Category Archives: Dentro le mura

Guantanamo: aumentano detenuti in sciopero fame, è allarme

wallpaper_neon_02Il numero di detenuti in sciopero della fame nel super carcere di Guantanamo è in forte aumento. Lo afferma il Dipartimento di Giustizia americano, sottolineando che si contano 25 detenuti che rifiutano cibo, di cui otto sono alimentati in modo forzato attraverso sondine nel naso. Due sono stati ricoverati per disidratazione.

Ma secondo i legali di alcuni detenuti – riporta il New York Times – il bilancio di coloro in sciopero della fame è decisamente più elevato, tanto che gli avvocati si sono rivolti alle autorità militari per chiedere un intervento che migliori la situazione.

Fonte


Detenuto grave. La provocazione del suo legale :«Io in cella per lui»

images (12)«Le sue condizioni di salute sono talmente gravi, la sua sofferenza fisica e psichica talmente atroce, che propongo al giudice di incarcerare me al posto di questo mio cliente ammalato. Sì, avete capito bene: la sconto io la pena al posto suo, nella sua cella, per il tempo necessario a visitarlo, operarlo e consentirgli di riprendersi».
LA PROVOCAZIONE dell’avvocato Paolo Mele senior, da sempre attento ai problemi dei carcerati, è tale fino ad un certo punto: la gravissima forma di tumore che ha colpito un suo cliente non ha ancora smosso la pietà dei giudici del tribunale di sorveglianza. Dopo l’ultima, accorata richiesta del 6 marzo scorso, alla quale non ha avuto risposta, l’avvocato Mele ieri ne ha presentato una nuova, in cui baratta la sua libertà a favore dell’assistito. «Come uomo, come legale, come cittadino di uno Stato civile e come cristiano chiedo di dare la possibilità a quel detenuto di curarsi».
LA MALATTIA di cui soffre Carmine Multari, 48 anni, residente a Lonigo, ha subito un progressivo peggioramento. Il malato sta scontando una condanna definitiva a 2 anni e mezzo di reclusione per truffa, appropriazione indebita e ricettazione commesse in passato fra il Veneto e la Toscana. «L’ho visto lunedì pomeriggio – ha detto il legale – e la situazione è sempre ed estremamente grave». Lo sfortunato detenuto è stato infatti colpito da una seria forma di neoplasia alla lingua. Nell’ultimo mese è dimagrito di 12 chili, ed ha riferito al suo avvocato che «da una settimana non riesce a mangiare, nè a deglutire». Avverte dolori lancinanti che «si irradiano all’orecchio, alla testa e al collo». Fatica moltissimo a parlare, ed è costretto a restare con la bocca aperta in maniera innaturale. «Che la situazione sia gravissima viene confermato anche dalla documentazione sanitaria».

Fonte


Egitto. La rivoluzione che muore nelle carceri

Se sotto il regime di Hosni Mubarak la violazione dei diritti dei detenuti era prassi quotidiana, anche dopo il 25 gennaio 2011 le cose non sembrano cambiate. Viaggio nelle carceri egiziane, tra torture e abusi.

4071986-3x2-700x467Il caso di Mustafa Abd al-Baset Mohamed è solo l’ultimo denunciato della Egyptian Initiative for Personal Rights, organizzazione che si occupa di garantire la tutela dei diritti dei detenuti.

Abd al-Baset è entrato in carcere già paraplegico dopo aver ricevuto un colpo di pistola che gli ha frantumato la spina dorsale. La sua è una storia di abusi, di diritti negati. 

Dopo essere stato detenuto per un mese nella stazione di polizia di Zaqaziq, necessiterebbe di un ricovero ospedaliero con esami approfonditi che ne accertino l’effettivo stato di salute.

Il rischio è che faccia la fine di Hassan Shaaban, detenuto malato di diabete, che è morto la settimana scorsa a causa delle insufficienti cure mediche ricevute durante il suo periodo di detenzione.

Sarebbe bastata – sostengono gli avvocati dell’organizzazione – una iniezione di insulina.  Che però non è mai arrivata.

Cambiano i nomi, ma le storie restano drammaticamente simili.

Secondo l’avvocato di Sa’ad Said, il suo assistito sarebbe stato torturato nella stazione di polizia di Giza dal maggiore Hisham Abdel Gawwad, subendo traumi non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici. Sarebbero stati proprio questi ultimi, sostiene l’avvocato, a contribuire in maniera decisiva alla sua morte.

Le loro, purtroppo, non sono realtà isolate.

Secondo un recente report di alcune Ong egiziane (l’Egyptian centre for economic and social rights,l’Hisham Mubarak law centre, l’Al-Nadeem centre for the rehabilitation of victims of violence and torture, e la stessa Egyptian initiative for personal rights), nel carcere di Hadra, ad Alessandria d’Egitto, la tortura sarebbe ormai una prassi consolidata.

Hadra e Bourg al-Arab (la prigione dove è morto Hassan Shaaban) sono non a caso fra gli istituti penitenziari più duri di tutto il paese.

Sotto Morsi nulla sembra essere cambiato. Lo ricordava già l’anno scorso Aida Seif al-Dawla, del Nadeem Center, sottolineando come durante i primi 100 giorni di presidenza fossero stati registrati 150 casi di tortura: più di uno al giorno. 

Ma le critiche delle Ong e le pur palesi violazioni degli organismi di sicurezza egiziani sono solo uno degli aspetti da prendere in considerazione.

Le prigioni egiziane stanno divenendo sempre più il simbolo dell’oppressione, dell’ingiustizia ai danni di un popolo che subisce la dura repressione delle forze dell’ordine.

Basti pensare a quello che è successo a Port Said, dove proprio la prigione locale è stata l’epicentro degliscontri fra manifestanti e poliziotti.

Come dimenticare inoltre che (molta) parte di quella baltaghiyya che fece irruzione in piazza Tahrir per fermare le proteste nella cosiddetta ‘battaglia dei cammelli’, proprio da quelle prigioni fuoriusciva.

L’8 marzo 2011, Amnesty International riportava come dal 28 gennaio 2011 in avanti almeno 21.600 prigionieri fossero scappati in circostanze poco chiare dalle carceri locali.

I malumori, gli scontri, le violenze di oggi nascono dall’indignazione di una società che considera la giustizia locale come fautrice di un giudizio del tutto arbitrario.

E’ il caso delle denunce degli abitanti di Port Said, o ancora più recentemente di Hassan Mustafa, attivista la cui “ingiusta sentenza” è stata portata all’attenzione dei media dall’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI).

Ci sono dunque detenuti che, pur sottoposti alle dure condizioni carcerarie, hanno un sostegno esterno, possono contare su campagne di protesta e di sensibilizzazione.

Poi ci sono gli ultimi, i più poveri, i bambini di strada, gli stranieri immigrati, raccolti magari al confine con il Sudan o negli anni passati con la Libia, e arrestati.

E ci sono i casi in cui i detenuti sono vittime di giochi politici.

Lo scorso febbraio gli uffici di Abu Dhabi hanno rifiutato la richiesta della diplomazia egiziana di scarcerare undici uomini di nazionalità egiziana apparentemente legati alla Fratellanza.

Secondo Mukhtar Ashri, uno fra i responsabili per gli affari legali del partito Libertà e Giustizia, il processo intentato dagli Emirati Arabi Uniti altro non è che una farsa, dal momento che i suoi 11 connazionali non avrebbero libero accesso alla difesa.

Fonte


Detenuto di 40 anni muore in cella alla vigilia del permesso premio

crepaMassa Carrara – Sarà l’autopsia a chiarire le cause dell’improvviso decesso di un quarantenne, avvenuto venerdì pomeriggio nella struttura penitenziaria della città. L’uomo, massese, è stato ritrovato privo di sensi dai compagni di cella al risveglio dal riposo pomeridiano e niente sarebbero valsi i tentativi di rianimarlo. Pare che negli ultimi tempi l’uomo non godesse di buona salute ma nulla di così serio da far presagire un decesso fulmineo, giunto a pochi giorni dal primo permesso premio di cui avrebbe goduto per un comportamento ineccepibile.

Fonte: La Nazione


Corea del Nord: se questo è un uomo, nato in catene

CINA_(s)_0917_-_Torture“Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato.
È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità.
È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord.
Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne – bambine di due anni o ottuagenarie – sono stati violentati.
Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo.
Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto – confessa in un primo momento – . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena.
Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”.
Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello.
“Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso.
Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”.
“Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong – un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex – agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.

