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Trikala (Grecia), 23 mar. (LaPresse/AP) – Almeno undici detenuti sono fuggiti da una prigione nella Grecia centrale dopo che un gruppo di uomini armati hanno attaccato il carcere con granate e armi automatiche, dando il via ad un braccio di ferro che è durato tutta la notte tra polizia e detenuti.
Un alto funzionario di polizia ha riferito oggi alla Associated Press che si è persa traccia di 11 detenuti dopo la sparatoria e la conseguente situazione di stallo che si è conclusa all’alba, quando le forze speciali di polizia hanno fatto irruzione nel carcere. Il funzionario ha parlato in condizione di anonimato perché si è ancora in attesa di un annuncio ufficiale.
Il blitz è avvenuto vicino alla città di Trikala, nella Grecia centrale, a 320 chilometri a nord-ovest di Atene. Almeno sei uomini armati hanno attaccato il carcere dopo aver guidato fino al sito su di un furgone e un pick-up, secondo i funzionari. Durante il pesante scambio a fuoco è durato più di mezzora e ha trasformato la zona in un campo di battaglia, ha reso noto il ministero di Giustizia greco, due guardie sono rimaste ferite, di cui una gravemente all’addome. Almeno cinque le granate esplose, mentre altre due sono rimaste sul campo mentre si attendono glio artificieri dell’esercito per farle brillare. È stato come se fosse in corso una guerra, c’erano così tanti colpi” ha raccontato un consigliere comunale di Trikala, Costas Tassios, che abita nel centro abitato di Krinitsa vicino alla prigione. Un proiettile vagante ha danneggiato la verina di una caffetteria ed è ora oggetto di investigazione.
I prigionieri fuggiti hanno usato corde e lenzuola legate insieme per scendere da una torre di guardia che si trovava sotto attaccato. Dovevano poi passare oltre due recinzioni perimetrali, sormontate da filo spinato, prima di poter scappare. Sono stati recuperati utensili per tagliare il filo. La polizia ha istituito posti di blocco nei pressi del carcere e ha perquisito case vuote e fabbricati agricoli, impiegando anche due elicotteri nella caccia all’uomo. Il mese scorso, le guardie del carcere di Trikala hanno sventato un tentativo di evasione di quattro detenuti che hanno tentato di fuggire in elicottero.
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Lo chiamano carcere, ma chi ci è passato lo descrive come un inferno. L’istituto napoletano di Poggioreale ospita 2.800 detenuti su una capienza massima di 1.600, costretti a vivere ogni giorno in celle sovraffollate, popolate da topi e scarafaggi, con bagni turchi in condizioni di degrado e perdite d’acqua dai soffitti. E, secondo numerosi racconti, costretti a subire gli abusi delle guardie penitenziarie.
VIOLENZE IN CARCERE. Che ha portato all’apertura di un’interrogazione parlamentare su presunte violenze all’interno del carcere.
«Era estate e faceva caldo quando andai a trovare mio figlio. Enrico aveva la testa abbassata, non parlava. Pesava 40 chili e quel giorno aveva addosso due maglie, nonostante nella stanza dei colloqui si soffocasse. Le nocche delle mani erano nere, piene di ematomi. Prima di salutarlo riuscii ad alzargli la maglia: le guardie penitenziarie lo avevano massacrato con i manganelli e gli stracci bagnati, mio figlio era distrutto», racconta Maddalena Artucci, che ha scelto di denunciare il figlio tossicodipendente dopo le continue percosse e i furti in casa. Ma che ora, dopo aver visto il trattamento inumano a cui viene sottoposto, vorrebbe tanto fare un passo indietro.
«Dopo aver tentato la strada dei Servizi per le tossicodipendenze(Sert) e delle Case famiglia», racconta Maddalena con le lacrime agli occhi, «non sapevo cosa fare, avevo bisogno di salvarlo. Ho cercato in tutti i modi di fargli evitare il carcere, ma alla fine sono stata costretta a denunciarlo. Enrico entrava in casa e distruggeva tutto, cercava soldi in continuazione. Mi ha picchiato molte volte e una volta mi ha lesionato la milza. Annarita, la sorella piccola, si nascondeva in un angolo con le mani davanti agli occhi per non vedere».
NIENTE SPAZI PER LA SOCIALITÀ. Ma Maddalena, per suo figlio, sperava in una riabilitazione umana. «Perché non insegnano ai ragazzi un lavoro? Perché non li fanno studiare?», domanda con gli occhi sgranati. Divisa in 12 reparti, la casa circondariale di Napoli, costruita nel 1908, non ha al suo interno spazi di socialità: i passeggi sono quadrati di cemento senza panche o copertura. In carcere sono 930 i detenuti con sentenze passate in giudicato, 325 sono stranieri, mentre il 30% della popolazione detenuta è tossicodipendente.
«La situazione è drammatica. In cella si arriva fino a 10-12 detenuti e con letti a castello fino a tre livelli», spiega a Lettera43.it Mario Barone presidente di Antigone in Campania, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che funge da osservatorio sulle condizioni delle carceri italiane, «e con l’arrivo della calura estiva le cose peggiorano. D’estate, il sole entra nelle celle in maniera così prepotente che sono costretti a refrigerare la stanza con magliette bagnate. La contiguità fisica di fornelli e servizi igienici e il fatto che nella maggior parte dei padiglioni non c’è la doccia in cella fanno il resto».
Nel 2012, ci sono stati 56 suicici nelle carceri italiane
In fila per ore i parenti dei carcerati, per un totale di 102 mila colloqui annui, aspettano, a volte fin dalla sera prima della visita, di incontrare i loro cari: sono preoccupati per la loro salute. Nelle ultime settimane, infatti, ci sono stati tre decessi che ancora devono essere accertati e che sollevano interrogativi sulle prestazioni sanitarie del carcere. «Mentre Roma bruciava, Nerone suonava. E questo è quello che succede oggi nelle nostre strutture», spiega a Lettera43.it il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) Donato Capece, «in Italia su 66 mila detenuti ci sono solo 43 mila posti letto detentivi. Le condizioni sono drammatiche, il tasso di suicidi è molto alto. Nel 2012, ce ne sono stati 56».
CONDIZIONI DRAMMATICHE. Fuori e dentro alla struttura si uniscono i destini di madri in pena, alcune costrette per necessità a denunciare i figli, nella speranza che il carcere potesse rieducarli. Ma è solo un’illusione. A Poggioreale non esistono lavori extramurari o interni che facilitino il reinserimento esterno, né è attivo alcun corso di formazione professionale. Una volta usciti dal carcere, è quasi impossibile riuscire a trovare un’occupazione e rifarsi una vita.
L’INCUBO DELLA CELLA ZERO. Pietro Iorio, presidente ex detenuti di Napoli-Poggioreale, ha parlato alcuni mesi fa di una ‘cella zero’, la stessa di cui ha parlato anche Maddalena: una stanza in cui i carcerati verrebbero picchiati quando fanno qualcosa che non va. Sul pavimento ci sarebbe un materasso per attutirne i colpi.
Eppure, dai piani alti qualcuno non crede a queste storie, come Capece. «Sono solo leggende metropolitane. Noi siamo dalla parte dello Stato e della legge». Affermazioni alle quali il presidente di Antigone risponde così: «Se pendesse nei miei confronti un’ordine di esecuzione di una condanna definitiva, l’ultimo posto in cui mi andrei a costituire è la casa circondariale di Napoli-Poggioreale».
Più provocatoria Maddalena: «Capece dovrebbe passare lì le ferie per capire cosa si prova. O vedere dove hanno messo mio figlio, in cella zero. Enrico era nudo, a fare i suoi bisogni nella stess stanza dove dormiva. Massacrato dalla penitenziaria. Avevo paura che facesse la fine di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Se uno ha sbagliato deve pagare, ma non con la vita. È giusto che gli venga tolta la libertà, ma non la dignità. Non siamo animali».
