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Milano: pessimo cibo e scarsa igiene… la Garante “boccia” le carceri di San Vittore e Opera

le-dita_595 (1)Negativo il quadro che emerge dalle visite di Alessandra Naldi a San Vittore e Opera. Appuntamento per dibattere la questione il 16 marzo a “Fa la cosa giusta”, la fiera degli stili di vita sostenibili.
Nelle carceri di Milano non solo si sta stretti, ma si mangia malissimo e l’igiene è in condizioni pietose. È quanto emerge dalle visite effettuate da Alessandra Naldi, nuovo garante dei detenuti del Comune di Milano, negli istituti penitenziari di San Vittore e Opera. Il problema del sovraffollamento è quindi aggravato da altre carenze. “Ho ricevuto molte segnalazioni sullo stato dei materassi, sulla scarsa pulizia delle lenzuola – spiega la garante. Inoltre i detenuti si lamentano del fatto che non possono procurarsi disinfettanti per pulire le celle”.
Anche il cibo è pessimo: per legge dovrebbe esserci una cucina che sforna i pasti ogni 200 detenuti, ma in realtà ce ne sono molte di meno. “C’è sicuramente un problema di qualità delle forniture -aggiunge la Naldi-, e dobbiamo capire anche se ci sono problemi di organizzazione. Alcuni detenuti si arrangiano comprando generi di prima necessità dallo spaccio interno, ma i prezzi spesso sono più alti che all’esterno e non tutti possono permetterselo”.
La Garante parlerà delle condizioni delle carceri milanesi a “Fa la cosa giusta!”, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo e che si terrà a Fieramilanocity, dal 15 al 17 marzo. Il suo intervento è previsto per sabato 16 marzo, dalle ore 12 alle 13, insieme a Lamberto Bertolè (presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano) e di don Gino Rigoldi (cappellano del carcere minorile Beccaria) durante l’incontro “La paladina degli invisibili”.

Fonte: dire


Il lavoro dei detenuti? E’ un business

La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali

LEGANERD_041384Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354.  Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono ‘empirici’) ma è anche un’opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d’opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E’ un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano.

La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall’associazione Antigone, ‘Senza dignità’, il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: “Nel primo semestre 2012” recita il report “a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi”. Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario.

“Quello che si tende a dimenticare” spiegano dall’osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane “è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio”.

Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese.

La mercede viene calcolata da un’apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria.

“Questa è la teoria” continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti “la pratica è un po’ diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro”.

Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all’interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministraizone Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012.

Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante.

Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa.

Un silenzio difficile da scalfire. “Solo da poco siamo riusciti a penetrare l’ambiente del carcere” conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano “Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione”. Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un’industria metalmeccanica. “Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l’azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l’orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi”.

Fonte


Aggredito ispettore penitenziario al Don Bosco di Pisa

maurice-tillet-grrrrr“Momenti di alta tensione ieri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove un detenuto ha prima aggredito un ispettore di Polizia penitenziaria e poi ha fomentato una rivolta in sezione”. Lo denuncia il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) facendo notare come l’episodio rappresenti “l’ennesimo sintomo di criticita’ del penitenziario toscano, a tutt’oggi senza un Comandante di reparto della Polizia”.

“Un nostro ispettore e’ stato violentemente colpito da un detenuto ristretto per reati comuni che, con altri 4-5 reclusi aveva messo in atto una violenta protesta – spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe – Le condizioni operative del personale di Polizia penitenziaria di Pisa sono sempre piu’ precarie e l’inquietante regolarita’ con cui avvengono eventi critici al Don Bosco, specie contro gli agenti, impone una ferma presa di posizione dei vertici regionali e dipartimentali”.

Ma non e’ solo la situazione del carcere di Pisa a destare preoccupazione. “Cosi’ non si puo’ piu’ andare avanti – denuncia Capece – Le gravi carenze di organico della Polizia penitenziaria ed il pesante sovraffollamento carcerario condizionano irrimediabilmente i livelli di sicurezza dei servizi all’interno delle sezioni detentive e durante le traduzioni dei detenuti”. Da qui il grido d’allarme lanciato dal segretario del Sappe: “I nostri agenti devono quotidianamente far fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti. Servono tutele e garanzie”.

Adnkronos


Liguria, troppi detenuti, tensioni nelle carceri

HMP-Brixton_1780858cCarceri liguri sovraffollate: è ancora allarme,. A denunciarlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e lo fa dati alla mano: sono 1.850 persone le persone detenute, quasi il doppio dei posti letto disponibili (1000). E la tensione resta alta.«Nelle sovraffollate carceri liguri – osserva Martinelli – i detenuti si sono resi protagonisti di 92 atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) e 29 tentativi di suicidio». Secondo i dati resi noti dal Sappe hanno tentato il suicidio 9 persone a Marassi, 7 a Sanremo, 6 a La Spezia, 5 a Pontedecimo ed 1 a Chiavari e Imperia. Le morti per cause naturali in carcere sono state 5 (3 a Marassi, 1 a Sanremo ed Imperia). Non si sono registrati casi di suicidio. Sono state, infine, 93 le colluttazioni (7 a Imperia, 19 a Pontedecimo, 9 a Chiavari, 2 a La Spezia, 53 a Sanremo e 3 a Marassi) e 19 i ferimenti (12 a Marassi, 5 a Savona e 2 a Imperia). Sono state infine 5 le evasioni in Liguria da parte di altrettanti detenuti che non sono rientrati in carcere dopo aver fruito di permessi premio e semilibertà. Secondo il Sappe ad alimentare le tensioni nelle carceri è anche il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità).«In Liguria – spiega Martinelli – lavora solamente 1 detenuto su 5, e per di più per poche ore al giorno. Sul tema del lavoro in carcere c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti (circa il 20% dei ristretti). Peraltro, il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo. Stare invece 20 ore al giorno chiusi in cella favorisce una tensione detentiva fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni

(La Stampa.it)

 


Venezuela – I massacri demoliscono il falso discorso sull’umanizzazione delle carceri

diffondiamo da nexus co.

da Periodico El Libertario

Venezuela-Prison-RiotsTocorón, El Rodeo, La Planta, Tocuyito, Uribana. I massacri che si sono susseguiti nel corso degli ultimi due anni, con la creazione di un ministero specifico per le questioni carcerarie, non ha comportato alcun miglioramento in materia di diritti umani per i detenuti. La popolazione carceraria (più di 50.000 persone nel 2011) ha triplicato la capacità delle carceri (18.000 persone). Per Uribana, con una capacità di 750 persone, sono state ospitate ben 2498 persone al momento della strage. Due terzi dei detenuti del paese non sono stati condannati. La corruzione della polizia e le mafie militari, rendono il traffico di armi e droga in carcere un settore fiorente da cui ricavano svariati milioni di dollari.

La strage del carcere Uribana del 25 gennaio, è stata la più grave degli ultimi anni. Sono morti tra i 56 e i 63 detenuti, con un centinaio di feriti. E’ stata messa nuovamente in evidenza la farsa crudele dell’ “umanizzazione delle carceri”, slogan tanto decantato dal governo, ma così lontano dalla realtà, con un sovraffollamento e una violenza paurosa nelle prigioni venezuelane.

La povertà e l’esclusione sociale che caratterizzano il capitalismo venezuelano, continuano a spingere migliaia di giovani al crimine per sopravvivere e aspirare a una qualche forma di riconoscimento sociale. L’impunità assicura questo modus vivendi e questa cultura violenta che permea le comunità urbane sempre più popolari. Le vittime e gli autori di queste violenze sorse, sono per lo più giovani provenienti dalle classi inferiori. Poi, i carceri diventano un altro anello della catena di degrado sociale, chiudendo qualsiasi possibilità di reinserimento produttivo nella società.

