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Nelle segrete del carcere c’è una miniera di scrittori

SCRITTOREMastica e scrivi. A Regina Coeli fa freddo, dicono che l’umidità arrivi da sotto, di lato, dal fiume. Lo senti anche se è mattina e nella sala, a destra, dopo un paio di corridoi, appena al di là del terzo cancello, ci sono solo posti in piedi. Racconti dal carcere. Sono tre anni che nei penitenziari italiani c’è qualcuno che scrive con l’idea di entrare in un’antologia. Sono gli scrittori della cella accanto, che buttano giù i loro racconti in fretta, perché anche qui il tempo passa in fretta, bisogna solo imparare a contarlo. E scrivere aiuta. Ogni tasto, ogni lettera, è un battito e ogni battito batte il tempo. Se stai qui è per raccontare questo premio letterario, con l’ora d’aria. Chi lo ha voluto è una giornalista, Antonella Boielli Ferrara. Il premio porta il nome di Goliarda Sapienza, con quella scrittura da corde di violino, per troppo tempo dimenticata, donna violata dall’elettroschok, finita in carcere nel 1980 per aver rubato alcuni oggetti a casa di amiche e morta ormai da 17 anni.
La cosa, il concorso, funziona così. Ogni Continue reading


Amanda shock “Molestata in carcere dalle guardie”

892Rivelazioni choc quelle di Amanda Knox, la giovane per cui è stata annulata l’assoluzione per l’omicidio di Meredith Kercher, che parla nel suo libro verità “Waiting to be Heard” nuovi particolari sui giorni in carcere.
La Knox denuncia molestie sessuali da parte delle guardie del carcere: «Il secondino mi chiedeva con chi avevo fatto sesso, voleva sapere quanti ragazzi avevo e se volevo andare a letto con lui». Parla anche di richieste di rapporti lesbo da parte di alcuni secondini. La parte più importante delle sue rivelazioni riguarda però Raffaele Argiro, guardia carceraria, già accusato di aver molestato un’altra detenuta e ora in pensione. «Ero così sorpresa e scandalizzata dalle sue provocazioni che qualche volta mi chiedevo se non stessi capendo male quello che mi stava dicendo», continua Amanda, «Quando mi accorgevo che voleva parlare di sesso provavo a cambiare argomento».
Il poliziotto ha però smentito tutto e denunciato la Knox per diffamazione: «Le ho chiesto quanti fidanzati avesse avuto, ma era sempre lei a iniziare a parlare di sesso».

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Tomaso ed Elisabetta, a scontare l’ergastolo in India

jail-7In India, accusati di omicidio, sono detenuti due nostri connazionali che però non indossano divise, Tomaso Bruno, 28 anni, di Albenga, ed Elisabetta Boncompagni, 39 anni, di Torino. La loro storia è meno nota all’opinione pubblica di quella dei due fucilieri ma non meno problematica.

È da più di tre anni che questi due giovani combattono contro quello che lo stesso Bruno definisce «assurdo sistema della giustizia indiana». Mai si sarebbero aspettati di incappare in questa brutta storia. Del resto, non erano andati nel grande Paese asiatico per svolgere lavori rischiosi, ma per coronare il sogno di un viaggio. Uno sogno trasformatosi in un incubo.

Per riavvolgere il nastro della loro storia si parte da Londra, la città in cui abitavano sia Tomaso sia Elisabetta. Per festeggiare il capodanno 2010 Elisabetta e il compagno, Francesco Montis, altro tragico protagonista di questa vicenda, decidono di raggiungere degli amici in India, nell’Uttar Pradesh. Al viaggio si aggiunge anche Tomaso Bruno. È Francesco a chiedergli di partecipare.

La mattina del 4 febbraio Tomaso ed Elisabetta trovano Francesco in agonia sul letto, in una stanza dell’hotel Buddha di Chentgani, alla periferia della città di Varanasi, dove soggiornano. Chiamano rapidamente i soccorsi, che tuttavia si rivelano vani. Sul luogo non arriva un’ambulanza, ma un taxi che trasporta il ragazzo in ospedale, dove un medico ne constata il decesso. Mentre Tomaso si mette in contatto con l’Ambasciata Italiana a Nuova Dehli, la polizia di Varanasi impone ai due ragazzi di non uscire dall’albergo, vieta loro di utilizzare internet e concede solo l’uso dei telefoni cellulari.

L’attesa in albergo si fa angosciante. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni in quei momenti di disperazione non riescono neanche a realizzare l’atroce destino che li aspetta. La loro angoscia si tramuta in paura.

Le autorità indiane sono convinte: i due italiani vengono accusati dell’omicidio del loro amico. Il 7 febbraio 2010 Tomaso ed Elisabetta sono tratti in arresto con l’accusa di aver strangolato Francesco, sulla base di un esame postmortem sul cadavere della vittima secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto per asfissia da strangolamento. Lo Studio Legale Titus (nominato su indicazione dell’Ambasciata Italiana per difendere i due giovani) fa eseguire una controperizia dalla quale si evince che la morte è sì avvenuta per asfissia, ma non da strangolamento bensì per altre cause.

Da quella data Tomaso ed Elisabetta sono detenuti nel carcere di Varanasi, in quanto la polizia si è riservata il deposito della chiusura delle indagini sino allo scadere dei termini (90 giorni) con continui rinvii ogni 14 giorni. Le richieste di libertà su cauzione presentate dallo Studio Legale Titus durante il lungo corso del processo, costellato da intoppi e rinvii di udienze, sono state tutte respinte dal giudice.

Un estenuante stillicidio giudiziario che arriva sino al 23 luglio 2011, ore 17:30 locali. In quella data viene emessa la sentenza di condanna all’ergastolo per Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni. E pensare che in fase di lettura della sentenza le prospettive sono apparse ancora più cupe: il pm, sentito infatti che il giudizio era di colpevolezza, ha richiesto il massimo della pena, ovvero la pena di morte. Estrema condanna evitata soltanto perché il giudice l’ha ritenuta eccessiva, dal momento che in India è riservata esclusivamente a chi commette gravi atti di terrorismo.

La notizia, qui in Italia, fatica a sgomitare tra i bollettini meteo che aggiornano sul caldo di luglio e un attentato che in Norvegia ha provocato la morte di 77 persone. La condanna di questi due giovani da parte di un Tribunale indiano non occupa più di qualche trafiletto su alcuni giornali. Familiari e amici dei due ragazzi tentano, invece, di concedere una degna eco alle parole che Tomaso Bruno, subito dopo la sentenza, ha avuto la forza di scrivere sul suo profilo Facebook: «La battaglia per ottenere giustizia è ancora lunga, ma alla fine tutto si risolverà con l’assoluzione».

Si dà vita fin da subito ad una serie di iniziative finalizzate a far conoscere all’opinione pubblica la vicenda dei due amici detenuti in India e di esprimer loro solidarietà. In questo senso si batte tenacemente Marina Maurizio, mamma di Tomaso Bruno che mentre scriviamo si trova in India, per svolgere una delle frequenti visite al figlio detenuto insieme ad Elisabetta Boncompagni nel carcere «District Jail» di Benares, ma comunemente conosciuto dalla popolazione locale con il nome di «Choucaghat». «che a detta degli altri detenuti – racconta Tomaso Bruno a Linkiesta – è uno tra i peggiori dell’Uttar Pradesh, se non di tutta l’India».

Tomaso non ha mai avuto particolari problemi nell’adattarsi alla vita carceraria indiana. «Il mio rapporto con gli altri detenuti è stato buono sin da subito, più imparo la loro lingua e la loro cultura e più sono accettato. Per questo devo essere grato al mio “fratello” tibetano Pempa Tsering, che grazie alla sua perfetta conoscenza dell’inglese e dell’hindi, mi ha fatto, sin da subito, con infinita pazienza, da traduttore simultaneo». Il carcere «District Jail» di Benares conta circa 1.800 detenuti, la gran parte è in attesa di giudizio e la percentuale dei criminali pericolosi è minima. «La maggior parte dei detenuti è gente normale incappata in un modo o nell’altro nell’assurdo sistema della giustizia indiana».

Molto probabilmente, anche per questo, ci racconta Tomaso, non è stato difficile inserirsi. «È per me è motivo di orgoglio l’essere passato in poco tempo dallo status di “straniero”, e quindi rispettato perché tale, a quello di “fratello”, e quindi rispettato per quello che è». «Viviamo in stanzoni da 100/120 persone con un piccolo spiazzo di fronte dove poter camminare. I cancelli delle stanze restano aperti dalle 6.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.30». Qui, «c’è un’area con sei rubinetti e una pompa a mano» dove possiamo lavarci e lavare i panni. Poco più dietro ci sono le latrine: 12 in tutto. Tomaso le racconta come l’unica parte fatiscente del carcere, «visto che non dispongono di acqua corrente».

I due italiani si sono dovuti adattare alle abitudini indiane, ma i problemi più grandi, sottolinea Tomaso, sono il clima e le cure mediche. «Da aprile a ottobre c’è un caldo torrido e le ventole che pendono dal soffitto sono quasi sempre ferme visto che l’elettricità va e viene». Le cure mediche «lasciano un pochino a desiderare». A «District Jail» c’è solo un piccolo ospedale: «Le medicine sono di bassa qualità e la mia impressione è che sia meglio cercare di non ammalarsi». Il cibo è rigorosamente vegetariano, «ma in uno modo o nell’altro si riesce tutti i giorni a mettere insieme tre pasti decenti».

Quelli che stanno vivendo i due giovani e i loro familiari sono mesi concitati, di attesa. Recentemente, la Corte Suprema indiana ha giudicato «ammissibile» il ricorso contro la condanna all’ergastolo. La prossima tappa di questo loro calvario è ora fissata per il 3 settembre, data dell’udienza del massimo tribunale indiano. Ma Tomaso Bruno preferisce rimanere con i piedi per terra: «Sono realista e penso che ribaltare due sentenze di ergastolo non sia un’impresa semplice neanche per uno dei migliori penalisti indiani come sembra essere Mr. Mukul Rohatgi, il nostro nuovo avvocato». «Tuttavia – conclude Tomaso – il fatto che il ricorso sia stato accolto senza problemi, alimenta quel piccolo fuoco di speranza che dentro di me non si è mai spento». Fuoco di speranza che facciamo anche nostro.