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Incredibile denuncia dell’Osapp, che dovrebbe far riflettere soprattutto alla luce dei recenti discorsi affrontati relativamente ai problemi economici in cui versa oggi il nostro Paese: nel carcere delle Vallette di Torino, ci sarebbero 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo previsto per l’istituto.
Notizia vecchia, questa, potremmo quasi dire, se non fosse che almeno una trentina di questi carcerati starebbero dormendo per terra, senza materassi in locali che, secondo quanto riferito da Leo Beneducci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria, sarebbero addirittura privi di servizi igienici.
“Purtroppo a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema” ha riferito Beneducci, “le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino, dove per una capienza di 1050 detenuti ve ne sono invece 1580”.
Quasi il 50% in più di persone rinchiuse, quindi, rispetto a quante ne prevede il carcere, le quali inevitabilmente si ritrovano a dover vivere incondizioni a dir poco improponibili, a causa delle inevitabili carenze dei servizi.
Il problema del sovraffollamento delle carceri è un aspetto della nostra società che non può passare inosservato o in secondo piano, considerando soprattutto il fatto che i tagli economici che inevitabilmente verranno effettuati per far fronte alla crisi non faranno altro che peggiorare questa situazione se non si interverrà adeguatamente per assicurare la garanzia e il mantenimento di tutta quella serie di diritti basilari di cui nessuno al mondo, nemmeno un criminale, può in alcun modo e per nessuna ragione essere privato in uno stato sociale e democratico come il nostro.
Troppo spesso, forse, si tende a dimenticare l’esistenza dei detenuti, chiudendo gli occhi, voltando lo sguardo dall’altra parte, considerandoli addirittura, in alcuni casi, alla stregua di animali da stipare in una gabbia il più a lungo possibile, mentre bisognerebbe invece ricordarli, e ricordare insieme ad essi quanto espresso dalla nostra Costituzione cioè che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” art. 27 comma 3 della nostra Legge Fondamentale.
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Il dramma delle carceri si consuma nel silenzio. Ieri un uomo di 53 anni, detenuto nel carcere di Ivrea, si è tolto la vita impiccandosi. L’uomo aveva soltanto un anno ancora di detenzione da scontare.Si tratta del 13° suicidio in un carcere italiano dall’inizio del 2013.
La notizia è stata data dal segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci. “Nonostante gli appelli accorati e le dichiarazioni di intento della politica e delle massime cariche istituzionali, la situazione non cambia”, è l’amara conclusione del sindacato di polizia penitenziaria.
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Dato del Dap aggiornato al 18 marzo 2013. Oltre 12mila in attesa di primo giudizio, mentre sono 39.653 i condannati in via definitiva. La capienza regolamentare è di quasi 46 mila posti.
Sono 65.995 i detenuti in Italia al 18 marzo 2013, di cui ben il 18,7 per cento (oltre 12 mila) in attesa di primo giudizio, su una capienza regolamentare delle strutture detentive di quasi 46 mila posti. Questo l’ultimo dato aggiornato fornito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria durante la conferenza stampa in corso presso il Museo criminologico a Roma di presentazione del “Progetto circuiti regionali”. Secondo i dati del Dap, i condannati in via definitiva sono il 60 per cento, cioè 39.653. Lombardia, Campania, Lazio e Sicilia le regioni col maggior numero di detenuti: 9.233 per la regione Lombardia, 8.412 in Campania, 7.201 nel Lazio e 7.080 in Sicilia.
Nel 2013 già 221 tentati suicidi, 6 evasioni
Dall’inizio del 2013 sono 221 i tentati suicidi registrati nei penitenziari italiani. A fornire il dato è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che rileva come siano avvenute nel periodo compreso tra l’1 gennaio e il 19 marzo, 6 evasioni, 3 dal carcere di Varese, 2 da quello di Parma e 1 da quello di Modica. “C’è un numero enorme di tentati suicidi – ha rilevato il vice capo vicario del Dap Simonetta Mattone, durante una conferenza stampa – ma grazie al personale di polizia penitenziaria e alla sua preparazione, si riesce a sventarli. I suicidi sono una realtà drammatica, ma rispetto alla popolazione in carcere, sono un fenomeno estremamente contenuto”. Sulle evasioni dal carcere, Mattone ha aggiunto: “Si tratta di fatti gravi, ma non c’è nessuna emergenza. I casi italiani sono meno rispetto alla media europea”.
Redattore Sociale
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diffondiamo da contrainfo Lettera del compagno Marcelo Villarroel per l’attività “Sono anticarcerario” realizzata il 14/12 all’occupazione La Mákina, Santiago.
Accendere la miccia della sovversione. Attizzare il fuoco insorgente della guerra sociale, giù le mura delle prigioni:
La prigione è il destino circostanziale o potenziale di ogni persona che prenda il controllo della sua vita, avanzando sul cammino dell’emancipazione, controcorrente rispetto a una normalità capitalista che impone la routine del cittadino, costringendo al lavoro salariato, agli studi per convalidare un sistema borghese di educazione e mantenerti sotto i parametri dell’ordine giuridico, che ci impone il capitale.
La prigione è un luogo che ti offre la democrazia, come uno spazio che cristallizza la sottomissione normalizzatrice.
Là finiscono, cominciano e passano tutti e tutte quelli/e che, in un modo o in un altro, non si sottomettono e trasgrediscono la pace sociale dei ricchi.
Colui/colei che commette dei crimini, che protesta, che attacca, che cospira, quelli/e che per le diverse scelte o decisioni non rispettano l’ordine giuridico, si trovano di fronte alla mano repressiva di tutto un sistema di repressione, controllo e punizione.
Ho ripetuto mille volte: in tutte le prigioni del mondo più del 90% delle persone rinchiuse provengono dalla classe sfruttata. Siamo oppressi e ribelli, diveniamo inevitabilmente sovversivi, quando decidiamo di smettere di andare avanti nella vita come degli schiavi.
Se sei nato povero, tu sei condannato in Cile, con un destino in una delle 91 prigioni del paese. Di luoghi controllati, che hanno per scopo lo sterminio, dove i moduli, pavimenti e gallerie altamente assassini lavorano ogni giorno con la morte contro l’indolenza sociale che ignora, demonizza e naturalizza il quotidiano, e che considera normale la punizione sui prigionieri.
La prigione è anche considerata al giorno d’oggi come un’azienda produttrice di servizi, in cui i prigionieri sono visti come gli utenti soggetti al paradosso proprio di una società malata, che assume che è il cammino da seguire per quelli che non rispettano la sua legge.
É importante capire che nessuno è libero in una società che è la dittatura della merce, la democrazia del capitale, società di classi in cui appena ribellatici potremmo demolire fino all’ultimo pezzo di cemento di ogni centro di sterminio costruito fino ad oggi.
Allo stesso modo non vi è alcuna lotta anticarceraria senza conoscenza specifica delle loro quotidiane situazioni di tensione, senza comunicare con i prigionieri in lotta, questo è il motivo per cui è una sfida costante per rompere l’isolamento, rompere le spesse mura del confinamento, e comprendere che è essenziale per rafforzare i legami in tutti i campi, ma ancora di più con i prigionieri sovversivi in guerra contro tutto ciò che è esistente. Questo viene fatto con la paura e l’indifferenza; la solidarietà impegnata è un’esigenza individuale e collettiva per demolire questa posizione conveniente e auto-soddisfacente di credere che la nostra lotta è temporale e non un’opzione di vita fiera come quella che molti di noi oggi assumono dopo molto tempo in totale armonia con le nostre azioni.
Moltiplicare tutti i tipi di atti, fatti, azioni e iniziative è una necessità di lottare contro stato-prigione-capitale , che è quella che ci fa avanzare, senza alcuna limitazione.
Insistere all’infinito nella ricerca della nostra libertà è dare degnamente e senza timore colpi fino all’ultimo pezzo di cemento della nostra società putrida… che il vento non porta queste parole, che si trasformano in fatti…
Apri gli occhi: è il momento di combattere!
