Como, 2 novembre 2014 – Lo hanno trovato gli agenti di polizia penitenziaria nella sua cella, quando ormai per lui non c’era più niente da fare. Nel pomeriggio di venerdì, un detenuto del carcere Bassone, si è tolto la vita impiccandosi. Italiano, 28 anni, era stato arrestato una decina di giorni fa per sequestro di persona, assieme ad altre quattro persone. Dopo il suo arresto, era stato portato in osservazione, quattro celle presidiate da un agente, dove confluiscono i detenuti che hanno motivi di incompatibilità con gli altri. In questo caso, si trattava di esigenze giudiziarie, legate alle indagini ancora in corso, per le quali la Procura aveva disposto il divieto di contatto tra i vari indagati. Venerdì pomeriggio verso le 16, gli agenti lo hanno trovato esanime, impiccato con le lenzuola della sua branda. Non aveva avuto contatti con nessun altro, se non l’agente che, a intervalli ravvicinati, controllava le sue condizioni in cella. Ciononostante, è riuscito a realizzare il suo intento.
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OPG, cibo avariato, muore detenuto 70 intossicati
Castiglione, le campionature degli alimenti e delle attrezzature sono già state mandate a Brescia Settanta ospiti colpiti da malesseri dopo la cena. L’autopsia sulla vittima non ha fatto chiarezza
Settanta. Un quarto degli ospiti dell’Opg. È questo il numero dei detenuti che si sono sentiti male dopo la cena di martedì alla mensa dell’ospedale psichiatrico di Castiglione. Tra questi c’era Christian Ubiali, trentunenne bergamasco morto al Poma tre ore dopo il ricovero. L’autopsia, disposta dalla Procura di Mantova, non avrebbe fatto definitiva chiarezza sul decesso, avvenuto, sembrava, dopo una diagnosi di occlusione intestinale. Il magistrato si limita a confermare che saranno necessari «ulteriori accertamenti».
Sotto accusa, per ora, c’è proprio la cena consumata martedì sera alla mensa dell’Opg, in seguito a cui settanta ospiti hanno accusato malori e dissenteria. Di questi dodici hanno manifestato sintomi più seri. Il più grave di tutti era Ubiali, trasportato d’urgenza al pronto soccorso del Poma, con la diagnosi di occlusione intestinale provocata da un probabile volvolo.
Tutti avrebbero mangiato del pesce che, a questo punto, forse era avariato.
È questo il sospetto della Procura che ha già disposto accertamenti. È stata eseguita una campionatura che attraverso l’Asl è stata inviata al laboratorio di sanità pubblica di Brescia per le analisi tossicologiche. Sono stati eseguiti prelievi sia sulle scorte di pesce che sono rimaste nei frigoriferi sia nelle cucine in particolare sulle attrezzature che sono state utilizzate per preparare la cena di martedì. Le indagini epidemiologiche dovranno identificare le eventuali fonti inquinanti o rintracciare la presenza di tossine. Un attacco batterico che potrebbe essere stato letale per Christian Ubiali, già debilitato per problemi passati di tossicodipendenza.
La Tac, a cui era stato subito sottoposto mercoledì a mezzogiorno al Poma, non aveva confermato la diagnosi dell’occlusione. Ubiali però continuava a lamentarsi dei dolori violentissimi che partivano dallo stomaco.
Per questo era stato disposto il trasferimento nel reparto di chirurgia. In attesa di essere spostato era stato sistemato su una barella. Ad un certo punto era diventato tachicardico e un’infermiera lo aveva accompagnato fuori per permettergli di accendere una sigaretta.
Al rientro, prima che i medici della chirurgia fossero riusciti a prenderlo in consegna per portarlo in reparto, aveva smesso di vivere, tre ore dopo il ricovero.
