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Nicholas Webber, sebbene giovanissimo, ha una consolidata e variegata esperienza di criminale informatico. Ed è riuscito a dimostrare le proprie abilità anche in carcere.
Nel 2011 Nicholas Webber finisce in galera, condannato a cinque anni di reclusione, per aver realizzato un sito web con cui ha portato a compimento frodi per milioni di euro.
Ma nella prigione HMP Isis, situata nel sud di Londra, i detenuti partecipano a programmi di formazione tecnologica. Ed è toccato anche a Webber. Peccato che il suo curriculum sia ricco di crimini informatici.
In sostanza Webber è riuscito a violare le protezioni del main frame del carcere e a penetrarvi, facendo scattare l’allarme sicurezza durante una lezione.
Il suo insegnante, Michael Fox, è stato allontanato dalla prigione ed è iniziata la procedura di licenziamento per giusta causa davanti al giudice del lavoro di Croydon. Fox ha sempre dichiarato di non essere a conoscenza del background di Webber, che per altro non avrebbe dovuto trovarsi in quella classe.
L’incidente si è verificato ad un anno dall’apertura del carcere. 110 milioni di sterline spese non hanno però impedito il verificarsi di una serie di malfunzionamenti. In primis i problemi al sistema di riconoscimento biometrico dei detenuti. Infatti, ognuno di essi deve lasciare la propria impronta digitale elettronica ad ogni spostamento all’interno della struttura.
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ROMA – Uno dei quattro reparti in Italia,dedicato ai detenuti affetti da HIV, e quindi reparto di interesse nazionale, G 14 di Rebibbia N.C., era il fiore all’occhiello del carcere. Pensato per ovviare all’isolamento sanitario dei malati di HIV ha un’infermeria, una cucina, un laboratorio informatico, una cappella e una biblioteca.
Le celle sono sempre aperte e i detenuti partecipano a progetti che facilitano la socializzazione e il lavoro, parte integrante del trattamento come la terapia clinica.
Da qualche tempo, però, la situazione è peggiorata al punto da spingere il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni a denunciare «un clima potenzialmente esplosivo che, fino ad oggi, non è deflagrato per il lavoro svolto dal nostro ufficio, dai volontari, dai sanitari e dagli agenti di polizia penitenziaria».
Attualmente nel G 14 ci sono 22 persone, tutte malate di HIV. L’età media è fra i 45 e i 50 anni. Oltre all’HIV, i presenti hanno patologie psichiatriche, l’epatite, cardiopatie e dermatiti. Buona parte dei detenuti è di difficile gestione – negli ultimi 10 giorni si sono registrati tre casi di autolesionismo – sei sono casi psichiatrici conclamati. In tre sono in sciopero della fame e rifiutano i farmaci per motivi di giustizia (attesa liberazione anticipata, permessi premio, ricoveri in ospedale).
«Molti – ha detto il Garante – sono, per le loro condizioni, incompatibili con il carcere. Il fisico di ognuno è segnato dalle malattie e dalle dipendenze. Ma a costringerli in una cella sono le posizioni giuridiche, le misure alternative revocate, i cumuli di pena, i nuovi reati o, più semplicemente, il fatto di non avere una dimora. Il vissuto determina l’assenza delle famiglie e i problemi economici, con molti detenuti che dipendono dai nostri operatori, dai volontari anche per le più piccole necessità».
Su questa situazione si è abbattuto il taglio indiscriminato della spesa. Per la prima volta, nel 2013 non saranno finanziate le attività per i tossicodipendenti, rimaste senza copertura economica. Il carcere non ha più fondi né per la mediazione culturale, né per i progetti del G14, né per quelli delle comunità terapeutiche che operano in carcere. A ciò si aggiunga che la storica direttrice del reparto è stata trasferita al Prap ed è stata sostituita da un’altra persone che, in contemporanea, deve occuparsi anche della struttura protetta dell’ospedale Pertini e del nucleo traduzioni.
«La somma di queste criticità – ha concluso il Garante – ha fatto salire la tensione alle stelle e creato una situazione di emergenza. Di fatto la gestione del reparto è affidata alla polizia penitenziaria, agli infermieri ed agli operatori del trattamento. Ciò che si percepisce è un clima di esasperazione dove è sempre più netta la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni, con concreti rischi di recrudescenza e di inasprimento delle condizioni di detenzione. Per evitare l’irreparabile occorre che ciascuna componenti torni a fare il proprio lavoro: gli educatori ed il personale sanitario e di sicurezza devono essere messi in condizione di poter lavorare; la magistratura deve tornare a scegliere ciò che è meglio per ciascun detenuto; occorre che vengano riattivati, anche con l’aiuto delle politiche regionali, percorsi alternativi al carcere; occorre che il territorio e la società civile tornino ad aprirsi. Occorre in sostanza, lavorare tutti insieme per far tornare il reparto il fiore all’occhiello che era»
Fonte
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diffondiamo da informa-azione notizie sulle motivazioni del trasferimento di Madda ad Agrigento e sulla sua situazione attuale:
Segue (tardivo) resoconto delle vicende relative al trasferimento di Madda dal carcere “Pagliarelli” di Palermo a quello di Agrigento, da lei comunicate ad alcuni compagni.
Il tutto ha origine il giorno 25 di gennaio. Durante le fasi finali di un colloquio con la sorella, le due si abbracciano, al che la guardia inizia a sbraitare per l’ “evidente” violazione del regolamento.
Alla prima sbirra se ne aggiungono altre due ed insieme cominciano a spintonare Madda durante il tragitto di ritorno. A “placare gli animi” interviene la coordinatrice, che riporta la compagna in cella, e di lì immediatamente in infermeria. Madda si ritrova davanti due medici e una psicologa che cercano di instaurare un “dialogo” ma vengono prontamente liquidati.
Di nuovo riportata in cella, Madda se la vede svuotare dalla poche cose presenti (era allora sottoposta a 14/bis), per poi venire edotta dell’ordine della psicologa di restare nuda (solo slip) a causa del suo stato di presunta “agitazione”.
Al suo ovvio rifiuto segue la solita prassi: dopo aver indossato i guanti, in tre le saltano addosso e partono una scarica di calci e pugni alla testa e alla schiena, oltre a varie tirate di capelli. Dopo poco al pestaggio si aggiunge pure uno sbirro del maschile, che precede l’arrivo di un’intera squadretta. I secondini decidono per l’intervento del medico che dovrebbe somministrare una puntura sedativa a Madda. Scongiurata in qualche modo questa “soluzione, i secondini optano per il riordino della cella e per le manette, con la quale Madda viene caricata sul blindato, destinazione Agrigento.
Le notizie che ci giungono da Agrigento sono queste: a Madda vengono ancora sottoposti alcuni cicli di isolamenti della durata di 10 giorni, le è ancora applicata la censura con conseguente trattenimento di parte della corrispondenza (e dei libri) e non le vengono fatti passare i francobolli.
Per scrivere a Madda:
Maddalena Calore
C. C. “Petrusa”
P.zza P. di Lorenzo 4
92100 Agrigento
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Un appello a fermare la pena capitale a cui sarà sottoposto domani con altri sei sauditi. È quello lanciato da Nasser al-Qahtani, che è riuscito a parlare con Associated Press grazie a un telefono cellulare trafficato di nascosto nel carcere di Abha General, dove è detenuto. L’uomo è stato arrestato come membro di una rete di 23 persone che hanno partecipato a furti in gioiellerie tra il 2004 e il 2005. Al-Qahtani spiega di aver dovuto confessare sotto tortura e di non aver avuto accesso agli avvocati.
Il principale imputato, Sarhan al-Mashayeh, sarà crocifisso per tre giorni, mentre gli altri saranno uccisi dal plotone di esecuzione. “Non ho ucciso nessuno. Non avevo armi mentre ho compiuto il furto, ma la polizia mi ha torturato, mi ha picchiato e ha minacciato di attaccare mia madre per costringerla a dire che avevo delle armi con me, mentre io avevo solo 15 anni. Non merito la pena di morte”, dichiara il giovane. Gruppi per i diritti umani hanno chiesto alle autorità saudite di fermare le esecuzioni.
Al-Qahtani, che oggi ha 24 anni, sostiene che gran parte della rete di cui faceva parte era composta da minorenni al momento dei furti. Il gruppo è stato arrestato nel 2006. Sette sono stati condannati a morte nel 2009. Sabato re Abdullah ha ratificato la pena e li ha inviati nel carcere di Abha, nella provincia sudoccidentale di Asir. Le autorità hanno fissato domani come giorno per le esecuzioni. Negli otto anni di detenzione, Al-Qahtani ha visto tre volte il giudice, ma quest’ultimo, spiega, non gli ha assegnato un avvocato e non ha ascoltato i suoi racconti, quando diceva di essere stato torturato. “Gli abbiamo mostrato i segni delle torture e dei pestaggi, ma non ci ha ascoltato”, ha continuato il giovane.
Fonte: la presse
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Sul numero di “Invece” di febbraio 2013 – numero 21, è stata diffusa la seguente una proposta di intervento anticarcerario.
Per contattare i compagni: invece@autistici.org
Contro il carcere, una proposta
Giorno dopo giorno aumenta il numero delle persone che in questo mondo risultano di troppo. Inutili. Aggravando le pene per alcuni reati già esistenti e creandone di nuovi, lo Stato indica dove queste eccedenze debbano essere stipate, in carcere. Così continua costantemente a crescere il numero dei prigionieri, privati oltre che della libertà anche del benché minimo spazio vitale, ammassati gli uni sugli altri al di là di ogni limite d’immaginazione.
Purtroppo al peggioramento delle condizioni di detenzione non sta corrispondendo una reazione adeguata da parte dei prigionieri. Trent’anni di pace sociale, fuori come dentro, hanno scavato un solco profondo nella volontà di lottare, nel sentire che è possibile farlo come nella capacità di organizzarsi. Ogni tanto da quotidiani locali o siti specializzati si viene a conoscenza di piccole proteste e mobilitazioni o di atti di ribellione all’interno delle carceri che non riescono però quasi mai a raggiungere un’ampiezza e una radicalità maggiori. Ciò che sta invece scadenzando il tempo con una regolarità agghiacciante sono i suicidi di uomini e donne che non trovano altro modo per dire: “basta!”.
Fuori, le principali voci che di tanto in tanto si levano sono quelle dei pannella di turno o delle varie organizzazioni che denunciano il sovraffollamento nelle carceri italiane. Poco altro si muove. Le lotte o le azioni condotte da chi ritiene che il carcere vada distrutto e non reso più umano non risultano particolarmente significative e restano per lo più slegate da ciò che avviene dentro. Difficilmente, per sostenere una lotta o un particolare fatto repressivo avvenuto dentro, si riesce a fare qualcosa in più di un presidio.