Contro stato- prigione- capitale: guerra sociale!
Finché ci sarà miseria ci sarà ribellione!
Marcelo Villarroel Sepúlveda
Prigioniero libertario
14 Dicembre 2012
Modulo 2 -. H norte. CAS-STGO Cile.
fonte
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Si inaugura oggi a Grossbeeren, una trentina di chilometri a sud di Berlino, la nuovissima prigione di Heidering, una struttura a cinque stelle in grado di ospitare 648 detenuti, con ampia libertà di movimento all’interno ed una modernissima cucina comune ogni 18 persone.
Diversi giornali tedeschi polemizzano mettendo in evidenza che il nuovo carcere ha palestre e strutture sportive migliori di quelle delle scuole e dei licei berlinesi. A differenza dell’aeroporto della capitale, i cui costi di costruzione sono esplosi e la cui inaugurazione è stata già rinviata tre volte, senza che ancora si sappia quando entrerà finalmente in servizio, Heidering è stata realizzata nei tempi previsti e con un costo di 118 milioni di euro, come era stato preventivato.
La struttura è dotata solo di celle singole, ognuna delle quali ha una superficie di oltre 10mq e dispone di un vano separato per il bagno, oltre al fatto che le finestre hanno un’altezza di un metro e mezzo e sono del tutto apribili. Ma il fiore all’occhiello della nuovissima prigione sono le strutture sportive, con tre campi di calcio, una pista per la corsa ed una palestra di 800 metri quadri. Nelle zone comuni di soggiorno, che possono accogliere fino a 18 detenuti, c’è anche una loggia con un balcone protetto da inferriate sul quale è possibile prendere aria, fumare e bere anche un caffè.
L’architetto che ha progettato il carcere, Josef Hohensinn, spiega che ogni loggia della struttura è “un simbolo, una piccolezza con cui si riesce ad ottenere un’alta qualità della vita”.
Josef Hohensinn è lo stesso architetto che ha progettato il il Centro della Giustizia con l’annesso carcere di Loeben in Austria.
Per il portavoce dei Verdi nel parlamento della città-Stato di Berlino, Dirk Behrendt, la nuova struttura è invece “la prigione più superflua della Germania”, anche perché nella capitale il numero di reclusi è in diminuzione rispetto alle previsioni.
AGI
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(ASCA) – Roma, 21 mar – Contro i mali che affliggono le nostre carceri, al via nel nostro paese il piano che prevede un nuovo (e innovativo) circuito penitenziario con una maggiore territorialita’ e penitenziari piu’ socializzanti per quanti sono considerati a bassa e media pericolosita’.
Un nuovo sistema, ha spiegato oggi il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Tamburino che avra’ come filosofia quella della ”sorveglianza dinamica, un modo – ha detto – di intendere istituti maggiormente aperti, con una proposta a detenuti selezionati, per poter vivere un’esperienza carceraria dando prova di una maggiore responsabilita”’.
Scopo del trattamento – ha detto il capo del Dap – e’ quello di formare un cittadino che non delinqua piu’. E questo e’ possibile solo se gia’ in carcere si sollecita il piu’ possibile l’assunzione delle proprie responsabilita’.
”Occorre, insomma, differenziare i regimi carcerari creando spazi comuni e far vivere il minor tempo possibile nelle camere detentive”, ha spiegato Tamburino. Quello che si pensa, e’ stato spiegato, e’ la graduale trasformazione di alcuni istituti penitenziari con spazi comuni come la mensa, anche perche’, ha spiegato sempre Tamburino, ”l’esperienza ci dice che rendere meno ‘ingabbiata’ la vita dei detenuti porta risultati positivi”.
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Ciao Nicola! Un posto importante nei nostri ricordi
Nella serata di ieri è morto Nicola Pellecchia, compagno napoletano considerato come uno dei fondatori dei Nap, successivamente passato in carcere nelle Br. Nicola venne arrestato il 13 luglio 1975 a Roma, due anni dopo venne condannato dalla Corte d’Assise di Napoli a 21 anni e 5 mesi di carcere.
Mai dissociato dalla sua scelta, mai pentito per quel percorso che aveva deciso di intraprendere e mai rinnegando il suo impegno politico, Nicola uscì dal carcere scontando tutta la pena, sempre a testa alta nelle durissime condizioni delle carceri speciali, rifiutando qualsiasi collaborazione con lo stato anche quando quest’ultimo, nelle sue innumerevoli strategie, ha cercato di avere il coltello dalla parte del manico, cercando in Nicola un tramite tra brigatisti fuori e in carcere. Un tramite che non trovarono in Nicola, che nella sua fermezza e serenità politica affrontò gli anni del carcere con lucidità e estrema coerenza. Una coerenza dimostrata anche una volta uscito dal carcere, quando si è trasferito nell’isola di Procida, dedicandosi ad organizzare i pescatori dell’isola contro lo strapotere dei grossi mercanti, per difendere i diritti di 200 pescatori, mettendoli insieme.
E se Nicola ha combattuto fino all’ultimo anche con la stessa malattia incurabile che lo ha condotto alla morte, rimane nel ricordo la sua storia, il suo impegno e il suo sguardo fiero che ha saputo guardare oltre i confini di quel mare che lo circondava, mai rinnegato, mai arreso, mai domo.
Da infoaut
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NICOSIA. Era nell’aria ma adesso la notizia della chiusura del carcere cittadino è certa, sebbene ancora ufficiosa. Pare che il decreto sia alla firma e che quindi la notizia possa essere ufficializzata nei prossimi giorni. Sebbene ufficiosa la notizia, diffusa dalla Uil – Pa, lascia l’amaro in bocca perché arriva all’indomani del partecipato consiglio comunale del 18 marzo convocato in seduta straordinaria davanti al carcere cittadino proprio per protestare contro la paventata soppressione della casa circondariale.
“Certa è ferma è stata la convinzione di tutti, che il carcere va difeso – scrive Giuseppe Trapani per la Uil – Pa provinciale nel documento inviato ieri al Ministero, al Dap e al Provveditorato regionale – va difeso perché è una risorsa storica della cittadinanza , perché è funzionale, perché può vantare un’ottima gestione dei detenuti, va difeso perché la struttura permetterebbe un’efficace ristrutturazione per l’aumento dei posti disponibili e il miglioramento delle condizioni di vita generali, in attesa della nuova struttura penitenziaria”.
Il consiglio comunale del 18 aveva deliberato l’impegno dell’amministrazione comunale a partecipare alla ristrutturazione del carcere, a sollecitare la costruzione di un nuovo Istituto penitenziario, il cui iter che aveva preso avvio circa 8 anni fa si è interrotto senza motivazioni. Era emersa anche la volontà di investire del problema le deputazioni locali a livello nazionale e regionale. Come si sa bene la città sta subendo, da oltre un anno, una serie di scippi e tra questi spiccano la soppressione del Tribunale cittadino che dal 13 settembre prossimo sarà accorpato a quello di Enna. Ha rischiato seriamente, e ancora non c’è una decisione definitiva, di perdere il punto nascita e adesso si aggiunge la soppressione, certa da ieri, della casa circondariale. In tutti i casi si tratta di scelte prese dall’alto senza alcuna interlocuzione con il territorio già mortificato dalla mancanza di infrastrutture, soprattutto viarie. A determinare le scelte dei tagli sono motivi economici legati alla spending review.
“Laddove vi sono delle carenze – continua Trapani, che da tempo ha intrapreso la battaglia contro la soppressione dell’istituto penitenziario cittadino – anziché potenziare e migliorare si pensa solo a sopprimere, macellando, di fatto, lo stato sociale esistente sulla base di un pseudo risparmio che, di fatto, si traduce in un disservizio al cittadino sia in termini di sicurezza, sia in termini di servizi sanitari, sia in termini di cultura e studio, sia in termini di perdita di diritti”.