Originario di Osio di Sotto, un paese del Bergamasco, Ubiali aveva una doppia diagnosi di tossicodipendenza e problemi psichici che aveva convinto i giudici che l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario fosse la soluzione migliore per lui dopo aver escluso la possibilità di un percorso riabilitativo in famiglia.
La morte di Giuseppe Uva rischia di cadere in prescrizione. Impediamolo
diffondiamo da osservatorio repressione
Dati ufficiali: 203 detenuti palestinesi morti nelle carceri israeliane
Ramallah-InfoPal. Dati ufficiali palestinesi rivelano che dopo il decesso di Arafat Jaradat, avvenuto sabato 23 febbraio nel carcere israeliano di Megiddo, il numero dei morti tra i detenuti palestinesi è salito a 203.
In un comunicato stampa diramato sabato, il Dipartimento di Statistica nel ministero dei Detenuti palestinesi ha ritenuto la tortura, la più probabile causa del decesso di Arafat Jaradat, in carcere da sei giorni.
Il ministero ha anche richiamato l’attenzione sul fatto che decine di prigionieri sono deceduti pochi giorni, settimane o mesi, dopo il loro rilascio, a causa di malattie contratte durante la loro detenzione.
GB – Nessuno dovrebbe morire ammanettato a un letto
Il garante delle carceri traccia un quadro deprimente in Inghilterra
Anche in Gran Bretagna il regime carcerario manca il rispetto dei diritti umani. Londra ha un problema di sovraffollamento carcerario simile a quello italiano, ma Nigel Newcomen, il “prisons and probation ombudsman”, cioè il garante/difensore civico del sistema carcerario britannico, sottolinea nel suo rapporto come persista anche un problema culturale.
MALATI E PUNITI – A destare particolarmente scandalo è stata l’emersione del fenomeno dei detenuti ospedalizzati e ammanettati al letto anche quando gravemente malati, una cinquantina di casi nell’ultimo anno secondo il risultato delle inchieste relative ai singoli episodi denunciati. Prigionieri incoscienti, particolarmente anziani o fragili, tutti sono stati ammanettati al letto, una misura utile a compensare in parte i buchi nella sorveglianza determinati dai tagli.
LA CRITICA – “Troppo spesso sono stato chiamato ad intervenire” ha dichiarato Newcomen, che da tempo chiede che la pratica sia abolita o quantomeno usata solo nei casi di estrema necessità, sempre comunque rispettando la dignità dei prigionieri, che anche se condannati restano cittadini nelle pienezza dei loro diritti di essere umani e, in questo caso, di malati.
TROPPI DETENUTI – Newcomen poi punta il dito sul sovraffollamento provocato dall’aumento delle condanne e dal numero sempre più alto di anziani oltre i 60 anni che entrano in carcere, un problema nel problema perché le carceri non sono attrezzate per far fronte ai problemi geriatrici di un numero sempre più elevato di detenuti. Che come prima conseguenza porta il deterioramento delle condizioni di detenzione e secondariamente un aumento dei suicidi tentati e riusciti.
MEGLIO, MA NON ABBASTANZA – Nonostante ci sia stato un miglioramento nelle cure offerte ai detenuti, ora quasi al livello di quello disponibile ai liberi cittadini, i detenuti malati restano soggetti a limitazioni della libertà illecite quando di trovano nelle infermerie degli istituti come quando sono trasferiti negli ospedali civili e questo secondo l’ombudsman non è tollerabile, anche perché alcuni casi si sono risolti in uno spreco di risorse invece che in un risparmio, come farebbe invece ritenere la ragione con la quale questi provvedimenti sono giustificati. Non si vede alcun risparmio nel tenere per quattro giorni un detenuto incatenato agli uomini destinati a fargli la guardia mentre era in coma farmacologico indotto perché soffriva di un tumore allo stadio terminale, uno dei casi più clamorosi, citato ad esempio per evidenziare che qualcosa da correggere c’è di sicuro.