Presidi che per quanto preziosi, dato che consentono di far sentire la propria solidarietà ai prigionieri in lotta e al contempo ribadire ai carcerieri che chi è dentro non è solo, come uniche o principale armi di una lotta contro il carcere risultano spuntati. Da soli infatti non sono in grado non tanto evidentemente di buttar giù le odiate mura ma neanche di rompere efficacemente quell’isolamento che sbarre e mura producono. E rompere l’isolamento a cui tutti i prigionieri sono condannati è uno degli obiettivi che chi fuori vuole lottare contro il carcere dovrebbe porsi.
Alcuni anni fa, in occasione di uno sciopero della fame contro l’ergastolo portato avanti da ergastolani ed altri prigionieri che avrebbe dovuto protrarsi anche a tempo indeterminato, alcuni compagni diedero vita a “La Bella”, un bollettino che intendeva sostenere questa lotta anche dando voce a chi la conduceva. Pur critici riguardo la scelta dello sciopero della fame e consapevoli che la fine dell’ergastolo non avrebbe risolto il problema della prigionia, diversi compagni sostennero questa lotta considerandola particolarmente importante perché autorganizzata da prigionieri di un po’ tutte le carceri italiane.
L’esser nata in occasione di una mobilitazione così partecipata dentro, garantì a La Bella una diffusione e un’attenzione nelle carceri che normalmente le pubblicazioni di movimento non hanno, dato che spesso i giornali anticarcerari “militanti” risultano magari anche molto interessanti ma vengono percepiti come qualcosa di lontano cui non è possibile per un prigioniero comune partecipare attivamente. La Bella invece, pur nel suo piccolo, fu sin da subito sentita da molti come uno spazio di confronto reale in cui i prigionieri potevano dialogare tra loro, scambiarsi notizie, suggerimenti, critiche e eventualmente proposte. Uno spazio condiviso poi non solo con chi intendeva lottare dentro, ma anche con chi voleva farlo fuori. Così ad esempio, grazie ai contributi tanto dei compagni quanto dei prigionieri, si sviluppò un confronto sull’efficacia delle pratiche da adottare in una lotta che superò la specificità per cui La Bella era nata.
Diversi prigionieri espressero critiche decise nei confronti dello sciopero della fame, ritenuto, oltre che autolesionista, inefficace data la cecità dell’opinione pubblica, proponendo poi altre pratiche come lo sciopero della spesa che consentivano invece di “colpire” le autorità carcerarie laddove può far loro più male, nei profitti.
Oggi sono diverse le mobilitazioni che avvengono in alcune carceri o sezioni per ottenere dei miglioramenti delle condizioni di prigionia. Indipendentemente dalla limitatezza delle loro rivendicazioni queste lotte sono importanti perché la determinazione, la capacità di osare e di organizzarsi non sono elementi fissi, immutabili, ma, dentro come fuori, si modificano anche in base alle esperienze vissute direttamente. Per tutti, compagni compresi, l’unico modo per imparare a lottare è farlo.
Oggi allora un bollettino simile, consentendo a mobilitazioni, proposte, atti di ribellione collettivi o individuali di oltrepassare le mura delle singole carceri oltre che consentire di avere un quadro complessivo più chiaro di cosa si muove oggi nelle carceri italiane, potrebbe favorire lo sviluppo di lotte nelle carceri ridando al contempo slancio e idee agli interventi anticarcerari fuori, facendoci trovare meno impreparati. A scanso di equivoci questa proposta non rappresenterebbe la soluzione alle mancanze degli attuali interventi anticarcerari, non può da sola colmare i vuoti accumulatisi negli anni per l’incapacità di agire con efficacia, ma rappresenterebbe piuttosto una valida intelaiatura per ripensare e riiniziare un intervento contro il carcere che sia meno estemporaneo.
Se a differenza de “La Bella” oggi un eventuale bollettino non nascerebbe in occasione di una lotta e quindi la sua diffusione e soprattutto la chiarezza dei suoi intenti richiederebbero, almeno inizialmente, maggiori sforzi ed attenzioni, la sua minor specificità potrebbe del resto favorire un radicamento maggiore nelle varie carceri in cui i compagni hanno già delle corrispondenze attive e un minimo di continuità d’intervento. Anche le giornate di colloqui con i familiari potrebbero essere una buona occasione tanto per diffondere il bollettino quanto per discuterne dei contenuti.
Se questa proposta dovesse incontrare l’interesse di altri compagni o prigionieri, Invece potrebbe ospitare suggerimenti, critiche ed approfondimenti a riguardo in previsione magari di organizzare un incontro evidentemente autonomo da questo giornale per discuterne apertamente.
i compagni di Invece
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Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto nel carcere di San Gimignano. Lo rende noto la Cisl-Fns. E’ accaduto stamane intorno alle 10: l’agente è stato preso a pugni in volto da un detenuto bosniaco di 24 anni, con fine pena nel 2013 per reati di rapina.
L’intervento dei colleghi ha evitato conseguenze peggiori. L’agente è stato trasportato con l’ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Campostaggia di Poggibonsi.
L’uomo è stato medicato e dimesso con una prognosi di 10 giorni. Il segretario generale della Cisl-Fns, Giuseppe Sottile “condanna il miserabile atto” di “aggressione brutale nei confronti del poliziotto” e sottolinea come il penitenziario sia “gravemente sovraffollato di detenuti di oltre il 40% della capienza regolamentare, con una presenza quotidiana superiore a 400 unita”.
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Boise. Idaho. Lo ha denunciato la moglie Naghmeh in un suo Tweet: “Vi chiedo di pregare per mio marito, Saeed Abedini. Soffre di emorragie interne a causa dei continui pestaggi di cui è vittima. 8 anni di carcere sono una condanna a morte. Ho il cuore rotto nell’apprendere la notizia di emorragie interne.
Saeed Abedini è un giovane pastore evangelico di origini iraniane ma con passaporto statunitense. E’ in carcere dal 26 settembre del 2012 con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale”, un’imputazione creata ad arte per punirlo per la sua conversione dall’Islam e per le sue attività evangelistiche.
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PADOVA — Ha avuto un malore e si è accasciato nella cella del carcere di Treviso, dove si trova da circa due settimane. Luciano Franceschi, 54enne imprenditore di Borgoricco che l’11 febbraio scorso ha sparato a Pierluigi Gambarotto, direttore del credito cooperativo di Campodarsego, si trova ora in gravi condizioni nell’ospedale Ca’ Foncello. Franceschi, agli arresti per tentato omicidio volontario, è stato sottoposto ad accertamenti e cure e le sue condizioni sarebbero stazionarie. Dal punto di vista giudiziario invece la sua posizione sembra vacillare: è stato infatti depositato il verbale delle dichiarazioni fatte in ospedale dal direttore della banca colpito al ventre, e sembra che le due versioni, quella di Gambarotto e quella di Franceschi, siano discordanti. Il ferito dice infatti di aver discusso inizialmente con Franceschi della rinegoziazione di un fido, sul quale l’imprenditore avrebbe posto delle condizioni inaccettabili dal punto di vista della banca.
Alla risposta negativa del direttore, Franceschi avrebbe cominciato ad agitarsi, e quando Gambarotto si è alzato per accompagnarlo alla porta, il 54enne di Borgoricco avrebbe preso la pistola sparandogli all’addome. L’indagato invece aveva detto che ci sarebbe stata un momento di concitazione, e che non aveva intenzione di sparare al direttore, ma solo di mettergli paura e creare panico in banca, sequestrando tutti per attirare l’attenzione sulla «causa venetista». Relativamente alle dichiarazioni di Gambarotto, c’è da dire che l’uomo è apparso lucido e consapevole nel racconto di quell’incontro, salvo poi svelare qualche difficoltà nel definire nel dettaglio i momenti immediatamente precedenti allo sparo. Probabilmente il trauma subito non consente al direttore della banca di mettere ancora ordine negli attimi prima dei due colpi che gli hanno perforato l’addome. Di certo c’è che secondo la sua versione Franceschi avrebbe alzato la pistola all’improvviso e premuto il grilletto. Gambarotto è ancora in ospedale, ma sta migliorando, la sua vita è rimasta appesa a un filo per una settimana, ha subito un lungo intervento, ma da una decina di giorni circa l’uomo è fuori pericolo. E per un beffardo gioco del destino ora è proprio l’uomo che gli ha sparato ad essere in gravi condizioni in ospedale. Prima di sentirsi male Franceschi ha fatto richiesta di scarcerazione davanti al tribunale del Riesame.
Il documento ai magistrati lo ha scritto di suo pugno e in completa autonomia, all’insaputa anche del legale che lo sta seguendo, l’avvocato penalista padovano Giovanni Lamonica. Si tratta di un altro gesto di dimostrativo contro lo Stato italiano, una presa di posizione che in carcere si è andata rafforzando, stando a quanto diceva qualche giorno fa il fratello Enzo. Sembra infatti che tra i pensieri di Franceschi dall’11 febbraio a oggi i problemi finanziari dei caseificio di Borgoricco siano andati in secondo piano. Quelle ansie che lo avevano preso per aver sforato il fido, che lo preoccupavano dopo la perdita della moglie, sono state travolte dalla volontà di portare avanti la causa del Veneto libero e indipendente rispetto a uno Stato visto solo come un’invasore che chiede tasse senza dare nulla in cambio. L’obiettivo è infatti proseguire, anche dal carcere con la battaglia di carte e burocrazia che lo porteranno, dice lui, fino a Bruxelles. Di certo quello Stato italiano che Franceschi non riconosce dovrà processarlo per quei due colpi sparati contro un direttore di banca che peraltro conosceva da tempo. In ogni caso ora Franceschi dovrà superare l’attacco di cuore che lo ha colpito sabato e che lo vede sul letto di un ospedale, sottoposto a cure che gli stanno salvando la vita, prestate gratis da quello stesso Stato che lui detesta.
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Continuano le aggressioni in carcere da parte dei detenuti nei confronti dei Poliziotti penitenziari. Carceri sovraffollate con carenza d’organico di Polizia Penitenziaria.
Aggressioni ad agenti, violenze ripetute: episodi, molto gravi, che sono soltanto uno specchio di una situazione che non è più sostenibile da parte del personale che opera presso il carcere di Vigevano. Di qui viene un allarme carceri che non risparmia nemmeno Pavia. Nei giorni scorsi, per due volte, nella prigione della Lomellina agenti della Polizia Penitenziaria sono stati oggetto di aggressioni che li hanno costretti ad andare all’ospedale. In un primo caso un detenuto ha dato in escandescenze nella propria camera e, una volta all’ora d’aria, si è scagliato contro chiunque incontrasse. Nel secondo, un detenuto insofferente allo stato di detenzione, ha preso per il collo un agente di vigilanza.