Per tutti questi, i criminali dal colletto bianco che gestiscono questo sistema disumano, raramente percorrono una prigione. Ora più che mai è attuale quel che diceva Elio Gómez Grillo: “Il delinquente ricco è ricco, il deliquente povero è un deliquente”.
(tradotto da NexusCo)


Detenuti al Bassone preparavano l’evasione

Chicago_Jail_Escape_t618Como, 10 marzo 2013 – Lenzuola annodate e nascoste sotto una branda, all’interno di una cella dellasezione Alta Sicurezza della casa circondariale Bassone di Como. La scoperta è stata fatta nei giorni scorsi dagli agenti di polizia penitenziaria, che hanno immediatamente messo sotto sequestro quanto ritrovato.

Otto metri di lenzuola già annodate, occultate in un angolo, sotto una branda, al terzo piano della struttura penitenziaria. La cella è occupata da tre albanesi, che, evidentemente, stavano programmando da tempo l’evasione. Approfittando anche del fatto, particolarmente favorevole in questo momento, che l’impianto di illuminazione perimetrale del Bassone è fuori uso e che, quindi, l’intera struttura nelle ore notturne è avvolta nel buio. La finestra della cella si affaccia sulla parte laterale del carcere, sopra il campo da calcio interno. Una volta scesi in quella zona, i tre evasi avrebbero raggiunto l’esterno con estrema facilità. Arrivare a collezionare tre o quattro lenzuola è un’impresa lenta e non facile, perché tutto ciò che riguarda la dotazione dei detenuti è attentamente sorvegliato. L’unica possibilità di fare sparire e accantonare biancheria è approfittare delle scarcerazioni, quando un detenuto abbandona la cella e si crea l’unico momento in cui la sua dotazione può essere distratta.

Evidentemente, i tre erano riusciti ad approfittare di questa stratagemma in tre o quattro casi, forse già sufficienti a coprire l’altezza dalla loro finestra fino a terra. Difficile, ma non impossibile, è anche recuperare delle lime per tagliare le sbarre. Finora sono stati utilizzati dei sistemi di indebolimento delle sbarre molto classici: lime molto fini, chiamate “capelli d’angelo”, che possono arrivare al detenuto durante i colloqui, approfittando di momenti di distrazione dell’agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza o quando l’agente è concentrato su altri detenuti.

Infatti, un solo effettivo ha il compito di osservare più postazioni di colloquio e trovare un momento nel quale passarsi un oggetto non è impossibile. Con un pezzo di nastro adesivo, il sottile ma resistente filo metallico viene attaccato alla pelle sotto gli abiti, fino ad arrivare in cella. Da quel momento in avanti, incomincia un lentissimo lavoro di limatura delle sbarre, svolto in orari notturni quando la sorveglianza è meno pressante, che tuttavia devono rimanere al loro posto fino all’ultimo momento. Una fase che, nella cella in cui sono state trovate le tre lenzuola, pare che non fosse già iniziataNessun reato può essere contestato ai 3 albanesi occupanti la cella.

Fonte


Malawi. Emergenza carceri: 13 mila detenuti a rischio per mancanza di cibo

caimanoPadre Giorgio Gamba, un missionario monfortiano da anni in Malawi in cui si occupa in particolare della dignità dei detenuti, lancia l’allarme sulla condizione in cui versano le carceri del Paese, dove da giorni non arrivano viveri. Notizie sulla situazione – riportate dalla Misna – sono state diffuse anche sui giornali locali. I media hanno ricordato come la società nazionale che gestisce la distribuzione interna dei prodotti agricoli si fosse impegnata per la consegna nelle carceri di settemila sacchi di grano che non sono mai arrivati, mettendo a rischio la sopravvivenza di 13 mila reclusi. Secondo il direttore del sistema carcerario del Paese africano, Kennedy Nkhoma, se le scorte dovessero arrivare, sarebbero appena sufficienti a colmare un deficit legato, da una parte, a una riduzione delle consegne governative, e dall’altra al forte aumento dei prezzi che le derrate hanno registrato sui mercati. In un anno, infatti, le consegne sono diminuite del 57% e contemporaneamente, a causa dei cattivi raccolti, il prezzo di un sacco da 50 kg di grano è passato da 4500 a 10 mila kwacha, più o meno da 9 a 20 euro.


Carceri: nel 2012 tradotti 358mila detenuti, per un costo di 40 milioni

spreco-di-soldi-pubbliciRoma, 5 mar – «Nel 2012 la polizia penitenziaria ha effettuato 176.836 servizi di traduzione per un totale di 358.304 detenuti tradotti per un costo complessivo che si può prefigurare tra i 40/45 milioni di euro».

Lo dichiara Eugenio SARNO, Segretario Generale della UILPA Penitenziari, che illustra nel dettaglio l’enorme movimentazione di detenuti.

«I detenuti tradotti per motivi di giustizia sono stati 214.980, quelli tradotti per motivi sanitari 82.422, per assegnazione di sede 56.307, per permessi con scorta 4.595. Le traduzioni effettuate in ambito extraregionale sono state 22.309, in ambito regionale 57.024, in ambito locale 97.773. Le traduzioni con autoveicoli 169.308 , quelle per via aerea 4166, per via mare 444, pedonali 2919. I detenuti tradotti classificati comuni o a media sicurezza – prosegue SARNO – sono stati 272.839, quelli classificati ad Alta Sicurezza 76.644, i detenuti tradotti e sottoposti al 41-bis sono stati 1.293, i collaboratori di giustizia o loro familiari 3.647, gli internati 3.876».

Dalla comparazione dei dati emergono aspetti particolarmente inquietanti, sia in relazione alla sicurezza che in relazione ai costi di gestione.

«A regolamento vigente quei circa 360mila detenuti tradotti avrebbero dovuto prevedere un impiego di non meno di 800mila unità di polizia penitenziaria (almeno 2 unità per i comuni, almeno 3 per gli Alta Sicurezza, almeno 4 per i 41-bis) con una media di 2,2 unità per ogni detenuto tradotto. Invece le unità di polizia penitenziaria impiegate in servizi di scorta sono state 554.354 con una media di 1,5 unità di polizia penitenziaria per detenuto tradotto. Va segnalato, però, che tale media (già penalizzante) si riduce notevolmente in alcune realtà territoriali. In Campania (terra di camorra) la media risulta essere di 1,2 unità per detenuto; Nel Lazio 1,3 ; In Calabria (terra di ndrangheta) 1,4. Tra l’altro ci pare poter affermare – sottolinea il Segretario Generale della UILPA Penitenziari – che una adeguata politica di investimenti e di gestione potrebbe abbattere considerevolmente i costi, a partire da un piano carceri che consegua l’obiettivo di abbattere le traduzioni a lungo percorso. Per questo non possiamo non ribadire il nostro convincimento che occorrerebbe prevedere la costruzione di nuove carceri nelle macro-aree di Milano, Napoli, Roma e Palermo. Purtroppo del piano carceri abbiamo perso ogni traccia, anche perché inopinatamente assegnato ad un Commissario Straordinario esterno all’Amministrazione Penitenziaria. Considerato che circa il 60% delle traduzioni viene effettuato per motivi di giustizia sarebbe opportuno prevedere l’implementazione dei servizi di video-conferenza. Servizi, oggi, previsti solo per i 41-bis ( ma non sempre funzionali ed attivi)».

«Analogamente – sottolinea Eugenio SARNO – una qualche considerazione va svolta sull’esorbitante numero di detenuti tradotti per motivi sanitari. Se è vero, come è vero, che circa 71mila detenuti sono stati movimentati per visite ambulatoriali e che in moltissime realtà penitenziarie gli ambulatori (pur attrezzati) sono stati chiusi, forse sarebbe il caso di rivedere tali decisioni ed affermare un modello per cui è lo specialista a recarsi in carcere e non il detenuto ( con conseguente movimento di uomini e mezzi ) a recarsi in strutture esterne replicanti i laboratori già presenti in istituto. In questo quadro desolante ed allarmante è doveroso informare che circa l’85% degli automezzi della Polizia Penitenziaria destinati alle traduzioni è da considerarsi illegale perché privo dei collaudi di affidabilità o perché quei collaudi non sono stati superati. Nonostante ciò i baschi blu continuano ad assicurare, a loro rischio e pericolo, i servizi per garantire il diritto alla difesa ed alla salute dei detenuti. Per questo condividiamo il giudizio del Ministro Severino, che più volte ha definito eroi le donne e gli uomini della polizia penitenziaria. Ma agli eroi, prima o poi – chiosa polemicamente SARNO – devono anche essere assicurati mezzi, strumenti e diritti».