BG – Kelvin ucciso dallo Stato – Presidio sotto il carcere
Kelvin, 23 anni, detenuto, ucciso dallo Stato
Era la mattina del 24 gennaio 2013. Era un ragazzo come noi, uno dei tanti che vengono “pescati nel mucchio” e rinchiusi dietro le sbarre per dei reati che il Sistema stesso ci impone di compiere per sopravvivere. Una delle tante vittime che questo Stato si porta appresso. Pochi giorni prima, aveva saputo di essere stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, nonostante fosse incensurato. I suoi compagni di prigionia hanno dato subito l’allarme, ma le guardie accorse non hanno voluto aprire le sbarre immediatamente, come quasi sempre accade. Quando lo hanno fatto, ormai era troppo tardi.
Gridiamo vendetta, bastardi assassini, di un altro ragazzo ci avete privato!
OGNI MORTE IN CARCERE È UN OMICIDIO VOLUTO DAL SISTEMA!
Nel carcere di Bergamo questo è l’ottavo suicidio che si conta in dieci anni. Il sesto nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno in corso. Nel 2012 i morti per carcere (suicidi e morti mai accertate/mai volute accertare, morti per malattie, ecc.) sono stati in totale 154.
Il suicidio è l’atto estremo di ribellione di un essere umano costretto a vivere segregato, è un atto di dignità che non può passare ignorato e restare impunito. Le Istituzioni responsabili e la stampa asservita, per loro convenienza, fanno ogni volta di tutto per nascondere il fatto e le sue vere ragioni.
Di carcere si muore, o immediatamente o a poco a poco, in maniera costante. L’annientamento fisico e psicologico inflitto è brutale. Si va dall’insostenibile sovraffollamento delle celle alla scarsa qualità del cibo somministrato; dall’enorme difficoltà di usare la corrispondenza come mezzo di contatto con l’esterno alla negazione del diritto a ricevere cure mediche specifiche appropriate (a Bergamo un detenuto nel 2011 per questo motivo è morto). D’altro canto è prassi la criminale somministrazione di psicofarmaci e sedativi d’ogni genere, con lo scopo, unico e rimarcato, di annientare la resistenza della persona che combatte contro l’oblio, per renderla innocua, vulnerabile e sottomessa all’ordine carcerario, proprio come vorrebbero vederci sottomessi noi tutti. Nel 2009, sempre nel carcere di via Gleno, un ragazzo è morto di overdose di NOZINAN 100, un potentissimo neurolettico la cui somministrazione deve essere parsimoniosa e controllata medicalmente.
Chi pensa e promuove campagne elettorali promettendo un improbabile indulto o un’improponibile amnistia non fa altro che prendersi gioco dei detenuti stessi, con l’intento di ridicolizzare, sminuire e isolare le fondamentali lotte rivendicative che nascono da dentro. La riduzione dell’elevato numero dei detenuti può dipendere solamente dall’abrogazione delle leggi repressive di cui lo Stato si fa forte. La distruzione del carcere, nodo cardanico di questo Sistema autoritario chiamato capitalismo, democrazia, società del benessere, e la distruzione dello Stato stesso, necessario passo da compiere per una società libera e giusta, si potrà compiere solo ed esclusivamente attraverso la presa di coscienza e l’autorganizzazione di tutti gli sfruttati, siano essi rinchiusi tra le sbarre, alienati nei posti di lavoro, schiacciati nelle piazze.
Scendi in strada ed aggregati a noi, ricordando Kelvin, per dire che
NESSUNA MORTE PASSA SOTTO SILENZIO!