Dati altrettanto allarmanti arrivano dal carcere di Pavia, che sta letteralmente scoppiando. Rispetto a una capienza sulla carta di 247 persone, infatti, i detenuti sono quasi il doppio, 488. Inferiore a quanto previsto in pianta organica anche il numero di agenti impegnati che è di 241 persone, a fronte delle 285 ipotizzate. Ma il carcere di Torre del Gallo è destinato ad ampliarsi. A maggio, dopo qualche ritardo a causa di problemi strutturali che hanno fatto slittare l’inaugurazione, si aprirà un nuovo padiglione, il rischio è però che non venga adeguata la pianta organica.
E, come è destinata ad ampliarsi la casa circondariale di Pavia, lo è anche quella di Voghera dove al momento, però, si sta leggermente meglio. A fronte di una capienza di 163 detenuti, si trovano ristretti in 211. Inferiori al previsto pure gli agenti che sono 165 e non 187 come dovrebbe essere.
Fonte; il giorno
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La situazione delle carceri minorili in Italia non è esattamente la riproduzione in scala ridotta della sistematica infrazione dei diritti basilari di quelle per adulti, ma non ci si allontana troppo.
La fotografia espressa dall’ultimo bollettino statistico elaborato dal Dipartimento di Giustizia Minorile racconta di un disagio che cresce inesorabilmente. Di fronte a una capienza ormai quasi saturata, il numero di minorenni inviati alle carceri è aumentato quasi del 20% dal 2006. Ma è l’identità dei detenuti il dato che desta più preoccupazione: mentre nel 2006 gli stranieri superavano nettamente gli italiani, ora accade esattamente il contrario. Sui 509 minori che passano le loro giornate negli Istituti Penitenziari, 309 sono italiani. La differenza di nazionalità rappresenta anche una differenza di genere: mentre le italiane minorenni autrici di reato rappresentano l’1% dei loro coetanei maschi, tra i detenuti non italiani la percentuale di donne raggiunge il 15%.
Anche per quanto riguarda le Comunità, centri di accoglienza destinati non esclusivamente ai minori autori di reato, la situazione non è buona. Si è passati da un totale di 463 minori collocati diariamente in queste strutture nel 2006 ai 958 nel 2012. Se questo fosse successo a scapito della misura più dura, il carcere, lo si potrebbe interpretare come un segnale positivo. Ma visto l’aumento descritto di sopra, si può solamente concludere osservando che i minori entrati nel circuito penale sono aumentati drammaticamente. I soggetti presi a carico dagli Uffici Sociali, enti locali del Dipartimento di Giustizia Minorile, sono passati infatti da 15.000 a 20.000. Questi enti devono quindi far fronte a una vera emergenza sociale, che riguarda soprattutto i minori italiani, senza poter attingere da nuove risorse.
Osservando i dati sull’ingresso nel circuito penale scorporati per nazionalità e genere, si nota come tra gli stranieri il numero di ragazze sia stabile da sette anni, mentre quello dei ragazzi sia raddoppiato. Per quanto riguarda gli italiani si osserva il contrario: con un aumento rispettivamente del 75 e del 50%. Confrontando questo dato coi precedenti, si osserva come per le ragazze italiane l’uso del carcere sia una misura residuale, anche perché l’Istituto Penale di Pontremoli, l’unico a servire l’Italia settentrionale, ha solo 16 posti ed è sempre completo.
In definitiva, a fronte di una costante spending review il budget, già risicato, della giustizia minorile non permette di far fronte a tutte le spese sostenute dalle Comunità (il tipo di centro più utilizzato) per l’alloggio dei minorenni autori di reato. Questo mentre le situazioni di povertà e di devianza sociale aumentano costantemente, con una crescita sistematica delle infrazioni più gravi da parte degli italiani e un conseguente aumento dell’uso delle carceri. Di questo passo, il traguardo del sovraffollamento sarà raggiunto anche per quanto riguarda i minorenni.
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Dal carcere di Terni viene un grido di aiuto: urla negli orecchi di tutti noi.
I detenuti del carcere di Terni hanno cominciato lo sciopero della fame. Raccogliamo l’appello ad esprimere la vostra solidarietà cliccando “mi piace” o “condividendo” l’appello su facebook per far pressione sulle forze politiche locali che si dicono democratiche affinché intervengano e, da parte dei movimenti, verificare la possibilità di creare una mobilitazione nella vita reale. Entrate in facebook sulla pagina del Comitato No Debito Terni ( http://www.facebook.com/comitatonodebito.terni ), trovate il post “lettera dal carcere di Terni”.
Qui di seguito una drammatica lettera dal carcere di Terni
“Sono isolato, senza TV, senza coperta di casa e non posso usare altre per allergie e asma, la finestra chiusa a chiave, senza caloriferi, siamo peggio degli animali, avvisati i compagni/e per un presidio, radio Onda Rossa per parlare sempre di Terni e su internet, 15 giorni fa è morto impiccato un ragazzo per come ci fanno vivere.
Sono ancora senza vestiario, non sono al 14 bis ma qui trattano peggio di un lager senza diritti, neanche al passeggio la domenica pazzesco…
Un abbraccio a tutti/e e V.V.B. Maurizio”.
Fonte
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diffondiamo da Polvere da sparo
“La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio. Chi l’attraversa non può evitare uno sfregio la cui rimarginazione non è affatto scontata.
La prima rasoiata isola il neo-recluso dai suoi mondi consueti, lo decontestualizza totalmente e in un lampo lo getta in uno stato di spaesamento radicale. Il noto, il familiare, l’abituale, scompaiono dal suo orizzonte sensoriale ed egli brancola, smarrito, nel vortice d’un risucchio che lo aspira entro un orrido di cui non percepisce altro che i pericoli.
Lo stato di spaesamento trova nella vertigine la sua forma più consueta.
Secondo Daniel Gonin, medico penitenziario e coordinatore di una ricerca condotta nelle carceri francesi per conto del Consiglio di Ricerca del Ministero della Giustizia, almeno “un quarto degli entranti in prigione soffre di vertigini (…). Quando questi malesseri si manifestano in forme spettacolari, per poco non arrivano a far cadere per terra coloro il cui equlibrio è piu’ precario. Tuttavia, anche se in forme meno gravi, condizionano ogni detenuto, costituendo una sorta di mordenzatura sulla quale si fissano progressivamente tutte le modificazioni sensoriali del recluso” [1].
La seconda rasoiata investe il flusso polimorfo degli stimoli ambientali che, improvvisamente, viene disseccato. La riduzione drastica degli stimoli ambientali riduce, in chi la subisce, un grappolo di fenomenologie riconducibili alle transe di ipostimolazione.
Arnold Ludwig nella sua celebre catalogazione degli stati di coscienza osserva che la riduzione delle stimolazioni esterne può essere considerata il dispositivo induttore portante degli stati conseguente alla reclusione [2].
Le persone soggette alla Riduzione degli Stimoli Ambientali accusano, secondo le ricerche, disfunzioni sensoriali, motorie, percettive, cognitive ed emozionali. Ed inoltre, in un estremo tentativo di difesa, esse recuperano memorie cruciali sepolte, che possono favorire un processo di adattamento come pure suscitare ansie aggiuntive le cui radici restano sfuggenti [3].
Stati di allucinazione visiva, auditiva, tattile; del gusto e dell’olfatto; difficolta’ a camminare, scrivere, leggere; distorsioni della percezione del tempo e dello spazio; sconvolgimenti dell’alimentazione, del sonno,della sessualita’ accompagnano chi vive quest’esperienza spesso anche per lunghi periodi dopo la sua fine.
Queste prime manipolazioni collocano a tutti gli effetti le torsioni relazionali esercitate dall’istituzione nell’ordine della tortura;
traducono le pene reclusive inflitte dai giudici in manipolazioni dei sensi e della coscienza le cui implicazioni sono del tutto trascurate da chi le innesca. Come pure trascurate sono pure le reazioni. Prima fra tutte, la morte [4]. Che e’ l’esito, talvolta immediato, di una dissociazione fallita; dell’incapacita’ o del rifiuto di elaborare, nel vortice della vertigine, un Senso qualsivoglia per la propria esistenza nella nuova condizione. D’altra parte, l’elaborazione, sia pur embrionale, di un Senso, se per un verso mette al riparo dalla morte, per un altro spinge una parte di se’ a vestire la divisa del carceriere e con cio’ ad avviare una dinamica penosissima di dissociazione.”
1. D.Gonin, Il corpo incarcerato, Torino 1994, Edizioni Gruppo Abele.
2. A. Ludwig “Alerated states of conscousness”, in Archives of General psychiatry, 26, 1968.
3. Anthony Suraci, Environmental Stmolus Reduction, Rew. Ment. Dis. 138, 1964, 172-180.
4. R.Curcio, S.Petrelli, N.Valentino “Nel bosco di Bistorco”, Roma, 1997, Sensibili alle foglie.
Questo uno stralcio di un testo di Renato Curcio,
per ora come assaggio del materiale che ho voglia di mettere,
perché per smontare il carcere abbiamo bisogno di iniziare a minare quello, anzi quelli, che abbiamo dentro di noi.
Quello che costruiamo, non sempre inconsapevolmente, all’interno dei rapporti nei contesti gruppali,
così come in relazione con le istituzioni che volenti o nolenti siamo costretti ad affrontare nella vita.
Perché per liberarsi dal carcere, dal fine pena mai, e da ogni dispositivo di obbedienza,
eeeeeeeh, c’è da faticà.
Adottate il logo contro l’ergastolo, è un modo per sancire che nei vostri luoghi, fisici o virtuali, non esiste l’aberrazione della reclusione perpetua.
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Svizzera – La Commissione nazionale di prevenzione della tortura definisce «intollerabili» le condizioni materiali di detenzione del carcere losannese Bois-Mermet, nel quale sono ospitati 168 detenuti, mentre lo stabile è previsto per 100 prigionieri.
Nelle celle per un detenuto sono sistemate da due a tre persone. Avolte, i carcerati sono persino costretti a dormire su un materasso per terra. L’ora d’aria non è sempre rispettata e l’accesso alle docce limitato.
La Commissione ha espresso recentemente critiche analoghe nei riguardi del carcere ginevrino di Champ-Dollon.
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Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha escluso qualsiasi ipotesi di amnistia generale verso i ribelli indipendentisti curdi, mentre sono in corso dei negoziati fra in servizi segreti di Ankara e il leader storico del Pkk, Abdullah Ocalan. “Non siamo autorizzati a concedere la grazia agli assassini, non ci occuperemo di tale questione”, ha ribadito Erdogan le cui dichiarazioni sono state riportate dall’agenzia ufficiale turca, Anatolia. I contatti con Ocalan – condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Imrali – hanno come obbiettivo il disarmo del Pkk, organizzazione considerata come terroristica dalla Turchia e dagli alleati occidentali di Ankara.