In questo senso, può essere utile ricordare che il 30 ottobre del 2012 è entrato in vigore un «Accordo bilaterale» tra Italia e India che dovrebbe permettere il trasferimento delle persone già condannate nel Paese d’origine. Se è pur vero che l’ultima parola spetta all’India, dovrà essere il governo italiano a richiederne l’applicazione.

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Dentro il carcere più grande a Cuba, aperto dopo anni di denunce

aCuba, (TMNews) – Dopo nove anni di attesa, denunce e polemiche, il governo cubano ha aperto ai media le porte di “Combinado del Este”, la più grande prigione del Paese.A favor di telecamera, il carcere di massima sicurezza cerca di mostrare il suo lato migliore: gli interni del cortile sono curati, con grandi spazi in cui detenuti corrono e giocano, perfino a baseball, lo sport americano per eccellenza.”I detenuti vivono in collettività. Praticamente non ci sono incidenti. Lavorano e studiano, la famiglia gioca un ruolo importante nella preparazione all’inserimento nella società”, dice il colonnello Carlos Quintana.Una descrizione idilliaca di un carcere messo sotto accusa da anni dai dissidenti per le condizioni indecenti delle celle, che non si vedono mai nelle immagini recenti, e del cibo definito “peggiore di quello che si dà agli animali”. Denunce suffragate anche da video girati con la telecamera nascosta e poi pubblicati su Internet su canali come “Derechos humanos a Cuba” e da testimonianze dirette come quella del prigioniero Reynol Vicente Sanchez, che in una lunga lettera qualche anno fa raccontava delle celle minuscole, invase da topi e scarafaggi, del caldo soffocante. “Queste condizioni disumane – scriveva sono degradanti per i detenuti”.

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Inferno Poggioreale: situazione esplosiva

originalI numeri da soli, seppur ampiamente significativi, non bastano a dipingere quel report di drammi che si susseguano nel carcere di Poggioreale. A confermare la tragica situazione dei detenuti è stato il deputato del Pd Sandro Gozi, ieri in visita nella casa circondariale napoletana. Un giro ispettivo in cui Gozi è stato accompagnato da Yuri Guaiana, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, e da Roberto Gaudioso, tesoriere dell’associazione radicale “Per la grande Napoli”.

La delegazione ha fatto ingresso nel carcere di Poggioreale alle 10 e ha poi tenuto una conferenza stampa all’uscita del carcere. Per il deputato Gozi questa di ieri è stata la prima visita al carcere napoletano: «La situazione è grave – ha spiegato – il carcere di Poggioreale ha il triste record del carcere più sovraffollato d’Europa. Siamo a una popolazione carceraria di oltre 2.700 persone quando, in base al regolamento, dovrebbero essere 1.600, quindi questo è un problema enorme, soprattutto nel padiglione Napoli».

Se la situazione carceraria è oggi esplosiva, con problemi di sovraffollamento e carenze strutturali spalmate sul tutto il territorio, il “casermone” di Poggioreale rappresenta il termometro del sistema sull’orlo dell’esplosione. Una situazione grave e proprio per le condizioni delle patrie galere, l’Italia ha incassato una pesante sanzione da parte da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Secondo direttive europee, infatti, ogni detenuto ha diritto a 9 metri quadrati di spazio, a Poggioreale, in molte celle, proprio per il sovraffollamento, molti detenuti non possono neanche restare in piedi contemporaneamente. «Nel padiglione Napoli – ha continuato Gozi – ci sono 8 detenuti per cella, ma ci hanno detto che arrivano anche a 10 quindi è evidente che i detenuti sono ammassati gli uni sugli altri. Siamo, quindi, molto lontani dalle norme europee e da quelle sentenze che ci hanno condannato e che continueranno a condannarci se devo giudicare la risposta dello Stato».

La visita ispettiva di Ieri ha riguardato principalmente i padiglioni “Napoli” e “Roma”: le zone del carcere, dove presenti tossicodipendenti, detenuti per reati connessi allo spaccio, e nel padiglione Roma i”sex offenders” (detenuti per reali sessuali) insieme con omosessuali e transgender divisi su piani diversi. La situazione più critica per Sandro Gozi riguarda i detenuti in attesa

di cure: « Ho parlato con un detenuto cardiopatico – ha detto il deputato Pd – molto preoccupato perché non sapeva quando avrebbe ricevuto un intervento in cui era in attesa e anche il suo compagno di cella, un uomo con problemi di deambulazione e costretto su una sedia a rotelle, che non sapeva il programma di cura da seguire. Inoltre, c’è una totale assenza, in relazione ad una carenza di risorse, dei trattamenti psicologici. Siamo, infatti, a 13 ore al mese di assistenza psicologica per 2.700 detenuti».

Una vita in promiscuità quella dei detenuti senza spazi e spesso chiusi tutto il giorno in cella molte volte con il blindato chiuso. Gozi ha parlato anche dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’amnistia: «C’è bisogno dell’amnistia – ha chiarito -. Ho presentato una proposta di legge alla Camera per i reati commessi entro il 14 marzo del 2013 con pene detentive non superiori ai quattro anni, se la legislatura parte spero ci sia una forte sensibilità e una singola valutazione da parte dei deputati»

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Meno di un metro quadrato a testa Celle da lager a Canton Mombello

bbBrescia, 7 aprile 2013 – «Come si vive a Canton Mombello? Eravamo sette in una cella da sei di due metri per quattro con sei brande, sei armadietti, un tavolo, un frigo e quattro sgabelli. Lascio un po’ immaginare». Il problema del sovraffollamento a Canton Mombello è ormai noto ma sorprendono sempre i racconti di chi il carcere l’ha vissuto. Come Vincenzo, uscito quattro mesi fa dopo una detenzione di sei mesi per furto e che ieri era nel piazzale della casa circondariale, in occasione della visita del deputato bresciano di Sel. «Era impossibile aprire la finestra per arieggiare, i vestiti bisognava lavarli a turni e là dentro, credetemi, non c’è un buon odore – racconta -. Dalle celle si esce solo un’ora e mezzo al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio. Per il resto della giornata si sta a porte chiuse». A oggi nel carcere, costruito per 208 persone, ce ne sono 450, circa un centinaio in meno rispetto al picco del 2012 ma comunque troppi.

Vincenzo racconta che in una cella di 20 metri quadrati vivevano addirittura in 22 con due bagni. «Con tutte le conseguenze anche per l’igiene – aggiunge -. Ricordo che, quando ero dentro, per un periodo hanno chiuso la sala del biliardino per scabbia. Io stesso sono stato in cella per 15 giorni con un detenuto che aveva la tubercolosi, che poi è stato trasferito altrove». A marzo scorso un altro detenuto era stato ricoverato al Civile per tubercolosi, che, secondo il personale sanitario, era stata contratta prima di entrare in carcere. I casi di malati, dunque, potrebbero essere diversi.

Tanto che il Comitato per la chiusura del carcere presenterà la settimana prossima un esposto alla Procura, alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oltre che ad Asl e sindaco, per denunciare le condizioni di vita dei detenuti e la possibilità di un’epidemia di tubercolosi. «Si tratta di una malattia che si può presentare in forma attiva e in forma latente – precisa Beppe Corioni -. Le condizioni igieniche carenti, come il non ricambio di aria, ne favoriscono lo sviluppo. Vogliamo che si faccia chiarezza».

Un po’ di sollievo potrebbe arrivare in occasione dell’apertura del carcere di Cremona. «Il nuovo carcere a Brescia – interviene Marco Fenaroli, candidato alle primarie del centrosinistra di Brescia -? Il Pgt ha individuato l’area ma non c’è nessun riferimento a un nuovo istitutonel Piano carceri nazionale. Chissà quando si farà». Intanto Sel si sta già muovendo per avanzare tre proposte di legge: introdurre il reato di tortura, abrogare il reato di clandestinità e abolire la legge sulla recidiva. «Canton Mombello è un vero e proprio lager nella civile Brescia – argomenta – Luigi Lacquaniti, il deputato bresciano di Sel -. Encomiabile, anzi quasi eroico, il lavoro del personale e dell’amministrazione penitenziaria. Ma non è possibile mantenere questa situazione».

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Fuori tutti/e dalle galere

Diffondiamo da Rete Evasioni

cisonomomentiCi sono momenti in cui arriva il sole, attraversa le sbarre, filtra dal vetro, attraversa la bottiglia che hai sul tavolo, si allunga in stralci sul tavolo, ti scalda un po’ l’orecchio.

Ci sono momenti in cui di notte guardi il soffitto, ascolti il silenzio, senti il rumore del vuoto del corridoio, ascolti il sibilo di una porta chiusa.

Ci sono momenti in cui ti siedi a fumare una sigaretta all’aperto e guardi il cielo e pensi che se credessi in Dio lo ringrazieresti di poter godere di tanta bellezza anche da qui.

Ci sono momenti in cui cammini per i corridoi e pensi che non ti usciranno più dai polmoni.

Ci sono momenti, tanti momenti, in cui il tuo corpo è fermo e la tua mente ti sta immaginando mentre distruggi tutto quello che ti capita tra le mani.

Ci sono momenti in cui pagheresti oro per una bella birra fresca.

Ci sono momenti in cui ti arriva, da non sai bene dove, un odore di terra, di foglie, di autunno e ti ricordi.

Ci sono momenti in cui il sole del cielo d’autunno ti fa ripensare alle montagne e al fiato dei tuoi cani.

Ci sono momenti in cui finalmente tutte le parole vuote scompaiono, tutte le maschere cadono.

Ci sono momenti in cui cadono tutte quelle degli altri senza che loro lo sappiano.