Fonte: Il Sole 24 Ore

 


«Nel carcere manca l’acqua calda»: sciopero della fame per 60 detenuti

images (11)AGRIGENTO. Niente acqua calda dai rubinetti: una sessantina di detenuti protestano con lo sciopero della fame. Rifiutano il cibo dell’istituto, qualcuno ha anche buttato nell’immondizia quello portato dall’esterno per dimostrare il proprio disappunto. La situazione, dopo sette giorni, dovrebbe comunque tornare alla normalità. Ieri mattina la direzione del carcere Petrusa è riuscita a reperire i fondi e far partire i lavori all’impianto idrico. La protesta dei detenuti del braccio che in gergo viene chiamato “primo destro” è iniziata l’11 marzo scorso. In questa sezione del carcere, definita di “alta sicurezza”, ci sono circa sessanta detenuti per reati di tipo associativo. Si tratta di condannati o persone detenute nella fase cautelare per associazione mafiosa, traffico di droga e altri reati particolarmente gravi. All’origine del problema c’era un guasto all’impianto di distribuzione dell’acqua all’interno del carcere. Un difetto nel sistema di smistamento che aveva isolato soltanto la sezione “alta sicurezza” del penitenziario di contrada Petrusa. Dai rubinetti usciva solo acqua gelida. Lavarsi e farsi le docce era completamente improponibile viste anche le temperature molto rigide degli ultimi giorni della stagione invernale. I detenuti, anche attraverso familiari e avvocati, hanno informato della questione i responsabili della polizia penitenziaria del carcere. Il direttore Valerio Pappalardo, ieri mattina, ha confermato che il problema è prossimo alla soluzione. «Abbiamo cercato di fare tutto in fretta – ha detto ieri mattina – ma i tempi e le procedure di una pubblica amministrazione sono sempre molto più complicati. I tecnici stanno intervenendo per risolvere il problema, lo abbiamo già comunicato ai detenuti – ha aggiunto Pappalardo – che interromperanno la protesta iniziata una settimana prima». La protesta, nel frattempo, va avanti. Cesserà solo quando i reclusi vedranno operai al lavoro e la soluzione auspicata più vicina.

Fonte


I ragazzi del carcere minorile Malaspina a scuola di surf

images (10)Ha avuto inizio il progetto sperimentale “Mana Project”, un programma di inclusione sociale incentrato sulla  Surf Therapy per cinque giovani, selezionati dall’Ussm del carcere Malaspina, tra i 14 e i 21 anni in situazioni di disagio sociale quindi a rischio devianza. L’iniziativa è promossa dall’associazione sportiva “Isola Surf” di Danilo La Mantia, istruttore e presidente dell’associazione, dall’architetto Paolo Pavone che ha redatto il progetto e con il coordinamento dello psicologo Martino Lo Cascio.

Il percorso durerà 2 mesi e coinvolgerà i ragazzi, in attività due volte a settimana. Il tutto organizzato senza l’ausilio di finanziamenti pubblici ma grazie all’impegno dei volontari che compongono lo staff di “Isola Surf” e delle attrezzature (tavole, mute da surf) che la scuola metterà a disposizione. Il programma prevede attività propedeutiche, presso la struttura carceraria, che introducono alla disciplina surf, ne spiegano i benefici psico-fisici e l’importanza del corretto atteggiamento e cura che bisogna manifestare nei confronti del mare e dell’ambiente circostante.

Il corso di surf verrà svolto in 8 incontri nel litorale di Isola delle Femmine presso il lido “Miramare”. Inoltre si svolgeranno attività di sensibilizzazione al rispetto dell’ambiente come la pulizia della spiaggia. Il materiale, raccolto durante le operazioni di pulizia, verrà utilizzato successivamente nell’attività di eco-laboratorio nelle quale gli operatori dello staff aiuteranno i ragazzi ad assemblarlo e a trasformarlo in altri oggetti, attraverso una attenta rielaborazione progettuale, con la finalità di sviluppare la capacità creativa dei partecipanti e concludere virtuosamente il ciclo dei rifiuti. Il momento finale sarà una mostra degli oggetti all’interno dei locali dell’Ussm.

Il progetto propone il surf come attività terapeutica e didattica la cui efficacia è basata sulla perfetta combinazione tra requisiti fisici e mentali stimolando la concentrazione, l’equilibrio e portando alla conoscenza dei propri limiti, diminuendo il tasso di aggressività. La “Surf Therapy” è un metodo per sentirsi meglio nel corpo e nella mente attraverso i benefici del mare, dello iodio presente nell’aria di mare e dell’esposizione al sole: è quindi una talassoterapia naturale. Il surf inoltre svolge una importante funzione educativa in quanto consente ai giovani di valutare meglio le conseguenze delle loro azioni: sbagliare vuol dire pagare le conseguenze su un onda come nella vita. In alcuni Paesi del mondo esistono già diversi progetti pilota rivolti a coloro che hanno subito disturbo post-traumatico da stress, i cui sintomi includono depressione, ansia e rabbia incontrollabile. Questo è il primo progetto sperimentale in Italia incentrato sul surf come terapia e a sostegno dei ragazzi maggiormente a rischio devianza.

Fonte


CIE Torino, cade un altro pezzo

chiudere-i-cieVenerdi sera nel corso dell’ennesima rivolta i reclusi del CIE di Torino hanno reso inagibili tutte le stanze dell’area viola. La situazione del centro è quindi di totale emergenza, con tutte le sezioni maschili danneggiate e i detenuti costretti al sovraffollamento nelle poche stanze ancora utilizzabili, quando non a dormire in sala mensa.

Nonostante il disagio aumentato e l’atteggiamento molto ostile delle guardie, i reclusi sono contenti di quanto è accaduto perchè questa situazione è più vicina all’unica soluzione da tutti auspicata: la chiusura del CIE e la libertà per tutti.

Per ascoltare il contributo da radioblackout


Ancona: piove nelle celle a Montacuto. Chiusa una sezione, detenuti trasferiti a Barcaglione

qqqq

Piove nelle celle del Carcere di a Montacuto ad Ancona. Chiusa una sezione del Carcere e trasferiti a Barcaglione i detenuti. Ora il Sappe si prepara alla protesta.

Torna nel mirino, dopo l’ennesima vicenda, il carcere di Montacuto di Ancona. Questa volta a far traboccare il vaso un banale episodio: piove anche nelle celle. Un esempio però di come la situazione di detenuti, come gli agenti di polizia penitenziaria, non sia ancora stata risolta.

Ed ora il sindacato di polizia penitenziaria del Sappe minaccia protesta davanti al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria delle Marche. Secondo il segretario, Aldo di Giacomo, sarebbero mancati interventi di manutenzione.

Il degrado é anche strutturale nel carcere anconetano ed ora una intera sezione dovrà essere chiusa e trasferiti a Barcaglione fino a un centinaio di detenuti. Un carcere, inoltre, quello di Barcaglione non adatto a ospitare reclusi ad alto indice di pericolosità.

Fonte


Buoncammino, guasto alle fogne del carcere: “Disagi per trenta detenuti”

pronto_intervento_fognature“Un improvviso guasto al sistema fognario ha comportato disagi per una trentina di detenuti della Casa Circondariale di Buoncammino. E’ la conferma che la struttura ha necessità di urgenti interventi di ristrutturazione”. A dare la notizia è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando “le difficoltà quotidiane di chi deve assicurare servizi efficienti e la sicurezza dei detenuti”.

CAGLIARI – “L’intervento della Direzione del carcere – ha sottolineato – è stato provvidenziale. E’ stata infatti disposta l’immediata chiusura di 6 celle e chiesto l’intervento di una ditta specializzata che, attraverso delle telecamere, dovrà individuare il punto esatto del problema. I primi sondaggi non hanno purtroppo dato esito positivo rivelando però la presenza di calcinacci e pietre”.

“L’episodio critico si è verificato con 486 presenze di cittadini privati della libertà, sarà quindi necessario – conclude la presidente di SdR – alleggerire il numero dei detenuti con trasferimenti in modo da evitare un aggravio di sovraffollamento nelle altre celle”.

Fonte


Cuneo, topi in carcere.