Fonte: Tm news
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Hanno le barbe lunghe e incolte la maggior parte delle guardie carcerarie delle prigioni libiche dell’era post Gheddafi. Proprio come quelle che portavano gli islamici nel mirino del deposto regime di Muammar Gheddafi. E sono proprio loro, gli ex detenuti, a essere diventati i secondini delle carceri della nuova Libia, le cui celle ospitano ora coloro che torturarono gli oppositori di allora.
Si stima che nel Paese molti degli uomini che ora controllano i circa ottomila prigionieri arrestati durante e dopo la Rivoluzione libica siano ex ribelli o ex detenuti. Alla guida del governo libico e dei servizi di sicurezza ci sono persone legate al Gruppo combattente islamico libico che ha contrastato il regime di Gheddafi negli anni Novanta. Ex membri di questo gruppo estremista fanno anche parte della nuova guardia nazionale.
Il nuovo capo del carcere di Tripoli, Mohamed Gweider, è un ex ribelle islamico che ha trascorso oltre dieci anni in una prigione libica. Due delle guardie che lo hanno torturato sono ora suoi prigionieri, così come l’ex capo dell’intelligence Abdullah al-Senussi. Gweider spiega che è “impossibile” che la Libia invii all’estero questi detenuti, anche se Senussi e Saif al-Islam Gheddafi sono accusati dal Tribunale penale internazionale di crimini per crimini di massa e altre atrocità durante la rivoluzione libica del 17 febbraio 2011. Per Gweider, come per molti altri, si tratta di una missione personale. Gweider, 49 anni, fu arrestato nel 1986 con l’accusa di cospirazione all’interno di una cellula jihadista mentre era agente dell’intelligence guidata da Senussi. Uscito dal carcere di Abu Salim nel 1997, ha sofferto delle torture subite per dieci anni sia sul piano fisico, sia su quello psicologico.
La maggior parte dei prigionieri libici è stato “detenuto per oltre un anno senza un’accusa e senza aver accesso a un legame”, ha denunciato Human Rights Watch nel suo rapporto del 2013, nel quale si legge che in alcune strutture i carcerati erano “ripetutamente torturati e morti in custodia”. E ora il rischio è quello di ritorsioni e vendette.
Fonte: Aki
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Il Tai Chi Chuan, antica tecnica psicofisica cinese, per migliorare il benessere e la disciplina interiore dei detenuti del carcere di Pistoia. È questa l’idea portata avanti da Jessica Venturi e Alessio Tinturli, entrambi maestri di discipline orientali, incaricati dell’insegnamento delle tecniche a una quindicina di detenuti della casa circondariale pistoiese. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del carcere Tazio Bianchi e dell’educatrice Liliana Lupaioli. Gli organizzatori dell’iniziativa sostengono così la volontà di mettere la struttura carceraria e i detenuti in contatto con il mondo esterno: il carcere come luogo di rieducazione, non isolamento.
Fonte: La nazione
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Monza – Addio (almeno parziale) al bus che collega il centro di Monza con il carcere. Dopo un solo mese di sperimentazione, e «visto lo scarso utilizzo del mini bus» (così recita il comunicato del Comune di Monza), l’amministrazione ha deciso di ridurre il servizio navetta attivato per collegare la stazione di Monza al carcere. Il servizio ora funzionerà offrendo due corse quotidiane dal lunedì al sabato: ore 7,30 dalla stazione al carcere; ore 14,30 dal carcere alla stazione. In precedenza le corse erano 6, tre la mattina e tre al pomeriggio.
La soluzione del bus navetta era stata presa giusto un mese fa, dopo le proteste seguite ai tagli operati da Net, e i disagi per l’isolamento di via Sanquirico. Da venerdì 1 febbraio era dunque stato attivato in via sperimentale un servizio navetta che ristabilisce il collegamento tra la stazione ferroviaria e il carcere: da piazza Castello, vicino al teatro Binario 7, all’ingresso della casa circondariale di via Sanquirico. Il servizio, svolto con minibus da 16 posti e concordato con la direzione del carcere, prevedeva sei corse giornaliere: tre al mattino dalla stazione al carcere e tre al pomeriggio dal carcere alla stazione. Sarà attivo dal lunedì al sabato secondo i seguenti orari: il mattino la partenza dalla stazione è fissata alle 7.30, 8.30 e 9.30, mentre il pomeriggio le partenze dal carcere sono stabilite alle 12.30, 13.30 e 14.30. Dopo un mese, però, i passeggeri imbarcati sono stati troppo pochi: da qui la riduzione a una sola corsa.
Fonte
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Una corte di Bani Suef (Alto Egitto) respinge il ricorso dei familiari di Nagy Rzik, 10 anni e Mina Fara, di nove. I due avrebbero dissacrato le pagine del Corano. Arrestati nell’aprile 2012 essi resteranno rinchiusi in un carcere minorile fino alla condanna definitiva. P. Rafic Greiche denuncia i tentativi dei Fratelli Musulmani di controllare di nascosto ogni ambito della società.
Il Cairo (AsiaNews) – Ancora soprusi e violenze contro i cristiani copti. Lo scorso 26 febbraio la Corte di Bani Suef (alto Egitto) ha respinto il ricorso in appello dei familiari dei due bambini Nagy Rzik, di 10 anni, and Mina Farag di 9 accusati di aver dissacrato il Corano. Essi sono rinchiusi in un carcere minorile dall’aprile 2012. Il caso ha suscitato molte critiche nel Paese. In molti giudicano il processo illegale e privo di qualsiasi logica.
Sami Harak, avvocato e membro del movimento Egyptian Against Religious Discrimination, sottolinea che “il caso di Bani Suef rappresenta un triste precedente e in futuro vi potrebbero essere altri processi per diffamazioni religiosa, soprattutto a danno di minori di fede cristiana”.
Lo scorso 9 aprile 2012 i due sono stati fermati dall’imam locale che li ha accusati di aver urinato sulle pagine del Corano. Prima di rivolgersi alla polizia, il religioso musulmano ha portato Nabil e Nady in chiesa chiedendo al parroco di punirli. Al rifiuto del sacerdote l’imam ha preso i due bambini e si è recato in tribunale insieme ad altri tre musulmani del villaggio. Senza alcun processo il giudice ha rinchiuso i due giovani in un carcere minorile, con l’accusa di dissacrazione religiosa. A nulla sono serviti gli appelli del padre e della comunità cristiana locale alle autorità locali. Nabil e Nady sono entrambi analfabeti e secondo i genitori non potevano sapere cosa vi era scritto su quelle pagine, trovate in un cumulo di rifiuti.
Se verrà portato avanti fino alla condanna, il caso segnerà un grave precedente per il Paese. Per Saaid Abdel Hafez, avvocato per i diritti umani, è stato commesso un doppio errore. Essendo minori e cristiani essi non possono essere puniti in base alla sharia. I musulmani locali avrebbero dovuto chiedere un risarcimento ai genitori e rappresentanti della comunità copta locale. Il secondo e più grave sbaglio è il processo fatto da una corte civile su pressioni di un leader religioso.
P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, lancia un allarme sull’islamizzazione del Paese. “I Fratelli musulmani – afferma – stanno sostituendo in sordina tutti funzionari dei governatorati locali con persone a loro fedeli. L’Egitto sta diventando sempre di più un Paese islamico, con gravi rischi soprattutto per la minoranza cristiana”. Secondo il sacerdote tale cambiamento avviene nel silenzio generale e lontano dagli occhi dei media. Gli islamisti rimpiazzano funzionari di secondo e terzo rango, che fungono da “consiglieri” per i responsabili dei vari settori dalla Giustizia all’economia. “La popolazione – afferma – non si accorge di nulla. Ma sono decine le persone licenziate e sostituite con altri personaggi dichiaratamente vicini all’establishment estremista”. Proprio grazie a questi “infiltrati le ali più intransigenti dei Fratelli Musulmani e i salafiti agiscono indisturbati, senza il timore di essere puniti”.
Lo scorso 24 febbraio un gruppo di islamisti ha circondato la chiesa di Abu Maqar nel quartiere cairota di Shubra al-Kheima, interrompendo per la seconda volta i lavori di costruzione di una parte dell’edificio. Gli estremisti sono giunti indisturbati sul luogo, sostenendo che non vi erano le necessarie autorizzazioni. Lo scorso 6 luglio centinaia di salafiti hanno presidiato il luogo per più di 24 ore e issato uno striscione con la scritta “Moschea Ebad al-Rahman”, intimando ai cristiani di lasciare il luogo. Molti di loro erano armati. (S.C.)
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diffondiamo da ristretti-orizzonti
Nel solo mese di febbraio sono morti, per cause da appurare, tre detenuti nel carcere di Poggioreale, nel quale sono “ospiti” circa 2.781 unità su una capienza di 1.679 posti. Lo rende noto oggi Mario Barone, Presidente dell’Associazione Antigone-Campania.
“L’1 Febbraio 2013 C.D., già ricoverato al Centro Clinico interno al Carcere di Poggioreale, è deceduto dopo un ricovero urgente al Loreto Mare. F.M. è morto il 6 Febbraio 2013 in Ospedale, dove era stato ricoverato dal 26 gennaio 2013. R.F. è deceduto a seguito di un malore in istituto il 16 febbraio 2013: il 118 ne ha constatato il decesso”.
Questa la drammatica sequenza di morti secondo il portavoce dell’associazione. “È davvero un dato preoccupante” – ha detto Barone – “la sequenza di tre decessi per ragioni legate alla salute. Nei primi due casi, il ricovero in una struttura ospedaliera extra-muraria, avvenuta solo pochi giorni prima del decesso, solleva non pochi interrogativi sugli standard delle prestazioni sanitarie rese all’interno del carcere. Per quanto riguarda l’ultima morte improvvisa, ci chiediamo quali siano le procedure previste nei casi di emergenza e quali interventi di pronto soccorso si attivino in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118”.
“Nonostante siano passati cinque anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla competenza delle Asl” – continua Barone – “ad oggi, non abbiamo dati affidabili e certi sui quali effettuare un monitoraggio. Secondo le nostre stime oltre il 60% dei detenuti presenta una patologia cronica. La tutela della salute in carcere rimane una zona grigia dei diritti fondamentali del detenuti”.
“Il nuovo Parlamento” – ha concluso il presidente campano di Antigone – “dovrà occuparsi, non solo delle drammatiche condizioni di sovraffollamento carcerario che hanno portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma anche della tutela del diritto universale alla salute all’interno degli istituti di pena. Noi da subito segnaleremo questi decessi al Garante campano dei diritti dei detenuti e al Presidente della Commissione Sanità e Sicurezza sociale del Consiglio regionale perché se ne approfondiscano le cause e le dinamiche”.