Ci sono momenti in cui ti accorgi che questo posto ti ha cambiato e altri in cui pensi di essere sempre la stessa; e ti scopri  e ti riscopri.

Ci sono momenti in cui riconosci l’ora della giornata dal rumore che senti nei corridoi e ti accorgi che sta diventando normale.

Ci sono momenti in cui di notte ti svegli di soprassalto perché una luce ti spia il sonno.

Ci sono momenti in cui vedi una madre piangere perché non può fare la cosa più naturale su questa terra: stare con i suoi figli.

Ci sono momenti in cui piangi per il pianto di quella madre, per gli abbracci negati, per i rapporti mutilati, perché pensi che per tanto dolore nessuno pagherà mai.

Ci sono momenti in cui pensi che potresti guardare per ore il viso delle compagne  che sono con te, perché sai che è solo per quegli occhi che non hai mai avuto paura di questo inferno.

Ci sono momenti in cui pensi al dolore di chi viene a trovarti; alle loro facce che, tutte le volte che se ne vanno, sbigottite, dicono “la stiamo lasciando qui”.

Ci sono momenti in cui il sangue si gela al pensiero della libertà perché pensi che non potrai portare fuori con te le tue compagne.

Ci sono momenti, tanti momenti, in cui una risata irrompe come un tuono, come una cascata da un dirupo e si dipana fresca sulla pelle, sul viso, nella testa.

Ci sono momenti in cui vedi tornare il sorriso sul volto di una compagna e pensi di non voler altro dalla giornata.

Ci sono momenti in cui ti arriva la voce che qualcuno è uscito o evaso e le sbarre si incrinano e il sorriso è beffardo.

Ci sono momenti, tanti, costanti, ripetuti in cui pensi ad un cumulo di macerie, a chiavi spezzate, a divise bruciate e senti la freschezza dei piedi nudi sull’erba e il respiro è profondo.


Kuwait: eseguite tre impiccagioni per omicidio, le prime esecuzioni dal 2007

imagesTre uomini condannati per omicidio sono stati impiccati in Kuwait. Le ultime esecuzioni nell’emirato risalivano al 2007. L’agenzia Kuna riferisce che le condanne a morte sono state eseguite nella prigione centrale, ma non fornisce altri dettagli. Secondo la stampa, i condannati impiccati sono un pachistano per l’omicidio di una coppia di kuwaitiani, un saudita colpevole di avere ucciso un connazionale, mentre il terzo, definito un apolide arabo, era stato riconosciuto colpevole di avere ucciso una donna e i suoi cinque bambini. Nel braccio della morte delle carceri del Kuwait ci sono almeno 44 condannati. Da quando l’emirato ha introdotto la pena di morte nel 1960 sono stati giustiziati 69 uomini e tre donne.

Fonte: Ansa


7 detenuti su 10 sono malati… tra tossicodipendenze, patologie psichiche e fisiche

Da quando nel 2008 la sanità nelle carceri è stata demandata alle Asl non ci sono più dati certi. Ma le associazioni del settore, come Antigone e il Forum per la Sanità Penitenziaria, calcolano che nei penitenziari circa il 70% dei detenuti sia malato.

20859_20859Le patologie più comuni sono le tossicodipendenze (almeno 30%); i disturbi psichici con oltre il 16%, seguiti dalle malattie dell`apparato digerente e dalle patologie infettive e parassitarie. E questa è una media. Basta dire che a La Spezia ha problemi di droga circa il 50% dei reclusi. Almeno un terzo della popolazione carceraria ha poi commesso atti autolesivi e circa il 15% ha tentato il suicidio.
Quando un detenuto si ammala dovrebbe essere trasferito nel reparto penitenziario dell’ospedale più vicino, ma non di rado le diagnosi sono tardive. A Padova una dottoressa è sotto inchiesta perché avrebbe scambiato un infarto per un dolore allo stomaco. Insomma, le carceri italiane potrebbero essere una vera bomba sanitaria, e il controllo delle malattie non è sempre semplice. Dei 93 detenuti morti nel 2012 per 31 ancora non si conoscono le cause.
E a rischio non sono solo i detenuti ma anche gli operatori che lavorano nelle carceri, a cominciare dagli agenti e dai volontari, che possono contrarre le più svariate malattie. “I pericoli sono davvero reali. Quando un detenuto entra in carcere viene sottoposto solo alla visita psicologica, ma non gli si fanno le analisi – dice Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe – Per esperienza dico che chi viene dall’Africa non di rado è portatore di malattie infettive come la tbc”.
L’igiene in questi frangenti è fondamentale e questa è particolarmente carente in strutture vetuste come San Vittore a Milano, Buoncammino a Cagliari, Regina Coeli a Roma o Poggioreale a Napoli. Per il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la sanità penitenziaria uno dei problemi principali è l’alimentazione di chi è malato che “dovrebbe essere calibrata in base alla malattia e invece questo non avviene. Il vitto di un detenuto costa 3,8 euro, una cifra risibile se si pensa che i comuni spendono per la stessa voce 4 euro per i cani ospitati nei canili. Qua e là, si sta comunque cercando di invertire questa tendenza, costruendo, come avviene in questi giorni a Regina Coeli, una cucina specifica”.
Rimane il problema dei sei Opg presenti in Italia, gli ospedali psichiatrico-giudiziari, la cui chiusura è stata rimandata di un anno, al 1° aprile 2014. Una volta aboliti dovrebbero essere realizzate case famiglie per curare chi non può andare in carcere. I fondi sono stati stanziati dal ministero della Giustizia, ora si attende che partano i progetti.

Fonte: Famiglia Cristiana


Radiocane – Corrispondenze galeotte

diffondiamo da informa-azione

judgezw6Nella lingua italiana galeotto è termine ambiguo: se da un lato evoca la pena carceraria, di cui evidenzia il nesso costitutivo con l’imporsi del sistema capitalista, dall’altro lato richiama la funzione d’intermediaro d’amore, di transito all’incontro.

Le corrispondenze galeotte si propongono quindi di rispondere a un richiamo e di superare qualche muro. Col dovuto rimbalzo.

In questo contributo, una chiacchierata con Massimo, che ci racconta alcuni aspetti della sua recente esperienza in carcere, e Federica che introduce una delle iniziative di lotta che si terranno in contemporanea sotto tre carceri sabato 30 marzo

ascolta il contributo:
http://www.radiocane.info/corrispondenze-galeotte/


Iran, manovre anti-sommossa nelle prigioni per paura delle proteste, ispezionato Evin

_48219931_007494170-1Il regime teocratico, per paura delle rivolte dei prigionieri, è ricorso a manovre anti-sommossa in varie prigioni di tutto il paese.  Manovre simili sono già state messe in atto nelle prigioni delle città di Ardakan, Yadz, Arak, Naghadeh, Abadeh, Maragheh, Marvdasht, Ghom, Yassouj e altre.  Sono state portate a termine con la collaborazione del Ministero dell’Intelligence, delle Forze di Sicurezza, dell’Ufficio del Governatore, del Dipartimento dei Vigili del Fuoco e dei servizi di emergenza di queste città.  Gli agenti del regime hanno affermato che lo scopo di tali manovre è “garantire la sicurezza nelle prigioni,” “preparazione e miglioramento della capacità di affrontare potenziali disordini e sommosse all’interno delle prigioni,” “affrontare situazioni con rapimento di ostaggi,” “minacce,” “aumento del livello di preparazione della polizia penitenziaria, coordinamento con altri organi e controllo delle crisi.”  Nel frattempo, il 19 Marzo 2013, gli agenti “per la sicurezza penitenziaria” hanno brutalmente ispezionato i bracci maschile e femminile dei prigionieri politici nella prigione di Evin.  Le forze anti-sommossa al comando dell’IRGC hanno anche partecipato a varie esercitazioni per contrastare “le proteste popolari” a Tehran.  Queste manovre repressive in varie prigioni e città servono a reprimere le rivolte dei prigionieri contro le orribili condizioni delle prigioni, l’esplosione della rabbia popolare e le masse di gente affamata, in particolare alla vigilia delle elezioni-farsa del regime.

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Svizzera: feste e concerti con i detenuti, direttrice del carcere di Ginevra nella bufera

images (21)Concerti rock, tavolate, grigliate. Più che a una prigione, quella di Favra, vicino Ginevra, “assomiglia a una colonia di vacanze estive”, con la partecipazione attiva della direttrice del carcere, ripresa assieme ai detenuti in circostanze particolarmente conviviali. Una situazione talmente insolita da indurre il consigliere di stato Pierre Maudet a chiedere un rapporto dettagliato e il sindacato di polizia ad indagare sui fatti. Ieri il quotidiano Le Matin ha denunciato il caso, sulla base delle immagini della videosorveglianza girate tra il 2011 e il 2012: la direttrice si fa baciare le mani dai detenuti e quasi abbracciare, è seduta con loro a tavola per la cena di Natale dove viene servito vino rosso, sono presenti altre donne non meglio identificate. Altre immagini mostrano un concerto di un gruppo punk-rock all’interno del cortile, altre ancora un pic-nic con birra e posate di metallo, forchette e coltelli. Il penitenziario ospitava, fino a dicembre 2012, circa una trentina di detenuti, alcuni recidivi, condannati a pene fino ai tre anni; l’alcol è proibito, così come la coabitazione tra personale e prigionieri. Oggi è stato trasformato in un centro di detenzione amministrativo, con la direttrice sempre al suo posto.

Fonte TM News


Liguria 31% detenuti e’ tossicodipendente

eroina3(Adnkronos) – “La Liguria si conferma tra le Regioni d’Italia con la piu’ alta percentuale di tossicodipendenti detenuti: sono il 31% dei presenti , contro il 23% della media nazionale”. Lo denuncia il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe). “Nel carcere di La Spezia sono addirittura il 50% dei reclusi, mentre nel carcere di Chiavari il 40% dei detenuti ha problemi di droga”, aggiunge Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe.