Arabia Saudita: domani 7 esecuzioni, condannato lancia ultimo appello a fermare la pena capitale

rszbambini-500x325Un appello a fermare la pena capitale a cui sarà sottoposto domani con altri sei sauditi. È quello lanciato da Nasser al-Qahtani, che è riuscito a parlare con Associated Press grazie a un telefono cellulare trafficato di nascosto nel carcere di Abha General, dove è detenuto. L’uomo è stato arrestato come membro di una rete di 23 persone che hanno partecipato a furti in gioiellerie tra il 2004 e il 2005. Al-Qahtani spiega di aver dovuto confessare sotto tortura e di non aver avuto accesso agli avvocati.
Il principale imputato, Sarhan al-Mashayeh, sarà crocifisso per tre giorni, mentre gli altri saranno uccisi dal plotone di esecuzione. “Non ho ucciso nessuno. Non avevo armi mentre ho compiuto il furto, ma la polizia mi ha torturato, mi ha picchiato e ha minacciato di attaccare mia madre per costringerla a dire che avevo delle armi con me, mentre io avevo solo 15 anni. Non merito la pena di morte”, dichiara il giovane. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto alle autorità saudite di fermare le esecuzioni.
Al-Qahtani, che oggi ha 24 anni, sostiene che gran parte della rete di cui faceva parte era composta da minorenni al momento dei furti. Il gruppo è stato arrestato nel 2006. Sette sono stati condannati a morte nel 2009. Sabato re Abdullah ha ratificato la pena e li ha inviati nel carcere di Abha, nella provincia sudoccidentale di Asir. Le autorità hanno fissato domani come giorno per le esecuzioni. Negli otto anni di detenzione, Al-Qahtani ha visto tre volte il giudice, ma quest’ultimo, spiega, non gli ha assegnato un avvocato e non ha ascoltato i suoi racconti, quando diceva di essere stato torturato. “Gli abbiamo mostrato i segni delle torture e dei pestaggi, ma non ci ha ascoltato”, ha continuato il giovane.

Fonte: la presse


Aggressioni ripetute in carcere ai Poliziotti penitenziari anche a Pavia

Continuano le aggressioni in carcere da parte dei detenuti nei confronti dei Poliziotti penitenziari. Carceri sovraffollate con carenza d’organico di Polizia Penitenziaria.

Witcher BestieAggressioni ad agenti, violenze ripetute: episodi, molto gravi, che sono soltanto uno specchio di una situazione che non è più sostenibile da parte del personale che opera presso il carcere di Vigevano. Di qui viene un allarme carceri che non risparmia nemmeno Pavia. Nei giorni scorsi, per due volte, nella prigione della Lomellina agenti della Polizia Penitenziaria sono stati oggetto di aggressioni che li hanno costretti ad andare all’ospedale. In un primo caso un detenuto ha dato in escandescenze nella propria camera e, una volta all’ora d’aria, si è scagliato contro chiunque incontrasse. Nel secondo, un detenuto insofferente allo stato di detenzione, ha preso per il collo un agente di vigilanza.

Dati altrettanto allarmanti arrivano dal carcere di Pavia, che sta letteralmente scoppiando. Rispetto a una capienza sulla carta di 247 persone, infatti, i detenuti sono quasi il doppio, 488. Inferiore a quanto previsto in pianta organica anche il numero di agenti impegnati che è di 241 persone, a fronte delle 285 ipotizzate. Ma il carcere di Torre del Gallo è destinato ad ampliarsi. A maggio, dopo qualche ritardo a causa di problemi strutturali che hanno fatto slittare l’inaugurazione, si aprirà un nuovo padiglione, il rischio è però che non venga adeguata la pianta organica.

E, come è destinata ad ampliarsi la casa circondariale di Pavia, lo è anche quella di Voghera dove al momento, però, si sta leggermente meglio. A fronte di una capienza di 163 detenuti, si trovano ristretti in 211. Inferiori al previsto pure gli agenti che sono 165 e non 187 come dovrebbe essere.

Fonte; il giorno


Terni, Detenuti in sciopero della fame, situazione invivibile

Dal carcere di Terni viene un grido di aiuto: urla negli orecchi di tutti noi.

images (3)I detenuti del carcere di Terni hanno cominciato lo sciopero della fame. Raccogliamo l’appello ad esprimere la vostra solidarietà cliccando “mi piace” o “condividendo” l’appello su facebook per far pressione sulle forze politiche locali che si dicono democratiche affinché intervengano e, da parte dei movimenti, verificare la possibilità di creare una mobilitazione nella vita reale. Entrate in facebook sulla pagina del Comitato No Debito Terni  ( http://www.facebook.com/comitatonodebito.terni ), trovate il post “lettera dal carcere di Terni”.

Qui di seguito una drammatica lettera dal carcere di Terni

“Sono isolato, senza TV, senza coperta di casa e non posso usare altre per allergie e asma, la finestra chiusa a chiave, senza caloriferi, siamo peggio degli animali, avvisati i compagni/e per un presidio, radio Onda Rossa per parlare sempre di Terni e su internet, 15 giorni fa è morto impiccato un ragazzo per come ci fanno vivere.
Sono ancora senza vestiario, non sono al 14 bis ma qui trattano peggio di un lager senza diritti, neanche al passeggio la domenica pazzesco…
Un abbraccio a tutti/e e V.V.B. Maurizio”.

Fonte


Pistoia: corso di Tai Chi Chuan per i detenuti, discipline orientali al carcere di Santa Caterina

czljianIl Tai Chi Chuan, antica tecnica psicofisica cinese, per migliorare il benessere e la disciplina interiore dei detenuti del carcere di Pistoia. È questa l’idea portata avanti da Jessica Venturi e Alessio Tinturli, entrambi maestri di discipline orientali, incaricati dell’insegnamento delle tecniche a una quindicina di detenuti della casa circondariale pistoiese. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Tazio Bianchi e dell’educatrice Liliana Lupaioli. Gli organizzatori dell’iniziativa sostengono così la volontà di mettere la struttura carceraria e i detenuti in contatto con il mondo esterno: il carcere come luogo di rieducazione, non isolamento.

Fonte: La nazione


Campania: Antigone; tre morti in un solo mese nella Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale

diffondiamo da ristretti-orizzonti

le-croci-rosa-ciudad-jarezNel solo mese di febbraio sono morti, per cause da appurare, tre detenuti nel carcere di Poggioreale, nel quale sono “ospiti” circa 2.781 unità su una capienza di 1.679 posti. Lo rende noto oggi Mario Barone, Presidente dell’Associazione Antigone-Campania.
“L’1 Febbraio 2013 C.D., già ricoverato al Centro Clinico interno al Carcere di Poggioreale, è deceduto dopo un ricovero urgente al Loreto Mare. F.M. è morto il 6 Febbraio 2013 in Ospedale, dove era stato ricoverato dal 26 gennaio 2013. R.F. è deceduto a seguito di un malore in istituto il 16 febbraio 2013: il 118 ne ha constatato il decesso”.
Questa la drammatica sequenza di morti secondo il portavoce dell’associazione. “È davvero un dato preoccupante” – ha detto Barone – “la sequenza di tre decessi per ragioni legate alla salute. Nei primi due casi, il ricovero in una struttura ospedaliera extra-muraria, avvenuta solo pochi giorni prima del decesso, solleva non pochi interrogativi sugli standard delle prestazioni sanitarie rese all’interno del carcere. Per quanto riguarda l’ultima morte improvvisa, ci chiediamo quali siano le procedure previste nei casi di emergenza e quali interventi di pronto soccorso si attivino in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118”.
“Nonostante siano passati cinque anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla competenza delle Asl” – continua Barone – “ad oggi, non abbiamo dati affidabili e certi sui quali effettuare un monitoraggio. Secondo le nostre stime oltre il 60% dei detenuti presenta una patologia cronica. La tutela della salute in carcere rimane una zona grigia dei diritti fondamentali del detenuti”.
“Il nuovo Parlamento” – ha concluso il presidente campano di Antigone – “dovrà occuparsi, non solo delle drammatiche condizioni di sovraffollamento carcerario che hanno portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma anche della tutela del diritto universale alla salute all’interno degli istituti di pena. Noi da subito segnaleremo questi decessi al Garante campano dei diritti dei detenuti e al Presidente della Commissione Sanità e Sicurezza sociale del Consiglio regionale perché se ne approfondiscano le cause e le dinamiche”.