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«Le sue condizioni di salute sono talmente gravi, la sua sofferenza fisica e psichica talmente atroce, che propongo al giudice di incarcerare me al posto di questo mio cliente ammalato. Sì, avete capito bene: la sconto io la pena al posto suo, nella sua cella, per il tempo necessario a visitarlo, operarlo e consentirgli di riprendersi».
LA PROVOCAZIONE dell’avvocato Paolo Mele senior, da sempre attento ai problemi dei carcerati, è tale fino ad un certo punto: la gravissima forma di tumore che ha colpito un suo cliente non ha ancora smosso la pietà dei giudici del tribunale di sorveglianza. Dopo l’ultima, accorata richiesta del 6 marzo scorso, alla quale non ha avuto risposta, l’avvocato Mele ieri ne ha presentato una nuova, in cui baratta la sua libertà a favore dell’assistito. «Come uomo, come legale, come cittadino di uno Stato civile e come cristiano chiedo di dare la possibilità a quel detenuto di curarsi».
LA MALATTIA di cui soffre Carmine Multari, 48 anni, residente a Lonigo, ha subito un progressivo peggioramento. Il malato sta scontando una condanna definitiva a 2 anni e mezzo di reclusione per truffa, appropriazione indebita e ricettazione commesse in passato fra il Veneto e la Toscana. «L’ho visto lunedì pomeriggio – ha detto il legale – e la situazione è sempre ed estremamente grave». Lo sfortunato detenuto è stato infatti colpito da una seria forma di neoplasia alla lingua. Nell’ultimo mese è dimagrito di 12 chili, ed ha riferito al suo avvocato che «da una settimana non riesce a mangiare, nè a deglutire». Avverte dolori lancinanti che «si irradiano all’orecchio, alla testa e al collo». Fatica moltissimo a parlare, ed è costretto a restare con la bocca aperta in maniera innaturale. «Che la situazione sia gravissima viene confermato anche dalla documentazione sanitaria».
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Se sotto il regime di Hosni Mubarak la violazione dei diritti dei detenuti era prassi quotidiana, anche dopo il 25 gennaio 2011 le cose non sembrano cambiate. Viaggio nelle carceri egiziane, tra torture e abusi.
Il caso di Mustafa Abd al-Baset Mohamed è solo l’ultimo denunciato della Egyptian Initiative for Personal Rights, organizzazione che si occupa di garantire la tutela dei diritti dei detenuti.
Abd al-Baset è entrato in carcere già paraplegico dopo aver ricevuto un colpo di pistola che gli ha frantumato la spina dorsale. La sua è una storia di abusi, di diritti negati.
Dopo essere stato detenuto per un mese nella stazione di polizia di Zaqaziq, necessiterebbe di un ricovero ospedaliero con esami approfonditi che ne accertino l’effettivo stato di salute.
Il rischio è che faccia la fine di Hassan Shaaban, detenuto malato di diabete, che è morto la settimana scorsa a causa delle insufficienti cure mediche ricevute durante il suo periodo di detenzione.
Sarebbe bastata – sostengono gli avvocati dell’organizzazione – una iniezione di insulina. Che però non è mai arrivata.
Cambiano i nomi, ma le storie restano drammaticamente simili.
Secondo l’avvocato di Sa’ad Said, il suo assistito sarebbe stato torturato nella stazione di polizia di Giza dal maggiore Hisham Abdel Gawwad, subendo traumi non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici. Sarebbero stati proprio questi ultimi, sostiene l’avvocato, a contribuire in maniera decisiva alla sua morte.
Le loro, purtroppo, non sono realtà isolate.
Secondo un recente report di alcune Ong egiziane (l’Egyptian centre for economic and social rights,l’Hisham Mubarak law centre, l’Al-Nadeem centre for the rehabilitation of victims of violence and torture, e la stessa Egyptian initiative for personal rights), nel carcere di Hadra, ad Alessandria d’Egitto, la tortura sarebbe ormai una prassi consolidata.
Hadra e Bourg al-Arab (la prigione dove è morto Hassan Shaaban) sono non a caso fra gli istituti penitenziari più duri di tutto il paese.
Sotto Morsi nulla sembra essere cambiato. Lo ricordava già l’anno scorso Aida Seif al-Dawla, del Nadeem Center, sottolineando come durante i primi 100 giorni di presidenza fossero stati registrati 150 casi di tortura: più di uno al giorno.
Ma le critiche delle Ong e le pur palesi violazioni degli organismi di sicurezza egiziani sono solo uno degli aspetti da prendere in considerazione.
Le prigioni egiziane stanno divenendo sempre più il simbolo dell’oppressione, dell’ingiustizia ai danni di un popolo che subisce la dura repressione delle forze dell’ordine.
Basti pensare a quello che è successo a Port Said, dove proprio la prigione locale è stata l’epicentro degliscontri fra manifestanti e poliziotti.
Come dimenticare inoltre che (molta) parte di quella baltaghiyya che fece irruzione in piazza Tahrir per fermare le proteste nella cosiddetta ‘battaglia dei cammelli’, proprio da quelle prigioni fuoriusciva.
L’8 marzo 2011, Amnesty International riportava come dal 28 gennaio 2011 in avanti almeno 21.600 prigionieri fossero scappati in circostanze poco chiare dalle carceri locali.
I malumori, gli scontri, le violenze di oggi nascono dall’indignazione di una società che considera la giustizia locale come fautrice di un giudizio del tutto arbitrario.
E’ il caso delle denunce degli abitanti di Port Said, o ancora più recentemente di Hassan Mustafa, attivista la cui “ingiusta sentenza” è stata portata all’attenzione dei media dall’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI).
Ci sono dunque detenuti che, pur sottoposti alle dure condizioni carcerarie, hanno un sostegno esterno, possono contare su campagne di protesta e di sensibilizzazione.
Poi ci sono gli ultimi, i più poveri, i bambini di strada, gli stranieri immigrati, raccolti magari al confine con il Sudan o negli anni passati con la Libia, e arrestati.
E ci sono i casi in cui i detenuti sono vittime di giochi politici.
Lo scorso febbraio gli uffici di Abu Dhabi hanno rifiutato la richiesta della diplomazia egiziana di scarcerare undici uomini di nazionalità egiziana apparentemente legati alla Fratellanza.
Secondo Mukhtar Ashri, uno fra i responsabili per gli affari legali del partito Libertà e Giustizia, il processo intentato dagli Emirati Arabi Uniti altro non è che una farsa, dal momento che i suoi 11 connazionali non avrebbero libero accesso alla difesa.
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Davide è stato nuovamente trasferito, dal carcere di Rieti a quello di Viterbo. In realtà a Rieti è stato in isolamento solo i primi giorni, probabilmente perchè in sezione nuovi giunti.
L’11 Aprile avrà un’udienza al tribunale di Roma per tentata evasione dai domiciliari.
Altri imputati per il 15 ottobre, avranno invece l’udienza preliminare a Roma il giorno 4 aprile, e ci sarà probabilmente un presidio davanti al tribunale. Tra questi anche l’udienza per Mauro accusato di tentato omicidio (carabiniere della camionetta).
Si è invece capito che Massimiliano, il sesto condannato di Roma, oltre ai 5 teramani, è un fascio. Sempre troppo tardi, però è importante diffondere la notizia.
per scrivere e dare solidarietà a Davide:
DAVIDE ROSCI
Casa circondariale di VITERBO
Strada Santissimo Salvatore, 14/b
01100 – VITERBO
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Massa Carrara – Sarà l’autopsia a chiarire le cause dell’improvviso decesso di un quarantenne, avvenuto venerdì pomeriggio nella struttura penitenziaria della città. L’uomo, massese, è stato ritrovato privo di sensi dai compagni di cella al risveglio dal riposo pomeridiano e niente sarebbero valsi i tentativi di rianimarlo. Pare che negli ultimi tempi l’uomo non godesse di buona salute ma nulla di così serio da far presagire un decesso fulmineo, giunto a pochi giorni dal primo permesso premio di cui avrebbe goduto per un comportamento ineccepibile.
