Giovedì 4 e venerdì 5 dicembre Basilea ha ospitato il Consiglio Ministeriale dell’OSCE, a conclusione dell’anno di presidenza della Svizzera, a cui succederà nel 2015 la Serbia. Focus di queste giornate è stata la crisi ucraina, tematica su cui la Svizzera ha raccolto grande consenso internazionale per il suo operato. Anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha espresso la sua stima per il lavoro del Presidente di turno dell’OSCE Didier Burkhalter durante l’Assemblea generale dell’ONU dello scorso settembre. Il Segretario ha poi evidenziato il ruolo fondamentale della Svizzera nello stabilimento del cessate il fuoco in Ucraina e l’importanza dell’OSCE per una maggiore sicurezza e cooperazione, per un mondo più pacifico, sviluppato e fondato sul rispetto per i diritti umani. Continue reading
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Se questo è un uomo. Ora provate a dire che il 41 bis non è tortura
Il filmato che potete vedere dal blog INSORGENZE (da dove diffondiamo questo bell’articolo) mostra Bernardo Provenzano ripreso dalle telecamere di sorveglianza della sala colloqui 41 bis del carcere di Parma durante l’unica ora mensile di colloquio ammessa con i propri familiari. Le immagini venute in possesso della trasmissione televisiva Servizio Pubblico risalgono al 15 dicembre 2012.
Provenzano è stato arrestato nell’aprile del 2006. Sei anni di 41 bis lo hanno ridotto in questo stato. L’uomo ormai ottantenne appare poco presente a se stesso, incapace di intendere. I suoi movimenti sono rallentati, il suo stato è poco vigile, non riesce ad impugnare correttamente la cornetta Continue reading
Libia, sradicare la tortura nelle carceri delle milizie
Chi ha ultimamente visitato le principali città della Libia ha potuto osservare una notevole diminuzione degli improvvisati posti di blocco e delle pattuglie armate dispiegate a presidiarli.
Per molti libici, la vita pare tornata a una certa normalità: escono i giornali (anche se ogni tanto qualche giornalista finisce in carcere), le Ong svolgono i loro seminari, si discute apertamente del futuro del paese e delle sfide che lo attendono.
Grattando un po’ la superficie, tuttavia, appare evidente che uno dei principali ostacoli alla stabilità e all’affermazione dello stato di diritto è ancora da sconfiggere. Molte milizie rifiutano il disarmo e continuano a controllare carceri e altri Continue reading
Libia: cristiano protestante egiziano muore in carcere, per la moglie è stato torturato
Un cristiano protestante egiziano è morto dopo 10 giorni di prigionia in un carcere libico di Bengasi. Si tratta di Ezzat Hakim Attalah, 45 anni, padre di due figli, arrestato lo scorso 28 febbraio insieme ad altri cinque connazionali cristiani evangelici con l’accusa proselitismo. Ne dà notizia la Middle East Christian News Agency, citando fonti del ministero degli Esteri egiziano secondo cui l’uomo è deceduto per cause naturali poiché diabetico e affetto di disturbi cardiaci. Interpellata dalla stessa Mcn-direct, Ragaà Abdullah Guirguis, la moglie di Attalah, ha tuttavia raccontato che il marito è morto per le pressioni e le torture materiali inflitte dai carcerieri libici e ha annunciato che farà quindi ricorso ad avvocati internazionali per stabilire la reale dinamica del decesso. Il caso di Attalah ha acceso i riflettori sulla drammatica situazione dei cristiani in Libia, divenuti bersaglio delle milizie salafite che controllano la regione della Cirenaica, scrive Asia News.
Assaltata ambasciata libica al Cairo dopo morte copto in carcere
Decine di egiziani copti hanno assaltato l’ambasciata libica al Cairo. Lo ha riferito il sito web del quotidiano “Ahram”, secondo cui i manifestanti hanno fatto irruzione nell’edificio per protestare contro la morte di Ezzat Hakim, un egiziano copto arrestato nelle scorse settimane in Libia con l’accusa di proselitismo e morto in carcere in circostanze poco chiare. Secondo il quotidiano, i dimostranti hanno bruciato la bandiera della Libia, sostituendola con quella egiziana. L’edificio che ospita la sede diplomatica, inoltre, sarebbe stato danneggiato. Hakim era tra le decine di egiziani di fede copta arrestati in Libia nelle scorse settimane e sottoposti a torture da parte di una brigata salafita di Bengasi.