 


L’inferno del carcere di Rossano Scalo. Un ex detenuto: “Lì non sei un uomo ma un numero”

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Nei giorni scorsi abbiamo incontrato un cittadino da poco uscito dal carcere calabrese di Rossano Scalo, segnatamente dalla sezione “media sicurezza”. Una struttura che sorge in una terra di nessuno, lontana dal centro abitato e che ospita più del doppio dei ristretti che potrebbe contenere. Le parole di questo cittadino danno ancora una volta il senso di un degrado già raccontatoci da un uomo nella stessa condizione del nostro interlocutore (clicca qui) che dimostra come non solo a Poggioreale o a Santa Maria Capua Vetere (clicca qui) esistano situazioni dove la dignità umana è quotidianamente calpestata. Eppure in Calabria esiste anche un altro carcere, come quello di Locri o come il reparto alta sicurezza di quello di Rossano, dove per fortuna non avvengono le tragedie che il cittadino da poco uscito da suo tunnel giudiziario ha deciso di raccontarci. Tragedie che avvengono ogni giorno anche in altri penitenziari, come quello di Poggioreale che nelle ultime settimane ha fatto registrare tre decessi per presunte carenze negli standard igienico sanitari all’interno della struttura.

Partiamo dalla situazione igienica e dalla vivibilità del penitenziario di Rossano Scalo

“Nel carcere di Rossano Scalo non c’è acqua calda in cella. Le docce sono divise in base ai due reparti e ci sono 4 docce per ogni 100 detenuti in celle che, pur essendo da due, ospitano quattro detenuti. Abbiamo fatto anche le battiture e lo sciopero del carrello per protestare contro la quinta branda che in alcune celle era presente. Ricordo che chi dormiva all’ultimo piano del letto a castello, urtava praticamente con la testa sotto al soffitto. L’acqua calda non è disponibile per tutti i detenuti quando è il momento di fare la doccia e per molti l’acqua è tiepida, quando non fredda. Le docce sono poste all’esterno e quindi, una volta lavato – per modo di dire – il rischio concreto è quello di ammalarsi, come anche a me è capitato con febbri molto alte. In caso di malattia, poi, sei abbandonato a te stesso e se stai male ti conviene stare zitto e restare sulla branda. Consideri che molti detenuti sono non calabresi e ci sono anche tanti immigrati. Per questi il dramma è doppio perché c’è anche la solitudine”.

Cosa faceva o che servizi offriva il carcere nei momenti in cui non eravate chiusi in cella?

“Non offre nulla e non funziona niente, si può dire che funzioni meglio il reparto alta sicurezza rispetto a quello di media sicurezza dove io ero detenuto. A differenza dei detenuti del reparto alta sicurezza, noi non avevamo né cuochi né corsi di ceramica o altre attività. L’unica cosa che ho potuto fare è stata iscrivermi al catechismo”.

Ha assistito a suicidi o a scene di autolesionismo dietro le sbarre?

“L’autolesionismo l’ho visto coi miei occhi. Una scena che non dimenticherò mai più. Era un detenuto marocchino che si tagliò le braccia e uscì dalla cella sanguinando in modo spaventoso. Ricordo che scagliò degli oggetti, uno sgabello contro una porta e vennero gli agenti a prenderlo. Lo misero in isolamento, al primo piano. L’indomani mattina, all’alba, presero questa persona e – parliamo di poche settimane fa e faceva un gran freddo – la buttarono nel “passeggio” dove trascorrevamo l’ora d’aria. Lo buttarono in mutande e sentivamo strillare tutti i detenuti stranieri che si accorsero di quanto era accaduto. Il detenuto marocchino fu anche minacciato di ricevere come trattamento punitivo la doccia con l’estintore. Successe un macello quel giorno in carcere”.

Che ci può dire del vitto a Rossano Scalo?

“Il vitto più di una volta è stato una patata bollita a testa, non c’era nulla. La domenica sera non passa il carrello e i prezzi nello spaccio sono astronomici. Dal tabacco ai generi di prima necessità, i prezzi sono più che raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. Inoltre la colazione era preparata ogni mattina in maniera antigienica. Ricordo fusti di latte che venivano lasciati per ore a pochi metri da enormi cataste di spazzatura con topi, scarafaggi e sporcizia tutt’attorno. Quel latte era destinato a noi detenuti, uno schifo solo a pensarci”.

Oltre a quel marocchino, c’è qualche altro caso umano che l’ha colpita a Rossano Scalo?

“Certo, più di uno ma in particolare ricordo un anziano signore che era in carcere da oltre vent’anni e che ha più di 70 anni. E’ in condizioni pietose e non riceve visite da tempo, anche se i colloqui non sono per nulla riservati dato che ovunque ci sono cimici e telecamere. Per noi non esiste privacy. Tornando all’anziano, ha bisogno di cure che non riceve e spesso in carcere siamo noi detenuti a dover svolgere assistenza. Anche a me è capitato, quando ero in infermeria e a mia volta avevo bisogno di cure urgenti. Un’esperienza incredibile e terribile da vivere. Posso dire che in carcere a Rossano Scalo non c’è alcun rispetto per la dignità. In quel carcere sei un numero, un pacco postale”.

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La visita ai detenuti? Da oggi si fa in webcam

Per spostare un carcerato dalle Sughere a viale Alfieri servono cinque agenti «Adesso quel personale verrà utilizzato per altre mansioni»

webcamLIVORNO. La telemedicina sbarca nel carcere di Livorno. Tra pochi giorni, infatti, il servizio sarà attivo anche presso la casa circondariale delle Sughere, dopo Porto Azzurro e isola di Gorgona. Il servizio, messo a disposizione dall’Usl 6, permette di collegare le strutture di reclusione con il reparto di Dermatologia dell’ospedale di Livorno. Il medico, presente all’interno della struttura carceraria trasmetterà, tramite videocamera digitale, le immagini del paziente al reparto di dermatologia. Qui, in tempo reale, lo specialista dermatologo individuerà presunti melanomi, infezioni cutanee o altre lesioni della pelle, acquisirà esami, dati clinici e stabilirà l’eventuale terapia da somministrare al paziente o le visite da effettuare. «Questo servizio – spiega Andrea Belardinelli, responsabile dell’Area programmazione e innovazione dell’Usl 6 – permette di eseguire visite dermatologiche senza effettuare spostamenti di detenuti all’esterno del carcere o di professionisti all’interno, limitando i costi e le difficoltà logistiche». Per spostare un detenuto dal carcere all’ospedale «vengono impiegati fino a cinque persone tra autista e agenti di guardia – precisa Carmelo Cantone, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Toscana – che potrebbero essere utilizzati per altre mansioni».