Fonte: La Nazione
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“Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato.
È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità.
È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord.
Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne – bambine di due anni o ottuagenarie – sono stati violentati.
Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo.
Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto – confessa in un primo momento – . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena.
Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”.
Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello.
“Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso.
Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”.
“Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong – un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex – agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.
Fonte: Il Sole 24 Ore
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AGRIGENTO. Niente acqua calda dai rubinetti: una sessantina di detenuti protestano con lo sciopero della fame. Rifiutano il cibo dell’istituto, qualcuno ha anche buttato nell’immondizia quello portato dall’esterno per dimostrare il proprio disappunto. La situazione, dopo sette giorni, dovrebbe comunque tornare alla normalità. Ieri mattina la direzione del carcere Petrusa è riuscita a reperire i fondi e far partire i lavori all’impianto idrico. La protesta dei detenuti del braccio che in gergo viene chiamato “primo destro” è iniziata l’11 marzo scorso. In questa sezione del carcere, definita di “alta sicurezza”, ci sono circa sessanta detenuti per reati di tipo associativo. Si tratta di condannati o persone detenute nella fase cautelare per associazione mafiosa, traffico di droga e altri reati particolarmente gravi. All’origine del problema c’era un guasto all’impianto di distribuzione dell’acqua all’interno del carcere. Un difetto nel sistema di smistamento che aveva isolato soltanto la sezione “alta sicurezza” del penitenziario di contrada Petrusa. Dai rubinetti usciva solo acqua gelida. Lavarsi e farsi le docce era completamente improponibile viste anche le temperature molto rigide degli ultimi giorni della stagione invernale. I detenuti, anche attraverso familiari e avvocati, hanno informato della questione i responsabili della polizia penitenziaria del carcere. Il direttore Valerio Pappalardo, ieri mattina, ha confermato che il problema è prossimo alla soluzione. «Abbiamo cercato di fare tutto in fretta – ha detto ieri mattina – ma i tempi e le procedure di una pubblica amministrazione sono sempre molto più complicati. I tecnici stanno intervenendo per risolvere il problema, lo abbiamo già comunicato ai detenuti – ha aggiunto Pappalardo – che interromperanno la protesta iniziata una settimana prima». La protesta, nel frattempo, va avanti. Cesserà solo quando i reclusi vedranno operai al lavoro e la soluzione auspicata più vicina.
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“E’ gravissimo quanto sta accadendo nel carcere di Cuneo. Anche oggi sono stati avvistati grossi topi aggirarsi in carcere, nell’area degli Uffici servizi e Comando e questi avvistamenti preoccupano del tutto legittimamente il Personale. Ora è assolutamente urgente una completa derattizzazione di tutta la Casa circondariale ma credo sia comunque il caso che l’Amministrazione penitenziaria regionale, attraverso il competente Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag), disponga immediatamente accurati controlli a Cuneo ed in tutti gli altri penitenziari piemontesi. A cominciare certamente dagli Uffici ma anche in tutti i posti di servizio in cui sono impiegati in servizio le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria”.
E’ quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri.
“E’ ovvio che anche episodi come questo possono turbare la tranquillità e la serenità delle sezioni detentive, in cui – non dimentichiamolo – lavorano 24 ore su 24 e con molte difficoltà operative gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, gravemente sotto organico. Mi sembra che, a Cuneo come in tutte le carceri italiane, la Polizia Penitenziaria è l’unica rappresentante dello Stato che sta fronteggiando l’emergenza sovraffollamento: oltre al danno c’è però la beffa di essere gli unici esposti a malattie come l’HIV, la tubercolosi, la meningite, la scabbia e altre malattie che si ritenevano debellate in Italia. Per queste ragioni il SAPPE sollecita visite ispettive dell’Ufficio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’amministrazione della Giustizia (Visag) a Cuneo, in tutte le carceri piemontesi ed in ogni posto di servizio in cui sono impiegati poliziotti penitenziari per verificarne la salubrità.”
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(ANSA) – TORINO, 17 MAR – Bracciali in stoffa con piccoli volti di donne serigrafati, borsoni militari, borse ricamate a mezzo punto di colori accesi, chiuse e aperte, pochette ed espadrillas cucite artigianalmente: sono alcuni degli accessori moda della nuova collezione Fumne 2013-2014 creata, per il terzo anno dalla donne detenute del carcere Le Vallette di Torino.
Una collezione accurata dai toni sorprendenti, con stoffe raffinate recuperate dalla detenute con mesi di lavoro e realizzata grazie al progetto ‘La casa di Pinocchio’ che dal 2008 organizza laboratori creativi per detenute di eta’ tra i 25 e 55 anni. Alcuni pezzi sono stati presentati al Macef di Milano e a Parigi e sono stati venduti in Giappone, oltre che in alcuni dei negozi piu’ in di Torino e altre citta’. Si tratta di progetti di design esclusivi ai quali hanno collaborato stilisti noti come il piu’ grande naso italiano Laura Tonatto.
”Un progetto che va bene e che da’ molta soddisfazione alle donne coinvolte – hanno spiegato le organizzatrici – ma che ha bisogno d’aiuto per andare avanti e per avere una diffusione che ne permetta il mantenimento. Tra i lavori fatti, anche uno, molto partecipato, sull’immagine della Madonna, analizzata come figura religiosa e come donna. ”Un progetto, quest’ultimo – e’ stato ancora spiegato – che ha dato molta serenita’ e occasione di approfondimento alle detenute coinvolte”.
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Quebec – Scena da film in Canada, dove due detenuti sono evasi da una prigione in elicottero. Il fatto è avvenuto domenica in Quebec.
Uno dei due evasi è stato arrestato poche ore dopo insieme ad altri due complici, mentre anche il secondo detenuto sarebbe vicino all’arresto. Secondo quanto ricostruito, i due complici armati hanno preso in ostaggio il pilota dell’elicottero e l’hanno obbligato a sorvolare la prigione di Saint-Jerome, a nord di Montreal: a quel punto hanno calato una scala di corda ai due detenuti che si trovavano sul tetto del penitenziario.
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Un militante di Hamas, Ayman Sharawneh, ha oggi accettato di mettere fine ad uno sciopero della fame condotto ad intermittenza in una prigione israeliana negli ultimi otto mesi dopo aver appreso che sarà liberato ma subito confinato alla striscia di Gaza, per i prossimi 10 anni. Lo ha reso noto Kadura Fares, un dirigente dell’organizzione di sostegno ai detenuti palestinesi.
Sharawneh (36 anni, padre di nove figli, originario di Hebron, in Cisgiordania) era stato rilasciato nel contesto dello scambio di prigionieri che oltre un anno fa ha riportato in libertà il caporale israeliano Ghilad Shalit dopo una lunga prigionia a Gaza. La ragione per la quale Sharawneh è stato nuovamente imprigionato non è stata resa nota alla stampa.
Nel frattempo altri tre detenuti palestinesi proseguono in Israele lunghi scioperi della fame.
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(Adnkronos) – Oggi, verso mezzogiorno, un detenuto tunisino, arrestato nei giorni scorsi per droga, e’ scappato dal policlinico di Modena, dove era piantonato nel reparto detentivo. Lo rende noto il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. ”E’ riuscito a scappare dopo essere uscito dal reparto per effettuare una visita medica. Non si conoscono ancora le modalita’ del fatto. Nel frattempo sono in corso le ricerche da parte della polizia penitenziaria per rintracciare l’uomo – riferisce Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe – Cio’ dimostra, ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che con certe persone non si puo’ mai abbassare la guardia e la sicurezza deve essere l’elemento fondamentale da tenere in considerazione, sia nel carcere, sia fuori”.