Asca
Fino all’ultima maceria
diffondiamo da informa-azione
Carcere come punizione. Che sia per ammonire chi ancora non dissuaso dall’idea del “crimine paga”, che sia per stroncare i riottosi alle pubbliche leggi, che sia semplicemente perché così funziona un’istituzione che rinchiude. Il carcere quello fatto di soprusi, angherie, umiliazioni è fatto di vetri che dividono affetti, minuti di incontro, per chi può, strappati alla costruita monotonia quotidiana, di burocrazia, di censura della posta, di isolamento, di botte.
In questi giorni Sergio, un compagno detenuto in AS2 e trasferito da pochi giorni da Alessandria a Ferrara, è in sciopero della fame da settimane per essersi visto negare i colloqui con la sua compagna.
Maddalena, una compagna detenuta ad Agrigento, subisce da mesi le pressanti attenzioni dei secondini di turno, senza piegare la testa ed è anche lei in sciopero della fame per il continuo regime d’isolamento a cui è sottoposta.
“Normale amministrazione” per chi distribuisce anni di galera e per chi quelle galere le gestisce. Noi che vogliamo vedere radere al suolo ogni forma di reclusione e ogni spasimo di autorità non ci abitueremo mai alla normale amministrazione.
Rinnoviamo la nostra solidarietà e la nostra complicità per i compagn* rinchiusi in AS2 e a tutt* i prigionier* che non piegano la testa di fronte a questo esistente.
Cassa antirepressione Alpi occidentali
Carcere e tortura, rottura dell’unità della persona
A Copenhagen, a pochi minuti dal centro città, è in funzione il Rehabilitation Centre far Torture Victims, dove si cerca di ricomporre l’unità corpo-mente in chi ha avuto l’esperienza della tortura. Un centinaio di fisio e psicoterapeuti cerca di restituire innanzitutto un corpo ai propri pazienti:
«Quasi sempre le vittime, per sopportare il dolore, hanno dovuto negare l’esistenza del proprio corpo».
Alcuni pazienti, alla richiesta di rilassare i muscoli, reagiscono sopprimendo completamente ogni capacità di avvertire sensazioni fisiche. Si tratta dello stesso espediente che avevano già adottato in carcere per resistere agli aguzzini, espediente che nel Centro di riabilitazione finisce per ostacolare ogni terapia:«È stato molto difficile restituire a quegli uomini il senso di possedere un corpo. Di volerlo toccare. Di volerne sentire le reazioni».
Non deve suonare strambo se un capitolo sugli effetti del carcere viene concluso con alcuni cenni sulla tortura. Quest’ultima non ha come semplice oggetto il corpo, ma usa il corpo come tramite materiale che conduce alla distruzione della psiche. Non ha come obiettivo quello di costringere il detenuto alla confessione, ma quello di annichilirlo, negarne sensibilità e qualità umane.
La tortura rappresenta una forma di antiterapia: mira a spezzare l’unità della persona. Ma come mai non suscita poi tanta indignazione? Forse perché viene avvertita come una pratica ortodossa in un mondo dove manipolazione, correzionalità di massa e terapia per normali costituiscono prassi quotidiana. Non viviamo nell’era che ha sostituito il maquillage con la protesi, nell’era della chirurgia estetica, della manipolazione dell’aspetto, dell’intelligenza, dei geni? Distruzione e manipolazione stanno a tortura e carcere come in una equazione a variabili incrociate.
Il carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l’uomo, può ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi, «ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi».
Lévi-Strauss, nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione, considera da un lato le società che ingeriscono il corpo del deviante, dall’altro quelle che lo espellono, lo vomitano. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né il suo contrario, antropoemia, ma ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione. Gli operatori dell’istituto di Copenhagen ne sono consapevoli: compiono un lavoro di restauro, cercando di riunire con la dolcezza le due entità separate dall’afflizione.
Fuori i torturati dalle galere: ORA!
Diffondiamo da polvere da sparo
Se c’è un motivo per cui da anni scrivo, leggo, ricerco materiale sulla tortura,
è perchè sento la necessità viscerale di buttarli fuori.