“I detenuti affetti da tossicodipendenza scontano una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe in una condizione di disagio, spesso senza il sostegno della famiglia o di una persona amica”, aggiunge Martinelli. Un problema che si riflette anche sul lavoro degli agenti di polizia, “oggi sotto organico di 400 unita’ in Liguria “, sottolinea il segretario aggiunto.

“Sarebbe preferibile evitare la carcerazione ai detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entita’, optando piuttosto per interventi alternativi, da attivare gia’ durante la fase del processo per direttissima”, afferma il Sappe. “Si potrebbero istituire percorsi di cura e riabilitazione ‘controllati’ in regime extracarcerario con l’ausilio dei servizi pubblici e delle comunita’ terapeutiche – propone il sindacato – I tossicodipendenti sono persone che hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”.


La risonanza magnetica svela chi commettera’ nuovi reati

palla di vetro(ANSA) – ROMA, 26 MAR – Predire la condotta futura di un detenuto spiandone il cervello con la risonanza magnetica: e’ la prospettiva che, per quanto fantascientifica, si profila all’orizzonte. Uno studio pubblicato sulla rivista PNAS mostra infatti che la risonanza puo’ predire con una certa accuratezza quali criminali reitereranno il reato una volta rilasciati.

Lo studio, su 96 detenuti prossimi al rilascio, e’ stato condotto da Kent Kiehl, neuroscienziato presso l’istituto no-profit Mind Research Network ad Albuquerque, (Nuovo Messico – Usa).

E’ emerso che leggendo i risultati della risonanza e’ possibile prevedere se, una volta rilasciato, il detenuto trasgredira’ nuovamente la legge oppure no.

Gli esperti hanno registrato con la risonanza l’attivita’ neurale dei detenuti in particolare in un’area del cervello chiave per prendere decisioni e reprimere i gesti impulsivi, la corteccia cingolata anteriore (sulla fronte). E hanno esaminato l’attivita’ di questo circuito neurale mentre i detenuti eseguivano dei semplici compiti decisionali e reprimevano reazioni impulsive. Il comportamento dei detenuti e’ stati poi seguito per i quattro anni successivi al rilascio. I ricercatori hanno trovato delle nette differenze nei profili di attivazione della corteccia che corrispondono alla condotta che i detenuti tengono una volta liberi. Quelli che commetteranno un nuovo reato presentano una attivita’ ridotta nella corteccia cingolata.

Anche se la tecnica e’ lungi dal divenire applicabile in ambito giudiziario, non puo’ non richiamare alla mente la trama del film Minority Report dove i crimini erano puniti ancora prima di essere commessi perche’ predetti da un gruppo di sensitivi.


Gli USA hanno consegnato alle autorità afgane l’ultimo carcere

images (18)Il carcere di Bagram, l’unico rimasto sotto controllo dei militari americani, è passato alle autorità dell’Afghanistan. Bagram è stato più di una volta in mezzo agli scandali. I dipendenti del carcere sono stati accusati del trattamento disumano dei detenuti.

Il controllo sul carcere a Bagram sarebbe dovuto passare alle autorità afgane già a settembre dell’anno scorso, tuttavia la conclusione dell’accordo è stata rimandata perché non è stata decisa la sorte di 50 detenuti, considerati molto pericolosi. Secondo l’intesa conclusa, rimarranno in carcere.

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Quattro palestinesi del’48 entrano nel loro 28° anno consecutivo di carcere

n762789514_986290_1173Ramallah-InfoPal. Quattro prigionieri palestinesi dai territori del’48 sono entrati nel loro ventottesimo anno consecutivo di detenzione nelle carceri israeliane.

In un comunicato stampa diramato lunedì 25 marzo, il Centro studi Asra Filastin (Prigionieri della Palestina) ha reso noto che Rushdi e Ibrahim Nayef Abu Mukh, 53 e 52 anni, Walid Nimr Daqqa, 53 anni e Ibrahim Abdel Razek Baiadsa, 52 anni, hanno concluso il loro 27° anno di detenzione nelle carceri israeliane. I quattro detenuti in questione furono arrestati nel marzo del 1986, e condannati all’ergastolo con l’accusa di appartenere al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), e per il rapimento di un soldato israeliano, ucciso durante l’operazione.

Nel comunicato, il centro ha sottolineato che le autorità di occupazione hanno rifiutato di includere i quattro detenuti nell’accordo di scambio di prigionieri, concluso con il movimento di resistenza islamico, Hamas, nel 2011, in quanto possessori di carte d’identità blu (carta d’identità israeliana concessa ai palestinesi del’48).

Nello stesso contesto, i due detenuti di Gerusalemme, Raja al-Haddad, 35 anni, e Ayman al-Sharbati 46, sono entrati nel loro 16° anno consecutivo di detenzione nelle prigioni dell’occupazione.

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Ogni giorno 300 immigrati detenuti in isolamento nelle carceri americane

Convict_-_Punishment_Cell_1873WASHINGTON, STATI UNITI – Ogni giorno almeno 300 immigrati in attesa di rispondere ad accuse civili sono tenuti in isolamento nelle 50 maggiori carceri americane, come i peggiori criminali. E quasi sempre senza che si sappia il perche’.

La denuncia e’ del New York Times, e si basa sulle cifre fornite dallo stesso governo federale, che mostrano le difficolta’ incontrate dall’Immigration and Customs Enforcement, l’autorita’ chiamata a vigilare sui penitenziari.

La storia e’ quella di chiari abusi. Quasi la meta’ di questi immigrati tenuti reclusi senza nessun contatto col mondo esterno – scrive il Nyt – resta in isolamento per 15 o piu’ giorni, mentre il 35% per piu’ di 75 giorni. A lanciare l’allarme sono quindi gli esperti di psichiatria, secondo cui queste persone vanno incontro a gravi danni a livello mentale. Due terzi dei casi – scrive ancora il Nyt – riguarda immigrati coinvolti in infrazioni disciplinari, come violazione delle regole carcerarie, insubordinazione alle guardie carcerarie o coinvolgimento in risse.

Ma – si sottolinea – gli immigrati vengono ”regolarmente” messi in isolamento perche’ sono visti come una minaccia per gli altri detenuti o per il personale. In molti casi, poi, l’isolamento si impone come misura protettiva, quando il detenuto immigrato e’ gay o soffre di disturbi mentali. Fatto sta che questi dati riaccendono le polemiche sugli Stati Uniti, spesso nel mirino – in patria e all’estero – delle associazioni per la difesa dei diritti umani per l’eccessivo ricorso alla misura dell’isolamento nelle carceri, piu’ di ogni altro Paese democratico nel mondo, sottolinea il Nyt.

E se e’ vero che l’isolamento riguarda solo l’1% degli immigrati in carcere, questa pratica e’ ugualmente allarmante perche’ la stragrande maggioranza delle persone coinvolte è detenuta per rispondere di reati civili, e non perche’ accusati di reati penali. E’ il caso dell’immigrato presunto irregolare che viene fermato e recluso in attesa di comparire davanti al giudice amministrativo. ”Una situazione inaccettabile” per le associazioni per la difesa dei diritti degli immigrati, che da anni denunciano gli abusi nelle carceri e il ricorso eccessivo all’isolamento che dovrebbe essere solo una misura detentiva estrema.

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Sondrio – Sovraffollato e fatiscente, il carcere sta scoppiando

prison_1565169cSondrio, 25 marzo 2013 — Un carcere piccolo, che scoppia: con 47 reclusi, stipati nei 27 postiregolamentari, la Casa Circondariale di Sondrio presenta un tasso di affollamento elevatissimo, attorno al 174%. Sono questi i dati salienti e decisamente preoccupanti raccolti da Francesco Racchetti, Garante dei diritti delle persone private della libertà, che sono stati illustrati nel corso dell’ultimo consiglio comunale del capoluogo valtellinese.

detenuti sono in prevalenza giovani: più della metà sono sotto i 40 anni e solo 5 superano i 60. Gli stranieri sono 14, pari al 30% circa. In queste condizioni l’aspetto rieducativo dovrebbe essere preminente rispetto a quello legato alla custodia. Invece ciò non accade perché «la Casa Circondariale di Sondrio – sottolinea il Garante – è da lunghissimo tempo priva di un Direttore residente, essendo affidata in reggenza al Direttore di Varese che ricopre anche la direzione del carcere di Busto Arsizio. Tale situazione non è priva di conseguenze. La funzione del Direttore svolge un fondamentale ruolo di baricentro e mediazione tra Polizia Penitenziaria, area educativa, detenuti, familiari, operatori sanitari, volontari e tutte le altre persone che, a vario titolo, svolgono la loro attività in carcere».

Queste considerazioni valgono soprattutto per la tipologia dei detenuti in larga percentuale tossicodipendenti ed alcool-dipendenti che, già al momento della carcerazione, appartengono ad aree di forte disagio. Il personale è costituito da 25 unità compreso il Comandante, «un numero assolutamente insufficiente – conclude Racchetti – a garantire la sicurezza e le condizioni di legalità all’interno dell’Istituto, partecipare alle attività di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti, effettuare traduzioni e piantonamenti. Gli spazi sono molto ridotti: l’edificio risale al 1910».

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Preservativi nelle carceri: un diritto umano

detail-Hiv giornataI tassi di Hiv nelle carceri italiane sono venti volte più alti che nella comunità al di fuori del carcere e i tassi di epatite C sono ancora più elevati: sin dai primi tempi dell’epidemia di Hiv, è stata riconosciuta l’importanza di introdurre anche in carcere un insieme di interventi sull’Hiv e sull’epatite C, fra cui la fornitura gratuita di preservativi, rispettando le linee guida emanate dall’OMS, le quali sottolineano che “tutti i detenuti hanno il diritto di ricevere le cure per la salute, incluse misure preventive equivalenti a quelle disponibili nella comunità territoriale, senza discriminazione”.