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Le forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere di Malandrino, dove un detenuto albanese accusato di omicidio e già evaso due volte da carceri di massima sicurezza ha preso in ostaggio sei persone e chiede di essere liberato
Atene (Grecia), 17 marzo 2013 – Un detenuto condannato in Grecia per omicidio ha preso sei ostaggi nel carcere di Malandrino chiedendo di essere rilasciato. Alket Rizaj, questo il nome dell’uomo, di origini albanesi, dice di avere con sé armi pesanti e una foto scattata da un prigioniero e ottenuta da Ap mostra il sequestratore con quella che lui sostiene sia una granata di fianco ai sei ostaggi in manette. Tra gli ostaggi ci sono sia dipendenti del carcere che detenuti.
L’uomo era già evaso due volte dal carcere di massima sicurezza di Korydallos ad Atene, nel 2006 e nel 2009, entrambe le volte a bordo di elicotteri che hanno prelevato lui e un altro detenuto, Vassilis Paleokostas, mentre si trovavano nel cortile del carcere.
Le forze speciali di polizia sono state dispiegate fuori dal carcere, che si trova nella zona centrale della Grecia, mentre alcuni funzionari e un procuratore stanno portando avanti le trattative. Sul posto si trova anche l’avvocato del sequestratore.
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La legge 180 non ha eliminato la segregazione manicomiale. Togliendo credibilità alla psichiatria, Basaglia ha alimentato la concezione moralistico-punitiva della malattia mentale
L’opinione pubblica non ha la percezione esatta dell’emergenza psichiatrica in atto in Italia che ha legami con una situazione più generale. Scrive Amanda Pustilnik, docente dell’University of Maryland: «Oggi i nostri ospedali psichiatrici più grandi sono le prigioni (.). Le prigioni di Stato spendono circa 5 miliardi di dollari per incarcerare detenuti affetti da patologie mentali che non sono violenti. Stando a quanto afferma il Dipartimento di Giustizia 1,3 milioni di individui con malattie mentali sono incarcerati nelle prigioni di stato e federali a fronte di soli 70.000 individui assistiti negli ospedali psichiatrici».
Si viene messi in carcere solo per essere afflitti da malattie mentali e per aver disturbato l’ordine pubblico e non perché si siano commessi reati penalmente rilevanti. Nel luglio del 2004 The House Comitte on Governement Reform ha pubblicato uno studio dal quale risulta che negli Stati Uniti vengono incarcerati bambini (anche di sette anni) con gravi patologie mentali senza che essi siano responsabili di condotte criminali.
Rispetto agli ideali illumunistici che hanno ispirato la Costituzione americana, la situazione appena descritta è paradossale per il venire meno della fondamentale distinzione operata dal medico Philippe Pinel durante la Rivoluzione francese: dalla fine del 700, i malati di mente furono separati dai criminali e liberati dalle catene. Nasceva così una nuova branca della medicina: la psichiatria.
A distanza di oltre due secoli notiamo una inversione di tendenza: si ritorna alla confusione fra criminalità e pazzia, al prevalere della logica della segregazione e della punizione. Il ritorno a orientamenti preilluministici è dovuto al significato sociale che ha assunto la malattia concepita come un cedimento colpevole, una mancanza di controllo e del senso di responsabilità personale. È la vecchia idea cristiana della pazzia come influenza demoniaca, come complicità con il male, la quale riappare in una forma secolarizzata.
Dalla mentalità religiosa deriva l’approccio punitivo alla malattia mentale, che ha prevalso negli Usa. La punizione dovrebbe rinforzare l’adesione all’etica su cui è fondata la società e garantire, tramite la severità della pena, il rispetto delle norme. Per la concezione moralistico-punitiva le persone con malattie mentali avrebbero difetti della volontà o del carattere che li rendono incapaci di controllarsi: imporre loro criteri restrittivi aiuterebbe ad ottenere comportamenti accettabili e ad aumentare il senso di responsabilità. Il giudice si sostituisce allo psichiatra poiché quest’ultimo considerando le malattie semplici “disturbi” od opinabili convenzioni diagnostiche, non è in grado di fornire criteri certi e non manipolabili di non imputabilità. Pertanto l’essere psichicamente malati anche gravemente non garantisce di solito negli Stati Uniti, l’impunità rispetto ai crimini violenti.
In Europa Anders Breivik è stato dichiarato sano di mente con criteri diagnostici del
DSM IVin un processo nel quale si è affermata la tendenza alla punizione piuttosto che alla cura.
E in Italia? Il caso di Erika e Omar a Novi Ligure, quello della Franzoni a Cogne o dei coniugi pluriassassini di Erba hanno visto prevalere una logica punitiva estranea alla psichiatria. Perché ci troviamo di fronte a questa tendenza? La professoressa Amanda C. Pustilink non chiarisce il punto essenziale cioè il ruolo avuto dalle istituzioni psichiatriche nel permettere che il modello moralistico-punitivo della malattia mentale si affermasse: cento anni di freudismo hanno lasciato il segno. Proprio negli Usa, comunque, i media a partire dagli anni 90 hanno denunciato il fallimento della psicoanalisi mentre la psichiatria organicistica, subentrata al freudismo, si prepara a un clamoroso “disastro”, dovuto alla mancanza di scientificità, con l’edizione del nuovo
DSM V nel maggio 2013.
I medici americani sono impegnati a distribuire psicofarmaci a una popolazione di soggetti “normali” sempre più vasta, utilizzando diagnosi che sembrano create ad hoc per favorire gli interessi delle case farmaceutiche. I casi più gravi sono sottoposti a terapie che possono amplificare la tendenza alla violenza, come l’iloperidone assunto da Adam Lanza (l’autore della strage nella scuola di Newport).
Le carceri funzionano da contenitori per ogni sorta di patologie mentali che, in un regime di inaudita violenza e perversione, subiscono un aggravamento. Gli effetti sono devastanti sui singoli e sulla società. In Italia, patria di Cesare Beccaria che voleva la pena commisurata razionalmente al delitto e che era contro la tortura, si sta verificando qualcosa di analogo a quanto avviene negli Usa. L’adesione acritica ai modelli diagnostici americani, l’abuso degli psicofarmaci, il ricorso alla Tec (Terapia elettroconvulsivante, l’elettroschok), toglie credibilità alla psichiatria e favorisce l’affermazione del modello moralistico-punitivo della malattia mentale. Dato che i medici appaiono incapaci di prevenire e curare le patologie psichiche la gestione di queste ultime è demandata, ai giudici e ai tribunali. La legge Orsini-Basaglia ha vuotato i manicomi di circa centomila degenti negli ultimi decenni ma, nello stesso lasso di tempo, si sono riempite in un modo inverosimile le carceri.
C’è un’emergenza psichiatrica nelle prigioni: secondo un’indagine epidemiologica dell’Agenzia regionale di sanità i detenuti con “disturbi psichiatrici” sono 1137, il 33.4 per cento nella sola Toscana. Il carcere funziona come contenitore di patologie psichiche, che non entrano nel circuito dei servizi psichiatrici. Con la chiusura dei manicomi non sempre sono state create strutture alternative pertanto molti soggetti sono rimasti senza controllo o rete di protezione e sono finiti nelle maglie della giustizia. Le prigioni sono gironi infernali. Prendono il sopravvento l’idea di rovina, il vuoto affettivo, l’umiliazione e l’ emarginazione: le varie patologie diventano manifeste e si aggravano. I quadri psicopatologici si strutturano in forme croniche, difficilmente curabili. L’identità sessuale, in un contesto di violenza e promiscuità forzata, subisce spesso una destrutturazione irreversibile. Il suicidio è un esito drammatico la cui frequenza, anche oltre venti volte la norma, è in diretta relazione al sovraffollamento e agli abusi.
