Nelle segrete del carcere c’è una miniera di scrittori

SCRITTOREMastica e scrivi. A Regina Coeli fa freddo, dicono che l’umidità arrivi da sotto, di lato, dal fiume. Lo senti anche se è mattina e nella sala, a destra, dopo un paio di corridoi, appena al di là del terzo cancello, ci sono solo posti in piedi. Racconti dal carcere. Sono tre anni che nei penitenziari italiani c’è qualcuno che scrive con l’idea di entrare in un’antologia. Sono gli scrittori della cella accanto, che buttano giù i loro racconti in fretta, perché anche qui il tempo passa in fretta, bisogna solo imparare a contarlo. E scrivere aiuta. Ogni tasto, ogni lettera, è un battito e ogni battito batte il tempo. Se stai qui è per raccontare questo premio letterario, con l’ora d’aria. Chi lo ha voluto è una giornalista, Antonella Boielli Ferrara. Il premio porta il nome di Goliarda Sapienza, con quella scrittura da corde di violino, per troppo tempo dimenticata, donna violata dall’elettroschok, finita in carcere nel 1980 per aver rubato alcuni oggetti a casa di amiche e morta ormai da 17 anni.
La cosa, il concorso, funziona così. Ogni detenuto ha una sorta di angelo custode, un tutor, uno scrittore o un giornalista, che in questo caso fa da editor. Lima, pulisce, consiglia, suggerisce. Le coppie vengono scelte con un sorteggio. Solo che il caso a volte è più saggio o burlone di quanto si pensi. Giancarlo De Cataldo ha appena pubblicato Cocaina, con Carofiglio e Carlotto, tre racconti, due giudici e uno scrittore che il carcere lo ha conosciuto. Chi gli capita come partner? Uno che di cocaina se ne intende. Molti di voi lo hanno visto al cinema, nel film dei Taviani, Cesare deve morire. Ecco, lui è Cesare. Ed è una vita che scappa dalla morte. Giovanni Arcuri, così si chiama Cesare, ha passato più di dieci anni a Rebibbia, ora lavora fuori e torna in carcere solo a dormire. È elegante, con la calvizie che lo fanno sembrare solo un po’ più vecchio. Scrive perché conosce il mondo. «La mia sorte è un nome: Margherita. Me ne andai in Venezuela è aprii un casinò su quell’isola per miliardari. Feci soldi, ne feci tanti e tanta gente ho conosciuto. Poi ho conosciuto anche quelli che producevano e vendevano droga. Coca. Mi hanno chiesto se li aiutavo a piazzarla. In pratica facevo il broker. Il finale lo sai. Mi hanno dato vent’anni». Parlate di Edward Bunker, lo scrittore americano di Educazione di una canaglia, quindici anni a San Quintino, e poi la scrittura come redenzione e il cinema come approdo. Era il Mister Blu delle Jene di Tarantino. Cesare sorride.
Derval è una ragazza. È una rivoluzionaria, anarco insurrezionalista, una che ha sparato. Derval è un nome d’arte. Non è qui. Dicono che sia ai domiciliari. Il suo tutor conosce i demoni che le battono dentro. È Erri De Luca e certe cose le ha sfiorate. Il resto poi è un gioco di dadi. Se ti va bene sei fortunato. Derval ha scelto di giocarsi gli anni di piombo quando ormai lo spettacolo era finito da tempo. I demoni del suo racconto diranno perché. Zapat viene da Forcella e a quindici anni già guadagnava bene. Lo hanno preso da minorenne e di storie brutte ne ha parecchie da raccontare. È lì, con il volto da ragazzino che si guarda intorno ancora curioso, e ogni tanto gli scappa da ridere. Il suo tutor è Federico Moccia e questa volta l’amore non ha nulla di romantico.
Leggi i racconti di un anno fa. Quelli di Siamo noi, siamo in tanti. Guardi le donne, le infermiere, le insegnanti del carcere, con gli occhi di un ergastolano o resti stregato da un semplice incipit che spiega perché una volta marchiato è difficile tornare indietro. «Le porte si riaprono, il carcere mi accoglie come una madre fa con i figli, fiera di averla avuta vinta di nuovo».

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