SABATO 16 FEBBRAIO DALLE ORE 11.00 VIA GLENO
PRESIDIO CONTRO IL CARCERE
promuovono: Gruppo Antiautoritario Contro Carcere e Repressione e Compagn* solidali
Udine: detenuto 70enne muore poco dopo ricovero in ospedale
Savino Finotto, 70 anni, di Staranzano era in cella da dicembre per espiare una condanna di 3 anni e 9 mesi. Una guardia l’ha trovato già in condizioni molto gravi, ha dato l’allarme. Portato in ospedale, è morto poco dopo. Inchiesta della Procura. Era arrivato nel carcere di Udine a fine dicembre, per espiare una condanna di 3 anni e 9 mesi. Ma nella notte di sabato scorso si è sentito improvvisamente male ed è stato trasferito nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale cittadino, dove è morto di lì a poche ore.
Sul decesso di Savino Finotto, 70 anni, di Staranzano, ora, la Procura di Udine intende fare chiarezza. Il medico legale Lorenzo Desinan effettuerà l’autopsia sul suo corpo nel pomeriggio di giovedì. L’obiettivo del procuratore capo, Antonio Biancardi, è stabilire le cause esatte che ne hanno determinato la morte.
L’uomo, che si trovava in una cella riservata a detenuti con problemi di deambulazione, è stato trovato in condizioni già molto gravi dall’agente addetto al giro notturno di controllo.
Chiamati la guardia medica della casa circondariale e il personale del 118, era stato immediatamente trasportato al “Santa Maria della Misericordia”. Da quel momento, però, non aveva più preso conoscenza. Gli accertamenti sono stati delegati alla sezione di Pg della Polizia di Stato.
Milano: detenuto suicida a San Vittore, psicologa e psichiatra accusate di omicidio colposo
Per mancanza di letti dimisero un ragazzo che aveva già tentato 8 volte il suicidio senza disporne la vigilanza a vista. Si era impiccato a San Vittore, nell’agosto del 2009, dopo essere stato dimesso dal centro osservazione malattie psichiche del carcere. E nonostante almeno otto tentativi di suicidio, Luca Campanale, 28 anni, fu rinchiuso in una cella a medio rischio, senza sorveglianza a vista. Ora, per quel suicidio il giudice dell’udienza preliminare Elisabetta Meyer ha disposto il giudizio per omicidio colposo per una psicologa e una psichiatra in servizio a San Vittore. Dopo la tragedia la procura ha aperto d’ufficio un fascicolo, e nell’indagine del pubblico ministero Silvia Perrucci sono emerse le lacune dei due medici che “con violazione delle regole dell’arte medica e dei doveri inerenti la loro qualifica pubblica, cagionavano la morte del detenuto per asfissia meccanica da impiccagione”. Per le due donne, la procura aveva formulato una prima imputazione di abbandono di incapace aggravato dalla morte, poi i giudici della prima corte d’Assise di fronte a cui si era aperto il processo, a giugno, hanno riqualificato il fatto come omicidio colposo.
Luca Campanale entrò nel carcere di San Vittore il 30 luglio 2009, e pochi giorni dopo, il 12 agosto, si impiccò. Ricoverato al centro di osservazione malattie psichiche del carcere, venne dimesso “per mancanza di posti letto”. Nel processo che dovrà chiarire le responsabilità delle due indagate – l’udienza è fissata per il 12 aprile – compariranno come parte offesa i genitori e il fratello della vittima, assistiti dall’avvocato Andrea Del Corno. La richiesta di rinvio a giudizio del pm Perrucci ricostruisce l’intera storia clinica del giovane, i reiterati tentativi di suicidio, le presunte violazioni del personale medico. “In particolare – scrive il pm – erravano nel valutare il rischio suicidiario malgrado fosse incapace di provvedere a se stesso a causa di disturbi psichici dai quali era affetto e del quale dovevano avere cura, trattandosi di detenuto presso il carcere dove le indagate svolgevano la loro attività professionale psicologica e psichiatrica”. E, ancora, lasciavano il ragazzo “senza sorveglianza a vista, sull’erroneo presupposto che il soggetto apparisse “pretenzioso e immaturo”, non considerando i numerosi precedenti gesti autolesionistici”, ben otto tentativi dal maggio del 2009 fino a quello che lo ha ucciso.