Come far fronte a tale situazione? Il 31 marzo prossimo in virtù della legge Marino è prevista la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: l’ evento ha un forte significato simbolico anche se interessa 1400 persone, su un totale di 66.721 detenuti italiani. Gli Opg sono stati l’emblema della schizofrenia istituzionale: individui affetti da vizio totale o parziale di mente e quindi non imputabili sono stati sottoposti a un regime carcerario in condizioni di degrado inimmaginabili. Per non dire delle torture fisiche e psicologiche. È necessario che questa chiusura sia occasione non solo per proporre strutture di intervento alternative ma per un ripensamento della psichiatria nel suo insieme. Andrea Zampi, il pluriomicida-suicida di Perugia è stato sottoposto nel 2012 a Pisa a due cicli di otto TEC: un intervento “terapeutico” o una prassi senza alcuna base scientifica che ha aggravato le condizioni del paziente? Oggi gli psichiatri non hanno competenze adeguate ad affrontare la psicosi con il metodo della psicoterapia: lo psicofarmaco o la TEC sono inefficaci e alla lunga pericolosi.
La psichiatria deve allora fare un salto culturale e metodologico dotandosi di nuovi criteri scientifici e formativi. L’esperienza dell’Analisi collettiva che fa capo alla teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, costituisce un’esperienza pilota con quasi quarant’anni di cura, formazione medica e ricerca scientifica, unica nel suo genere, a cui hanno partecipato e partecipano migliaia di persone e centinaia di psichiatri, impegnati ad approfondire la conoscenza della realtà psichica oltre il riduzionismo organicista e il moralismo della ragione e della religione. Come scrive Adriana Pannitteri in La pazzia dimenticata (L’Asino d’oro, 2013): «La malattia mentale non si risolve semplicemente buttando giù i muri dei manicomi, ma in maniera più solida cercando di sapere cosa c’è dentro la psiche di chi è ammalato».
Articolo pubblicato dallo psichiatra Domenico Fargnoli sul suo sito domenicofargnoli.com
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É saltato l’accordo tra l’impresa Opere pubbliche che sta realizzando il nuovo istituto penitenziario di Uta e il Commissario straordinario con delega al carcere, il prefetto Angelo Sinesio. Non è stata pagata la mensilità di febbraio e la Cassa edile arretrata. “Non sono stati rispettati gli impegni firmati a Roma – lamenta il segretario regionale della Fillea Cgl, Chicco Cordeddu – lunedì mattina scriveremo al prefetto di Roma perché si sostituisca all’impresa. Almeno in questo modo gli impegni saranno onorati. Gli operai attendono il saldo delle retribuzioni di febbraio e la Cassa edile. Non si può andare avanti con questo continuo tira e molla. Non accetteremo ulteriori ritardi”.
Nel cantiere di Macchiareddu, da tempo, purtroppo, a mesi alterni sventolano le bandiere dei sindacati che proclamano lo sciopero. Fuori a protestare i lavoratori. La precarietà e l’incertezza della busta paga che forse non arriverà strema i quaranta operai. Sono disperati. Se poi l’azienda non versa le rate alla Cassa edile, non spetta loro neppure il premio di anzianità di aprile. In parecchi hanno paura perché le rate da pagare non concedono slittamenti.
Intanto, ieri gli operai hanno pulito per bene il reparto dove si terranno i colloqui con i detenuti e l’ala della parte maschile. Con la nave proveniente da Civitavecchia arriveranno gli articolati pieni di mobili. Arredamenti per le zone già ultimate. Il mese scorso erano arrivati i letti e li hanno scaricati e sistemati gli operai. Domani no, restano a casa. I lavoratori hanno chiesto al geometra chi domani avrebbe scaricato la mobilia. Non è arrivata risposta. Allora le voci hanno iniziato a circolare. La struttura carceraria è costruita per conto del Ministero delle Infrastrutture mentre l’arredamento riguarda il Ministero di Grazia e Giustizia. Per questo probabilmente, se ne occuperà la struttura penitenziaria. Ecco allora che le voci corrono veloci: chi scaricherà i camion e sistemerà gli arredi nella sala colloqui e nelle celle maschili?
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diffondiamo da informa-azione
Da più di 40 giorni un compagno molto determinato è in sciopero della fame per ottenere i colloqui con la sua compagna. All’interno di un carcere è chiaramente più difficile che fuori far sentire la propria voce per ottenere le proprie rivendicazioni, ancora di più in una sezione AS2, creata apposta per confinare chi si batte contro questo mondo infame ed evitare che si organizzi con tutti gli altri detenuti per creare delle lotte all’interno di una prigione. Una delle poche forme di scontro che restano ai ribelli in regime Alta Sicurezza è utilizzare il proprio corpo come campo di battaglia, la rinuncia al cibo come mossa per mettere in crisi l’avversario e sperare che ceda.
Il 4 marzo è stata presentata l’istanza per i colloqui tra Sergio e Katia al Tribunale della Libertà di Milano. Il giudice responsabile si è preso del tempo per dare un risposta, che probabilmente sarà negativa,dato che lo stesso giudice ha fatto notare che la cartella clinica di Sergio continua ad essere buona. Non conta il fatto che una persona non mangi da un mese e mezzo, chi amministra la giustizia, col tipico cinismo arrogante, col tipico disinteresse schifoso e borghese nei confronti della gente, passa sopra sentimenti e sofferenze. Non ce ne stupiamo, chi è capace di rovinare delle vite con delle condanne può ogni sorta di nefandezza.
I giudici e i procuratori avranno anche la pancia piena dal loro mestiere infame ma non hanno quello che ha un compagno come Sergio: la dignità, la fierezza di un individuo in lotta contro un mondo ingiusto!
Sergio sta continuando con determinazione la sua battaglia, il suo morale è alto nonostante i giorni passati senza cibo e nonostante abbia dovuto sostenere il trasferimento nel carcere di Ferrara, con tutto quello che comporta l’affrontare un nuovo istituto penitenziario.
Pensiamo che sia doveroso per tutti e tutte sostenere Sergio in questo momento!
Innanzitutto scrivendogli.
Sergio Maria Stefani
c.c. via Arginone 327
44122 Ferrara
Indirizzo, fax e mail del Tribunale di Milano sono questi:
Via Freguglia n. 1 – 20122 Milano
02 – 59902341
tribunale.milano@giustizia.it
E’ di importanza vitale sostenere da fuori un compagno che lotta in carcere. Tutti i conflitti, tutti giustissimi e necessari, che portiamo avanti nelle nostre città non possono sostituire né devono distoglierci dalla solidarietà sincera verso un nostro compagno che si batte come può. La solidarietà dei compagni è determinante nel motivare, nel tenere alto il morale di chi lotta in una prigione e potrebbe influire sulle scelte dei suoi aguzzini, se non altro dimostrando che quella persona non è sola.
E’ fondamentale che chi sceglie lo scontro all’interno di un carcere sappia che le sue rivendicazioni verranno supportate dall’esterno di quelle mura.
Solidarietà per Sergio!
Solidarietà per Madda, Maurizio e tutti i ribelli che si battono all’interno di una prigione.
Tutti liberi!
Cassa di Solidarietà Aracnide
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Detenuto con gravi patologie sanitarie sistemato in una stanza (senza sbarre) destinata agli agenti penitenziari, rimasti persino senza il bagno.
Anche questa è la conseguenza del sovraffollamento delle carceri e di una situazione che per gli agenti diventa ogni giorno sempre più difficile da gestire e sopportare. La denuncia arriva dal segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini che racconta l’arrivo, ieri, del nuovo carcerato. Il reparto destinato ai detenuti nell’ospedale civile di Teramo conta appena 2 letti e ieri erano entrambi occupati.
La sistemazione di fortuna è stata trovata, spiega il responsabile del sindacato di polizia, negli spazi che sono riservati agli agenti “per evitare che il detenuto venisse spedito in un altro ospedale della provincia, a circa 30 km dall’istituto. Inoltre la patologia di cui è affetto ha sconsigliato la sistemazione insieme ad altri detenuti degenti del reparto detentivo”.
Così è stato collocato all’interno di una stanza del Reparto detentivo dell’ospedale in uso al personale, senza sbarre alla porta d’ingresso e della finestra.