010_large“E’ gravissimo quanto sta accadendo nel carcere di Cuneo. Anche oggi sono stati avvistati grossi topi aggirarsi in carcere, nell’area degli Uffici servizi e Comando e questi avvistamenti preoccupano del tutto legittimamente il Personale. Ora è assolutamente urgente una completa derattizzazione di tutta la Casa circondariale ma credo sia comunque il caso che l’Amministrazione penitenziaria regionale, attraverso il competente Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag), disponga immediatamente accurati controlli a Cuneo ed in tutti gli altri penitenziari piemontesi. A cominciare certamente dagli Uffici ma anche in tutti i posti di servizio in cui sono impiegati in servizio le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria””.

E’ quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri.

“E’ ovvio che anche episodi come questo possono turbare la tranquillità e la serenità delle sezioni detentive, in cui – non dimentichiamolo – lavorano 24 ore su 24 e con molte difficoltà operative gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, gravemente sotto organico. Mi sembra che, a Cuneo come in tutte le carceri italiane, la Polizia Penitenziaria è l’unica rappresentante dello Stato che sta fronteggiando l’emergenza sovraffollamento: oltre al danno c’è però la beffa di essere gli unici esposti a malattie come l’HIV, la tubercolosi, la meningite, la scabbia e altre malattie che si ritenevano debellate in Italia. Per queste ragioni il SAPPE sollecita visite ispettive dell’Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag) a Cuneo, in tutte le carceri piemontesi ed in ogni posto di servizio in cui sono impiegati poliziotti penitenziari per verificarne la salubrità.”

 Fonte


“Noi, donne dietro le sbarre senza un futuro davanti”

Le detenute del carcere della Dozza si raccontano. “Ho fatto il corso da parrucchiera, ma non ho la preparazione adatta. Chi mi assumerebbe fuori?”. Un’altra: “Non trova lavoro mio figlio, figuratevi io, quando dirò che sono stata in galera mi scarteranno”

life_inside_women_prison_56Le sedie vuote. La paura ad esporsi scritta in faccia. Le parole che faticano a uscire. Prove tecniche di dialogo, alla sezione femminile del carcere della Dozza. La presidente del consiglio comunale e la presidente della commissione delle elette, Simona Lembi e Mariaraffaella Ferri, hanno voluto includere una vista all’isolato padiglione di via del Gomito nel programma di iniziative legate all’8 marzo. Un confronto con le cittadine “invisibili” di questo mondo a parte. Il tentativo di capire bisogni e necessità.

Sono 55, in questi giorni, le ragazze e le donne dietro le sbarre. Una sola può uscire a lavorare. Una è in semidetenzione, deve cioè passare in istituto almeno dieci ore al giorno.Ventisette stanno scontando pene definitive. Ventisei sono in attesa di giudizio. Ma ad aspettare le ospiti nella sala comune del piano terra sono appena in undici, una rappresentanza scelta con criteri che sfuggono, forse solo l’arbitrio della sovrintendente che la manda a prendere in cella.

Sono ancora in meno a parlare, confrontandosi per la prima volta anche con la neodirettrice, Claudia Clementi (l’intervista). E solo due accettando di dire il loro nome, altro “particolare” che lascia intuire debolezze, il timore di essere riconosciute, giudicate, ritenute non affidabili. Vivian no, non ha paura.Racconta della sua doppia condanna, di donna e di madre, e segnala che cosa secondo lei non va nell’assistenza sanitaria di base. “Ho un bambino di sette anni. Non l’ho potuto vedere per quasi quattro, fino a quando non sono uscita in permesso. E’ a carico dei miei genitori. I volontari Avoc ci danno un supporto morale, ma il supporto materiale dove è? Se fuori non c’è aiuto, per noi che cosa rimane?”. E, ancora, raccogliendo dalla direttrice la promessa di una verifica della situazione: “Una sera stavo male, le patologie vascolari tra noi detenute sono diffuse. Ho chiesto del medico di guardia. Lui pensava che volessi le gocce per dormire, richiesta frequente in carcere. Non era così. Non è venuto. Ha fatto una diagnosi telefonica”.


Altro problema: l’adeguatezza e la spendibilità, all’esterno, dei corsi di formazione professionale organizzati all’interno. “Sono qua dentro da cinque anni. Sento parlare di I-phone e I-pad, ma non so cosa siano… Ci vorrebbero corsi di informatica, adeguati ai tempo. Io ho seguito quello per parrucchiera, praticamente solo taglio, visto che non si è potuto usare quasi mai nemmeno il phon. Ma chi mi assumerebbe fuori? Nessuno, credo. Non ho la preparazione adatta, lo capisco da me”.

Il fuori, il dopo, l’impossibilità di pensarsi in positivo. Un’altra detenuta madre, lei restia a dire il proprio nome, non la prende alla lontana: “Esci e vai a sbattere con il sedere per terra. I portoni ti si chiudono davanti. Io ho un figlio di 25 anni, in un’altra città. Non trova lui impiego, figuriamoci se lo troverò io. Appena sentono che sono stata in galera, scappano. Lui, me lo scrive, dice di sentirsi uno zingaro, Io, impotente, mi sento una madre piccola”. Dentro, per le donne, le opportunità sono ridotte al minimo. A parte i lavori domestici di cucina, pulizie, distribuzione vitto – a rotazione, le ore retribuite via via tagliate – resta solo la sartoria “Gomito a gomito”, tre socie della cooperativa che crede nel laboratorio e nelle detenute piegate sulle macchine per cucire.

“E’ brutta da dire, ma quando esci se non hai una famiglia che fai? La barbona? E che significato ha il percoso che hai seguito in carcere, se il reinserimento è una ruota della fortuna?” Il futuro moltiplica le incognite. Il budget per i corsi, al maschile e al femminile, è stato ulteriormente ridotto. Per finanziare il progetto Acero – collocamento in comunità e avviamento all’impiego – sono state abolite le borse lavoro. Per finanziare la leggi Smuraglia, gli incentivi agli imprenditori che assumono dentro gli istituti, i fondi sono stati sottratti al denaro a disposizione per pagare i lavoranti e le lavoranti.

Fonte


Carceri: linea moda disegnata da detenute

230361_detenute modelle genova pontedecimo(ANSA) – TORINO, 17 MAR – Bracciali in stoffa con piccoli volti di donne serigrafati, borsoni militari, borse ricamate a mezzo punto di colori accesi, chiuse e aperte, pochette ed espadrillas cucite artigianalmente: sono alcuni degli accessori moda della nuova collezione Fumne 2013-2014 creata, per il terzo anno dalla donne detenute del carcere Le Vallette di Torino.

Una collezione accurata dai toni sorprendenti, con stoffe raffinate recuperate dalla detenute con mesi di lavoro e realizzata grazie al progetto ‘La casa di Pinocchio’ che dal 2008 organizza laboratori creativi per detenute di eta’ tra i 25 e 55 anni. Alcuni pezzi sono stati presentati al Macef di Milano e a Parigi e sono stati venduti in Giappone, oltre che in alcuni dei negozi piu’ in di Torino e altre citta’. Si tratta di progetti di design esclusivi ai quali hanno collaborato stilisti noti come il piu’ grande naso italiano Laura Tonatto.

”Un progetto che va bene e che da’ molta soddisfazione alle donne coinvolte – hanno spiegato le organizzatrici – ma che ha bisogno d’aiuto per andare avanti e per avere una diffusione che ne permetta il mantenimento. Tra i lavori fatti, anche uno, molto partecipato, sull’immagine della Madonna, analizzata come figura religiosa e come donna. ”Un progetto, quest’ultimo – e’ stato ancora spiegato – che ha dato molta serenita’ e occasione di approfondimento alle detenute coinvolte”.


Territori: detenuto liberato dopo lungo sciopero fame

459-0-20130223_180527_2CD70C7CUn militante di Hamas, Ayman Sharawneh, ha oggi accettato di mettere fine ad uno sciopero della fame condotto ad intermittenza in una prigione israeliana negli ultimi otto mesi dopo aver appreso che sarà liberato ma subito confinato alla striscia di Gaza, per i prossimi 10 anni. Lo ha reso noto Kadura Fares, un dirigente dell’organizzione di sostegno ai detenuti palestinesi.

Sharawneh (36 anni, padre di nove figli, originario di Hebron, in Cisgiordania) era stato rilasciato nel contesto dello scambio di prigionieri che oltre un anno fa ha riportato in libertà il caporale israeliano Ghilad Shalit dopo una lunga prigionia a Gaza. La ragione per la quale Sharawneh è stato nuovamente imprigionato non è stata resa nota alla stampa.