In Italia la tortura s’è mossa con mano pesante sui corpi dei militanti della lotta armata, dalla fine degli anni ’70 al 1982, maledetto anno cileno:
elettrodi attaccati al pene, manganelli nelle vagine, capezzoli tirati con pinze, la scientifica e ripetuta tortura dell’acqua e sale,
denominata dagli statunitensi waterboarding, finte esecuzioni e tanto altro…
questo è stato il nosto paese, che ha costruito un apparato specializzato, che correva qua e là per lo stivale ad improntare sale di tortura, tavolacci da boia, preordinati e decisi dai più alti apparati di Stato.
Nomi ormai noti, nomi che hanno fatto la loro splendida e medagliata carriera, fino a giungere, come Oscar Fioriolli a dirigere la Scuola di Formazione per la Tutela dell’Ordine Pubblico: quasi una barzelletta della storia (proprio colui che si occupò di “quel manganello”)
Dicevo,
se c’è un motivo che in tutti questi anni ha alimentato il mio bisogno di inchiestare i loro elettrodi e la catena di quei nomi,
è che ci son dei compagni, dei corpi di uomini e donne,
che vivono ancora reclusi (alcuni senza aver nemmeno mai fruito di un permesso).
Parliamo di una carcerazione iniziata così, con i trattamenti più atroci che l’essere umano possa immaginare, e MAI TERMINATA.
Da più, molto più di trent’anni ormai.
Ho letto molti testi, incontrato medici,
imparato quanto lavoro si deve fare sulle menti e i corpi di chi ha subito la tortura per riuscirsi a riappropriare di sè stessi,
di un minimo di tranquillità nel toccare il proprio corpo,
o nell’abbandonarsi al sonno.
Tonnellate di studi, di pagine, di centri internazionali di riabilitazione per torturati, per uomini e donne che hanno il diritto di riprender la propria esistenza nelle mani, dai più minimi gesti.
NOI IN ITALIA SIAMO ALTRO A QUANTO PARE.
Noi i nostri torturati li teniamo in cella.
Noi i nostri torturati non li curiamo.
Noi non li facciamo accedere a nessun percorso riabilitativo, liberatorio, collettivo.
No.
Li teniamo chiusi, a scontare l’eternità del carcere e di corpi abusati.
Per quello penso sia NECESSARIO parlare di tortura,
conoscere i racconti di chi ha subito il waterboarding dalla voce stessa, rotta, da chi l’ha subito,
per quello dobbiamo seguire puntando tutti i fari a disposizione il tentativo che alcuni avvocati stanno facendo per “riaprire il processo Triaca” che altro non significa che eliminare la condanna (da lui totalmente scontata) per calunnia, datagli quando accusò lo Stato delle torture.
Annullare una condanna, e fare in modo che quei nomi siano scritti nero su bianco.
Nero su bianco, torturatore per torturatore.
Picchiato a morte dai poliziotti in cella, video choc in Belgio
Bruxelles – (Adnkronos/Ign) – Il giovane di 26 anni, Jonathan Jacob, è stato pestato da un gruppo di agenti. E’ morto per un’emorragia al fegato. Il filmato mandato in onda dalla tv ‘Vrt’.
Attenzione, il video contiene immagini che possono urtare la sensibilità dell’utente
Il Belgio è sotto choc per le agghiaccianti immagini del pestaggio a morte di un detenuto in un commissariato nella provincia di Anversa, diffuse dalla rete televisiva fiamminga Vrt e ora visibili online. L’uomo ucciso è un 26enne, Jonathan Jacob, picchiato senza pietà da sei agenti in tenuta anti sommossa, con caschi, scudi e manganelli.
I fatti, avvenuti nel 2010, sono venuti alla luce solo ieri sera con la diffusione del video. Il giovane, che aveva assunto anfetamine, era stato arrestato a causa del suo comportamento sospetto. Inizialmente gli agenti lo avevano portato in un ospedale psichiatrico perché fosse internato, ma qui Jacob si mostra molto violento e il direttore respinge il ricovero. Il giovane viene riportato allora in cella, dove viene chiesto a un medico di somministrargli un calmante.