La Repubblica, 18 gennaio 2013 di
Reggio Emilia, paziente muore all’Opg
Stroncato da un malore Daniele De Luca, 29 anni, dopo che aveva pranzato ieri mezzogiorno
REGGIO EMILIA – Un paziente dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, Daniele De Luca, 29 anni, è stato stroncato da un malore ieri a mezzogiorno. De Luca, 29 anni di Roma, che si trovava all’opg per reati minori. L’uomo aveva passato la mattinata con lo psichiatra e lo psicologo, poi ha pranzato e si è accasciato a terra. Sul posto è arrivata l’ambulanza e l’automedica, ma il 29enne non si è più ripreso. È stato trasferito all’obitorio di Coviolo in attesa dei funerali.
Fonte: reggionline.com
Carceri: detenuto tenta il suicidio a Reggio Calabria
Un detenuto di 50 anni ha tentato il suicidio impiccandosi alle grate della finestra del carcere. È accaduto ieri pomeriggio, nel penitenziario di Reggio Calabria A dare notizia stamane dell’episodio sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. L’uomo, di nazionalità italiana, era solo in cella ed era rientrato da poco dalla comunità terapeutica esterna ed era in carcere per reati legati alla droga ed altro. “Solo grazie al pronto intervento dell’agente della polizia penitenziaria in servizio nella sezione detentiva – comunica il Sappe -è stato evitato il peggio.
Morte e carcere
di Ilaria Cucchi
Finisce l’anno con Pannella che digiuna fin quasi a morire. E con l’affermazione dei periti nominati dalla corte: Stefano Cucchi sarebbe morto di fame dopo l’arresto il 15 ottobre 2009. Morte e carcere: parole ormai sempre più pensate, dette e scritte insieme. A indignarsi è solo chi non ha a che fare con la giustizia. Dentro le aule dei tribunali lo si dà per scontato che nei confronti di coloro che sono nelle mani dello Stato possano essere compiuti atti di violenza psicologica e fisica. Terribile.
Quando ci si rivolge direttamente ai giudici tutti i segni, imbarazzanti e agghiaccianti. Di tali violenze diventano equivoci, dubbi, quando addirittura non scompaiono. I consulenti diventano incerti, possibilisti, balbettanti. Salvo poi recuperare sicurezza e determinazione quando devono escludere, negare, difendere. Da tre anni giro per i tribunali di tutta Italia e le scene si ripetono uguali. Un esempio piccolo: Yaya Samura, teste fondamentale per l’accusa, ha riferito in aula del pestaggio subito da mio fratello.
Ha parlato dei calci, del tonfo del trascinamento del suo corpo a terra, del suo successivo colloquio con lui, dove Stefano si lamentava di essere stato picchiato mostrandogli le ferite e il sangue che ne usciva. Quel sangue è stato ritrovato su quei pantaloni sequestrati dal PM. Il consulente nominato dalla procura ha scritto che è sangue fresco e di mio fratello. E’ la prova che non si è procurato quelle lesioni in una caduta accidentale, ma per un pestaggio. Questo però non esiste per i periti che non ne fanno cenno.
Perché? Perché semplicemente quelle ferite come quelle sulle mani e sul corpo risalgono prima del suo arresto. Certo. Ma per tutto questo è realmente accaduto. Perché è “normale”. Tutto normale. Per la nostra Costituzione non lo è. Ma è vecchia e inadeguata ai tempi, come afferma qualcuno. Forse ha ragione.