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Nei giorni scorsi abbiamo incontrato un cittadino da poco uscito dal carcere calabrese di Rossano Scalo, segnatamente dalla sezione “media sicurezza”. Una struttura che sorge in una terra di nessuno, lontana dal centro abitato e che ospita più del doppio dei ristretti che potrebbe contenere. Le parole di questo cittadino danno ancora una volta il senso di un degrado già raccontatoci da un uomo nella stessa condizione del nostro interlocutore (clicca qui) che dimostra come non solo a Poggioreale o a Santa Maria Capua Vetere (clicca qui) esistano situazioni dove la dignità umana è quotidianamente calpestata. Eppure in Calabria esiste anche un altro carcere, come quello di Locri o come il reparto alta sicurezza di quello di Rossano, dove per fortuna non avvengono le tragedie che il cittadino da poco uscito da suo tunnel giudiziario ha deciso di raccontarci. Tragedie che avvengono ogni giorno anche in altri penitenziari, come quello di Poggioreale che nelle ultime settimane ha fatto registrare tre decessi per presunte carenze negli standard igienico sanitari all’interno della struttura.
Partiamo dalla situazione igienica e dalla vivibilità del penitenziario di Rossano Scalo
“Nel carcere di Rossano Scalo non c’è acqua calda in cella. Le docce sono divise in base ai due reparti e ci sono 4 docce per ogni 100 detenuti in celle che, pur essendo da due, ospitano quattro detenuti. Abbiamo fatto anche le battiture e lo sciopero del carrello per protestare contro la quinta branda che in alcune celle era presente. Ricordo che chi dormiva all’ultimo piano del letto a castello, urtava praticamente con la testa sotto al soffitto. L’acqua calda non è disponibile per tutti i detenuti quando è il momento di fare la doccia e per molti l’acqua è tiepida, quando non fredda. Le docce sono poste all’esterno e quindi, una volta lavato – per modo di dire – il rischio concreto è quello di ammalarsi, come anche a me è capitato con febbri molto alte. In caso di malattia, poi, sei abbandonato a te stesso e se stai male ti conviene stare zitto e restare sulla branda. Consideri che molti detenuti sono non calabresi e ci sono anche tanti immigrati. Per questi il dramma è doppio perché c’è anche la solitudine”.
Cosa faceva o che servizi offriva il carcere nei momenti in cui non eravate chiusi in cella?
“Non offre nulla e non funziona niente, si può dire che funzioni meglio il reparto alta sicurezza rispetto a quello di media sicurezza dove io ero detenuto. A differenza dei detenuti del reparto alta sicurezza, noi non avevamo né cuochi né corsi di ceramica o altre attività. L’unica cosa che ho potuto fare è stata iscrivermi al catechismo”.
Ha assistito a suicidi o a scene di autolesionismo dietro le sbarre?
“L’autolesionismo l’ho visto coi miei occhi. Una scena che non dimenticherò mai più. Era un detenuto marocchino che si tagliò le braccia e uscì dalla cella sanguinando in modo spaventoso. Ricordo che scagliò degli oggetti, uno sgabello contro una porta e vennero gli agenti a prenderlo. Lo misero in isolamento, al primo piano. L’indomani mattina, all’alba, presero questa persona e – parliamo di poche settimane fa e faceva un gran freddo – la buttarono nel “passeggio” dove trascorrevamo l’ora d’aria. Lo buttarono in mutande e sentivamo strillare tutti i detenuti stranieri che si accorsero di quanto era accaduto. Il detenuto marocchino fu anche minacciato di ricevere come trattamento punitivo la doccia con l’estintore. Successe un macello quel giorno in carcere”.
Che ci può dire del vitto a Rossano Scalo?
“Il vitto più di una volta è stato una patata bollita a testa, non c’era nulla. La domenica sera non passa il carrello e i prezzi nello spaccio sono astronomici. Dal tabacco ai generi di prima necessità, i prezzi sono più che raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. Inoltre la colazione era preparata ogni mattina in maniera antigienica. Ricordo fusti di latte che venivano lasciati per ore a pochi metri da enormi cataste di spazzatura con topi, scarafaggi e sporcizia tutt’attorno. Quel latte era destinato a noi detenuti, uno schifo solo a pensarci”.
Oltre a quel marocchino, c’è qualche altro caso umano che l’ha colpita a Rossano Scalo?
“Certo, più di uno ma in particolare ricordo un anziano signore che era in carcere da oltre vent’anni e che ha più di 70 anni. E’ in condizioni pietose e non riceve visite da tempo, anche se i colloqui non sono per nulla riservati dato che ovunque ci sono cimici e telecamere. Per noi non esiste privacy. Tornando all’anziano, ha bisogno di cure che non riceve e spesso in carcere siamo noi detenuti a dover svolgere assistenza. Anche a me è capitato, quando ero in infermeria e a mia volta avevo bisogno di cure urgenti. Un’esperienza incredibile e terribile da vivere. Posso dire che in carcere a Rossano Scalo non c’è alcun rispetto per la dignità. In quel carcere sei un numero, un pacco postale”.
Fonte
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Per spostare un carcerato dalle Sughere a viale Alfieri servono cinque agenti «Adesso quel personale verrà utilizzato per altre mansioni»
LIVORNO. La telemedicina sbarca nel carcere di Livorno. Tra pochi giorni, infatti, il servizio sarà attivo anche presso la casa circondariale delle Sughere, dopo Porto Azzurro e isola di Gorgona. Il servizio, messo a disposizione dall’Usl 6, permette di collegare le strutture di reclusione con il reparto di Dermatologia dell’ospedale di Livorno. Il medico, presente all’interno della struttura carceraria trasmetterà, tramite videocamera digitale, le immagini del paziente al reparto di dermatologia. Qui, in tempo reale, lo specialista dermatologo individuerà presunti melanomi, infezioni cutanee o altre lesioni della pelle, acquisirà esami, dati clinici e stabilirà l’eventuale terapia da somministrare al paziente o le visite da effettuare. «Questo servizio – spiega Andrea Belardinelli, responsabile dell’Area programmazione e innovazione dell’Usl 6 – permette di eseguire visite dermatologiche senza effettuare spostamenti di detenuti all’esterno del carcere o di professionisti all’interno, limitando i costi e le difficoltà logistiche». Per spostare un detenuto dal carcere all’ospedale «vengono impiegati fino a cinque persone tra autista e agenti di guardia – precisa Carmelo Cantone, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Toscana – che potrebbero essere utilizzati per altre mansioni».
Sono 2200 le visite specialistiche a cui, ogni anno, vengono sottoposti i detenuti del carcere livornese, di queste 2mila sono quelle interne (230 di tipo dermatologico) e 200 quelle esterne; venti i ricoveri. I dati aggiornati all’1 giugno 2012, indicano che il totale dei detenuti presenti all’interno delle Sughere è di 140, in diminuzione per la chiusura di due padiglioni (nel 2011 erano 420), tuttavia ogni anno passano dal carcere circa 2500 detenuti che poi vengono spostati altrove. Il personale che svolge servizio medico e infermieristico è composto da 10 medici e 11 infermieri che lavorano 27 ore al giorno. A rendere possibile il servizio di dermatologia, tramite telemedicina, è l’uso della banda larga, cioè quell’infrastruttura che permette di far viaggiare in maniera veloce e sicura grandi quantità di dati. Ogni paziente avrà a disposizione una cartella clinica elettronica, non più cartacea, che conterrà l’intero percorso medico del detenuto, potrà essere aggiornata in tempo reale e rimarrà a disposizione anche in caso di trasferimento da un carcere all’altro. «Siamo partiti con il servizio di dermatologia – spiega Maria Gloria Marinari, responsabile della Sanità carceraria – perché è quello che si presta meglio alla telemedicina. A breve partirà anche quello di cardiologia con la possibilità di inviare i referti degli elettrocardiogrammi». «Questo è il primo passo per permettere ai cittadini reclusi di avere pari opportunità sanitarie», conclude il dg Monica Calamai.
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Un secondo detenuto palestinese è morto ieri in un carcere israeliano in Cisgiordania. Ne dà notizia il sito di al Arabiya, aggiungendo che l’Anp ha lanciato una inchiesta su questo nuovo decesso. Secondo la famiglia, citata dall’emittente araba, Ayman Abu Sufian, 40 anni, era diabetico e prima di morire aveva la pressione alta. Abu Sufian era stato arrestato mercoledì dalle autorità israeliane. Il 23 febbraio era morto in un carcere israeliano un altro detenuto palestinese, Arafat Jaradat, 30 anni. Le cause del decesso, che ha innescato violente proteste in tutta la Cisgiordania, non sono state ancora accertate, ma anche per il Presidente palestinese Abu Mazen l’uomo è stato torturato. Migliaia di palestinesi manifestano in Cisgiordania da settimane per esprimere la loro solidarietà ad almeno 11 loro concittadini detenuti da Israele, da tempo in sciopero della fame per protestare contro la politica di detenzione di Israele.
Fonte TM News
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Enna – Viene riferito a questa Segreteria Regionale SAPPe che giorno 28
FEBBRAIO 2013 un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria assistente capo
in servizio presso la Casa Circondariale di Piazza Armerina , durante l’espletamento
dell’attività lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario presso il reparto detentivo
primo piano senza alcuna motivazione è stato aggredito da un detenuto di origini
catanesi solo perché l’ utente non aveva accettato di buon grado una rilevazione
disciplinare.
Per quanto si è venuto a sapere ,il poliziotto penitenziario era solo presso il
reparto detentivo durante il cambio per usufruire del tempo necessario per pranzare .
L’appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria ha riportato varie contusioni
con prognosi di giorni 10 salvo complicazioni.
Fonte
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La storia di Carmine Tedesco, il detenuto 58enne deceduto al “Ruggi” il 14 novembre in circostanze ancora da chiarire, “non è purtroppo la prima, né allo stato sembra essere l’ultima che registriamo in un Paese in cui non esiste la pena di morte, ma è stata illegalmente introdotta la morte per pena. Sono tanti i casi che gridano giustizia”. Donato Salzano, esponente salernitano dei Radicali, da anni si batte per migliorare le condizioni di vita nella casa circondariale di Fuorni e nella sezione detenuti del “Ruggi”. La situazione è drammatica.
“La direzione sanitaria del carcere si fa in quattro, ma l’assistenza è assolutamente carente – spiega Salzano – Il numero degli immatricolati è salito a 550, il personale è tarato per una capienza massima di 280 unità. In servizio sono rimasti quattro medici ed altrettanti infermieri che non hanno né farmaci a sufficienza, né adeguate attrezzature diagnostiche. Basti pensare che in tutta la casa circondariale ci sono soltanto due defibrillatori”.