Sono 2200 le visite specialistiche a cui, ogni anno, vengono sottoposti i detenuti del carcere livornese, di queste 2mila sono quelle interne (230 di tipo dermatologico) e 200 quelle esterne; venti i ricoveri. I dati aggiornati all’1 giugno 2012, indicano che il totale dei detenuti presenti all’interno delle Sughere è di 140, in diminuzione per la chiusura di due padiglioni (nel 2011 erano 420), tuttavia ogni anno passano dal carcere circa 2500 detenuti che poi vengono spostati altrove. Il personale che svolge servizio medico e infermieristico è composto da 10 medici e 11 infermieri che lavorano 27 ore al giorno. A rendere possibile il servizio di dermatologia, tramite telemedicina, è l’uso della banda larga, cioè quell’infrastruttura che permette di far viaggiare in maniera veloce e sicura grandi quantità di dati. Ogni paziente avrà a disposizione una cartella clinica elettronica, non più cartacea, che conterrà l’intero percorso medico del detenuto, potrà essere aggiornata in tempo reale e rimarrà a disposizione anche in caso di trasferimento da un carcere all’altro. «Siamo partiti con il servizio di dermatologia – spiega Maria Gloria Marinari, responsabile della Sanità carceraria – perché è quello che si presta meglio alla telemedicina. A breve partirà anche quello di cardiologia con la possibilità di inviare i referti degli elettrocardiogrammi». «Questo è il primo passo per permettere ai cittadini reclusi di avere pari opportunità sanitarie», conclude il dg Monica Calamai.

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Salerno: detenuti a rischio, solo quattro medici per 550 persone

Socialmente Pericolosi-Dangerous To SocietyLa storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica.
“La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente – spiega Salzano – Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”.
Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”.
Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis – incalza l’esponente dei Radicali – Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta.

Fonte: La Città di Salerno


Assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto

assistenza_sanitariaEU(ASP) – Catanzaro, 2 marzo 2013 – Nell’ambito del progetto “Salute senza barriere”, finanziato dal FEI (Fondo Europeo per l’Integrazione dei cittadini dei Paesi Terzi), proposto dal Ministero dell’Interno e attuato da un partenariato composto da Ministero della Salute e INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà), si è tenuto a Catanzaro, nella Casa circondariale “Ugo Caridi”, uno dei seminari informativi previsti in dodici istituti di pena d’Italia, in collaborazione con le ASL di riferimento, sul diritto all’assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto, sulla riforma della medicina penitenziaria e il funzionamento del SSN.
Il progetto, che mira a promuovere l’integrazione sanitaria dei cittadini dei Paesi Terzi, ospiti temporaneamente degli Istituti di pena, coinvolge anche il personale sanitario dell’ Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro che ha in carico la salute dei detenuti nelle Case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e nell’Istituto penale per minori di Catanzaro.
Per il Dott. Antonio Montuoro, che si occupa da due anni di Sanità penitenziaria nell’Asp di Catanzaro e che è stato uno dei relatori del seminario “la situazione della sanità negli istituti penitenziari è a macchia di leopardo, con punte evidenti di criticità, ma anche con realtà, e la Calabria è tra queste, nelle quali, seppure con difficoltà, si riesce ad assicurare buoni standard di assistenza. E se la sanità penitenziaria calabrese è nel suo complesso virtuosa il merito va ascritto a tutte le professionalità mediche e non che operano in questi istituti “. Con riferimenti più specifici, Montuoro ha sottolineato che il Direttore generale dell’Asp di Catanzaro, dott. Gerardo Mancuso, dimostrando “una sensibilità davvero non comune verso le problematiche della salute in carcere, il 6 maggio 2011, dopo un lavoro preparatorio, ha sottoscritto insieme ai dirigenti degli istituti penitenziari, il protocollo d’intesa tra l’Asp, le case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e L’Istituto penale per minori di Catanzaro. Protocollo che definisce le forme di collaborazione tra l’Ordinamento Sanitario e l”Ordinamento Penitenziario della Giustizia Minorile per garantire la tutela della salute ed il recupero sociale dei detenuti, degli internati adulti e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. Per Montuoro “la professionalità degli operatori sanitari (medici incaricati, medici Sias – Servizio integrativo di assistenza sanitaria, medici di continuità assistenziale, infermieri, psicologi, ecc) che lavorano nelle carceri, l’impegno, l’attenzione, la capacità d’ascolto delle persone affidate interamente alle loro cure, si sono rivelati fattori fondamentali per affrontare adeguatamente la domanda di salute in carcere”.
Un altro punto di forza è rappresentato dalla specialistica ambulatoriale. Nella Casa Circondariale di Catanzaro dalle 136 ore settimanali del 2010 si è passati alle attuali 162 ore nelle varie branche specialistiche, mentre ben 8931 sono state le visite effettuate in sede intramuraria solo le prestazioni sanitarie non altrimenti eseguibili all’interno degli istituti sono state effettuate nelle varie strutture ospedaliere del territorio. Anche i Ser.T.  di Catanzaro e Lamezia, pur con carenza di organico, come sottolinea Montuoro, “garantiscono la prevenzione, la cura e la riabilitazione degli stati di dipendenza patologica dei detenuti”. “Diversamente da altre realtà carcerarie – aggiunge Montuoro – negli istituti di pena dell’ASP di Catanzaro, negli ultimi anni, si sono verificati pochi casi di suicidio ed una bassa incidenza di atti di autolesionismo e tentativi di suicidarsi. Un risultato ottenuto certamente grazie all’alta professionalità e al lavoro di chi dirige e gestisce le nostre carceri”.
Ricorda, poi, che “si deve alla proficua collaborazione tra operatori sanitari e operatori della giustizia minorile il progetto voluto dal Dipartimento Tutela della salute : “Percorso socio-sanitario per la tutela dei minori e dei giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile”, definito modello d’eccellenza dal Direttore Generale del Dipartimento Giustizia Minorile del Ministero”. Montuoro conclude dichiarando che “c’è ancora molto da fare, ci sono limiti da superare, tuttavia, in un momento di difficoltà e di tagli per la Sanità, l’Asp di Catanzaro ha dimostrato di “camminare ” per assicurare durante il periodo di detenzione nelle case circondariali il diritto alla salute, garantito costituzionalmente ad ogni cittadino della repubblica ed ai cittadini stranieri.

Celle a numero chiuso

Carcere_Lodi_Celle_080812_01Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro Paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani.

In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato al Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40 mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47 enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese.

Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale.

Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto.

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Varese – Il carcere scoppia di nuovo I detenuti oltre quota 400

jail1Busto Arsizio, 28 febbraio 2013 – Di nuovo oltre la soglia dei 400 i detenuti la casa circondariale bustese che da anni soffre di sovraffollamento. Negli ultimi tempi la struttura carceraria in via per Cassano è finita al centro dell’attenzione prima per la condanna della Corte europea dei diritti umaniarrivata all’Italia per le condizioni dei detenuti in celle sovraffollate, poi per alcuni personaggi noti, finiti dietro le sbarre. Spenti i riflettori mediatici che si erano accesi sui detenuti famosi, la casa circondariale bustese si ritrova con i problemi che la riguardano da tempo, a cominciare dal sovraffollamento. Situazione difficile che tuttavia e per fortuna non impedisce di promuovere all’interno esperienze di lavoro importanti, come la cioccolateria e la panetteria, avviata con successo pochi mesi fa e già “affamata” di nuovi spazi per potenziare la produzione. Intanto sono di nuovo aumentati i carcerati.

«Eravamo scesi a 380 – spiega il direttore Orazio Sorrentini – ora siamo di nuovo a 409 detenuti, a fronte di una capacità di 167 posti». La maggior parte dei carcerati sono stranieri, oltre 60%, effetto della presenza di Malpensa. Due anni fa sembrava essere vicina la soluzione del grave problema del sovraffollamento grazie al protocollo d’intesa che l’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano aveva firmato con il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Era il mese di marzo 2011: l’intesa prevedeva interventi a Opera, Bergamo e Busto Arsizio. Per il carcere bustese si trattava di realizzare una nuova struttura con una capacità di 200 posti (costo 11 milioni di euro).
La città di Busto Arsizio aveva addirittura ricevuto un encomio dal Ministero e dalla Regione per la tempestività con cui aveva dato la disponibilità all’ampliamento, segno di attenzione ai problemi della realtà carceraria. Invece quel piano è rimasto sulla carta, messo “nel cassetto” dai tagli decisi dal Governo Monti. Ma il sindaco Gigi Farioli è pronto a sollecitare i nuovi eletti in Parlamento affinché riconsiderino il progetto di ampliamento per il carcere bustese.
Martedì 5 marzo sarà visitato dalla Commissione consiliare dei Servizi sociali del comune di Busto Arsizio, che di recente ha avviato in collaborazione con la casa circondariale un progetto di inserimento lavorativo per due detenuti. «Siamo pronti e siamo lieti per la visita della commissione consiliare – dice il direttore Sorrentini – è uno dei segnali importanti di attenzione da parte dell’istituzione».