Jacob non si calma e in attesa del medico arrivano i poliziotti. La telecamera della cella del commissariato di Morstel lo mostra completamente nudo, mentre un nugolo di agenti vestiti di nero lo investe, picchiandolo senza pietà. Quando il medico arriva, il giovane è già morto per un’emorragia al fegato. A scioccare il pubblico è anche il fatto che uno degli agenti responsabili sia ancora in servizio. Il ministro degli Interni, Joelle Milquet, afferma oggi su Le Soir che quest’ultima circostanza è “inammissibile”.
Torturatori assolti per pestaggi a Teramo
Il primo febbraio il giudice ha chiuso per sempre il caso Castrogno. L’inchiesta sul pestaggio di un recluso e sull’audio shock con la frase «un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto» è stata archiviata dal gip Giovanni de Rensis che ha respinto la seconda opposizione presentata dal detenuto che accusava di essere stato pestato in carcere. Nell’inchiesta erano indagati l’ex comandante Giuseppe Luzi e quattro agenti di polizia: Donatello Pilotti, Giampiero Cordoni, Roberto Cerquitelli e Augusto Viva (difesi dagli avvocati Nicola De Cesare, Raffaella Orlando, Filomena Gramenzi, Renzo Di Sabatino, Carla Vicini, Antonio Valentini). Quella arrivata a de Rensis era la seconda richiesta di archiviazione. La prima era stata respinta dal gip Marina Tommolini (ora in servizio alla Corte d’appello di Ancona) che aveva disposto ulteriori indagini al pm Irene Scordamaglia . Il detenuto ha sempre sostenuto di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria di Castrogno come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un agente.Va detto inoltre che il detenuto finì a processo (poi assolto) con l’accusa di lesioni e resistenza ad un agente di polizia penitenziaria. L’ex comandante, subito dopo l’esplosione del caso, aveva ammesso che era sua la voce che si sentiva nel colloquio shock registrato sul cd. E lui che diceva: «Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perchè il negro ha visto tutto». Quel testimone era Uzoma Emeka, detenuto nigeriano morto in carcere un mese dopo i fatti, stroncato da un tumore al cervello non diagnosticato. Qualche giorno dopo la notizia tre compagni furono denunciati per delle scritte in città contro sbirri e politici. Sbirri che oggi sono dichiarati innocenti dalla giustizia statale e, soprattutto, ancora una volta non hanno trovato alcuna opposizione.
Cile: Scritto di Freddy, Marcelo e Juan
Diffondiamo da RadioAzione
La Prigione, la tortura e l’ingiustizia non vanno in vacanza
Dopo l’assalto più recente e persecutoria – l’apparato repressivo – la polizia, l’accusa e la Corte hanno concluso sospendendo il processo di preparazione che era in Corte costituzionale dal mese di agosto dello scorso anno, con l’obiettivo di invalidare l’intero pantano delle prove già escluse e rifiutate nel processo, prova che è stata archiviata dalla Corte Militare e portata avanti dal torturatore Roberto Reveco al Pubblico Ministero (legittimando, in questo modo, gli atti di persecuzione e di odio).
Sei mesi dopo, nel febbraio 2013, l’inganno continua ancora oggi, e lo fa presentando una nuova accusa contro il giudice che, si baserebbe sui dubbi che egli ha sulle prove di porcellana ed i querelanti. Nel frattempo restiamo imprigionati, e la Corte d’Appello si occuperà sul valutare la disputa sul falso “onore” tra di loro, tutto quanto abilmente costruito dai persecutori. Ma non è questa la tendenza occulta, e il trucco in fondo non serve solo per rimuovere il giudice. Il suo scopo è quello di ripartire con un nuovo processo, in cui tutte le prove dell’accusa già escluse, eliminate sotto le proprie leggi, possono essere integrate di nuovo, a qualunque costo, rispondendo così alle esigenze di repressione, persecuzione e punizione- esigenze politiche di uno Stato che ci fotte con il suo ordinamento giudiziario.
L’insostenibilità del processo si riflette nelle pratiche aberranti per giustificare questa prigionia. Dove la macchina oppressiva deve dare una condanna esempio.