Un mese fa i Radicali incontrarono il manager dell’Asl Antonio Squillante per chiedere il raddoppio dei defibrillatori e l’istituzione di corsi di primo soccorso per gli agenti della polizia penitenziaria, “ma ad oggi non si è mossa una foglia”, sottolinea. Le patologie principali con cui gli operatori sanitari del carcere si scontrano sono le cardiopatie, le malattie infettive “e recentemente il diabete, di cui era affetto Tedesco, che rappresenta una emergenza che la casa circondariale non è in grado di fronteggiare come dovrebbe”.
Non è migliore la situazione della sezione detenuti dell’Azienda ospedaliera di via San Leonardo: “Sono aperte solo quattro celle su sei. Nessuna ha il proprio bagno né un televisore. Vivono in condizioni più dignitose le persone sottoposte al 41 bis – incalza l’esponente dei Radicali – Le guardie notturne, poi, vengono espletate da un medico della Medicina generale, reparto situato in tutt’altro plesso rispetto alla sezione detenuti”. I familiari di Tedesco hanno sporto denuncia affinché la Procura faccia luce sulle cause del decesso dell’uomo: dopo oltre tre mesi, non hanno avuto alcuna risposta.
Fonte: La Città di Salerno
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Diffondiamo da Informa-azione
La disinfestazione non è riuscita
Il 27 febbraio, il tribunale di Trento ci ha assolto dall’accusa di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo”. Il procuratore aveva chiesto dai 3 anni e 4 mesi ai 5 anni, ma il maldestro castello di carte è crollato. Per cui a Massimo è stata revocata la custodia cautelare. Il giorno dopo si sono conclusi i termini anche per l’altra sua custodia cautelare (emessa dal tribunale di Torino per i fatti di Chianocco, cioè la cacciata di una troupe televisiva, il 29 gennaio 2012, da un blocco NO TAV in Valsusa), per cui, dopo sei mesi, ritrova la “libertà” e il suo posto di combattimento… (ah, tanto per cambiare, come molti altri ha il divieto di andare in Valsusa).
Siamo di nuovo assieme grazie alla solidarietà dei tanti compagni, compagne e non solo che sono stati al nostro fianco. A loro la nostra gratitudine e il nostro arrivederci, sulle strade o sui sentieri della rivolta e del mutuo appoggio.
Il nostro pensiero è per i compagni e i fratelli ancora imprigionati.
Di seguito la nostra dichiarazione:
Dichiarazione degli anarchici imputati al tribunale di Trento
Il gioco delle parti su cui si basa la Giustizia di Stato prevede che voi ci accusiate e che noi, a testa bassa, veniamo qui a difenderci. Ma noi non accettiamo le parti, sia perché non riconosciamo lo Stato sia perché il gioco è palesemente truccato.
Se avessimo a che fare con reati specifici e con l’esibizione di cosiddette prove, questo processo non sarebbe nemmeno cominciato. E questo non lo diciamo noi. Lo dicono le carte giudiziarie.
Nella ordinanza di custodia cautelare che trattiene ancora agli arresti domiciliari uno di noi si definiscono “oscure le ragioni addotte dall’accusa, che si limita a semplici considerazioni astratte”.
Nella richiesta di arresti inoltrata dalla Procura si legge: “Deve ritenersi che indizi in ordine alla sussistenza del reato associativo ben possono essere desunti da elementi di prova relativi ai reati-fine, anche quando essi siano stati ritenuti insufficienti allo stesso esercizio dell’azione penale per tali reati”. In termini ancora più chiari: l’associazione “è premessa doverosa per valutare con correttezza e valorizzare quali ‘indizi’ delle circostanze che, diversamente, avrebbero valore ‘neutro’ dal punto di vista probatorio”.
Insomma, senza ricorrere ad una fantomatica associazione di cui la Digos di Trento si è inventata persino l’acronimo (“G.A.I.T.”, “Gruppo Anarchico Insurrezionalista Trentino”), ciò che i PM Amato e Ognibene avrebbero in mano è presto detto: un pugno di mosche. E questo nonostante il mastodontico dispositivo di controllo tecnologico messo in campo: 148.990 contatti telefonici, 10 mila contatti ambientali, 18 mila comunicazioni telematiche, 14 mila dati gps, 92 mila ore di video, 12 mila fotografie.
Gli inquirenti stessi, d’altronde, dicono di non possedere né prove né gravi indizi per determinare chi ha compiuto le azioni anonime di cui siamo accusati; da quelle azioni si desumerebbe l’esistenza di un’organizzazione, di cui noi faremmo parte; la nostra partecipazione si desumerebbe, a sua volta, dalle azioni. E così via, in una sorta di cortocircuito logico.
Siamo un bel grattacapo per i loro teoremi. Il codice definisce l’associazione sovversiva un “legame formalmente distinto dai singoli partecipanti”, cioè un’organizzazione stabile nel tempo, con un’organigramma, dei ruoli ecc. – caratteristiche, queste, inconciliabili con l’informalità, l’orizzontalità e l’affinità che da sempre caratterizzano i nostri rapporti come quelli di tanti altri compagni. E infatti Digos e Procura si lanciano, sfidando la grammatica non meno che la storia, a ipotizzare un’organizzazione “piramidale e gerarchizzata” compatibile, miracolo!, con lo “spontaneismo anarchico”.
I teorici del “G.A.I.T” sono Digos e Procura, non certo noi. Il “G.A.I.T” non esiste di fatto; e questo per il semplice motivo che non può esistere di principio. Un’organizzazione piramidale e gerarchica, con tanto di capi, sottoposti, cassieri e manovali, è la negazione stessa dell’idea, dell’etica e della pratica anarchiche. Simili ruoli e il miserabile mondo che si portano appresso esistono nelle Procure, negli eserciti, nelle istituzioni dello Stato e nella società capitalista, non tra chi di tutto ciò vuole fare tabula rasa. Un’organizzazione nella quale gli individui sono degli intercambiabili strumenti ucciderebbe le nostre idee e i nostri sogni ancora prima che la rivoluzione cominci. Quando parlate di noi, pensate sempre di potervi guardare allo specchio. Ma noi siamo il disordine dei vostri sogni, la negazione vivente del vostro mondo ingiusto, noioso e insensato. Siamo tra quelli che non obbediscono perché si rifiutano di comandare. Siamo tra quelli che in un’aula di tribunale non cambierebbero mai il proprio posto con il vostro.
Il gioco è truccato, abbiamo detto. Non perché questo processo sia più “ingiusto” di tanti altri, ma perché la magistratura non è affatto un’istituzione neutra della società, bensì lo strumento del dominio di una minoranza sul resto della popolazione, degli sfruttatori sugli sfruttati, dei ricchi sui poveri. Un’istituzione fedele nei secoli, come si evince dal nome stesso dato all’operazione poliziesco-giudiziaria nei nostri confronti. Sapete meglio di noi chi usava il termine “zecche” per indicare comunisti, socialisti, anarchici – e a poco è servito il ridicolo latinorum con cui avete mascherato il vostro linguaggio fascista. D’altronde da quell’epoca e da quella scuola viene l’articolo del codice con cui ci avete arrestato (come altri vostri colleghi hanno fatto con migliaia di compagne e di compagni); articolo che la vostra bella democrazia negli ultimi trent’anni non ha fatto altro che aggravare. I dati relativi alle condanne inflitte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato istituito da Mussolini non coincidono forse con quelli dei processi per “terrorismo”? Eccoci alla parolina magica.
Lo Stato di Portella della Ginestra, di piazza Fontana, di piazza della Loggia, della stazione di Bologna, dell’Italicus, di Ustica ecc. accusa noi di “terrorismo”, cioè di “violenza cieca e indiscriminata il cui fine è conquistare o consolidare il potere politico” (questa era la definizione che si trovava nei dizionari fino agli anni Settanta). Lo Stato dei bombardamenti in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libano, Libia accusa gli anarchici di voler “affermare coattivamente” i propri princìpi. Lo Stato di piazza Alimonda, della Diaz, di Bolzaneto, di Pinelli, Serantini, Lorusso, Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Lonzi, Mastrogiovanni e tanti, troppi altri accusa noi di “intimidire la popolazione”.
Nel mondo reale, che non si vede dai buchi della serratura da cui spiate noi e le nostre lotte, milioni di sfruttati, di poveri, di esclusi sono quotidianamente intimiditi, terrorizzati, avvelenati, uccisi dall’ordine sociale che difendete. Solo in Italia, ogni giorno quattro lavoratori non tornano a casa, e centosessanta persone crepano ogni anno in quelle galere dove ci avete più volte rinchiuso e dove abbiamo incontrato individui solidali e fraterni di sicuro più retti di voi.
Di fronte a questa guerra quotidiana condotta dalla classe proprietaria, vorreste che nessuno se la prendesse con le banche, con le agenzie interinali, con le tecnologie del controllo, con gli strumenti della morte e della devastazione ambientale. La collera è il solo capitale che gli sfruttati abbiano accumulato nella storia. E forse non è lontano il giorno in cui sarà per voi molto difficile attribuire ciò che vi spaventa a un pugno di anarchici; il giorno in cui sarà la popolazione povera e sottomessa a diventare una grande “associazione sovversiva”.
Ma torniamo alle carte. Nella fretta di assecondare il volere del ministro dell’Interno, vi siete decisamente lasciati andare. Accusate due di noi di aver orchestrato e diretto gli scontri del 3 luglio 2011 in Valsusa. Siamo dei NO TAV, e non da ieri, questo è vero. Ma ad assediare il cantiere-fortino del TAV a Chiomonte, il 3 luglio 2011, c’erano quarantamila persone; e non, come avete scritto senza vergogna nelle vostre carte, “circa 500 anarchici”. Curiosamente, la Procura di Torino non ci accusa di alcun reato specifico per tale giornata, mentre per quella di Trento avremmo pianificato tutto noi. Vi farebbe comodo sostituire una popolazione in lotta, che da vent’anni si oppone alla devastazione ad alta velocità della propria terra, con un pugno di “zecche”. Da disinfestare preferibilmente con quel gas CS di cui polizia, carabinieri e finanzieri il 3 luglio hanno sparato 4357 candelotti. Il movimento NO TAV ha già risposto a giornalisti e magistrati “siamo tutti black bloc”, ma l’autonomia e l’orizzontalità di una lotta per la terra, la dignità e la libertà non potete proprio tollerarle.
La Digos si spinge fino a scrivere che i partecipanti ai comitati NO TAV sarebbero, per noi, semplicemente degli “uomini di paglia” e il movimento “un serbatoio di risorse umane da utilizzare”. Non ci sono parole per commentare una simile sfrontatezza. Soltanto gli uomini di Stato e i capitalisti considerano le popolazioni “un serbatoio di risorse umane da utilizzare”, non certo gli anarchici. “Uomini di paglia”, poi, non sono forse i servitori per chi li comanda? Guardate le immagini dei vostri colleghi che alla Diaz hanno massacrato di botte persino delle persone anziane mentre erano sdraiate, e chiedetevi di cosa sono fatti quegli uomini lì.