Il personale impiegato, oltre ad essere stato privato dell’uso del bagno si trova ad operare senza alcuna sicurezza. “È evidente che quanto sta accadendo”, denuncia Pallini, “va a calpestare qualsiasi elemento di dignità professionale, ma colpisce anche il lato umano di tutto il personale che apprendendo tali notizie si ritrova ancor più scoraggiato ed abbandonato a se stesso, demotivato, con il rischio che si venga a creare un disagio psicologico che potrebbe ripercuotersi oltre che individualmente, anche in un contesto familiare ed affettivo”. Il Sappe chiede un intervento “serio e deciso, a tutti i livelli, affinché si ponga fine al verificarsi di simili inconvenienti e perché, l’istituto teramano non diventi la discarica di essere umani del Provveditorato”.
primadanoi.it
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Un numero crescente di reclusi con sentenze definitive (pari al sessanta per cento degli 820 complessivi), e la quasi totale assenza dei magistrati di sorveglianza. Il tutto condito da un sovraffollamento che, con celle da due popolate in quattro e carenza di docce, non dà pace ai galeotti di Montorio. È questo il dato rilevato dal senatore radicale Marco Perduca che ieri, dopo la precedente visita del ferragosto del 2009, ha nuovamente messo piede nella struttura penitenziaria scaligera. Lasciando la poltrona a Roma, Perduca invita i futuri colleghi a «individuare le leggi che hanno creato questo stato di cose», considerando la necessità di un’amnistia e di varie riforme, ma partendo anche dall’utilizzo delle pene alternative già prevista dalla legge. «Due terzi dei reclusi a Verona sono stranieri, soprattutto di lingua araba», fa notare il senatore, sottolineando la necessità di specifici corsi di mediazione culturale per agenti ed educatori, a loro volta ridotti all’osso da prepensionamenti e mancanza di fondi. «Nella struttura ci sono solo quattro educatori per oltre ottocento detenuti, il che vanifica il loro ruolo di anello di congiunzione tra la direzione e i reclusi, alimentando frustrazioni, episodi di autolesionismo e tensioni». Ad agevolare un po’ le cose e distendere il clima, per fortuna, ci sono le occasioni di lavoro, rivolte a circa 120 persone. «La garante dei detenuti e la direzione stessa sono molto attente a potenziare l’offerta di lavoro interna, che aiuta anche a garantire un minimo di autosostentamento agli stranieri». Gli stessi che, per altro, sono i più penalizzati nella possibilità di beneficiare dei domiciliari negli ultimi diciotto mesi di pena da scontare. «Trovare un alloggio idoneo per gli stranieri non è sempre facile. Ma a Verona manca anche la presenza in carcere dei magistrati di sorveglianza che potrebbero agevolare tale passaggio per chi è recluso nella nuova sezione riservata ai cosiddetti dimittendi». Maggiore attenzione, per il senatore in uscita, andrebbe riservata anche al circuito dei giovani adulti, ossia quei cento ragazzi tra i diciotto e i venticinque anni che necessitano di un trattamento diverso, a partire da una maggiore istruzione scolastica. «Gli studi si fermano alle medie, ma non bastano. Si parla di corsi di scuola alberghiera, che agevolerebbero la ricerca del lavoro in uscita dal carcere, ma per ora sono ancora inesistenti».
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NEGLI STATI UNITI
Il condannato che vuole essere giustiziato
Da 2 anni attende l’esecuzione: «Fate presto»
Per Gary Haugen, in carcere per omicidio, pena di morte rinviata al 2015 per decisione del governatore dell’Oregon. Ma lui chiede l’anticipo per protesta contro la giustizia Usa
Gary Haugen, 51 anni. La pena di morte per lui è prevista nel 2015Il condannato a morte che vuole essere giustiziato. È la storia di Gary Haugen, 51 anni, che deve scontare una pena di morte per omicidio. Il detenuto, segregato oramai da oltre trent’anni nel penitenziario di stato dell’Oregon, avrebbe dovuto essere giustiziato due anni fa. La pena capitale nei suoi confronti, tuttavia, non è stata eseguita, e non lo sarà più: nel 2011 il governatore dell’Oregon, John Kitzhaber, ha infatti sospeso tutte le esecuzioni fino alla fine del suo mandato, ossia fino a gennaio 2015. Haugen, però, vuole essere giustiziato e ha portato la sua richiesta davanti alla corte suprema dello Stato.
MORATORIA – Uno scontro giudiziale alquanto perverso tra un condannato a morte e il governatore dell’Oregon sta impegnando in questi giorni i giudici della corte suprema dello Stato americano. Trentadue anni fa Gary Haugen fu condannato all’ergastolo per aver assassinato la madre della sua ex fidanzata. Mentre era rinchiuso uccise un compagno di cella con la complicità di un altro prigioniero e nel 2007 venne condannato alla pena capitale, riferisce la National Public Radiohttp://www.npr.org/blogs/thetwo-way/2013/03/14/174340080/death-row-inmate-fights-for-right-to-die-in-oregon. Il governatore John Kitzhaber è però un convinto oppositore del supplizio supremo. Due anni fa proprio Kitzhaber aveva pubblicamente denunciato l’«iniquità e la perversione» del sistema penale del suo Stato ed espresso «profondo rammarico» per aver approvato la pena capitale per due detenuti durante i suoi mandati precedenti. Di più: il politico e medico statunitense aveva annunciato una moratoria e, come detto, sospeso tutte le esecuzioni.
«CODARDO» – Haugen, durante la sua detenzione, ha rinunciato a presentare appello contro la sentenza in segno di protesta contro il sistema giudiziario chiedendo di essere messo a morte. L’uomo pretende che «lo Stato applichi la legge in nome del popolo», ha querelato il politico definendolo un «cowboy di carta che non ha avuto il coraggio di premere il grilletto». Ora sarà la corte suprema dello Stato a dover decidere come affrontare lo spinoso caso. Per Harry Latto, l’avvocato del prigioniero, il governatore Kitzhaber non deve travalicare le sue competenze. Quest’ultimo, invece, si appella al suo diritto di grazia.
LE PERIZIE -In verità, sul fatto che il detenuto sia o meno in grado di comprendere cosa gli stia per accadere, le perizie neuropsichiatriche si sono susseguite negli anni con esiti spesso contrastanti. Ciò nonostante, la vicenda ha avuto una grande eco sulla stampa. In un editoriale il Statesman Journalhttp://community.statesmanjournal.com/blogs/editorialblog/2013/03/15/our-sunday-editorial-let-gary-haugen-die chiede che Haugen «possa finalmente morire per mano dello Stato», e che sia anche «l’ultimo nella storia dell’Oregon». Il governatore vorrebbe invece che fossero i cittadini a votare in un referendum l’abolizione della pena capitale; la consultazione potrebbe tenersi già il prossimo anno. Una decisione della corte è invece attesa a fine anno. L’Oregon ha eseguito due condanne a morte da quando la pena capitale è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1977: una nel 1996 e l’altra nel 1997.
MARYLAND – Nel frattempo anche lo Stato del Maryland dice basta con la pena di morte: venerdì sera la Camera dei rappresentati ha approvato una legge che la sostituisce con l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionata. È il diciottesimo Stato dei 50 dell’Unione che cancella la pena capitale. La legge, già passata al Senato la settimana scorsa, è stata approvata con 82 voti a favore e 56 contrari. Con il Maryland sono sei gli stati che negli ultimi sei anni hanno fermato il boia: il Connecticut, l’Illinois, il New Mexico, lo stato di New York e il New Jersey.
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(ANSA) – MESSINA, Un telefono cellulare e’ stato trovato in una culla del settore nido della sezione femminile del carcere di Messina da agenti della polizia penitenziaria. La perquisizione e’ stata eseguita dopo la scoperta di una sim in un pacco nel settore colloqui. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ritiene ”indispensabili interventi immediati, compresa la possibilita’ di ‘schermare’ gli istituti penitenziari”.
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