Così noi, ribelli, libertari, sovversivi siamo temporaneamente in carcere, con un altalenante processo in cui si azzuffano nelle loro interpretazione legale delle loro leggi, i quali neppure con tutto questo inganno attuale stanno assicurando gli interessi inquisatorial dellostato e della loro struttura giudiziaria repressiva. Così, in contraddizione palpabile con le proprie norme, questo caso è stato aperto per più di cinque anni, politicamente sostenuto dalla ragione di Stato e senza alcun fondamento giuridico. Una detenzione che cercano di legittimare semplicemente perché noi ci facciamo carico delle nostre vite e non abbiamo mai avuto a che fare con il controllo capitalista imposto. Ariamo il percorso di emancipazione, che non rientra nei loro codici, e questo è il motivo per cui cercano di reinterpretare le proprie leggi, creando leggi temporanee, la riforma delle riforme e, attraverso la ragion di Stato, danno indiscutibile autorità e legittimità alla dottrina sacra del potere militare e le sue garanzie costituzionali.
Oggi, con una voce assetata di potere e importanza, la lingua d’argento di un procuratore vuole e deve mantenere le sue pene infernali. La sua manovra per avviare il processo tutto da capo non sarà il suo ultimo rantolo. Ieri, la persecuzione per annientare l’idea è stata effettuata con il piombo, oggi dosare la persecuzione nei regimi giudiziari per dare lo stesso risultato che il piombo mortale non gli ha portato.
I nostri cuori battono indomabile, respiriamo profondamente, amando la vita, amando i nostri amori!
Cerchiamo di vincere la nostra paura e rompere con indifferenza.
La solidarietà è un’arma, dobbiamo moltiplicare le iniziative, azioni e proteste, personali o collettivi.
Facciamo vedere allo Stato e alla sua stampa borghese
che, mentre vi è miseria, ci sarà la ribellione!
CONTRO LO STATO-PRIGIONE-CAPITALE: GUERRA SOCIALE!
Juan, Marcelo e Freddy
Febbraio 2013
Italia: Stato canaglia
Ristretti Orizzonti, 6 febbraio 2013
Voglio dare voce a chi necessita di una voce. A chi non ha potere (Yuen Ying Chan Daily News reporter).
Ornella Favero, il direttore di Ristretti Orizzonti, oggi ha portato in redazione la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013 (appena tradotta in italiano) che condanna lo Stato italiano per la violazione dell’articolo 3 della convenzione che stabilisce:
– Divieto della tortura. Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti.
Ornella nelle riunioni in Redazione mi ricorda spesso:
– Non voglio fare un giornale di denuncia, voglio fare un giornale di informazione. Per cui cerco di capire come sono andate le cose e cerco di usare sempre toni sobri. Io credo che la verità si impone per la forza della sobrietà della notizia, non di quanto urli in più.
Ornella ha ragione, ma se lo dice la Corte europea che l’Italia è uno Stato canaglia, lo voglio dire anch’io, anche se sono stato un fuorilegge.
E lo voglio fare urlando dalle sbarre della mia finestra, affinché qualcuno aldilà del muro di cinta mi senta che nelle carceri italiane, spesso, il detenuto subisce un carico di sofferenza superiore a quella prevista dalla sentenza della sua condanna.
Subisce una sofferenza non solo fisica, ma soprattutto mentale perché il prigioniero italiano oltre a perdere la libertà, molte volte getta via dalle sbarre della sua finestra anche il suo cuore.
Spesso nelle nostre patrie galere il detenuto perde anche i propri pensieri perché ti spogliano della tua identità.
E per sopravvivere non ti rimane altro che esprimere la tua libertà e amore con la rabbia verso tutte le istituzioni colpevoli di averti fatto diventare un fantasma.
Per questo molti di noi a volte si dimenticano del male che hanno commesso e si ricordano solo del male che adesso ricevono.
Allora per questo grido che nelle nostre Patrie galere non esistono diritti all’integrità fisica, alla salute mentale, sessuale, familiare, diritti sociali, morali e culturali.
E se lo dice la Corte europea lo posso affermare anch’io che l’Italia è uno Stato canaglia e mi auguro che il resto d’Europa, in una guerra umanitaria, ci venga presto a bombardare di legalità.