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Uisp, Vivicittà torna nel carcere di Marassi

3Genova – Giovedì 21 marzo , presso la Casa Circondariale di Marassi, si svolgerà la seconda edizione della speciale manifestazione “Vivicittà – Porte Aperte”.  Lo start della corsa è previsto alle ore 16.00. I detenuti partecipanti correranno insieme ad una rappresentativa di atleti tesserati per associazioni della Lega atletica leggera Uisp.

Si correrà lungo un tracciato di 3 chilometri. Dall’interno del carcere si uscirà per correre anche due giri esterni attorno alle mura dell’Istituto.

Contemporaneamente, sul campo interno, si disputerà una partita di calcetto fra i  partecipanti alle attività dei progetti di sportpertutti, arbitrata da uno dei detenuti che hanno seguito e superato il corso arbitri organizzato dalla Lega calcio Uisp.

 

La manifestazione è organizzata dal Comitato Uisp di Genova e dalla Direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi, con la collaborazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, con l’intento di gettare un “ponte” tra l’esterno e l’interno delle mura dove l’Uisp è stata presente, negli ultimi anni, tramite le azioni dell’omonimo progetto.

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Resoconti del presidio anticarcerario a Saluzzo

diffondiamo da infoma-azione

 

saluzzofoto1Nella prima settimana di febbraio 2013, i prigionieri del carcere di Saluzzo hanno deciso di fare uscire dalle mura e dalle sbarre che li tengono sequestrati un documento in cui segnalano gli abusi e le pene accessorie alla privazione della libertà a cui sono sottoposti. Il vitto da fame, il gelo delle celle, la mancanza di beni di prima necessità come quelli per l’igiene personale e della cella, la mancata concessione di benefici e misure alternative, lo sfruttamento lavorativo e in generale una condizione di abbandono e di miseria, sono caratteristiche che accomunano ogni struttura dell’apparato detentivo italiano, ma in quella di Saluzzo i prigionieri hanno deciso di farsi sentire. Lo hanno fatto scrivendo, rivolgendosi direttamente a compagne e compagni, che hanno risposto con un presidio volto a dare forza e ad amplificare la rabbia delle persone rinchiuse dentro quelle mura. La mattina del 16 febbraio, giorno per cui era prevista l’iniziativa, abbiamo appreso che uno degli uomini sequestrati a Saluzzo, nonché uno dei promotori del documento firmato da 245 prigionieri, Maurizio Alfieri, era stato trasferito presso il carcere di Terni. Sballato da una galera all’altra, Maurizio non ha mai smesso di lottare per contrastare gli abusi e le violenze che ha incontrato durante la sua carcerazione, promuovendo l’auto-organizzazione dei prigionieri e la rottura del silenzio assassino che circonda l’apparato detentivo. Possiamo interpretare il suo trasferimento come l’ennesima rappresaglia nei suoi confronti o come un tentativo di ostacolare la solidarietà nei confronti di tutti i prigionieri di quel carcere; ma una prima ovvia risposta è stata quella di ribadire, con ancora più risolutezza, la nostra presenza sotto le mura di Saluzzo.

Una settantina di nemiche e nemici di ogni galera, venuti da diverse parti del nord Italia, si sono ritrovati in un campo fangoso a lato della prigione, lasciando così le truppe cammellate della repressione sul lato dell’ingresso. Per oltre due ore si sono susseguiti interventi dall’impianto, musica e colloqui selvaggi con i prigionieri da sotto le mura. La risposta da dentro è stata forte e rumorosa: battiture, cori insieme ai presidianti, risate e grida di rabbia, luci accese e spente a tempo di musica e pezzi di carta infuocati. Prima che il buio calasse, un gruppo di solidali ha deciso di lasciare il segno creando una falla nella recinzione che circonda quella galera. Diversi fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo e bersagliato la torretta degli aguzzini a guardia di quelle mura, fino a provocare qualche lancio di lacrimogeni da parte dei poliziotti antisommossa schierati all’esterno.

Infine, prima di abbandonare il presidio, una scritta alta circa tre metri e lunga una decina, realizzata con tondini di metallo saldati e stoffa intrisa di benzina, è stata data alle fiamme in modo che i prigionieri potessero leggere un semplice messaggio: LIBERTA’. Quindi ce ne siamo andati, salutando le persone sequestrate in quelle celle, invitandoli a restare uniti e a continuare a farsi sentire… anche insieme a noi. Sperando che in ogni galera ci siano prigionieri e prigioniere pronti ad organizzarsi, senza delegare a nessuno la propria dignità e la propria sete di libertà.



Un saluto caloroso

Nel pomeriggio di sabato 16 febbraio qualche decina di solidali si raduna nel campo alle spalle del carcere di Saluzzo. Da un impianto audio sparano musica rock’n’roll anni ’70, dentro molto apprezzata.
Tra un pezzo e l’altro si alternano saluti, battiture, vengono urlati i contatti per scrivere a realtà solidali e di controinformazione, interventi a volte rabbiosi a volte informativi, come il testo “Resistere dentro, resistere fuori” o il nuovo indirizzo di Maurizio Alfieri, trasferito nei giorni precedenti.

Alcuni solidali riescono ad avvicinarsi alle sbarre del perimetro per fare dei “colloqui selvaggi” con i detenuti. Questi portano ad un’attenta relazione tra dentro e fuori, a non parlare tutti insieme, a fermare la musica, le urla e gli slogan, facendo si che un presidio diventi realmente un momento di vicinanza. Quando qualcuno svita i bulloni di una delle grate, una decina di manifestanti cerca di entrare nello spiazzo tra le sbarre e il muro di cinta. La polizia si allarma e si avvicina al buco, allora gli “intrusi” si ricompattano senza però allontanarsi delle grate.


All tramonto c’è una sorpresa: sette lettere di fuoco si accendono per formare una parola sola: “Libertà!” E sia dentro sia fuori si grida assieme “Li-ber-tà! Li-ber-tà!” Alcuni fuochi artificiali esplodono nel cielo, altri sulla torretta in cui sono rintanati i secondini. La celere di guardia fuori si avvicina sparando tre o quattro lacrimogeni, i manifestanti rispondono con qualche bomba carta.

Dopo un ultimo saluto, il presidio termina e i manifestanti si allontanano in tutta tranquillità.

Ascolta il resoconto in diretta con una redattrice di Radio Blackout 105.250FM


Sciopero fame detenuti, secondo giorno di scontri tra palestinesi e israeliani

palestinaScontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliana sono scoppiati per il secondo giorno consecutivo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est a margine delle manifestazioni per chiedere il rilascio dei detenuti in sciopero della fame in Israele. Un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato che tra i 300 e i 400 palestinesi hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani a Hebron. Scontri si sono registrati anche nei pressi di due checkpoint fuori Ramallah e in tre altre località nel nord della Cisgiordania.
Decine di manifestanti sono stati feriti, la maggior parte per l’inalazione del gas lanciato dai lacrimogeni o per essere colpiti da pallottole di gomma. A Hebron è intervenuta anche la polizia palestinese per contenere la rivolta.
Due dei quattro detenuti palestinesi in sciopero della fame, Samer Issawi e Ayman Sharawneh, sono stati rilasciati nell’ottobre 2011 nell’ambito dell’accordo tra Israele e Hamas per la liberazione del caporale Gilad Shalit in cambio di oltre mille detenuti palestinesi in carceri israeliane. Issawi venne riarrestato nel luglio dello scorso anno in base alla legge civile israeliana sulla detenzione che consente l’arresto di palestinesi in base alla minaccia che questi rappresentano per la sicurezza nazionale di Israele. Issawi ha rifiutato cibo per oltre 200 e pesa meno di 50 chili. Ieri è stato condannato a otto mesi di carcere per aver lasciato Gerusalemme violando i termini dell’amnistia in base alla quale era stato rilasciato.