Niki Aprile Gatti: il nuovo “tassello” mancante
La menzogna non può durare per sempre, e soprattutto quelli che si credono invincibili, potenti perché coperti dallo Stato, dovrebbero ben sapere che quest’ultimo non è mai “buono”, non si fa scrupoli, non possiede l’anima e ne coscienza. Lo Stato, in qualsiasi forma sia (o dittatoriale, democratico o in forma diretta), per determinati meccanismi decide ad un certo punto di non coprirli più. I motivi possono essere molteplici: un passo falso, un riequilibro degli assetti (e molto spesso, non sempre, le inchieste giudiziarie servono proprio per quello visto che anche la Magistratura è un Potere dello Stato), un cambiamento di linea o semplicemente una lotta tra “bande”.
Sapete che sono oramai ben quattro anni che ci si sta occupando della maledetta storia della morte di Niki Aprile Gatti. Un giovane informatico che lavorava presso una società di San Marino. Si chiamava OSCORP e fu coinvolta, assieme ad altre società e loschi personaggi, in un’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze: l’operazione Premium.
Notizie dal carcere di Monza
Notizia di un nuovo suicidio nel carcere di Monza
MONZA – La civiltà di un paese si misura dalle sue prigioni. Morire di carcere, in Italia, anno 2012, si può. E non nel sud, all’Ucciardone, a Poggioreale. A Monza, dove una struttura disegnata per 400 reclusi ne accoglie il doppio. Martedì un detenuto campano ha tentato il suicidio nell’istituto di pena cittadino: nonostante l’intervento della polizia penitenziaria e del personale medico, il 50 enne è spirato tra i letti dell’ospedale brianzolo. Il SAPPE, sindacato di polizia penitenziaria, segnala che si trattava di un collaboratore di giustizia.
SEMPLICI COINCIDENZE? – Ignote le ragioni del gesto. Forse si è sentito abbandonato dallo Stato, come l’imprenditore che marted’ sera ha minacciato di buttarsi dall’Arengario dopo aver denunciato i suoi estorsori ed essere finito sul lastrico. O forse non ne poteva più della vita carceraria. Non stupirebbe, visto che nei giorni immediatamente successivi al subentro a Palazzo Madama la neo senatrice Anna Mancuso ha presentato come primo atto un’interrogazione al ministro della Giustizia per verificare le condizioni igieniche dell’istituto monzese: freddo, muffe, umidità, celle sovraffollate. Un problema che affligge tutta la penisola.
Mancuso del resto non è sola: sabato 24 e domenica 25 gli avvocati della Camera Penale di Monza hanno organizzato “Cella in piazza“, un’installazione in Arengario che mostra come si vive (in tre) in una stanza di quattro metri per due. Numeri che spiegano quanto sia facile in queste condizioni frequentare una vera e prorpia università del crimine e ingrossare le file dei recidivi, quelli che “lasciano la giacca in galera” per tornare a riprenderla periodicamente.
LA LEZIONE DI BECCARIA? “STIAMO PEGGIO” – Gran parte dei detenuti ospitati nelle patrie galere è in attesa di giudizio; molti sono stranieri, tanti sono tossicodipendenti o senza fissa dimora, condizione questa che rende impossibile ricorrere agli arresti domiciliari a meno di riscontrare la disponibilità di una persona o di una comunità terapeutica ad accoglierli. «Il carcere in Italia non è più costituzionale» – commenta in un’intervista recente rilasciata all’ Avanti Angiolo Marroni, Garante per i Diritti dei detenuti del Lazio. «La pena – spiega Marroni – è diventata solo punizione. Leggendo ‘Dei delitti e delle pene‘ di Cesare Beccaria viene da sorridere: oggi succedono fatti peggiori di allora». Beccaria però scriveva nel 1764, quando la Rivoluzione Francese non era ancora compiuta e ai criminali si tagliava la testa.
ABUSI ED ERGASTOLO – Non bastassero le carenze strutturali, ci si mette la cronaca, che purtroppo spesso supera l’immaginazione. E’ di questi giorni la notizia di un insospettabile sacerdote brianzolo accusato di aver preteso prestazioni sessuali dai detenuti in cambio di qualche pacchetto di sigarette e di uno spazzolino da denti. Immaginarsi.