Carmelo Musumeci
Redazione di Ristretti Orizzonti
Grecia: la democrazia che tortura
Pubblichiamo questi due brevi articoli tradotti dal blog atenecalling che fanno il punto sugli arresti attuati dai corpi speciali greci contro quattro militanti accusati di rapina a mano armata. Nella Grecia dei governi tecnici e della Troika, dei governi che cadono perché propongono referendum sulle riforme dell’austerità, succede anche che quattro giovanissimi ragazzi accusati di rapina vengono torturati per ore dalla polizia. E succede che dagli uffici centrali della polizia dell’Attica ad Atene, l’ormai famosa GADA, vengano diffuse immagini (come la foto in basso che pubblichiamo nell’articolo) dei quattro arrestati completamente photoshoppate, dove i segni del pestaggio vengono ridotti al minimo. Non appena svelata la grave contraffazione il ministro degli interni ha avuto anche il coraggio di dichiarare che “il ritocco è stato necessario per rendere gli arrestati riconoscibili”.
Dopo un contatto telefonico con i genitori dell’arrestato Andreas-Dimitris Bourzoukos informiamo che tutti gli arrestati sono stati portati già da sabato sera (2 febbraio) a GADA (uffici centrali della polizia dell’Attica).
Oggi è stato il primo giorno, dopo una serie di dinieghi da parte della polizia, in cui i genitori hanno potuto contattare i propri figli, così come anche gli avvocati. Avevano 15 minuti a loro disposizione, al dodicesimo piano di GADA.
Per quel che riguarda Andreas-Dimitris Bourzoukos, è rimasto ammanettato a una sedia durante tutti i 15 minuti. Ci ha informato che dentro le celle di Kozani, mentre era incatenato con le mani indietro, gli hanno messo un cappuccio sulla testa, lo hanno fatto inginocchiare e lo hanno picchiato per quattro ore sulla testa, sul viso, sul ventre. Gli hanno anche strappato i capelli. Questo è successo senza che lui mostrasse in alcun modo resistenza e, si intende, accompagnando il tutto con minacce, insulti e bestemmie. Le conseguenze di queste torture sono: lividi diffusi, stordimenti forti, dolori in testa, gonfiori su tutto il viso, ematomi in entrambi gli occhi, lividi e graffi dappertutto.
I genitori riportano che il suo viso era irriconoscibile e la sua voce cambiata dal pestaggio alla mascella. Inoltre, per tre giorni consecutivi gli hanno dato da bere solo acqua, mentre hanno vietato ai genitori di dargli qualsiasi cosa confezionata, come cibo o succhi.
Tutto questo non viene pubblicato per vittimizzare gli arrestati, ma per sottolineare le torture e la violenza “legale” degli apparati dello stato.
da athens.indymedia
03/02/2013
Tradotto da atenecalling
Due parole su Andreas-Dimitris Bourzoukos da un suo professore.
Mi chiamo Christos Ioannidis. Sono professore nelle scuole superiori da 23 anni. Sono il responsabile della rivista “Schooligans” e del festival studentesco “Schoolwave”.
Ho conosciuto Andreas-Dimitris Bourzoukos per tre anni (2005-2008). Era un mio studente nella scuola Musicale di Pallini.
Sono scioccato dalla notizia della sua partecipazione in una rapina a mano armata. Non so cosa lo abbia portato fin là. Voglio però parlare dei tre anni in cui l’ho conosciuto come studente, ma anche come volontario della rivista studentesca. Era un enorme piacere per me avere in classe ragazzi come Andreas-Dimitris. Era sensibile, intelligente, preoccupato. No, non ascoltava heavy metal. Ascoltava il rock, Hadjidakis, Motzart. No, non era asociale. Al contrario, era molto amato dagli altri studenti. E ovviamente aveva anche lui una rabbia dentro, come tutti i ragazzi veri che scoprono durante l’adolescenza la società disumana ed ipocrita in cui viviamo. No, non era un cattivo studente, era uno studente bravo. Ha superato anche lui gli esami di ammissione all’università, scrivendo una tesina di quelle che il sistema chiede. I suoi genitori erano due persone molto dignitose. Venivano spesso a scuola per informarsi del suo rendimento.