Nel frattempo altri tre detenuti palestinesi proseguono in Israele lunghi scioperi della fame.

Fonte


Detenuto prende in ostaggio sei persone in carcere mostrando una granata

hostage-situationLe forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere di Malandrino, dove un detenuto albanese accusato di omicidio e già evaso due volte da carceri di massima sicurezza ha preso in ostaggio sei persone e chiede di essere liberato

Atene (Grecia), 17 marzo 2013 – Un detenuto condannato in Grecia per omicidio ha preso sei ostaggi nel carcere di Malandrino chiedendo di essere rilasciato. Alket Rizaj, questo il nome dell’uomo, di origini albanesi, dice di avere con sé armi pesanti e una foto scattata da un prigioniero e ottenuta da Ap mostra il sequestratore con quella che lui sostiene sia una granata di fianco ai sei ostaggi in manette. Tra gli ostaggi ci sono sia dipendenti del carcere che detenuti.

L’uomo era già evaso due volte dal carcere di massima sicurezza di Korydallos ad Atene, nel 2006 e nel 2009, entrambe le volte a bordo di elicotteri che hanno prelevato lui e un altro detenuto, Vassilis Paleokostas, mentre si trovavano nel cortile del carcere.

Le forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere, che si trova nella zona centrale della Grecia, mentre alcuni funzionari e un procuratore stanno portando avanti le trattative. Sul posto si trova anche l’avvocato del sequestratore.

Fonte


Prigionieri – Solidarietà per Sergio

diffondiamo da informa-azione

Solidarity-Breaks-ChainsDa più di 40 giorni un compagno molto determinato è in sciopero della fame per ottenere i colloqui con la sua compagna. All’interno di un carcere è chiaramente più difficile che fuori far sentire la propria voce per ottenere le proprie rivendicazioni, ancora di più in una sezione AS2, creata apposta per confinare chi si batte contro questo mondo infame ed evitare che si organizzi con tutti gli altri detenuti per creare delle lotte all’interno di una prigione. Una delle poche forme di scontro che restano ai ribelli in regime Alta Sicurezza è utilizzare il proprio corpo come campo di battaglia, la rinuncia al cibo come mossa per mettere in crisi l’avversario e sperare che ceda.
Il 4 marzo è stata presentata l’istanza per i colloqui tra Sergio e Katia al Tribunale della Libertà di Milano. Il giudice responsabile si è preso del tempo per dare un risposta, che probabilmente sarà negativa,dato che lo stesso giudice ha fatto notare che la cartella clinica di Sergio continua ad essere buona. Non conta il fatto che una persona non mangi da un mese e mezzo, chi amministra la giustizia, col tipico cinismo arrogante, col tipico disinteresse schifoso e borghese nei confronti della gente, passa sopra sentimenti e sofferenze. Non ce ne stupiamo, chi è capace di rovinare delle vite con delle condanne può ogni sorta di nefandezza.
I giudici e i procuratori avranno anche la pancia piena dal loro mestiere infame ma non hanno quello che ha un compagno come Sergio: la dignità, la fierezza di un individuo in lotta contro un mondo ingiusto!
Sergio sta continuando con determinazione la sua battaglia, il suo morale è alto nonostante i giorni passati senza cibo e nonostante abbia dovuto sostenere il trasferimento nel carcere di Ferrara, con tutto quello che comporta l’affrontare un nuovo istituto penitenziario.

Pensiamo che sia doveroso per tutti e tutte sostenere Sergio in questo momento!
Innanzitutto scrivendogli.

Sergio Maria Stefani
c.c. via Arginone 327
44122 Ferrara

Indirizzo, fax e mail del Tribunale di Milano sono questi:

Via Freguglia n. 1 – 20122 Milano
02 – 59902341
tribunale.milano@giustizia.it

E’ di importanza vitale sostenere da fuori un compagno che lotta in carcere. Tutti i conflitti, tutti giustissimi e necessari, che portiamo avanti nelle nostre città non possono sostituire né devono distoglierci dalla solidarietà sincera verso un nostro compagno che si batte come può. La solidarietà dei compagni è determinante nel motivare, nel tenere alto il morale di chi lotta in una prigione e potrebbe influire sulle scelte dei suoi aguzzini, se non altro dimostrando che quella persona non è sola.
E’ fondamentale che chi sceglie lo scontro all’interno di un carcere sappia che le sue rivendicazioni verranno supportate dall’esterno di quelle mura.

Solidarietà per Sergio!
Solidarietà per Madda, Maurizio e tutti i ribelli che si battono all’interno di una prigione.
Tutti liberi!

Cassa di Solidarietà Aracnide


USA: Il condannato che vuole essere giustiziato

NEGLI STATI UNITI

Il condannato che vuole essere giustiziato
Da 2 anni attende l’esecuzione: «Fate presto»

images1Per Gary Haugen, in carcere per omicidio, pena di morte rinviata al 2015 per decisione del governatore dell’Oregon. Ma lui chiede l’anticipo per protesta contro la giustizia Usa

Gary Haugen, 51 anni. La pena di morte per lui è prevista nel 2015Il condannato a morte che vuole essere giustiziato. È la storia di Gary Haugen, 51 anni, che deve scontare una pena di morte per omicidio. Il detenuto, segregato oramai da oltre trent’anni nel penitenziario di stato dell’Oregon, avrebbe dovuto essere giustiziato due anni fa. La pena capitale nei suoi confronti, tuttavia, non è stata eseguita, e non lo sarà più: nel 2011 il governatore dell’Oregon, John Kitzhaber, ha infatti sospeso tutte le esecuzioni fino alla fine del suo mandato, ossia fino a gennaio 2015. Haugen, però, vuole essere giustiziato e ha portato la sua richiesta davanti alla corte suprema dello Stato.

MORATORIA – Uno scontro giudiziale alquanto perverso tra un condannato a morte e il governatore dell’Oregon sta impegnando in questi giorni i giudici della corte suprema dello Stato americano. Trentadue anni fa Gary Haugen fu condannato all’ergastolo per aver assassinato la madre della sua ex fidanzata. Mentre era rinchiuso uccise un compagno di cella con la complicità di un altro prigioniero e nel 2007 venne condannato alla pena capitale, riferisce la National Public Radiohttp://www.npr.org/blogs/thetwo-way/2013/03/14/174340080/death-row-inmate-fights-for-right-to-die-in-oregon. Il governatore John Kitzhaber è però un convinto oppositore del supplizio supremo. Due anni fa proprio Kitzhaber aveva pubblicamente denunciato l’«iniquità e la perversione» del sistema penale del suo Stato ed espresso «profondo rammarico» per aver approvato la pena capitale per due detenuti durante i suoi mandati precedenti. Di più: il politico e medico statunitense aveva annunciato una moratoria e, come detto, sospeso tutte le esecuzioni.

«CODARDO» – Haugen, durante la sua detenzione, ha rinunciato a presentare appello contro la sentenza in segno di protesta contro il sistema giudiziario chiedendo di essere messo a morte. L’uomo pretende che «lo Stato applichi la legge in nome del popolo», ha querelato il politico definendolo un «cowboy di carta che non ha avuto il coraggio di premere il grilletto». Ora sarà la corte suprema dello Stato a dover decidere come affrontare lo spinoso caso. Per Harry Latto, l’avvocato del prigioniero, il governatore Kitzhaber non deve travalicare le sue competenze. Quest’ultimo, invece, si appella al suo diritto di grazia.

LE PERIZIE -In verità, sul fatto che il detenuto sia o meno in grado di comprendere cosa gli stia per accadere, le perizie neuropsichiatriche si sono susseguite negli anni con esiti spesso contrastanti. Ciò nonostante, la vicenda ha avuto una grande eco sulla stampa. In un editoriale il Statesman Journalhttp://community.statesmanjournal.com/blogs/editorialblog/2013/03/15/our-sunday-editorial-let-gary-haugen-die chiede che Haugen «possa finalmente morire per mano dello Stato», e che sia anche «l’ultimo nella storia dell’Oregon». Il governatore vorrebbe invece che fossero i cittadini a votare in un referendum l’abolizione della pena capitale; la consultazione potrebbe tenersi già il prossimo anno. Una decisione della corte è invece attesa a fine anno. L’Oregon ha eseguito due condanne a morte da quando la pena capitale è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1977: una nel 1996 e l’altra nel 1997.