Fonte Aki

 


Terni, apre il nuovo reparto e arrivano altri detenuti: il carcere rischia davvero il collasso

Il numero complessivo dei reclusi supererà le 400 unità, quasi il doppio della capienza considerata ottimale. E tra poco aprirà una nuova sezione di ‘alta sicurezza’

Death Penalty slideNuovi arrivi È iniziato, come previsto, il trasferimento nel carcere ternano di una cinquantina di detenuti, provenienti da altri istituti e che andranno ad occupare l’ormai famoso nuovo reparto. In attesa che arrivino anche altri detenuti, definiti pericolosi e per i quali verrà ampliata la sezione di alta sicurezza. Ma mentre il numero dei reclusi aumenta – proteste o no – quello del personale sembra essere destinato, quanto meno, a restare inalterato: «Rispettare gli impegni – commentano gli agenti – sembra non essere tra le priorità della direzione, visto che sono arrivati meno della metà dei colleghi previsti».

Detenuti Prima di questo ulteriore contingente di detenuti in arrivo, il carcere ternano ospitava già 360 detenuti – tra i quali ce ne sono diversi sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis e altri a quello di alta sicurezza, mentre una sezione protetta è riservata a transessuali e detenuti per reati sessuali – a fronte di una capienza ottimale che veniva stimata tra le 200 e le 250 unità. Di norma ogni cella ospita due detenuti, poco meno della metà dei quali, circa 150, sono stranieri. Non esiste una sezione femminile, in quanto a Terni, in caso di arresto, le donne restano al massimo per pochi giorni.

Personale Quello che effettivamente presta servizio, al netto dei distaccati in altre realtà e assenti a vario titolo è un personale composto da circa 170 unità. Tanto che nel nuovo padiglione, quello che si sta popolando in questi giorni – 16 celle con tre detenuti ciascuna – l’amministrazione pensa di attuare la cosiddetta ‘vigilanza dinamica’: «Un’unica pattuglia che effettua i normali giri di controllo e una serie di telecamere che fanno il resto. In teoria – dicono gli agenti di custodia – è tutto perfetto, ma nella pratica di tutti i giorni la cosa non è poi cosi semplice».

Tensione Tra i motivi di apprensione, per le persone che lavorano in carcere, c’è il crescente «aumento del numero delle aggressioni» nei loro confronti, ma anche il rischio di «inquinamento criminale del territorio ternano». Senza dimenticare che, in carcere, c’è anche chi decide di ammazzarsi e, una vigilanza ridotta, non permette di impedire che questo avvenga, come dimostra l’ultimo episodio: a gennaio un uomo di nazionalità marocchina, si è impiccato alle sbarre della cella. Lo hanno trovato quando ormai era troppo tardi.

Fonte


Droghe: niente carcere preventivo per il piccolo spaccio

Lo-SpacciatoreLe carceri italiane stanno scoppiando. Il 40% della popolazione carceraria è costituita da reclusi in carcerazione preventiva. Il Capo dello Stato è stato chiarissimo; occorrono interventi urgenti e risolutivi. Le condizioni di degrado umano in cui vivono i reclusi ci espongono al giudizio severo della comunità internazionale ed hanno già prodotto un ultimatum della Corte di Giustizia europea: porre rimedio entro un anno o saremo sommersi dalle condanne. Dobbiamo agire, ed in fretta, e l’urgenza impone una riflessione.
L’intollerabile affollamento delle carceri non è questione umanitaria o l’effetto di una patologia contingente; è un problema strutturale del sistema di repressione penale italiano e quindi può essere risolto soltanto con provvedimenti legislativi strutturali e chirurgici, che incidano direttamente sul sistema sanzionatorio. Una amnistia sarebbe un rimedio inefficace proprio perché episodico ed indiscriminato.
Ai cittadini non può negarsi, peraltro, il diritto di essere tutelati anche dalla criminalità da strada, dai furti in abitazione, dagli scippi, dai borseggi, dalle aggressioni; reati tutti che colpiscono la gente comune. È vero che la stragrande maggioranza di coloro che commettono reati da strada appartengono, da sempre, alla emarginazione sociale, alle categorie più derelitte, ai meno garantiti; agli ultimi, direbbe un cattolico. Ma il problema non è a quali categorie sociali appartengono i reclusi, bensì per quali reati sono reclusi in carcerazione preventiva.
Vi sono reati, fonte di allarme sociale per la collettività, che non prevedono la carcerazione prima di una sentenza definitiva, e altri che invece la prevedono, pur suscitando scarso, o nessuno, allarme sociale. Consegnare al giudice il potere di decidere caso per caso se applicare la legge per come essa è, oppure adottare decisioni di politica carceraria, è una prospettiva che perpetua la anomalia di questo Paese, comunque inefficace per la sua intrinseca episodicità. Al giudice deve potersi chiedere di applicare la legge secondo coscienza e professionalità, senza eccessi di qualunque segno.
Stabilire per quali reati si possa o debba andare in carcere prima della sentenza definitiva è una decisione politica, tipica assunzione di una responsabilità che è del legislatore, che ne risponde politicamente ai cittadini tutti. Mai del giudice, il quale, perché sia realmente indipendente e terzo, deve rispondere del suo operato soltanto alla legge. In materia non possono essere ammesse scorciatoie o deleghe di responsabilità, che è tutta della politica.
Il nuovo Parlamento può agire tempestivamente, modificando il sistema sanzionatorio dei reati inerenti lo spaccio degli stupefacenti e superando l’anomalia della attuale legge, con la previsione di sanzionare il piccolo spaccio (di solito posto in essere da giovanissimi tossicodipendenti che di tutto hanno bisogno fuorché del carcere) con pena detentiva analoga a quella prevista per il reato di truffa, o di insolvenza fraudolenta, o di lesioni personali; tutti reati gravi, ma che prevedono una pena che non consente la carcerazione preventiva.
Escludere la carcerazione preventiva per il piccolo spaccio di stupefacenti produrrebbe la diminuzione di almeno il 30% della popolazione carceraria, senza pericolo per la collettività e senza mettere in discussione la sanzione penale. È il momento di scelte chiare e responsabili; e forse questa è l’ultima chiamata.

di Alessandro Nencini (Presidente di sezione di Corte d’Appello)

La Repubblica, 16 febbraio 2013


Fallimentare l’impiego dei body scanners nelle carceri

Il rapporto rivela che i body scanners sono stati in grado di rilevare solo il 57% degli oggetti utilizzati come test. Una percentuale di insuccesso che esclude gli scanner simili a quelli utilizzati negli aeroporti, dalle papabili alternative alle strip searches

body-scanner-001Farmaci, batterie per telefoni cellulari, forbici e un coltello sono tra gli elementi utilizzati quali test nel periodo di prova durante l’utilizzo dei body scanner, considerati all’inizio del progetto quali una valida alternativa alla pratica degradante delle perquisizioni corporali.

Quasi 1.200 detenuti e membri del personale penitenziario sono stati sottoposti a due scanner, nelle carceri di Magilligan e di Hydebank Wood.

I risultati della relazione al termine del periodo di prova, sono stati discussi dai membri del Comitato Giustizia a Stormont.

L’avvio del progetto pilota era stato deciso da David Ford, Ministro della Giustizia, sulla spinta della dirty protest portata avanti dai prigionieri repubblicani a Maghaberry, fino allo scorso novembre.

Fonte


Presidio anticarcerario al carcere Bassone di Como

liberiSabato 16 febbraio 2013 presidio al carcere Bassone di Como
Dalle 9 alle 12 musica, interventi e microfono aperto per portare solidarietà a tutti i detenuti, a tutte le detenute ed alle loro lotte di libertà


Solidarietà – Nasce Cassa Antirepressione Sud

riceviamo e diffondiamo:

fuoco alle galereNasce Cassa Antirepressione Sud!