In Italia ben poco si è fatto in questo senso, anche se la situazione “disumana e degradante” della vita in carcere è ormai un fatto noto ed è stata anche citata nel discorso di insediamento della neo eletta Presidente della Camera, Laura Boldrini. Certo, l’introduzione dei preservativi in carcere non rappresenterebbe una rivoluzione copernicana del sistema penitenziario, ma sicuramente sarebbe un segnale importante, per il rispetto della dignità della persona e del diritto umano a proteggersi dalle malattie.

Questo problema tuttavia non è solo italiano, ma è diffuso in molti Paesi del mondo, anche se gli studi condotti sull’argomento dimostrano che ciò che previene dal fornire i preservativi ai carcerati, sono soprattutto dei pregiudizi.

Sul British Medical Journal è stato pubblicato, all’inizio dell’anno, un nuovo studio australiano sull’argomento, condotto dal Professor Tony Butler, della University of New South Wales. Lo studioso da anni si dedica a ricerche sulla vita sessuale in carcere e già in precedenti studi aveva dimostrato che l’introduzione dei preservativi in prigione non provoca, nei fatti, grandi sconvolgimenti negativi.

I contrari all’introduzione dei preservativi in carcere (ve ne sono anche fra i detenuti) temono infatti che il preservativo possa: (a) incoraggiare i detenuti ad avere rapporti sessuali, (b) aumentare gli stupri in carcere, fornendo ai molestatori sessuali una protezione contro le infezioni o la possibilità di non lasciare sulla vittima tracce di DNA, (c) essere usato come arma contro il personale di custodia, (d) dare la sensazione che la maggior parte dei prigionieri siano omosessuali, e (e) portare a ritenere che le prigioni siano luoghi dove promiscuità e omosessualità sono particolarmente diffuse.

Tony Butler ha messo a confronto la vita sessuale di alcuni detenuti, residenti in due diversi carceri australiani: quello del Nuovo Galles del Sud (NSW), nel quale dal 1996 vengono distribuiti 30.000 preservativi al mese, gratuitamente (in seguito ad una class action condotta dagli stessi carcerati) e un altro carcere, quello di Queensland, dove invece non c’è ancora questa disposizione.

Per comprendere l’effetto, nella vita sessuale in carcere, dei preservativi distribuiti gratuitamente, sono stati intervistati complessivamente 2.018 detenuti attraverso il servizio offerto da una società di ricerche di mercato, la quale ha condotto le sue interviste telefoniche via Internet, della durata di 30 minuti. I detenuti, durante l’intervista, erano fisicamente nella sala per le visite, o in una stanza, nella clinica del carcere. A tutti i detenuti è stato garantito che le loro dichiarazioni non sarebbero state in alcun modo registrate. Ogni partecipante ha ricevuto 10 dollari australiani a titolo di risarcimento, come lavoro retribuito in carcere.

La prima cosa da mettere in rilievo, nei risultati ottenuti, è che il preservativo non aumenta l’attività sessuale in carcere, anzi il contrario (tasso di attività sessuale nella prigione di Queensland 8,8%, rispetto a quello della prigione del NSW, che è 5,8%). La stragrande maggioranza del’attività sessuale riportata in entrambi i carceri è stata consensuale e consistente principalmente in pratiche manuali, o nel sesso orale. La percentuale di detenuti che segnalano sesso anale in carcere è bassa, sia nel NSW (3,3%) che nel Queensland (3,6%), ma nel carcere del NSW il 56,8% contro il 3,1% del carcere di Queensland ha riferito che avrebbe usato un preservativo se avesse fatto sesso anale in carcere. In entrambi i penitenziari, la coercizione sessuale è apparsa inoltre abbastanza rara.

Altro dato interessante da capire è quali siano gli “usi impropri” che vengono fatti del preservativo nel carcere del NSW. Ai prigionieri infatti viene fornito il preservativo, insieme ad un lubrificante e ad un foglio per le istruzioni per l’uso, tutto all’interno di un sacchettino di plastica. Ebbene, gli “usi impropri” hanno riguardato sia il preservativo (utilizzato come contenitore per il tabacco o come laccio per capelli), sia il lubrificante (usato come schiuma da barba, come gel per capelli o anche, quando era aromatizzato, come crema da spalmare sul pane, o come aroma per il latte frullato). Usi sicuramente impropri, ma che non comportano rischi gravi per la salute.

I limiti di questo studio sono diversi, come ammettono gli stessi ricercatori: a partire dal fatto che i dati raccolti sono auto-riferiti e quindi possono essere non del tutto veritieri, soprattutto riguardo all’argomento del sesso consensuale o coercitivo. Non sono inoltre state prese in esame altre variabili, come la numerosità dei detenuti nelle celle, o i livelli di controllo carcerario. Futuri studi miglioreranno dunque queste ricerche, ma per il momento esse attestano con chiarezza che la fornitura di preservativi ai carcerati non è assolutamente associata ad un aumento, consensuale o non consensuale, dell’attività sessuale in carcere, o anche a minacce di violenza sessuale. Non sorprendentemente inoltre, i preservativi hanno maggiori possibilità di essere utilizzati per il sesso anale, se essi sono resi disponibili. La probabilità di sesso anale non aumenta comunque a causa di questa disponibilità.

Ormai nella società diversi sono gli Enti statali e le Associazioni che raccomandano l’uso del preservativo per proteggersi dalle malattie sessualmente trasmesse ma, stranamente, sembra che questo consiglio di sana profilassi valga per tutti, tranne che per la popolazione carceraria. Sarebbe dunque necessario e urgente procedere, come sostengono ad esempio l’OMS, le Nazioni Unite, l’American Public Health Association e l’Associazione della Salute Pubblica australiana, ad introdurre al più presto il preservativo gratuito in carcere: perché la società ha il dovere di cura nei confronti dei suoi carcerati e perché essi hanno il diritto di difendersi dalle malattie.

In Italia, la Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids) da tempo sostiene questa battaglia civile e, prima delle elezioni, ha fatto pervenire agli aspiranti premier Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani, Oscar Giannino, Beppe Grillo, Antonio Ingroia e Mario Monti, fra le altre, questa specifica domanda:

Nelle carceri italiane la presenza di una percentuale rilevante di persone detenute per reati legati alla droga e il sovraffollamento pongono questioni di tutela della salute. Nessun Paese al mondo riesce a evitare consumo di droga e attività sessuale consenziente o non consenziente nelle proprie carceri. Perciò diversi Paesi europei e non solo hanno politiche di prevenzione dell’Hiv e di riduzione del danno anche in carcere, con preservativi e siringhe sterili, così come chiesto dalla Commissione Europea, dall’OMS e dalle agenzie ONU che si occupano di Aids e droga. Il vostro governo sarebbe favorevole all’introduzione di tali programmi nei nostri Istituti di pena?

Nessuno ha risposto.

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La libertà non cade dal cielo

diffondiamo da Rete evasioni

15-ottobre-225Il 15 Ottobre 2011, come a Genova nel 2001, eravamo 300.000 a gridare per le strade di Roma la nostra rabbia contro le politiche di austerità, un grido che voleva risvegliare le coscienze di una Italia ancora assopita di fronte alla crisi economica provocata dalle grandi lobby del capitalismo globale e fatta pagare in maniera pesantissima,per intero, alle classi subalterne. Questo mentre in tutta Europa e nei Paesi arabi si sviluppavano mobilitazioni e rivoluzioni.

Una manifestazione che non poteva essere incastonata nelle logiche del corteo – parata  più affini alla rappresentanza politica sindacale. Le tante iniziative prodotte sin dalla partenza del corteo, infatti, hanno voluto segnalare simboli e responsabili della crisi, indicando nella riappropriazione diretta l’unica possibilità di porre le nostre vite “contro e  fuori” dalle politiche di saccheggio ed austerità che stiamo subendo.