Tra le vostre falsificazioni e la realtà di una lotta come quella NO TAV, in cui compagne e compagni hanno messo tutto il loro cuore, c’è un abisso – etico, umano, sociale.
Ma la Digos è riuscita ad accusarci perfino di aver strumentalizzato cinicamente la morte di Stefano Frapporti, un muratore di quarantanove anni fermato da due carabinieri in borghese e trovato, cinque ore dopo, morto nella cella numero 5 del carcere di Rovereto. Centinaia di persone – familiari, amici e tanti solidali – hanno manifestato per mesi la propria rabbia in città. Noi siamo già stati condannati per non esserci girati dall’altra parte, mentre l’inchiesta sulla morte di Stefano è stata, come al solito, archiviata. Nelle carte di Questura tutto questo scompare (proprio come sono scomparse le migliaia di persone che si sono battute in Valsusa il 3 luglio 2011): rimangono solo un “piccolo spacciatore” e gli anarchici “strumentalizzatori”. Il circolo “Frapporti-Cabana” nato a pochi metri dal luogo in cui Stefano è stato fermato quel maledetto 21 luglio 2009 è la migliore risposta ai vostri insulti all’intelligenza e alla dignità.
Il vostro spazio-tempo non è il nostro. Mentre siamo qui pensiamo alla gioventù ribelle che combatte nelle strade del Cairo. Pensiamo a quelle donne e a quegli uomini che in Grecia sono insorti per vivere senza lo Stato e senza i padroni. Pensiamo ai ragazzi condannati ad anni di carcere per essersi battuti a Genova nel 2001 e a Roma nel 2011. Pensiamo a quelle donne che in India si sono rivoltate contro la violenza maschilista e poliziesca. Pensiamo a tutte le donne e agli uomini morti nel Mediterraneo perché cercavano un po’ di pane e di libertà. Pensiamo a tutti quelli uccisi dalle vostre bombe. Pensiamo ai ragazzini palestinesi dagli occhi belli e dai cuori grandi. Pensiamo ai nostri compagni e ai nostri fratelli che resistono a testa alta nelle prigioni e nei lager di tutto il mondo. Pensiamo ai quattro compagni arrestati il 1° febbraio in Grecia e torturati dalla polizia. Pensiamo a tutti i ragazzi pestati nelle vostre caserme e nelle vostre galere. Pensiamo agli schiavi salariati nelle fabbriche militarizzate e nei campi di lavoro cinesi. Pensiamo agli animali, ai boschi, alle vallate e alle montagne che i vostri bulldozer e i vostri profitti devastano.
Pensiamo a tutto questo e non vorremmo vergognarci quando qualcuno ci chiederà, un giorno: “Mentre succedeva tutto ciò, voi che facevate?”. Vorremmo poter rispondere: “Abbiamo dato il nostro piccolo contributo con la testa, con il cuore e con le mani”.
Siamo il vostro imprevisto, la variabile non contemplata nei vostri calcoli.
Veniamo da lontano, e abbiamo lo stesso sogno che animava i contadini insorti nel 1525 in Germania: omnia sunt communia– visto che vi piace il latino.
Emettete pure le vostre sentenze. Noi voliamo più in alto.
Trento, ventisette febbraio 2013
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(ASP) – Catanzaro, 2 marzo 2013 – Nell’ambito del progetto “Salute senza barriere”, finanziato dal FEI (Fondo Europeo per l’Integrazione dei cittadini dei Paesi Terzi), proposto dal Ministero dell’Interno e attuato da un partenariato composto da Ministero della Salute e INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà), si è tenuto a Catanzaro, nella Casa circondariale “Ugo Caridi”, uno dei seminari informativi previsti in dodici istituti di pena d’Italia, in collaborazione con le ASL di riferimento, sul diritto all’assistenza sanitaria del cittadino straniero e detenuto, sulla riforma della medicina penitenziaria e il funzionamento del SSN.
Il progetto, che mira a promuovere l’integrazione sanitaria dei cittadini dei Paesi Terzi, ospiti temporaneamente degli Istituti di pena, coinvolge anche il personale sanitario dell’ Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro che ha in carico la salute dei detenuti nelle Case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e nell’Istituto penale per minori di Catanzaro.
Per il Dott. Antonio Montuoro, che si occupa da due anni di Sanità penitenziaria nell’Asp di Catanzaro e che è stato uno dei relatori del seminario “la situazione della sanità negli istituti penitenziari è a macchia di leopardo, con punte evidenti di criticità, ma anche con realtà, e la Calabria è tra queste, nelle quali, seppure con difficoltà, si riesce ad assicurare buoni standard di assistenza. E se la sanità penitenziaria calabrese è nel suo complesso virtuosa il merito va ascritto a tutte le professionalità mediche e non che operano in questi istituti “. Con riferimenti più specifici, Montuoro ha sottolineato che il Direttore generale dell’Asp di Catanzaro, dott. Gerardo Mancuso, dimostrando “una sensibilità davvero non comune verso le problematiche della salute in carcere, il 6 maggio 2011, dopo un lavoro preparatorio, ha sottoscritto insieme ai dirigenti degli istituti penitenziari, il protocollo d’intesa tra l’Asp, le case circondariali di Catanzaro e Lamezia Terme e L’Istituto penale per minori di Catanzaro. Protocollo che definisce le forme di collaborazione tra l’Ordinamento Sanitario e l”Ordinamento Penitenziario della Giustizia Minorile per garantire la tutela della salute ed il recupero sociale dei detenuti, degli internati adulti e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. Per Montuoro “la professionalità degli operatori sanitari (medici incaricati, medici Sias – Servizio integrativo di assistenza sanitaria, medici di continuità assistenziale, infermieri, psicologi, ecc) che lavorano nelle carceri, l’impegno, l’attenzione, la capacità d’ascolto delle persone affidate interamente alle loro cure, si sono rivelati fattori fondamentali per affrontare adeguatamente la domanda di salute in carcere”.
Un altro punto di forza è rappresentato dalla specialistica ambulatoriale. Nella Casa Circondariale di Catanzaro dalle 136 ore settimanali del 2010 si è passati alle attuali 162 ore nelle varie branche specialistiche, mentre ben 8931 sono state le visite effettuate in sede intramuraria solo le prestazioni sanitarie non altrimenti eseguibili all’interno degli istituti sono state effettuate nelle varie strutture ospedaliere del territorio. Anche i Ser.T. di Catanzaro e Lamezia, pur con carenza di organico, come sottolinea Montuoro, “garantiscono la prevenzione, la cura e la riabilitazione degli stati di dipendenza patologica dei detenuti”. “Diversamente da altre realtà carcerarie – aggiunge Montuoro – negli istituti di pena dell’ASP di Catanzaro, negli ultimi anni, si sono verificati pochi casi di suicidio ed una bassa incidenza di atti di autolesionismo e tentativi di suicidarsi. Un risultato ottenuto certamente grazie all’alta professionalità e al lavoro di chi dirige e gestisce le nostre carceri”.
Ricorda, poi, che “si deve alla proficua collaborazione tra operatori sanitari e operatori della giustizia minorile il progetto voluto dal Dipartimento Tutela della salute : “Percorso socio-sanitario per la tutela dei minori e dei giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile”, definito modello d’eccellenza dal Direttore Generale del Dipartimento Giustizia Minorile del Ministero”. Montuoro conclude dichiarando che “c’è ancora molto da fare, ci sono limiti da superare, tuttavia, in un momento di difficoltà e di tagli per la Sanità, l’Asp di Catanzaro ha dimostrato di “camminare ” per assicurare durante il periodo di detenzione nelle case circondariali il diritto alla salute, garantito costituzionalmente ad ogni cittadino della repubblica ed ai cittadini stranieri.
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Grazie alla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia di chiedere alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla possibilità di sospendere la pena se in cella non c’è abbastanza spazio, per la prima volta si affaccia all’orizzonte penale del nostro Paese l’idea delle carceri “a numero chiuso”. Una formula certo non esplicitata dai giudici che si sono trovati di fronte alla richiesta del detenuto Paolo Negroni, originario di Padova, di ottenere il differimento della pena a causa del sovraffollamento, ma che nella sostanza richiama quanto già accaduto in California e in Germania, dove sono stati posti limiti all’ingresso in carcere se questo non garantisce il rispetto dei diritti umani.
In California nel 2009 la Corte federale aveva addirittura intimato al Governatore di mettere fuori un terzo della popolazione reclusa, circa 40 mila persone, perché il sovraffollamento non garantiva ai detenuti condizioni di vita dignitose. Il 47 enne padovano, arrestato a settembre scorso mentre pedalava per le strade di Tombolo violando gli arresti domiciliari, era stato condannato a ulteriori otto mesi di detenzione. Ma nella sua cella del carcere Due Palazzi, dove al momento risiedono circa 870 detenuti in 369 posti regolamentari, l’uomo si è visto costretto a vivere con meno di tre metri quadri a disposizione. Un “trattamento inumano e degradante”, oltre che una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo quanto stabilito poche settimane fa dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato il nostro Paese.
Mentre così la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza, e in pratica a stabilire se una pena vada scontata in cella anche a rischio di essere incostituzionale, è stata avviata la raccolta firme sui tre progetti di legge di iniziativa popolare, promossi da un ampio “cartello” di associazioni e organizzazioni. E nel pacchetto di proposte legislative “per la giustizia e i diritti” si prevede appunto che “nessuno debba entrare in carcere se non c’è posto”. E che, per risolvere il grave stato di sovraffollamento, sia necessario modificare quelle leggi che cercano nel carcere una risposta al disagio sociale.
Leggi il più delle volte ideologiche, come quella sulle droghe, che ha riempito le nostre galere di tossicodipendenti, come dimostra il dato sconvolgente del Consiglio d’Europa secondo cui in Italia il 38,4 dei detenuti ha una condanna definitiva proprio per i reati previsti della Fini-Giovanardi. Sarà forse per difendere questo risultato record che Carlo Giovanardi s’è affrettato a puntare il dito contro quei politici che hanno sottoscritto le leggi di iniziativa popolare, accusandoli di volere la liberalizzazione delle sostanze? Più probabilmente, come hanno replicato le associazioni del cartello promotore, prima di parlare l’ex sottosegretario non si è nemmeno preso la briga di leggere il testo della loro proposta. Perdendo così l’ennesima occasione per star zitto.
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Allarme tubercolosi a Canton Mombello. Un detenuto di 42 anni, di nazionalità italiana, in cella dalla metà di gennaio, è risultato positivo al test di di Mantoux. L’uomo era in stanza con altre otto persone, immeditamente sottoposte all’esame della “tubercolina” e alla profilassi del caso.
Stessa procedura per il personale di polizia penitenziaria e per le altre persone venute a contatto con il malato durante la sua permanenza in carcere.