MARYLAND – Nel frattempo anche lo Stato del Maryland dice basta con la pena di morte: venerdì sera la Camera dei rappresentati ha approvato una legge che la sostituisce con l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata. È il diciottesimo Stato dei 50 dell’Unione che cancella la pena capitale. La legge, già passata al Senato la settimana scorsa, è stata approvata con 82 voti a favore e 56 contrari. Con il Maryland sono sei gli stati che negli ultimi sei anni hanno fermato il boia: il Connecticut, l’Illinois, il New Mexico, lo stato di New York e il New Jersey.

Fonte


Carceri: telefonino in cella a Messina

telefono_cellulare(ANSA) – MESSINA, Un telefono cellulare e’ stato trovato in una culla del settore nido della sezione femminile del carcere di Messina da agenti della polizia penitenziaria. La perquisizione e’ stata eseguita dopo la scoperta di una sim in un pacco nel settore colloqui. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ritiene ”indispensabili interventi immediati, compresa la possibilita’ di ‘schermare’ gli istituti penitenziari”.


Iglesias, direttore carcere e comandante sotto inchiesta per perquisizioni abusive

perquisizioni1Il direttore e l’ex comandante della polizia penitenziaria del carcere di Iglesias sono finiti sotto inchiesta per abuso d’ufficio. Avrebbero omesso di segnalare alle autorità competenti la denuncia di un detenuto che rivelava la presenza di droga all’interno del penitenziario e avrebbero svolto delle perquisizioni “abusive”.

Marco Porcu, direttore della struttura e Gesuela Pullara, comandante degli agenti di polizia all’epoca dei fatti contestati, lunedì e martedì scorso sono stati invitati a comparire davanti al pm. Attraverso i loro legali hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Secondo quanto ipotizzato dagli inquirenti gli agenti della polizia penitenziaria avviarono delle perquisizioni nelle celle e negli uffici del carcere per avere riscontro di quanto segnalato da un detenuto: “Qui gira droga”. Un provvedimento che sarebbe stato svolto senza ottemperare agli obblighi del caso: informare gli interessati della perquisizione, redigere il verbale e segnalare l’accaduto alle autorità competenti.

I dettagli dell’indagine sono riferiti nell’articolo di Marco Noce sull’Unione Sarda in edicola.

Fonte


Carcere, anche gli occhiali sono un’emergenza

images (7)C’è un problema, fra i tanti, giganteschi drammi che affliggono le carceri in Italia, di cui non si parla mai: gli occhiali. Sembra niente, rispetto alla non-vita di detenuti costretti dove dovrebbe starne la metà, come a Sollicciano (1000 invece di 450). E invece è moltissimo. Anche perché il calo della vista che colpisce gran parte dei detenuti (in gran parte sotto i 45 anni) a pochi mesi dall’ingresso in carcere è un po’ il simbolo di questa istituzione “contro” le persone, la loro dignità e i loro diritti.

N. J., marocchino 24enne, è qui da un anno: «Avevo una vista buonissima» racconta, «dopo sei mesi la tv mi sembrava tutta sfuocata, adesso non sopporto più neanche la luce». A. H., albanese, 21 anni, ha due occhi bellissimi «ma» dice «non riesco a scrivere una cartolina alla mia famiglia». L. M., italiano di 26 anni, dopo appena quattro mesi ha fatto domanda per gli occhiali: «Pensavo di avere un tumore al cervello, prima vedevo lontano dieci chilometri, ora neanche il fondo del cortile».

Succede così, racconta Salvatore Tassinari, presidente dell’associazione Pantagruel, che lavora in carcere con i suoi volontari: «Quando cominci a passare le giornate chiuso in una cella, la prima cosa che si riduce è il campo visivo. Il tuo sguardo spazia al massimo entro i pochi metri che dividi con i tuoi compagni, e a poco a poco perde il senso della profondità. Si abitua a non spingersi oltre, finché, a un tratto, non ci riesce proprio più». E non è solo la percezione della distanza, a svanire dietro le sbarre. Se ne va, piano piano, anche un altro piacere della vita, il senso dei colori: «Qui dentro ci sono solo tonalità di grigio» spiega Tassinari, «e l’occhio, a un certo punto, comincia a leggere come grigio anche quello che c’è fuori ». Tutto, insomma, in questo mondo chiuso, si contrae, e la vista che cala diventa il simbolo stesso della vita in carcere, costretta «a rinunciare a ogni aspettativa». Cioè ad annullarsi. Se poi si aggiunge che «dopo la vista, di solito, si alterano anche l’olfatto e l’udito, e il detenuto vive in un continuo, nevrotizzante, stato di allerta», c’è da stupirsi che la gente si suicidi?

Ma non basta: ancora più grave, se possibile, è che nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti non possano procurarsi gli occhiali: «I medici del carcere glieli prescrivono, ma se non glieli portiamo noi» dice Tassinari, «nessuno di loro ha la possibilità di comprarseli». Troppo cari per chi «a malapena ha i soldi per comprarsi un francobollo o una lametta da barba nello spaccio del carcere». Solo che adesso i soldi mancano anche a Pantagruel, «quelli degli enti pubblici sono mirati solo su progetti specifici, non su un bisogno endemico come questo, che ogni anno ci costa dai 3 ai 4 mila euro».

Non resta allora che organizzare ogni tanto cene di autofinanziamento (info:www.asspantagruel.org), «dove ai tanti che neanche lo immaginano spieghiamo come per i detenuti gli occhiali siano ormai un genere di prima necessità».

Fonte


Aggredito ispettore penitenziario al Don Bosco di Pisa

maurice-tillet-grrrrr“Momenti di alta tensione ieri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove un detenuto ha prima aggredito un ispettore di Polizia penitenziaria e poi ha fomentato una rivolta in sezione”. Lo denuncia il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) facendo notare come l’episodio rappresenti “l’ennesimo sintomo di criticita’ del penitenziario toscano, a tutt’oggi senza un Comandante di reparto della Polizia”.

“Un nostro ispettore e’ stato violentemente colpito da un detenuto ristretto per reati comuni che, con altri 4-5 reclusi aveva messo in atto una violenta protesta – spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe – Le condizioni operative del personale di Polizia penitenziaria di Pisa sono sempre piu’ precarie e l’inquietante regolarita’ con cui avvengono eventi critici al Don Bosco, specie contro gli agenti, impone una ferma presa di posizione dei vertici regionali e dipartimentali”.

Ma non e’ solo la situazione del carcere di Pisa a destare preoccupazione. “Cosi’ non si puo’ piu’ andare avanti – denuncia Capece – Le gravi carenze di organico della Polizia penitenziaria ed il pesante sovraffollamento carcerario condizionano irrimediabilmente i livelli di sicurezza dei servizi all’interno delle sezioni detentive e durante le traduzioni dei detenuti”. Da qui il grido d’allarme lanciato dal segretario del Sappe: “I nostri agenti devono quotidianamente far fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti. Servono tutele e garanzie”.

Adnkronos


Libia: cristiano protestante egiziano muore in carcere, per la moglie è stato torturato

spezzare-le-catene-300x2871Un cristiano protestante egiziano è morto dopo 10 giorni di prigionia in un carcere libico di Bengasi. Si tratta di Ezzat Hakim Attalah, 45 anni, padre di due figli, arrestato lo scorso 28 febbraio insieme ad altri cinque connazionali cristiani evangelici con l’accusa proselitismo. Ne dà notizia la Middle East Christian News Agency, citando fonti del ministero degli Esteri egiziano secondo cui l’uomo è deceduto per cause naturali poiché diabetico e affetto di disturbi cardiaci. Interpellata dalla stessa Mcn-direct, Ragaà Abdullah Guirguis, la moglie di Attalah, ha tuttavia raccontato che il marito è morto per le pressioni e le torture materiali inflitte dai carcerieri libici e ha annunciato che farà quindi ricorso ad avvocati internazionali per stabilire la reale dinamica del decesso. Il caso di Attalah ha acceso i riflettori sulla drammatica situazione dei cristiani in Libia, divenuti bersaglio delle milizie salafite che controllano la regione della Cirenaica, scrive Asia News.