Come tutti e tutte sappiamo, non si è fatto attendere l’intervento dei tutori dell’ordine, che hanno tentato di stroncare sul nascere la combattività di una manifestazione e di un possibile movimento attraverso una gestione di piazza letteralmente criminale, con caroselli di blindati lanciati a tutta velocità, utilizzo di lacrimogeni e idranti, cariche che hanno tentato di sgomberare piazza San Giovanni.
La resistenza della piazza, però,  è stata forte, partecipata e determinata, nutrita da una rabbia covata nella quotidianità per le condizioni di ingiustizia, sfruttamento, saccheggio dei territori che ci vengono consegnate ed imposte. Una resistenza ed una rabbia che rivendichiamo non solo come giuste, ma anche come necessarie  allo sviluppo di un processo di trasformazione radicale dell’esistente che ci porti a liberare le nostre vite dallo sfruttamento e dalle gabbie del capitalismo.
In quella giornata e nei mesi successivi si sono susseguiti arresti e processi, con condanne pesantissime. Oggi è arrivata a chiusura l’indagine che coinvolge 25 compagne e compagni accusati del reato di devastazione e saccheggio. Un nuovo processo sta così per cominciare. Si, perché ancora una volta proprio come a Genova 2001 lo Stato e i suoi magistrati hanno “tirato fuori dal cilindro” questo reato per affibbiare condanne pesantissime,un monito a chiunque pensi e provi a mettere il proprio corpo e le propria esistenza in gioco, partecipando a un processo di conflitto e di cambiamento. Una drammatica beffa visto che quel giorno, come altre mille e mille volte eravamo scesi in piazza proprio contro chi devasta e saccheggia quotidianamente le nostre vite!
Al di là della narrazione e delle valutazioni su quella giornata e delle sue conseguenze legali, sentiamo con forza la necessità di aprire, dentro ed oltre i recinti delle realtà di movimento, un confronto ed una discussione che non eluda il tema della repressione, ma che ci porti al contrario collettivamente a farcene carico e ad affrontarlo. L’utilizzo della fattispecie di reato di“devastazione e saccheggio” viene sempre più di frequente utilizzata per colpire ogni forma di espressione di rabbia e conflittualità. Le lotte sociali sono ridotte così a mero problema di ordine pubblico, additate come fatto delinquenziale.
Su questa base, vorremmo iniziare un ragionamento concreto, partendo da un confronto tra chi agisce le lotte sociali qui a Roma, città grande, difficile, complessa, ricca di storia, di esperienze e pratiche concrete dell’alternativa allo stato di cose presenti. Un confronto che sia in grado di superare i disperati ed isolati urli contro la repressione, che abbia la capacità di costruire un filo rosso che a partire della rivendicazione di una “libertà di movimento e di conflitto” riesca, quindi, a proiettarsi ben oltre la miseria del presente.
E’ in atto, infatti, un ampio processo di criminalizzazione sociale e di controllo sociale preventivo che colpisce chiunque non si piega alle leggi del mercato, marcando in forme diverse la propria alterità e/o incompatibilità. Pensiamo, ad esempio, a quei particolari laboratori della repressione che si sperimentano negli stadi, sui migranti, sul precariato delle periferie.
Non solo, va posta la giusta attenzione al tentativo di interdizione delle lotte sociali attraverso l’uso di dispositivi di controllo e repressione, il bavaglio mediatico imposto alle opposizioni, il controllo poliziesco sugli attivisti, l’uso della legislazione speciale antiterrorismo. Tasselli che, se considerati nel contesto politico e sociale nel quale si ascrivono,  contribuiscono a delineare uno scenario  a dir poco preoccupante ed allarmante, una vera e propria svolta autoritaria e liberticida degli apparati dello stato.
La proposta che lanciamo è quella di confrontarsi e  ragionare insieme attorno a questi temi per costruire una campagna politica comune: perché se è vero che la migliore risposta alla repressione la si dà continuando a portare avanti e a sviluppare i propri percorsi di lotta giorno dopo giorno; è altrettanto vero che, per dare spazio allo sviluppo dei conflitti stessi, è necessario denunciare con forza che problemi sociali come la casa, il lavoro, la scuola, non possano essere trattati come questioni di ordine pubblico. Che si criminalizzano studenti, lavoratori, sfrattati, disoccupati che legittimamente protestano contro i tagli a scuola, sanità, la riforma pensionistica, lo smantellamento dei residui di welfare, la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro, le privatizzazioni, i licenziamenti, la devastazione dei territori in nome del profitto.
Questo, come abbiamo detto, in una fase in cui le condizioni di vita di larghe fasce di popolazione sono letteralmente in caduta libera,rappresenta un segnale chiaro e preoccupante rispetto al presente ed al futuro che la governance capitalistica vorrebbe cucirci addosso. Appare necessario e urgente, di contro, trasformare l’ingovernabilità e la rabbia crescente, indicare la direzione di marcia collettiva verso un’altra idea di società, verso una nuova utopia possibile da immaginare e conquistare insieme.
Lanciamo già da ora un presidio per il 4 aprile prossimo, di fronte al Tribunale di Roma, per sostenere i compagni e compagni che vedranno iniziare il processo contro di loro e proponiamo un’assemblea pubblica per il 12 aprile prossimo che, a partire dalla ineludibile solidarietà e complicità con gli/le compagni/e sotto processo, abbia la volontà di iniziare a tessere un ragionamento collettivo ed un percorso comune.
Inoltre in solidarietà con le/i compagne/i di Teramo ed in particolar modo con Davide Rosci, attualmente detenuto nel carcere di Viterbo, invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio sotto al Tribunale di Roma l’11 aprile, giorno in cui si esprimerà il Tribunale del riesame.
Libere Tutte – Liberi Tutti
 
 
Compagni e Compagne di Roma

Papua Nuova Guinea: Evadono in 49

Nuova_Guinea_Asmat(AGI) Sydney – Una caccia all’uomo e’ in corso nella Papua Nuova Guinea, dove e’ evaso Stephen Tari, capo di una setta, accusato di stupro. L’uomo, che per il suo tenebroso magnetismo si e’ conquistato il nomignolo di “Gesu’ Nero”, e’ fuggito con latri 49 prigionieri dal carcere di Madang. Tari, ex pastore luterano, fu condannato a oltre dieci anni di carcere nel 2011, al termine di un processo nel quale era stata indagata la sua responsabilita’ delle violenze su ragazze appartenenti a una setta cristiana. Al tempo l’uomo poteva contare su un nugolo di uomini armati che gli facevano e su migliaia di sostenitori nei villaggi. Il suo culto era fondato anche sul cannibalismo e sui sacrifici di sangue ma la polizia riusci’ a incriminarlo solo per gli stupri. .

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Privilegi ai detenuti, indagine al carcere di Iglesias

12383_7774_church_ImageIGLESIAS. Tra i detenuti del carcere di Iglesias c’era chi godeva di libertà non dovute e chi, invece, era considerato un ospite di serie B. Questo lo spaccato che sembra emergere dall’inchiesta della procura di Cagliari in cui sono indagati il direttore dell’istituto di pena, Marco Porcu (difeso dall’avvocato Massimiliano Ravenna) e l’allora capo della polizia penitenziaria Gesuela Pullara (difesa dall’avvocato Guido Manca Bitti) poi trasferita in Sicilia.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tra i detenuti che godevano di qualche privilegio c’era Mario Sanna, ex agente di polizia penitenziaria accusato di concorso nell’omicidio di Marco Erittu detenuto assassinato nel 2007 nel carcere di San Sebastiano di Sassari, un delitto mascherato da suicidio e scoperto solo dopo la confessione di Giuseppe Bigella oggi super teste d’accusa. A Sanna era permesso di aggirarsi in zone che dovrebbero essere accessibili solo al personale dell’istituto. Tra i privilegiati, c’era anche Massimo Sebastiano Messina che non venne denunciato nonostante – sempre stando alle accuse – avesse pesantemente minacciato alcune educatrici del carcere. Per contro, c’era chi riceveva un trattamento meno favorevole come il detenuto straniero preso a pugni e trascinato dalla sua cella in un’altra, un episodio per cui è indagato un agente di polizia penitenziaria dell’istituto penitenziario.

Il direttore dell’istituto penitenziario (che regge anche quelli di Lanusei e Isili) è indagato per abuso d’ufficio: nel settembre 2012 avrebbe disposto una perquisizione alla ricerca di droga, nell’ufficio ragioneria della prigione senza informare gli interessati, nè redigere il verbale e senza informare le autorità competenti. Porcu sentito ai primi di marzo dagli inquirenti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per lo stesso fatto è indagata anche Pullara, che avrebbe eseguito la perquisizione. Alla comandante delle guardie vengono contestati anche i reati di omessa denuncia e rifiuto d’atti d’ufficio per non aver segnalato alle autorità competenti nè preso provvedimenti contro le violazioni compiute da alcuni detenuti, uno dei quali avrebbe minacciato il personale del carcere.

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Grecia, assalto al carcere di Trikala: 11 evasi, due guardie ferite

the_great_escape_60271-1280x720Trikala (Grecia), 23 mar. (LaPresse/AP) – Almeno undici detenuti sono fuggiti da una prigione nella Grecia centrale dopo che un gruppo di uomini armati hanno attaccato il carcere con granate e armi automatiche, dando il via ad un braccio di ferro che è durato tutta la notte tra polizia e detenuti.

Un alto funzionario di polizia ha riferito oggi alla Associated Press che si è persa traccia di 11 detenuti dopo la sparatoria e la conseguente situazione di stallo che si è conclusa all’alba, quando le forze speciali di polizia hanno fatto irruzione nel carcere. Il funzionario ha parlato in condizione di anonimato perché si è ancora in attesa di un annuncio ufficiale.

Il blitz è avvenuto vicino alla città di Trikala, nella Grecia centrale, a 320 chilometri a nord-ovest di Atene. Almeno sei uomini armati hanno attaccato il carcere dopo aver guidato fino al sito su di un furgone e un pick-up, secondo i funzionari. Durante il pesante scambio a fuoco è durato più di mezzora e ha trasformato la zona in un campo di battaglia, ha reso noto il ministero di Giustizia greco, due guardie sono rimaste ferite, di cui una gravemente all’addome. Almeno cinque le granate esplose, mentre altre due sono rimaste sul campo mentre si attendono glio artificieri dell’esercito per farle brillare. È stato come se fosse in corso una guerra, c’erano così tanti colpi” ha raccontato un consigliere comunale di Trikala, Costas Tassios, che abita nel centro abitato di Krinitsa vicino alla prigione. Un proiettile vagante ha danneggiato la verina di una caffetteria ed è ora oggetto di investigazione.

I prigionieri fuggiti hanno usato corde e lenzuola legate insieme per scendere da una torre di guardia che si trovava sotto attaccato. Dovevano poi passare oltre due recinzioni perimetrali, sormontate da filo spinato, prima di poter scappare. Sono stati recuperati utensili per tagliare il filo. La polizia ha istituito posti di blocco nei pressi del carcere e ha perquisito case vuote e fabbricati agricoli, impiegando anche due elicotteri nella caccia all’uomo. Il mese scorso, le guardie del carcere di Trikala hanno sventato un tentativo di evasione di quattro detenuti che hanno tentato di fuggire in elicottero.


66mila detenuti in carceri italiane, da inizio anno 221 tentati suicidi e 6 evasioni

Jail (2)Dato del Dap aggiornato al 18 marzo 2013. Oltre 12mila in attesa di primo giudizio, mentre sono 39.653 i condannati in via definitiva. La capienza regolamentare è di quasi 46 mila posti.

Sono 65.995 i detenuti in Italia al 18 marzo 2013, di cui ben il 18,7 per cento (oltre 12 mila) in attesa di primo giudizio, su una capienza regolamentare delle strutture detentive di quasi 46 mila posti. Questo l’ultimo dato aggiornato fornito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria durante la conferenza stampa in corso presso il Museo criminologico a Roma di presentazione del “Progetto circuiti regionali”. Secondo i dati del Dap, i condannati in via definitiva sono il 60 per cento, cioè 39.653. Lombardia, Campania, Lazio e Sicilia le regioni col maggior numero di detenuti: 9.233 per la regione Lombardia, 8.412 in Campania, 7.201 nel Lazio e 7.080 in Sicilia.