Ma c’è un ultimo stadio, l’ultimo, da cui non si fa ritorno. Il girone dantesco dei disperati termina con gli ergastolani, la categoria del “fine pena: mai“. Sull’ergastolo, e in particolare su quello ostativo previsto per reati efferati, è tuttora acceso il dibattito. Nessuno spazio ai benefici di legge: vietati permessi premio, affidamento in prova e lavoro all’esterno. Il caso di Carmelo Musumeci è ritenuto emblematico: entrato in carcere con la sola licenza elementare, in cella si è laureato in giurisprudenza diventando autore di tre libri. Chi e come decide se una persona è cambiata? Non tutti i detenuti lo sono, e non basta certo una laurea a dimostrarlo. Ma è un’altra delle domande che attendono risposta.
Da MonzaToday 23 novembre 2012
E un’installazione dei Radicali in centro Monza per sponsorizzare la loro iniziativa della settimana passata.
Monza, 25 novembre 2012 – Una cella per detenuti in piazza per denunciare l’inciviltà del carcere. E’ un’iniziativa organizzata dagli avvocati della Camera penale di Monza, unitamente alle Camere Penali del Distretto di Corte D’Appello di Milano, con la collaborazione del Comune di Monza.
Da venerdì fino a oggi, in occasione della ‘Cella in Piazza’, nella piazza dell’Arengario di Monza è stata posizionata una cella vera, per dimensioni ed arredi, realizzata dai detenuti e dai volontari della Conferenza regionale del Volontariato Giustizia del Veneto, per essere ‘visitata’ dai cittadini che vogliono rendersi conto di cosa vuol dire vivere come i detenuti in tre in una stanza di quattro metri per due.
Un problema, quello del sovraffollamento e dei disagi delle carceri, che affligge soprattutto le case circondariali della Lombardia dove, per una capienza di 5384 detenuti, ne vengono invece ‘ospitati’ quasi 9.450. Per partecipare alla giornata contro l’insostenibilità della condizione carceraria, anche la Camera penale di Monza presieduta da Marco Negrini ha proclamato l’astensione dalle udienze dei suoi avvocati e ha organizzato, all’interno del Coordinamento delle Camere penali del Distretto, un convegno sul tema ‘Il carcere non può aspettare’, dove un detenuto nel carcere di Opera, Orazio, ha voluto offrire la sua testimonianza.
“Ero una persona normale, poi sono finito in carcere e sono detenuto da 16 anni e mezzo – ha raccontato Orazio – Un’esperienza terribile, se ce l’ho fatta è grazie a mia moglie, ai miei 5 figli e ai miei nipoti. Ho ancora davanti agli occhi il primo giorno quando ho visto il cancello del carcere, è stato indescrivibile. Ho sempre cercato di scontare la mia detenzione anche nel rispetto delle persone che in carcere ci lavorano, come gli agenti di sorveglianza. Ma in cella con me ha provato ad esserci un detenuto sieropositivo che vomitava sangue, un pazzo che si legava al cancello della cella con un sacco della spazzatura. Ora esco il mattino e torno la sera grazie al responsabile del carcere di Opera e ho a che fare con le persone anziane e in queste ore dimentico di essere un detenuto e mi sembra di rivivere. Perchè stare in carcere è vita persa e non è vero che è comunque un’esperienza”.
Al convegno ha partecipato anche Marco Cappato, consigliere comunale a Milano e presidente del Gruppo Radicale. “L’Europa ci condanna per l’illegalità della situazione delle carceri e la lunghezza della giustizia – ha dichiarato Cappato – Noi chiediamo una soluzione strutturale, quella dell’amnistia, una proposta che va verso l’obiettivo della sicurezza e della legalità ancor prima che verso la dignità dei detenuti”.
di Stefania Totaro
Da Il Giorno Monza e Brianza