Assaltata ambasciata libica al Cairo dopo morte copto in carcere

Decine di egiziani copti hanno assaltato l’ambasciata libica al Cairo. Lo ha riferito il sito web del quotidiano “Ahram”, secondo cui i manifestanti hanno fatto irruzione nell’edificio per protestare contro la morte di Ezzat Hakim, un egiziano copto arrestato nelle scorse settimane in Libia con l’accusa di proselitismo e morto in carcere in circostanze poco chiare. Secondo il quotidiano, i dimostranti hanno bruciato la bandiera della Libia, sostituendola con quella egiziana. L’edificio che ospita la sede diplomatica, inoltre, sarebbe stato danneggiato. Hakim era tra le decine di egiziani di fede copta arrestati in Libia nelle scorse settimane e sottoposti a torture da parte di una brigata salafita di Bengasi.

Asca


Buoncammino: “No alla conta dei detenuti alle 3 del mattino”

aboliamo la svegliaUn ordine di servizio impone, nel penitenziario cagliaritano, una conta numerica notturna, alle 3 del mattino. “Un inutile dispendio di energie” in un carcere “sovraffollato”, dove un centro clinico ospita una trentina di ammalati e anziani, (tra cui diverse persone con gravi disturbi psichici) e  dove più di un terzo dei detenuti (oltre 200) sono tossicodipendenti. E’ la denuncia di Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che contesta l’ordine di servizio, assunto per riaffermare il principio della massima sicurezza negli Istituti Penitenziari.

“Sorprende”, afferma la Caligaris , “che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa ritenere di risolvere il problema della sicurezza con irruzioni notturne dentro le celle nel cuore della notte, senza considerare invece che l’Istituto conta oltre 540 detenuti anziché 345, secondo quanto stabilisce la capienza regolamentare, e che non è stato ancora colmato il deficit di circa 60 Agenti di Polizia Penitenziaria. Sembra inoltre che si voglia ignorare che dalla Casa Circondariale è quasi impossibile evadere”.

Secondo il consigliere regionale un’iniziativa di questa portata rischia di esasperare gli animi dei reclusi, costretti a condividere uno spazio ridottissimo anche in 6 persone. Potrebbe infatti suscitare reazioni finora scongiurate grazie ad un clima, improntato al dialogo e alla responsabilità dei detenuti “nonché incentrato sulla professionalità degli operatori”.

La conta numerica avviene in diverse momenti del giorno, come al mattino alle 6, e della sera e contempla spesso anche delle perquisizioni nelle celle. “Un tale controllo sistematico, nel cuore della notte, sarebbe inoltre impossibile senza un rafforzamento dell’organico”, aggiunge la Caligaris, “altrimenti si verificherebbe un’esposizione a rischio degli Agenti nel servizio notturno quando sono presenti soltanto 11 operatori per altrettante sezioni ciascuna delle quali è strutturata in più celle con letti che arrivano ai soffitti. Il Dipartimento”, conclude, “dovrebbe impegnarsi a favorire la territorialità della pena e ad attivare tutte quelle iniziative utili a ridurre il numero di detenuti, anziché continuare ad ammucchiarli e pretendere di fare nozze con i fichi secchi”.


Roma, insulti dal carcere al deportato ad Auschwitz Shlomo Venezia

20130311_shlomoIn carcere dal 16 novembre scorso, con l’accusa di aver promosso e fatto parte di un gruppo che aveva tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, non rinuncia a propagandare, dalla sua cella di isolamento, a Regina Coeli, idee negazioniste sull’Olocausto. E ad offendere la memoria di Shlomo Venezia, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, ma anche ad insultare Luca Tescaroli, il pubblico ministero del processo, che viene definito “ignorante”. Mirko Viola, 42 anni di Como, legato agli ambienti di Forza Nuova, è stato arrestato in seguito alle indagini della Polizia postale e della Digos, che hanno permesso di smantellare, dopo attente intercettazioni telefoniche e telematiche, il forum neonazista Stormfront. Insieme a lui sono finiti in carcere altri tre neonazisti, che saranno processati con rito abbreviato: la prima udienza è stata fissata a Roma il prossimo 28 marzo.

NEGAZIONISMO
Ma se alcuni degli imputati hanno fatto una parziale retromarcia, arrivando anche a scusarsi con alcune delle personalità (tra queste il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il ministro Andrea Riccardi) che avevano insultato a più riprese sul forum, Viola, meglio noto sul forum con il nickname “biomirko”, ha continuato a diffondere, dal carcere, le sue folli tesi neonaziste. E a sostenere di essere vittima di una persecuzione. Nelle quattro lettere diffuse, tramite un avvocato, su alcuni forum neofascisti e blog, il militante di Forza Nuova – già autore, tra le altre cose, di un documentario in cui negava la Shoah – oltraggia la memoria di Venezia (scomparso nell’ottobre dello scorso anno), definendolo un “bugiardo” e tentando di contestare i dati ufficiali relativi allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.

“I ricercatori revisionisti hanno dimostrato che la testimonianza di Venezia è una ridicola panzana”, sostiene Viola, che parla di una “patetica glorificazione mediatica di un bugiardo”, che non serve a “rendere vere le sue menzogne”. Offese che vengono condite anche da considerazioni antisemite. Sarebbe stata, infatti, una fantomatica lobby ebraica, d’intesa con la magistratura, ad averlo perseguitato, per aver “dimostrato che i vari Shlomo Venezia, ElieWiesel e Simon Wiesenthal sono stati dei truffatori”.

Viola, che si definisce “compiutamente fascista, ovvero nazionalsocialista”, lascia anche intendere di volere continuare ad occuparsi di teorie negazioniste, una volta che i giudici gli avranno concesso gli arresti domiciliari: “I miei ideali si sono rafforzati durante la carcerazione: onestà, onore, rispetto per me stesso e ricerca della verità non ce l’hanno fatta a togliermi tutto questo. Non basta privare la libertà ad un uomo per trasformarlo in una pecora”. Del pm Tescaroli scrive che preferisce sorvolare “sulla sua macroscopica e crassa ignoranza”.

Fonte


Fino all’ultima maceria

diffondiamo da informa-azione

sbarreCarcere come punizione. Che sia per ammonire chi ancora non dissuaso dall’idea del “crimine paga”, che sia per stroncare i riottosi alle pubbliche leggi, che sia semplicemente perché così funziona un’istituzione che rinchiude. Il carcere quello fatto di soprusi, angherie, umiliazioni è fatto di vetri che dividono affetti, minuti di incontro, per chi può, strappati alla costruita monotonia quotidiana, di burocrazia, di censura della posta, di isolamento, di botte.
In questi giorni Sergio, un compagno detenuto in AS2 e trasferito da pochi giorni da Alessandria a Ferrara, è in sciopero della fame da settimane per essersi visto negare i colloqui con la sua compagna.
Maddalena, una compagna detenuta ad Agrigento, subisce da mesi le pressanti attenzioni dei secondini di turno, senza piegare la testa ed è anche lei in sciopero della fame per il continuo regime d’isolamento a cui è sottoposta.
“Normale amministrazione” per chi distribuisce anni di galera e per chi quelle galere le gestisce. Noi che vogliamo vedere radere al suolo ogni forma di reclusione e ogni spasimo di autorità non ci abitueremo mai alla normale amministrazione.

Rinnoviamo la nostra solidarietà e la nostra complicità per i compagn* rinchiusi in AS2 e a tutt* i prigionier* che non piegano la testa di fronte a questo esistente.