Nel 2013 già 221 tentati suicidi, 6 evasioni

Dall’inizio del 2013 sono 221 i tentati suicidi registrati nei penitenziari italiani. A fornire il dato è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che rileva come siano avvenute nel periodo compreso tra l’1 gennaio e il 19 marzo, 6 evasioni, 3 dal carcere di Varese, 2 da quello di Parma e 1 da quello di Modica. “C’è un numero enorme di tentati suicidi – ha rilevato il vice capo vicario del Dap Simonetta Mattone, durante una conferenza stampa – ma grazie al personale di polizia penitenziaria e alla sua preparazione, si riesce a sventarli. I suicidi sono una realtà drammatica, ma rispetto alla popolazione in carcere, sono un fenomeno estremamente contenuto”. Sulle evasioni dal carcere, Mattone ha aggiunto: “Si tratta di fatti gravi, ma non c’è nessuna emergenza. I casi italiani sono meno rispetto alla media europea”.

Redattore Sociale


Inaugurato il nuovo carcere di Heidering in Germania: carcere modello con ogni comfort

76Si inaugura oggi a Grossbeeren, una trentina di chilometri a sud di Berlino, la nuovissima prigione di Heidering, una struttura a cinque stelle in grado di ospitare 648 detenuti, con ampia libertà di movimento all’interno ed una modernissima cucina comune ogni 18 persone.

Diversi giornali tedeschi polemizzano mettendo in evidenza che il nuovo carcere ha palestre e strutture sportive migliori di quelle delle scuole e dei licei berlinesi. A differenza dell’aeroporto della capitale, i cui costi di costruzione sono esplosi e la cui inaugurazione è stata già rinviata tre volte, senza che ancora si sappia quando entrerà finalmente in servizio, Heidering è stata realizzata nei tempi previsti e con un costo di 118 milioni di euro, come era stato preventivato.

La struttura è dotata solo di celle singole, ognuna delle quali ha una superficie di oltre 10mq e dispone di un vano separato per il bagno, oltre al fatto che le finestre hanno un’altezza di un metro e mezzo e sono del tutto apribili. Ma il fiore all’occhiello della nuovissima prigione sono le strutture sportive, con tre campi di calcio, una pista per la corsa ed una palestra di 800 metri quadri. Nelle zone comuni di soggiorno, che possono accogliere fino a 18 detenuti, c’è anche una loggia con un balcone protetto da inferriate sul quale è possibile prendere aria, fumare e bere anche un caffè.

L’architetto che ha progettato il carcere, Josef Hohensinn, spiega che ogni loggia della struttura è “un simbolo, una piccolezza con cui si riesce ad ottenere un’alta qualità della vita”.

Josef Hohensinn è lo stesso architetto che ha progettato il il Centro della Giustizia con l’annesso carcere di Loeben in Austria.

Per il portavoce dei Verdi nel parlamento della città-Stato di Berlino, Dirk Behrendt, la nuova struttura è invece “la prigione più superflua della Germania”, anche perché nella capitale il numero di reclusi è in diminuzione rispetto alle previsioni.

AGI


Carceri: Dap, via a differenziazione circuito penitenziario

4.1.1(ASCA) – Roma, 21 mar – Contro i mali che affliggono le nostre carceri, al via nel nostro paese il piano che prevede un nuovo (e innovativo) circuito penitenziario con una maggiore territorialita’ e penitenziari piu’ socializzanti per quanti sono considerati a bassa e media pericolosita’.

Un nuovo sistema, ha spiegato oggi il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Tamburino che avra’ come filosofia quella della ”sorveglianza dinamica, un modo – ha detto – di intendere istituti maggiormente aperti, con una proposta a detenuti selezionati, per poter vivere un’esperienza carceraria dando prova di una maggiore responsabilita”’.

Scopo del trattamento – ha detto il capo del Dap – e’ quello di formare un cittadino che non delinqua piu’. E questo e’ possibile solo se gia’ in carcere si sollecita il piu’ possibile l’assunzione delle proprie responsabilita’.

”Occorre, insomma, differenziare i regimi carcerari creando spazi comuni e far vivere il minor tempo possibile nelle camere detentive”, ha spiegato Tamburino. Quello che si pensa, e’ stato spiegato, e’ la graduale trasformazione di alcuni istituti penitenziari con spazi comuni come la mensa, anche perche’, ha spiegato sempre Tamburino, ”l’esperienza ci dice che rendere meno ‘ingabbiata’ la vita dei detenuti porta risultati positivi”.


Ancona: piove nelle celle a Montacuto. Chiusa una sezione, detenuti trasferiti a Barcaglione

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Piove nelle celle del Carcere di a Montacuto ad Ancona. Chiusa una sezione del Carcere e trasferiti a Barcaglione i detenuti. Ora il Sappe si prepara alla protesta.

Torna nel mirino, dopo l’ennesima vicenda, il carcere di Montacuto di Ancona. Questa volta a far traboccare il vaso un banale episodio: piove anche nelle celle. Un esempio però di come la situazione di detenuti, come gli agenti di polizia penitenziaria, non sia ancora stata risolta.

Ed ora il sindacato di polizia penitenziaria del Sappe minaccia protesta davanti al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria delle Marche. Secondo il segretario, Aldo di Giacomo, sarebbero mancati interventi di manutenzione.

Il degrado é anche strutturale nel carcere anconetano ed ora una intera sezione dovrà essere chiusa e trasferiti a Barcaglione fino a un centinaio di detenuti. Un carcere, inoltre, quello di Barcaglione non adatto a ospitare reclusi ad alto indice di pericolosità.

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La pazzia dietro le sbarre: se il manicomio è un carcere

La legge 180 non ha eliminato la segregazione manicomiale. Togliendo credibilità alla psichiatria, Basaglia ha alimentato la concezione moralistico-punitiva della malattia mentale
occhimani2L’opinione pubblica non ha la percezione esatta dell’emergenza psichiatrica in atto in Italia che ha legami con una situazione più generale. Scrive Amanda Pustilnik, docente dell’University of Maryland: «Oggi i nostri ospedali psichiatrici più grandi sono le prigioni (.). Le prigioni di Stato spendono circa 5 miliardi di dollari per incarcerare detenuti affetti da patologie mentali che non sono violenti. Stando a quanto afferma il Dipartimento di Giustizia 1,3 milioni di individui con malattie mentali sono incarcerati nelle prigioni di stato e federali a fronte di soli 70.000 individui assistiti negli ospedali psichiatrici».
Si viene messi in carcere solo per essere afflitti da malattie mentali e per aver disturbato l’ordine pubblico e non perché si siano commessi reati penalmente rilevanti. Nel luglio del 2004 The House Comitte on Governement Reform ha pubblicato uno studio dal quale risulta che negli Stati Uniti vengono incarcerati bambini (anche di sette anni) con gravi patologie mentali senza che essi siano responsabili di condotte criminali.
Rispetto agli ideali illumunistici che hanno ispirato la Costituzione americana, la situazione appena descritta è paradossale per il venire meno della fondamentale distinzione operata dal medico Philippe Pinel durante la Rivoluzione francese: dalla fine del 700, i malati di mente furono separati dai criminali e liberati dalle catene. Nasceva così una nuova branca della medicina: la psichiatria.
A distanza di oltre due secoli notiamo una inversione di tendenza: si ritorna alla confusione fra criminalità e pazzia, al prevalere della logica della segregazione e della punizione. Il ritorno a orientamenti preilluministici è dovuto al significato sociale che ha assunto la malattia concepita come un cedimento colpevole, una mancanza di controllo e del senso di responsabilità personale. È la vecchia idea cristiana della pazzia come influenza demoniaca, come complicità con il male, la quale riappare in una forma secolarizzata.
Dalla mentalità religiosa deriva l’approccio punitivo alla malattia mentale, che ha prevalso negli Usa. La punizione dovrebbe rinforzare l’adesione all’etica su cui è fondata la società e garantire, tramite la severità della pena, il rispetto delle norme. Per la concezione moralistico-punitiva le persone con malattie mentali avrebbero difetti della volontà o del carattere che li rendono incapaci di controllarsi: imporre loro criteri restrittivi aiuterebbe ad ottenere comportamenti accettabili e ad aumentare il senso di responsabilità. Il giudice si sostituisce allo psichiatra poiché quest’ultimo considerando le malattie semplici “disturbi” od opinabili convenzioni diagnostiche, non è in grado di fornire criteri certi e non manipolabili di non imputabilità. Pertanto l’essere psichicamente malati anche gravemente non garantisce di solito negli Stati Uniti, l’impunità rispetto ai crimini violenti.
lalibertaterapeuticaIn Europa Anders Breivik è stato dichiarato sano di mente con criteri diagnostici del DSM IVin un processo nel quale si è affermata la tendenza alla punizione piuttosto che alla cura.
E in Italia? Il caso di Erika e Omar a Novi Ligure, quello della Franzoni a Cogne o dei coniugi pluriassassini di Erba hanno visto prevalere una logica punitiva estranea alla psichiatria. Perché ci troviamo di fronte a questa tendenza? La professoressa Amanda C. Pustilink non chiarisce il punto essenziale cioè il ruolo avuto dalle istituzioni psichiatriche nel permettere che il modello moralistico-punitivo della malattia mentale si affermasse: cento anni di freudismo hanno lasciato il segno. Proprio negli Usa, comunque, i media a partire dagli anni 90 hanno denunciato il fallimento della psicoanalisi mentre la psichiatria organicistica, subentrata al freudismo, si prepara a un clamoroso “disastro”, dovuto alla mancanza di scientificità, con l’edizione del nuovo DSM V nel maggio 2013.
I medici americani sono impegnati a distribuire psicofarmaci a una popolazione di soggetti “normali” sempre più vasta, utilizzando diagnosi che sembrano create ad hoc per favorire gli interessi delle case farmaceutiche. I casi più gravi sono sottoposti a terapie che possono amplificare la tendenza alla violenza, come l’iloperidone assunto da Adam Lanza (l’autore della strage nella scuola di Newport).
Le carceri funzionano da contenitori per ogni sorta di patologie mentali che, in un regime di inaudita violenza e perversione, subiscono un aggravamento. Gli effetti sono devastanti sui singoli e sulla società. In Italia, patria di Cesare Beccaria che voleva la pena commisurata razionalmente al delitto e che era contro la tortura, si sta verificando qualcosa di analogo a quanto avviene negli Usa. L’adesione acritica ai modelli diagnostici americani, l’abuso degli psicofarmaci, il ricorso alla Tec (Terapia elettroconvulsivante, l’elettroschok), toglie credibilità alla psichiatria e favorisce l’affermazione del modello moralistico-punitivo della malattia mentale. Dato che i medici appaiono incapaci di prevenire e curare le patologie psichiche la gestione di queste ultime è demandata, ai giudici e ai tribunali. La legge Orsini-Basaglia ha vuotato i manicomi di circa centomila degenti negli ultimi decenni ma, nello stesso lasso di tempo, si sono riempite in un modo inverosimile le carceri.