La cassa antirepressione sud nasce dall’esigenza di alcune individualità anarchiche siciliane, di raccogliere fondi a sostegno dei prigionieri, per esprimere solidarietà agli stessi e inviare, a chi finisce in galera, contatto e appoggio da parte di gruppi o persone sensibili alla questione carcere.

DELLE GALERE SOLO MACERIE!

per info: cassaantirepressionesud@gmail.com – http://cassaantirepressionesud.blogspot.it/

Per donazioni:
ricarica postepay : 4023 6006 4052 5574 (intestata a Kevin Giacalone)
ricarica conto paypal: cassaantirepressionesud@gmail.com


Il rugby arriva anche in carcere Monza ha il team dei detenuti

il-lato-materno-del-rugby4Monza – «Siamo vicini di casa, riusciamo a sentire le nostre reciproche urla: quelle che vengono dal campo di gioco e quelle dalle celle dei detenuti. E allora ci siamo detti: perché no?». Così Paolo Carcassi, presidente del Rugby Monza ha raccontato l’inizio di un’idea che oggi è diventata realtà: portare la palla ovale all’interno della casa circondariale di via Sanquirico. Da ottobre diciotto detenuti della sezione comuni sono entrati a far parte della prima squadra di rugby nata all’interno del carcere di Monza. «Per ora stiamo iniziando a conoscere lo sport e le sue regole, poi progressivamente abitueremo i ragazzi al contatto per portarli a disputare tra un po’ una vera partita », spiega Alessandro Geddo, giocatore del Rugby Monza e allenatore della squadra del carcere insieme a Francesco Motta, anche lui giocatore della società monzese.

Al momento in programma non c’è alcuna partita, i giocatori sono ancora acerbi, ma l’intenzione è quella di affrontare una selezione degli atleti degli Old e della Prima squadra della Grande Brianza. Non solo sport ma prima di tutto rispetto: degli avversari e delle regole. Ed è stato proprio il risvolto educativo e sociale del progetto a convincere la direzione a far nascere una squadra di rugby all’interno del carcere. «La prospettiva più ampia che ci siamo dati va ben oltre l’immediato risultato agonistico – ha spiegato Leonardo Nazzaro, educatore del carcere, responsabile dell’area sportiva -. Abbiamo voluto in questo modo offrire un’opportunità di amicizia a chi esce.

Chi fa parte oggi della squadra di rugby potrà contare, una volta uscito, sul sostegno del Rugby Monza, saprà che su quel campo ci sono degli amici. Ed è questa la vittoria più grande». Un impatto sociale ribadito anche dal consigliere comunale con delega allo sport Silvano Appiani, e dal vice sindaco Cherubina Bertola, presenti insieme al prefetto Giovanna Vilasi alla conferenza di presentazione della nuova squadra che si è svolta mercoledì all’interno del carcere.
Sarah Valtolina

Fonte: ilcittadinomb.it


Telefono cellulare scoperto nel carcere di Cassino dalla Polizia Penitenziaria

celCellulare telefonico trovato dalla Polizia Penitenziaria nel carcere di Cassino. Una circostanza certamente non normale che è stata riscontrata nel penitenziario di via Sferracavallo. Un uomo di circa 40 anni, di nazionalità rumena, detenuto per reati vari, impegnato spesso in lavori interni al carcere, è stato trovato in possesso, durante i controlli, di un telefono cellulare.

Una circostanza sospetta e preoccupante che ha portato le autorità carcerarie a intensificare i controlli tra i detenuti i quali, ovviamente, non debbono e non possono avere alcuno contatto con la società esterna se non con opportuni filtri. Ci si interroga su l’uso che l’uomo facesse dell’apparecchi telefonico. Non si esclude che, in realtà, potesse essere lui nasconderlo e che al momento opportuno lo facesse utilizzare da altri, come ad esempio, a qualche detenuto a capo di qualche organizzazione. Ripetiamo, però, questa resta una ipotesi su cui gli agenti della penitenziaria, stanno indagando, così come, ovviamente, si indaga sul canale che ha permesso di far entrare nella struttura detentiva un telefono cellulare.

Fonte: ilpuntoamezzogiorno.it


Pestaggi a San Sebastiano, interviene l’Europa

SASSARI. «San Sebastiano, una Guantanamo ante litteram». Dove nel 2000 la violenza di agenti della Penitenziaria contro una trentina di detenuti – in quella che i giudici hanno ribattezzato «galleria degli orrori» – «fu un vero e proprio atto di tortura».

omicidioSono passati tredici anni da quegli abusi, otto trascorsi in un’aula di Tribunale per arrivare a una sentenza di prescrizione. Ma solo ora, per uno dei reclusi che subì umiliazioni da chi doveva prendersene cura, botte con pezze bagnate, manganellate sui genitali, ora forse si apre lo spiraglio della giustizia europea. La Corte di Strasburgo ha avviato l’istruttoria per l’allora detenuto V.S., originario del Sassarese, che si è rivolto ai magistrati garanti della Convenzione sui diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3, che vieta la tortura e «pene o trattamenti inumani o degradanti». Il ragionamento del suo avvocato, Giuseppe Onorato, è semplice. V.S., come tantissimi altri “ospiti” del carcere sassarese, in quel 3 aprile 2000 era affidato all’amministrazione penitenziaria. Eppure, è la stessa sentenza di primo grado (2009) a riconoscere come «la Repubblica italiana non sia stata in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione». Dunque, chiede alla Corte di condannare il nostro Paese, così come l’8 gennaio Strasburgo ha fatto con la sentenza che ci bacchetta per la stessa violazione – trattamento inumano e degradante – ma per il sovraffollamento nelle galere di Stato. Un verdetto che ha riaperto il dibattito sulla necessità di codificare il reato di tortura, che avrebbe potuto evitare, ad esempio, la prescrizione delle lesioni inflitte dagli agenti di polizia alla Diaz, durante il G8, in qualche modo simili a quelle di San Sebastiano. Perché quello di tortura sarebbe un reato che il tempo non può scalfire. V.S. non ha ottenuto alcun risarcimento per essere passato attraverso la «galleria degli orrori», caso che sollevò un’onda di indignazione in tutta Italia. Anche per la freddezza con la quale sarebbe stata portata avanti. Quella esplosa tra le mura dell’istituto sembrò violenza su commissione dell’allora amministrazione penitenziaria regionale, con agenti chiamati da altri penitenziari. Ma la verità processuale sconfessa in parte questa ricostruzione. Dopo le botte molti detenuti vennero trasferiti per evitare contatti con i parenti e denunce. Forse proprio per l’unicità del caso, a tre anni dal ricorso, la Camera – così si chiama il collegio composto da 7 giudici – sta valutando il merito delle richieste e ha informato la parte convenuta, cioè il Governo italiano. Lo ha comunicato all’avvocato del ricorrente con una lettera datata 8 gennaio.

Alla rappresentanza nostrana a Strasburgo si impone di rispondere a sei quesiti entro il prossimo 30 aprile, poi potrebbe essere fissata la data di udienza e sentenza. All’Italia si chiede, ad esempio, se chi è stato processato per quei fatti sia poi stato oggetto di procedimenti disciplinari e quali sanzioni, eventualmente, abbia subito. E poi se il ricorrente abbia la possibilità di ottenere una “compensazione” economica in altri modi; se l’inchiesta penale, alla luce della tutela processuale, abbia soddisfatto i criteri della Convenzione, oppure se il detenuto non abbia già ottenuto un ristoro per quei fatti. Ma non potrebbe mai averlo avuto, proprio perché non si può chiedere il risarcimento per un reato che non esiste, la tortura.

All’inaugurazione dell’Anno giudiziario il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha ricordato come sull’introduzione di questa fattispecie nel nostro ordinamento, l’Italia sia «in notevole ritardo».

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