Cassa antirepressione Alpi occidentali


Varese: il Sindaco si oppone al progetto del Dap di dismettere il carcere dei Miogni

1176571804Il sindaco varesino dice no alla decisione del Dipartimento di amministrazione penitenziaria regionale di chiudere definitivamente la vecchia e malandata casa circondariale dei Miogni per accentrare il tutto a Busto Arsizio.
“Offensivo” addirittura, secondo il sindaco di Varese e presidente di Anci Lombardia Attilio Fontana, se si dovesse i chiudere i Miogni per accentrare tutto non a Varese, il capoluogo, ma a Busto Arsizio. “Offensivo” nei confronti della città innanzi tutto, dice Fontana da rappresentante della cittadinanza varesina, e “offensivo” nei confronti delle amministrazioni locali, ribadisce da primo rappresentante “sindacale” dei comuni lombardi.
Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria regionale, dopo anni di dibattito sul futuro della vecchia e malandata casa circondariale dei Miogni, ne avrebbe chiesto infatti la chiusura definitiva. Il futuro dei presenti e prossimi detenuti sul territorio nelle intenzioni sarebbe quindi da accentrare a Busto Arsizio, dove il carcere esistente potrebbe essere ampliato quanto basta per farne una struttura unica a livello provinciale.
La decisione archivierebbe definitivamente il Piano carceri varato dal governo Berlusconi nel 2010; in quel documento Varese viene indicata come una delle otto città considerate strategiche per costruire una nuova struttura detentiva anche per la presenza dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Si prevedeva pertanto la costruzione di un nuovo maxi carcere da un minimo di 450 posti e la contemporanea dismissione dei Miogni, appena 99 posti. Un provvedimento però difficilmente attuabile in carenza di risorse economiche del Ministero, tanto che non ha mai trovato seguito nonostante l’amministrazione comunale di Varese da subito avesse indicato un’area abbastanza ampia e collegata per la nuova struttura, in Valle Olona.
Su un punto in ogni caso il Ministero non ha mai lasciato spiragli: la ristrutturazione dei Miogni era esclusa, non essendo possibile ampliarlo in modo significativo e risultando quindi un’operazione diseconomica rispetto alla costruzione di un carcere nuovo di zecca e grande cinque volte tanto. Così a livello regionale sarebbe stata presa la decisione ritenuta più conveniente, mandando su tutte le furie il primo cittadino del capoluogo. Lui stesso, ammette, non ne sapeva nulla fino a ieri. “Nessuno si è fatto sentire – prosegue Fontana – Sarebbe assurda la decisione in sé e sarebbe assurdo che fosse stata presa senza neanche consultare gli enti locali interessati. Sarebbe insomma l’ennesimo provvedimento offensivo di questo stato inefficiente e centralista che se ne frega del territorio e di chi ci vive”. Una scelta insomma totalmente inadeguata, per il sindaco, scaturita dalla “solita, nota incapacità di affrontare i problemi e dalla non-volontà di risolverli”.
“Sono anni che si parla di ammodernamento e risanamento del carcere di Varese. Se anche avessero intenzione di chiuderlo – rincara Fontana – l’ipotesi andrebbe discussa con il territorio prima di prendere la decisione a livello politico”. Anche perché nonostante gli effetti non sarebbero immediati, sarebbero un bel problema per chi lavora con in Tribunale a Varese. “Magistrati, avvocati, forze dell’ordine, dovranno andare di continuo a Busto Arsizio.
Adesso manderò una lettera per chiedere di essere almeno informato su cosa sia stato deciso precisamente, dove e quando. In quanto rappresentante della comunità varesina credo sia mio diritto”. Aria di pesante polemica, insomma, sul futuro dei Miogni, tornato prepotentemente alla ribalta dopo la clamorosa evasione dei tre romeni. Varese si batte in difesa di un proprio carcere, il Comune ricorda di avere già individuato un’area possibile per la costruzione nella zona di Valle Olona. se si decidesse per la costruzione ex novo. Ma ribadisce anche la possibilità di mantenere il carcere attuale, con opportune opere di ristrutturazione.

Fonte: Il Giorno


Detenuti al Bassone preparavano l’evasione

Chicago_Jail_Escape_t618Como, 10 marzo 2013 – Lenzuola annodate e nascoste sotto una branda, all’interno di una cella dellasezione Alta Sicurezza della casa circondariale Bassone di Como. La scoperta è stata fatta nei giorni scorsi dagli agenti di polizia penitenziaria, che hanno immediatamente messo sotto sequestro quanto ritrovato.

Otto metri di lenzuola già annodate, occultate in un angolo, sotto una branda, al terzo piano della struttura penitenziaria. La cella è occupata da tre albanesi, che, evidentemente, stavano programmando da tempo l’evasione. Approfittando anche del fatto, particolarmente favorevole in questo momento, che l’impianto di illuminazione perimetrale del Bassone è fuori uso e che, quindi, l’intera struttura nelle ore notturne è avvolta nel buio. La finestra della cella si affaccia sulla parte laterale del carcere, sopra il campo da calcio interno. Una volta scesi in quella zona, i tre evasi avrebbero raggiunto l’esterno con estrema facilità. Arrivare a collezionare tre o quattro lenzuola è un’impresa lenta e non facile, perché tutto ciò che riguarda la dotazione dei detenuti è attentamente sorvegliato. L’unica possibilità di fare sparire e accantonare biancheria è approfittare delle scarcerazioni, quando un detenuto abbandona la cella e si crea l’unico momento in cui la sua dotazione può essere distratta.

Evidentemente, i tre erano riusciti ad approfittare di questa stratagemma in tre o quattro casi, forse già sufficienti a coprire l’altezza dalla loro finestra fino a terra. Difficile, ma non impossibile, è anche recuperare delle lime per tagliare le sbarre. Finora sono stati utilizzati dei sistemi di indebolimento delle sbarre molto classici: lime molto fini, chiamate “capelli d’angelo”, che possono arrivare al detenuto durante i colloqui, approfittando di momenti di distrazione dell’agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza o quando l’agente è concentrato su altri detenuti.

Infatti, un solo effettivo ha il compito di osservare più postazioni di colloquio e trovare un momento nel quale passarsi un oggetto non è impossibile. Con un pezzo di nastro adesivo, il sottile ma resistente filo metallico viene attaccato alla pelle sotto gli abiti, fino ad arrivare in cella. Da quel momento in avanti, incomincia un lentissimo lavoro di limatura delle sbarre, svolto in orari notturni quando la sorveglianza è meno pressante, che tuttavia devono rimanere al loro posto fino all’ultimo momento. Una fase che, nella cella in cui sono state trovate le tre lenzuola, pare che non fosse già iniziataNessun reato può essere contestato ai 3 albanesi occupanti la cella.

Fonte


“Polveriera-Bassone”, agente quasi strangolato

post-31-1224050998Sale la tensione ed il rapporto polizia-detenuti si fa ogni giorno più difficile. Al Bassone di Albate, lo denunciano i sindacati del settore, la situazione è più che mai esplosiva e lo conferma anche l’ultimo episodio: tra giovedì e ieri, infatti, un ispettore è finito all’ospedale perchè aggredito da un detenuto al collo. Quasi strangolato per essere intervenuti, in una cella di sua competenza da curare, a riportare la calma dopo una rissa tra detenuti. Per l’agente è stato necessario il ricovero al pronto soccorso del Sant’Anna: ora è a casa in convalescenza.

«Questo episodio – per i rappresentanti sindacali della Cisl – dà l’idea dell’esplosività della situazione. Basti pensare che, stando alla pianta organica, gli agenti in servizio dovrebbero essere quasi 400 e invece ne mancano 80. In compenso, i detenuti sono 530 in questi giorni: il loro numero massimo, secondo quanto stabilito dal Ministero, non dovrebbe superare i 300″. Squlibrio evidente con inevitabili ripercussioni.

Ad aggravare la situazione anche un giovane albanese che, approfittando di un permesso premio in questi giorni, non ha fatto più rientro in carcere alla sera. Lo stanno ancora aspettando. Di fatto è diventato un latitante.

Fonte


Malawi. Emergenza carceri: 13 mila detenuti a rischio per mancanza di cibo

caimanoPadre Giorgio Gamba, un missionario monfortiano da anni in Malawi in cui si occupa in particolare della dignità dei detenuti, lancia l’allarme sulla condizione in cui versano le carceri del Paese, dove da giorni non arrivano viveri. Notizie sulla situazione – riportate dalla Misna – sono state diffuse anche sui giornali locali. I media hanno ricordato come la società nazionale che gestisce la distribuzione interna dei prodotti agricoli si fosse impegnata per la consegna nelle carceri di settemila sacchi di grano che non sono mai arrivati, mettendo a rischio la sopravvivenza di 13 mila reclusi. Secondo il direttore del sistema carcerario del Paese africano, Kennedy Nkhoma, se le scorte dovessero arrivare, sarebbero appena sufficienti a colmare un deficit legato, da una parte, a una riduzione delle consegne governative, e dall’altra al forte aumento dei prezzi che le derrate hanno registrato sui mercati. In un anno, infatti, le consegne sono diminuite del 57% e contemporaneamente, a causa dei cattivi raccolti, il prezzo di un sacco da 50 kg di grano è passato da 4500 a 10 mila kwacha, più o meno da 9 a 20 euro.


