: bontà e cattività vanno male assieme. Ma anche a spumante abolito — “Economia, Orazio, economia!” — non c’è niente di più triste di un pomeriggio di Natale. Fra poco, si sentirà russare, gemere, urlare. E i televisori a tutto volume, non guardati da nessuno, finché un agente arriverà a dire di spegnere. Poi andrà a sedersi al suo tavolino, in quei rumori di zoo umano. È un giovane agente che prova a studiare perché si è iscritto a legge, è in servizio perché non ha una famiglia propria, e i suoi stanno ad Avellino, così ha sostituito volentieri un collega padre di famiglia. Ha una radiolina accesa e l’auricolare, per ascoltare i racconti dei radicali che hanno passato Natale in carcere.
Dietrich Bonhoeffer era un pastore luterano, fu impiccato dai nazisti. In un Natale, dalla prigione, aveva scritto una lettera ai suoi: “Che Cristo sia nato in una stalla perché non trovava posto negli alberghi, è una cosa che un carcerato può capire meglio di altri”.

Adriano Sofri  24/12/2012.


2012/Carceri: nuovo ‘anno horribilis’. Sovraffollamento drammatico

L’ultimo grido d’allarme e’ venuto dal mondo cattolico che ha fatto da eco alla coraggiosa protesta di Marco Pannella. Tra i silenzi assordanti che non scuotono il Belpaese c’e’ anche quello del dramma-carceri che ci avvicina ormai piu’ a un paese del terzo mondo che ad una nazione avanzata, cosi’ come testimoniano varie ‘reprimende’ e piu’ di una condanna da parte del Consiglio d’Europa. Il 2012, infatti, verra’ ricordato come un ennesimo ‘anno horribilis’ dai numeri sconcertanti. Innanzitutto quello del sovraffollamento quantificato dalla Caritas a punte ormai pari al 140% di presenze in piu’ rispetto al limite massimo di capienza degli istituti carcerari.

Situazione definita dalla realta’ cattolica ”ormai ai limiti dell’immaginabile” e che costituisce una ”costante violazione del dettato costituzionale”.

Gli ultimi dati a disposizione fotografano una presenza nei nostri penitenziari che ha toccato quota 67 mila detenuti, 20 mila in piu’ rispetto al numero effettivo dei posti disponibili (circa 45 mila).

Al 30 novembre 2012 sono 9.953 i detenuti che usufruiscono dell’affidamento in prova al servizio sociale e 9.126 quelli in detenzione domiciliare, di cui 2.676 per effetto della legge 199 del 2010; 874 in semiliberta’; 2.675 in misure di sicurezza e sanzioni sostitutive. Sono circa 24 mila, invece, i detenuti stranieri provenienti da 107 diversi paesi.

Eppure il Guardasigilli Paola Severino che nel corso dell’anno di governo tecnico ha cercato di mettere in cantiere qualche misura legislativa per affrontare l’ormai drammatica questione, nelle ultime sue dichiarazioni non si e’ detta cosi’ pessimista. ”Non e’ vero che abbiamo numeri da record, – e’ stata la posizione espressa dalla Severino – il sovraffollamento ha cifre simili alle nostre in altri paesi ed e’ un problema comune in quasi tutti gli Stati dell’Unione”. Per affrontare il problema del sovraffollamento ha, quindi, indicato due misure: da una parte la costruzione di nuovi posti di detenzione per aumentare la capienza delle carceri, dall’altra far si’ che la detenzione in carcere sia una misura da adottare il meno possibile, privilegiando la espiazione del reato fuori dal carcere.

Ma una drammatica spia della situazione, e’ rappresentata dai suicidi in cella che, ha ricordato la Caritas, al 12 dicembre 2012 hanno raggiunto la cifra di 59 detenuti che si sono tolti la vita, oltre a 9 poliziotti pinitenziari ed a 151 il totale delle morti in carcere.

Una vera mattanza se si pensa che dal 2000 ad oggi si contano ben 750 suicidi tra i detenuti e 96 tra le fila della Polizia penitenziaria.

Dati che hanno portato il responsabile dell’Area carcere della Caritas don Sandro Spriano a parlare di strutture, le attuali carceri italiane, che ”di fatto condannano a morte centinaia di persone”. ”Il carcere oggi – ha detto il cappellano – non passa neppure uno slip all’anno ai cittadini che vi vengono ‘ospitati’, passa solo un letto (e alle volte neppure quello) e un pasto che costa all’erario 3 euro al giorno tra colazione, pranzo e cena. Qui non e’ piu’ solo lo scandalo del sovraffollamento ma delle inumane condizioni di vita in cui decine di migliaia di esseri umani sono costretti a vivere, soprattutto i piu’ poveri”.

Eppure nel dicembre 2011 il governo Monti aveva approvato il cosiddetto Decreto ‘svuota-carceri’ con la previsione di due modifiche nell’art. 558 del codice di procedura penale che prevedevano, nei casi di arresto in flagranza, che il giudizio direttissimo dovesse essere necessariamente tenuto entro, e non oltre, le quarantotto ore dall’arresto, non essendo piu’ consentito al giudice di fissare l’udienza nelle successive quarantotto ore.

Con la seconda modifica veniva introdotto il divieto di condurre in carcere le persone arrestate per reati di non particolare gravita’. In questi casi l’arrestato doveva essere, di norma, custodito dalle forze di polizia.

Tra le altre misure, il passaggio da dodici a diciotto mesi della pena detentiva che puo’ essere scontata presso il domicilio del condannato anziche’ in carcere. Secondo le stime del Dap una misura che avrebbe cosi’ consentito di estendere la platea dei detenuti ammessi alla detenzione domiciliare di circa 3.300 unita’.

Tra le altre iniziative allora approvate dal governo, lo stanziamento di 57 milioni di euro per l’edilizia carceraria e l’introduzione della cosiddetta ”messa in prova” nel quale ”il giudice valuta il percorso per il recupero della persona imputata che dovrebbe essere fatto nella prima fase del dibattimento”. Evidentemente nulla di tutto cio’ si e’ realizzato.

Fonte: Asca.it


Evasi dal carcere grattacielo di Chicago

una fuga incredibile avvolta nel mistero

CHICAGO (USA) – La domanda sorge spontanea: come può verificarsi una fuga da un carcere grattacielo statunitense, senza che nessuno se ne accorga?! Questo è un vero quesito: non è chiaro se ciò sia merito dei due detenuti che sono riusciti a fuggire, di nome Jose Banche, 37 anni, e Kenneth Conley, 38 anni, o se sia semplicemente colpa degli agenti penitenziari, che non si sono accorti proprio di un bel nulla.

La vicenda, come avrete capito, si è svolta in quel di Chicago, negli Stati Uniti d’America. La fuga dei due detenuti è stata davvero rocambolesca: sono riusciti a scappare da un grattacielo di ben 27 piani utilizzando il classico metodo visto nei film, ovvero formando una corda fatta di lenzuoli e corde. Ora, ovviamente, è stato dato il via alla caccia all’uomo.

La prigione federale della città, dalla quale i due sono riusciti ad evadere, è chiamata Metropolitan Correctional Centre. Il mistero più grande, ora, è: come avranno fatto i detenuti ad uscire dalla finestra della cella?! Si tratta infatti di una feritoia senza sbarre, con un’apertura di poco più di 15 centimetri. I due erano in prigione in seguito ad una rapina in banca, ed erano stati visti per l’ultima volta lo scorso lunedì notte, per il solito appello.

 Fonte: curiosone.tv