La malattia, in una situazione come quella in cui si trovano i carcerati della casa circondariale di Brescia, può creare davvero un pericolo epidemia, date le condizioni di sovraffollamento della struttura.
Il 42enne è stato ricoverato in ospedale, nel reparto infettivi dell’Ospedale civile di Brescia, in isolamento, e sottoposto a terapia antibiotica.
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Cinque giorni di carcere, senza poter bere per quasi 48 ore, senza la possibilità di contattare le autorità competenti o i familiari e in condizioni igieniche pessime.
È stato questo in sintesi il viaggio in Israele di Francesco, un ragazzo 30 anni, che il 28 gennaio scorso era partito alla volta di Tel Aviv per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza di una decina di giorni in Terra Santa e che si è invece tramutata in una detenzione forzata, per la quale ancora oggi non sono state fornite motivazioni ufficiali.
“Già da Roma i controlli sono stati eccessivi – racconta a Rinascita Francesco, partito dal terminal 5 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino – un piccolo interrogatorio viene fatto già alla partenza da agenti israeliani, che successivamente separano i propri concittadini dai semplici viaggiatori ebrei e dalle altre persone in partenza, attribuendo loro un diverso livello di sicurezza”.
Si tratta di un valore che va da 0 a 6, in base al rischio che ogni passeggero potrebbe rappresentare per la sicurezza del Paese e che viene segnalato applicando una targhetta adesiva scritta in ebraico su ogni passaporto. Dopo questa prima fase il turista italiano passa per la perquisizione e il controllo dei bagagli a mano, che gli saranno restituiti dopo oltre due ore di attesa. Francesco viene quindi accompagnato all’interno dell’area duty free dello scalo romano ed è qui che scopre che gli agenti hanno deciso di separare lui, una ragazza e due giovani palestinesi dal resto dei viaggiatori, e che a loro è stata affibbiata una scorta che li seguirà perfino in bagno fino al momento dell’imbarco.
“Hanno fatto prima riempire l’aereo e poi hanno fatto salire noi per non farci avere contatti con gli altri passeggeri”, prosegue il ragazzo, precisando però che durante il volo il trattamento riservato loro è stato assolutamente normale.
Giunti a Tel Aviv i quattro vengono nuovamente separati dagli altri, poiché le procedure di controllo dei viaggiatori ai quali è stato assegnato un punteggio superiore a 3 sono ben diverse da quelle degli altri. Francesco viene quindi privato nuovamente dei suoi bagagli a mano, fatto spogliare e i suoi vestiti passati ai raggi x.
“E fin qui rientra tutto nella normalità – spiega il giovane turista – circa il 25 per cento delle persone che si recano in Israele subiscono questa trafila. Un gruppo di 40 persone provenienti dalla Turchia per un giro religioso, è stato obbligato a restare un paio d’ore in sala d’attesa per approfondire i controlli”. Attesa che per Francesco è durata più di otto ore, nel corso delle quali è stato interrogato a più riprese dagli agenti della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
“Il colloquio verte inizialmente sulle generalità, sul tipo di lavoro che si fa e cose simili. Poi si entra invece nel merito del viaggio, mi hanno chiesto il perché fossi lì, se avessi prenotato alberghi, se avessi con me appunti, computer, videocamera o macchina fotografica e se conoscessi qualche palestinese”, racconta ancora il ragazzo, precisando che l’agente ha insistito molto su quest’ultimo punto. Sebbene a farlo innervosire sia stato il non aver né un posto prenotato per il pernotto, né annotazioni sulle aree da visitare, né il computer e neppure una scheda di memoria per la macchina digitale. Ma Francesco è abituato a viaggiare senza prefissare date precise per i suoi spostamenti, facendosi consigliare di volta in volta dove alloggiare e sa inoltre bene che le autorità aeroportuali israeliane sono solite copiare i dati contenuti nei dispositivi elettronici, motivo per quale aveva scelto di acquistare direttamente sul posto una nuova memory card. È a questo punto che il militare inizia a fargli domande sui suoi recenti viaggi nei Paesi arabi e in particolare in Libano, dove si è recato per lavoro, chiedendogli dove avesse alloggiato. Francesco risponde senza problemi, ma l’impossibilità per l’agente doganale di verificare la veridicità delle sue risposte, visto anche che il giovane per scelta non possiede uno smartphone con il quale tracciare i suoi ultimi spostamenti, lo fa innervosire.
“A quel punto mi ha chiesto l’indirizzo e il telefono di casa mia e di quella dei miei genitori e ha iniziato a ripetermi più volte domande fatte in precedenza, per farmi cadere in contraddizione, ma senza riuscirci”, aggiunge Francesco, che rivela di essere stato costretto nuovamente a spogliarsi e a subire altri controlli. Il tutto senza la possibilità di bere o di poter contattare qualcuno, dalla famiglia, all’ambasciata italiana a Tel Aviv.
“A mezzanotte e mezza vengo infine informato che il mio visto è stato rifiutato e vengo quindi portato in un altro ufficio per essere schedato – ci dice ancora – mi vengono prese le impronte e fatta una foto. Una procedura standard che subiscono tutti i rifiutati, ai quali non sarà permesso di tornare in Israele per 10 anni successivi al rifiuto”.
Francesco viene quindi accompagnato in un edificio esterno all’aeroporto che gli agenti chiamano Asility, una struttura di accoglienza momentanea in attesa del rimpatrio, che lui non esita a definire “una prigione, al pari di quelle del Burkina Faso e Burundi”.
“Una volta sequestratomi il bagaglio a mano e il cellulare mi portano al primo piano dove ci sono le celle e mi mettono dentro. Chiudono la porta blindata che ha solo un piccolo vetro che permette di vedere fuori, e mi ritrovo in una stanza di 5 metri per 6 che conteneva: tre letti a castello e un bagno, con solo il water e un lavabo dal quale usciva acqua non potabile”, rivela Francesco, che parla di condizioni igieniche pessime.
“All’interno – prosegue trentenne italiano – c’erano un ragazzo sudafricano in evidente stato di depressione e un sessantenne svedese che si lisciava la barba e parlava da solo fissando il muro. Ogni tanto quest’ultimo bussava alla porta e chiedeva acqua, le guardie dicevano sempre di sì ma non portavano nulla”. Solo dopo 48 ore di prigionia i militari si sono degnati di portare una brocca d’acqua, neppure la necessità di predere alcuni medicinali da parte di Francesco riesce a smuovere i carcerieri, sebbene almeno i pasti venissero serviti con regolarità. Alla fine del secondo giorno arriva però la telefonata della speranza del console italiano, avvisato dai familiari e dagli amici di Francesco preoccupati per il suo inspiegabile silenzio. Il diplomatico si mostra sorpreso e infuriato dall’atteggiamento delle autorità aeroportuali e si premura che Francesco abbia tutto il necessario, nonostante non possa aiutarlo a ripartire prima del volo fissato dagli agenti israeliani per il primo febbraio. “Quando sei in un posto così anche una telefonata di dieci minuti con una persona che ti parla in un certo modo e si mette a tua disposizione, ti rincuora – spiega il giovane turista – Per di più la chiamata del console in persona ha stupito le guardie della struttura essendo una procedura anomala”.
“In cinque giorni non ho preso nemmeno 10 minuti d’aria e ho perso la cognizione del tempo a causa dei fari fissati sul soffitto della cella che rimanevano sempre accesi, giorno e notte. Non mi son potuto lavare o cambiare, per bere ho detto che dovevo prendere medicine ma se ne fregavano”, rivela ancora Francesco, che sottolinea come nei suoi confronti e in quelli degli altri detenuti non sia stata fatta non violenza fisica, ma una terribile violenza psicologica, facendolo sentire “trattato come un terrorista”.
La cosa più triste di tutta questa vicenda, però, è la scelta forzata di Francesco di non presentare nessuna protesta formale al suo rientro in Italia, conscio del fatto che tanto non servirebbe a nulla, poiché, afferma: “Tutte le autorità del mondo sanno di queste procedure eppure nessuno fa niente, se ne fregano”. Quello riservato al trentenne italiano è infatti un destino che molti subiscono in silenzio ogni giorno e che rappresenta una violazione della dignità umana, poiché si viene sbattuti in carcere per aver, di fatto, solo osato chiedere il visto d’ingresso in Israele.
E, infine, come se tutto questo non bastasse, Francesco ha scoperto solo al suo ritorno in Italia che il bagaglio imbarcato era partito ben 24 ore dopo di lui per Tel Aviv a causa dei controlli. Bagaglio che ha ricevuto, poi, solo dopo due settimane dal suo rientro in Italia, con tutti i disagi del caso.
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Ricordi, nostalgie, radici – quelle spezzate, quelle cresciute intorno alle sbarre – e speranze da far vivere magari lontano da celle anguste. “Senza Sosta”, il volume presentato al Tribunale di Piacenza e curato dall’associazione Tessere Trame in collaborazione con Oltre il muro e con Asp Città di Piacenza, spinge il lettore all’interno della realtà – spesso considerata ai margini non solo della città, ma anche dei pensieri – del carcere delle Novate.
Un’iniziativa che da Barbara Garlaschelli ed Elisabetta Spaini, di Tessere Trame, è descritta così: «E’ un volume nato per testimoniare la vitalità di un mondo considerato a parte, come quello del carcere, e dal momento che la nostra associazione si occupa di letteratura, uno dei modi per meglio illustrare le attività della casa circondariale è senza dubbio quello di raccogliere pensieri e scritti dei detenuti». «Esaminati e scelti – ci tengono a sottolinearlo – in base al loro valore letterario, anteponendo la qualità letteraria alla condizione degli autori, scritti tra i quali sono state anche aggiunte frasi di grandi scrittori che hanno vissuto l’esperienza carceraria».
Dopo la presentazione di Valeria Parietti (presidente dell’associazione Oltre il muro) e di Brunello Buonocore (Asp Città di Piacenza), sono stati letti alcuni testi dei detenuti. Ricordando quello che ha detto Garlaschelli in apertura dell’incontro in merito a letteratura e detenzione, vale a dire che «nel momento in cui si scrive paradossalmente si è liberi, la letteratura è una grande forma di libertà». Ed è quello che spiega poco dopo Ugo, ex detenuto che racconta la sua storia e dice: «Rileggo oggi quello che scrissi in carcere. Fa effetto, ma quanto mi è servito». E nero su bianco lo ribadisce a suo modo T.L. nel primo dei racconti che si trovano nel libro, piccolo e prezioso: “A volte mi capita di vedere un po’ di primavera nella mia anima. Per l’estate credo ci vorrà tempo”.
Senza Sosta, supplemento del giornale del carcere “Sosta forzata” gestito da Carla Chiappini, si potrà trovare anche nella sede di Oltre il muro in via Scalabrini 21.
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