Repressione contro gli anarchici – Madda, Alfredo e Nicola, Anna, Sergio, Stefano e Alessandro

bandiera-nera-Per-BylundAttentato Adinolfi: restano in carcere i due anarchici insurrezionalisti

Genova. Restano in carcere Nicola Gai e Alfredo Coppito, i due anarchici insurrezionalisti accusati dell’attentato all’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, del 7 maggio scorso a Genova.

La seconda sezione penale della Cassazione ha infatti rigettato il ricorso della difesa dei due.
Gai e Coppito sono detenuti nel carcere di Sanremo dopo l’arresto avvenuto il 14 settembre dello scorso anno.

 

Repressione – Nuovo 270 bis per Anna Beniamino

AGGIORNAMENTI SU REPRESSIONE – 7 marzo. Mi è stato notificato stamattina, da quattro ceffi di Ros e Digos di Genova, l’ avviso di garanzia per
”270 bis c.p.p. (partecipazione ad una associazione che si propone atti di violenza contro persone, quali Roberto Adinolfi ed istituzioni con finalità di terrorismo ed eversione del’ ordine democratico )” oltre all’ accusa di porto in luogo pubblico o aperto di armi da fuoco (accertato il gennaio 2013 ).
In questo nuovo procedimento siamo indagati Alfredo, Nicola ed io. Contestualmente è stato notificato il sequestro delle armi da fuoco di proprietà del padre di Nicola, regolarmente denunciate e già presenti nel corso delle scorse perquisizioni. L’acrobazia inquisitoria è la seguente: in sede di incidente probatorio su due caschi sequestrati a casa di  Nicola, è stato verificato che erano presenti tracce di polvere da sparo non compatibili con il munizionamento utilizzato nel ferimento Adinolfi, tali tracce presupporrebbero che i caschi fossero utilizzati con altre armi ovvero quelle in disponibilità del padre che verranno ora fatte oggetto di perizia. Traduzione di tutto questo: che le perizie hanno avuto esito negativo, visto che sto continuando ad aggiornare sulla situazione repressiva in corso e a solidarizzare con i compagni in carcere ad Alessandria ed altrove , visto che il procedimento x 280 cp. per Nicola ed Alfredo è in procinto di chiudersi per fine indagini, quindi  dovrebbero finalmente concedermi i colloqui con Alfredo, arriva puntuale  questa ennesima forma di pressione dalla procura genovese. Se il tentativo è quello di spezzare  la solidarietà tra noi sappiano che non ci riusciranno ,ne ora ne mai .Solidarietà ad Alfredo, Nicola   ed a tutti i compagni in carcere, in Italia e ogni dove…

Per l’ anarchia.
Anna Beniamino

per contatti: nidieunimaitres@gmail.com

 

Prigionieri – Sergio, Stefano e Alessandro trasferiti da Alessandria a Ferrara

Sergio, Stefano e Alessandro , per iniziativa della Procura di Milano (seppure la stessa non abbia ancora emesso un mandato di cattura nei confronti di quest’ultimo ),sono stati trasferiti oggi 6 marzo nel carcere di Ferrara. Sembra che il senso sia quello di evitare rapporti tra loro tre e Alfredo e Nicola, detenuti anche loro nella sezione AS2 di Alessandria.

Sergio Maria Stefani,
Stefano Gabriele Fosco,
Alessandro Settepani

C.C. Via Arginone, 327
44122 Ferrara

La competenza per il processo è passata per Stefano, Elisa, Sergio e Giuseppe alla Procura di Milano. Per i primi tre c’è già stato il riesame (per Giuseppe ci sarà a fine mese) che ha dato esito negativo per la loro scarcerazione.
Per Sergio al Tribunale della Libertà di Milano è caduto il punto B dell’ordinanza di custodia cautelare (attentati alla Bocconi e al direttore del Cie di Gradisca) ed è stato introdotto il reato di istigazione a delinquere adducendo come prova gli scritti, i comunicati, le lettere diffuse dal compagno durante la precedente carcerazione per l’operazione Shadow. Ieri c’è stata anche l’udienza per decidere se potrà avere finalmente i colloqui con Katia, cosa per cui è ancora in sciopero della fame.
Per Stefano ed Elisa in sede di riesame è caduto il 280 mentre sono rimasti il 270 e l’istigazione a delinquere. Le motivazioni addotte in sede di riesame per tenerli in carcere riguardano principalmente l’attività del blog Culmine, attraverso il quale gli inquirenti sostengono di aver riscontrato il “contributo ideologico” alla presunta associazione sovversiva, il “superamento dei limiti di comunicazione e conoscenza” oltre a mettere sotto accusa la solidarietà e il supporto ai prigionieri.
Per Paola, Giulia, e Alessandro è arrivata la notifica di chiusura delle indagini per quanto riguarda il 270 avente base in Perugia.
La Cassazione per Alessandro ha stabilito che per entrambe le associazioni la competenza territoriale è della procura di Perugia.
In attesa di ulteriori aggiornamenti.

Cassa di solidarietà Aracnide

 

anarchia3Lettera e aggiornamenti da Madda

Petrusa,19/02/13

Ciao Compà,
scusate il ritardo nel confermarvi l’arrivo del materiale richiesto, è perchè ho finito le buste e solo oggi mi sono arrivate! Beddi, vedete che qui mi stan facendo troppo incazzare. Di ciò che vi avevo richiesto, han lasciato entrare solamente il codice, il mio scritto impaginato e alcuni fogli di giornale, mentre il resto è fermo in direzione, in attesa di una decisione.  Stessa cosa vale per l’opuscolo di OLGA.
A causa del procedimento aperto dal carcere palermitano  (per ciò che è accaduto negli ultimi mesi), ci sono indagini in corso, e ho capito che con questo pretesto han bloccato tutto. Come se bloccare dei libri potesse essere“utile alle indagini”, o “prevenire reati” o garantire la “sicurezza interna”! Ora, io ho fatto richiesta di parlare con chi me li ha bloccati (il direttore) e vediamo… Se a giorni non si presenta mi muoverò in altri modi… Con calma utilizzo le loro fottute formalità (che tanto  so già che mai portano a qualcosa) solo perchè così non possono dire che non ci ho provato… Anche perché in nessun altro carcere mi han mai trattenuto libri (neanche sotto le varie censure) […]
Comunque, oltre a tutto questo, ancora sto in isolamento… Mi han dato altri dieci giorni dopo i quindici accollatami appena finito il 14 bis, per una zuffa con le guardie a Palermo (che ha portato a questo trasferimento. Pensare che avevo sperato che cambiando aria avrei preso un attimo di respiro, e invece…)… Inutile pensare a queste cose in certi luoghi! Qua non la vedo tanto differente da Palermo… Già se inizia così! Ma…
Comunque, il giorno 25 febbraio ho udienza a Trapani e chiederò i domiciliari in Sardegna. Quindi aspetto a vedere che deciderà ‘sto giudice!  […] Ora mi pare di essere nuovamente al 14 bis, non avendo, oltre al fornellino, nemmeno la tv, che per un incidente è da sistemare ( e mi vogliono pure far pagare il danno!). […]
Qua la struttura è piccola, poche detenute (le ho viste solidali però!) il freddo costante come in ogni carcere e il trattamento riservatomi è il medesimo da AS2, con le solite dinamiche interne di minaccia di rapporto. Me ne hanno accollato uno per una stronzata che se ve la racconto non si sa se ridere o piangere!  […]
Ah, in questo carcere non fanno entrare i bolli per corrispondenza, così se volete rigirare questo fatto oltre alla situazione esposta sopra mi fareste un piacere. […]
Chiudo con una forte stretta sempre colma d’odio per chi reprime
e d’amore per la completa Libertà
Madda

Da una successiva lettera, datata il 4 marzo, apprendiamo che si trova attualmente in sciopero della fame. Dopo essere stata trasferita dal Pagliarelli di Palermo al carcere di Petrusa, sta scontando ancora un ciclo di 8 giorni di isolamento, dopo averne già fatti prima 15 e poi in 10 (in tutto ormai un mese!). Due settimane fa ha chiesto di parlare con il direttore, al fine di ricevere chiarimenti circa questo prolungarsi della misura punitiva: vuole accertarsi di non essere ancora in isolamento per fatti già scontati, visto che i procedimenti sono tutti partiti da Palermo. Non avendo ancora ottenuto la possibilità di parlare con il direttore, è entrata in sciopero della fame dal giorno 28 febbraio.

Cassa Antirepressione delle Alpi Occidentali