C’è un’emergenza psichiatrica nelle prigioni: secondo un’indagine epidemiologica dell’Agenzia regionale di sanità i detenuti con “disturbi psichiatrici” sono 1137, il 33.4 per cento nella sola Toscana. Il carcere funziona come contenitore di patologie psichiche, che non entrano nel circuito dei servizi psichiatrici. Con la chiusura dei manicomi non sempre sono state create strutture alternative pertanto molti soggetti sono rimasti senza controllo o rete di protezione e sono finiti nelle maglie della giustizia. Le prigioni sono gironi infernali. Prendono il sopravvento l’idea di rovina, il vuoto affettivo, l’umiliazione e l’ emarginazione: le varie patologie diventano manifeste e si aggravano. I quadri psicopatologici si strutturano in forme croniche, difficilmente curabili. L’identità sessuale, in un contesto di violenza e promiscuità forzata, subisce spesso una destrutturazione irreversibile. Il suicidio è un esito drammatico la cui frequenza, anche oltre venti volte la norma, è in diretta relazione al sovraffollamento e agli abusi.
Come far fronte a tale situazione? Il 31 marzo prossimo in virtù della legge Marino è prevista la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: l’ evento ha un forte significato simbolico anche se interessa 1400 persone, su un totale di 66.721 detenuti italiani. Gli Opg sono stati l’emblema della schizofrenia istituzionale: individui affetti da vizio totale o parziale di mente e quindi non imputabili sono stati sottoposti a un regime carcerario in condizioni di degrado inimmaginabili. Per non dire delle torture fisiche e psicologiche. È necessario che questa chiusura sia occasione non solo per proporre strutture di intervento alternative ma per un ripensamento della psichiatria nel suo insieme. Andrea Zampi, il pluriomicida-suicida di Perugia è stato sottoposto nel 2012 a Pisa a due cicli di otto TEC: un intervento “terapeutico” o una prassi senza alcuna base scientifica che ha aggravato le condizioni del paziente? Oggi gli psichiatri non hanno competenze adeguate ad affrontare la psicosi con il metodo della psicoterapia: lo psicofarmaco o la TEC sono inefficaci e alla lunga pericolosi.

La psichiatria deve allora fare un salto culturale e metodologico dotandosi di nuovi criteri scientifici e formativi. L’esperienza dell’Analisi collettiva che fa capo alla teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, costituisce un’esperienza pilota con quasi quarant’anni di cura, formazione medica e ricerca scientifica, unica nel suo genere, a cui hanno partecipato e partecipano migliaia di persone e centinaia di psichiatri, impegnati ad approfondire la conoscenza della realtà psichica oltre il riduzionismo organicista e il moralismo della ragione e della religione. Come scrive Adriana Pannitteri in La pazzia dimenticata (L’Asino d’oro, 2013): «La malattia mentale non si risolve semplicemente buttando giù i muri dei manicomi, ma in maniera più solida cercando di sapere cosa c’è dentro la psiche di chi è ammalato».

Articolo pubblicato dallo psichiatra Domenico Fargnoli sul suo sito domenicofargnoli.com

 


Nel carcere di Montorio solo quattro educatori per ottocento detenuti

DIRTY DANCING. Nel carcere provinciale di Cebu, nelle Filippine, ogni quarto sabato del mese succede qualcosa di straordinario: i cancelli si aprono, centinaia di persone vengono fatte entrare nel cortile, e qui passano il pomeriggio assistendo allo spettUn numero crescente di reclusi con sentenze definitive (pari al sessanta per cento degli 820 complessivi), e la quasi totale assenza dei magistrati di sorveglianza. Il tutto condito da un sovraffollamento che, con celle da due popolate in quattro e carenza di docce, non dà pace ai galeotti di Montorio. È questo il dato rilevato dal senatore radicale Marco Perduca che ieri, dopo la precedente visita del ferragosto del 2009, ha nuovamente messo piede nella struttura penitenziaria scaligera. Lasciando la poltrona a Roma, Perduca invita i futuri colleghi a «individuare le leggi che hanno creato questo stato di cose», considerando la necessità di un’amnistia e di varie riforme, ma partendo anche dall’utilizzo delle pene alternative già prevista dalla legge. «Due terzi dei reclusi a Verona sono stranieri, soprattutto di lingua araba», fa notare il senatore, sottolineando la necessità di specifici corsi di mediazione culturale per agenti ed educatori, a loro volta ridotti all’osso da prepensionamenti e mancanza di fondi. «Nella struttura ci sono solo quattro educatori per oltre ottocento detenuti, il che vanifica il loro ruolo di anello di congiunzione tra la direzione e i reclusi, alimentando frustrazioni, episodi di autolesionismo e tensioni». Ad agevolare un po’ le cose e distendere il clima, per fortuna, ci sono le occasioni di lavoro, rivolte a circa 120 persone. «La garante dei detenuti e la direzione stessa sono molto attente a potenziare l’offerta di lavoro interna, che aiuta anche a garantire un minimo di autosostentamento agli stranieri». Gli stessi che, per altro, sono i più penalizzati nella possibilità di beneficiare dei domiciliari negli ultimi diciotto mesi di pena da scontare. «Trovare un alloggio idoneo per gli stranieri non è sempre facile. Ma a Verona manca anche la presenza in carcere dei magistrati di sorveglianza che potrebbero agevolare tale passaggio per chi è recluso nella nuova sezione riservata ai cosiddetti dimittendi». Maggiore attenzione, per il senatore in uscita, andrebbe riservata anche al circuito dei giovani adulti, ossia quei cento ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni che necessitano di un trattamento diverso, a partire da una maggiore istruzione scolastica. «Gli studi si fermano alle medie, ma non bastano. Si parla di corsi di scuola alberghiera, che agevolerebbero la ricerca del lavoro in uscita dal carcere, ma per ora sono ancora inesistenti».

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Nasce la ‘Carta del carcere e della pena’, un codice deontologico per giornalisti

mita94ROMA  –  Un ex detenuto non è più un “delinquente”. E se l’ignoranza della legge non è ammessa per nessun cittadino, tantomeno lo è per chi di mestiere scrive sui giornali. Perché anche chi vive dietro le sbarre, o ne esce grazie a una misura alternativa, o ha terminato di espiare la sua pena merita un’informazione corretta. Facile a dirsi, non sempre a farsi. Per questo è nata la “Carta delle pene e del carcere”: codice deontologico dedicato a chi scrive di imputati, condannati, detenuti, delle loro famiglie e del pianeta carcere in genere. La Carta, sottoscritta dagli ordini dei giornalisti di Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia, manca ancora dell’approvazione da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine. Lo scopo, senza interferire con la libertà di cronaca, è quello di fissare qualche paletto alla cattiva informazione.

LA CARTA DI MILANO

La certezza della pena. Come la Carta di Treviso sui minori o la Carta di Roma sugli immigrati, la Carta delle pene (detta anche “Carta di Milano”) mira a fissare una sorta di decalogo per i giornalisti. Il nuovo codice deontologico, che verrà presentato il 15 marzo a Regina Coeli a Roma, nasce da un dibattito all’interno delle redazioni carcerarie sulla necessità di “informare gli informatori”: troppo spesso infatti chi scrive di carcere ignora cosa prevedono le leggi che regolano questa materia. La Carta afferma sostanzialmente che non è ammessa l’ignoranza della legge e sono leggi anche quelle che consentono a un detenuto di accedere a benefici e misure alternative. “La possibilità di riappropriarsi progressivamente della libertà non mette infatti in discussione la certezza della pena: semplicemente un giudice ha deciso un diverso modo di espiazione, con tutti i limiti previsti dalle misure alternative applicate”.

Il diritto all’oblio.
 La Carta invita anche a tenere presente che “il reinserimento sociale è un passaggio complesso che dovrebbe avvenire gradualmente, come previsto dalle leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi premio, la semi-libertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali. Le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena” La Carta fa poi riferimento al diritto all’oblio. Una volta scontata la pena, l’ex detenuto che cerca di ritrovare un posto nella società non può essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media che continuano a ricordare ai vicini di casa, al datore di lavoro, all’insegnante dei figli e ai loro compagni di scuola il suo passato.

Il diritto di cronaca. La Carta ammette “ovvie eccezioni per quei fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno. Si pensi ai crimini contro l’umanità, per i quali riconoscere ai loro responsabili un diritto all’oblio sarebbe addirittura diseducativo. O ad altri gravi fatti che si può dire abbiano modificato il corso degli eventi diventando Storia, come lo stragismo, l’attentato al Papa, il “caso Moro”, i fatti più eclatanti di “Tangentopoli”. È evidente poi che nessun problema di riservatezza si pone quando i soggetti potenzialmente tutelati dal diritto all’oblio forniscono il proprio consenso alla rievocazione del fatto”.

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