Ad un certo punto ho saputo che suo padre era rimasto disoccupato. Me l’aveva detto amareggiato ed arrabbiato. Non so quante cause di rabbia si siano aggiunte da allora. Posso però immaginarne molte, visto che vivo anch’io in questa Grecia. Per il resto, mi dispiace e mi vergogno. Mi dispiace per Andreas-Dimitris che ha creduto, o almeno così sembra, alla violenza come risposta alla violenza del sistema. Mi vergogno però di più per la Grecia, che costringe ragazzi come Andreas-Dimitris ad arrivare a questo punto. Mi vergogno per i poliziotti che lo hanno torturato. Mi vergogno per i giornalisti che lo hanno già condannato. E mi vergogno per tutti quei cittadini insospettiti che terranno nella loro mente la sua immagine come un quella di un “terrorista”, mentre ignoreranno il suo viso deformato dal pestaggio per passare alla prossima notizia.
La deformazione è tutta nostra però.
Tratto da lifo
Tradotto da atenecalling
Fonte infoaut
Il manicomio impossibile. La lunga strada per chiudere gli Opg
Il sequestro dell’intero Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (ex manicomio criminale) disposto dalla commissione parlamentare di inchiesta sul servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, ha rimesso il tema della chiusura degli Opg al centro dell’attenzione nazionale. Come è noto, mercoledì scorso i carabinieri dei Nas, su disposizione della Commissione, che possiede poteri analoghi al potere giudiziario, hanno posto sotto sequestro l’Opg, a causa delle sue pessime condizioni igienico-strutturali. L’ordinanza di sequestro assegna un termine di trenta giorni per il trasferimento dei circa duecento internati presenti. Ma che senso ha sequestrare una struttura che, per legge, dovrebbe chiudere entro marzo 2013? Per comprenderlo è bene fare un passo indietro, in una storia che diviene sempre più complicata.
Sopravvissuti alla chiusura dei manicomi civili, i vecchi manicomi criminali hanno assunto il nome di Opg, ma non hanno mutato sostanza. Sono strutture detentive nelle quali finiscono sofferenti psichici autori di reato che sono condannati a una misura di sicurezza detentiva. Una misura di sicurezza che, se sussistono condizioni di pericolosità sociale o un’assenza di alternative, può essere prorogata un numero infinite di volte. Oggetto di numerose inchieste nel anni Settanta per violenze e maltrattamenti, ma anche di denunce, in anni recenti, da parte di singoli deputati e dell’associazione Antigone, gli Opg sono tornati al centro dell’attenzione pubblica nel 2010. Fondamentale è stato il rapporto del comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), organismo di tutela dei diritti del consiglio d’Europa, presieduto allora da Mauro Palma, sulla visita effettuata nell’Opg di Aversa. Il quadro disegnato dal Cpt – letti di contenzione, isolamento prolungato, condizioni inumane e degradanti, povertà estrema, abbandono psichiatrico, assenza di terapie – ha spinto la commissione presieduta da Marino a recarsi in visita ispettiva non solo ad Aversa, ma anche negli altri cinque Opg nelle quali erano presenti circa 1.300 persone.
È così venuto alla luce un diffuso sistema di abbandono, deprivazioni e inumanità esteso in particolare alle strutture di Aversa, Barcellona e Montelupo Fiorentino. Ed è emerso anche un altro elemento inquietante. Centinaia di persone internate vedono prorogata la propria misura di sicurezza perché non ricevevano assistenza dai propri servizi di salute mentale o perché non hanno famiglie in grado di farsi carico di loro. E così molti sofferenti psichici, entrati in Opg per aver commesso o solo tentato piccoli furti, si sono trovati a scontare decine di anni di detenzione in assoluta incertezza sulla fine della pena e in condizioni inumane.
La commissione parlamentare è riuscita, con una tenacia che va riconosciuta, a non far mai cadere l’attenzione sul tema. Ha sequestrato reparti, effettuato sopralluoghi e audizioni, e girato un video in cui le terribili condizioni detentive emergevano in tutta la loro brutalità. Tanto che persino il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano non ha potuto che definire gli Opg come “un orrore medioevale”. Si è così giunti all’approvazione, in modo unanime, della legge n. 9/2012 che dispone il termine della chiusura al marzo 2013, ma non incide sul meccanismo delle misure di sicurezza e sulla loro prorogabilità prevista dal codice penale. La norma ha stabilito che gli Opg devono essere sostituiti da mini- strutture sanitarie regionali (venti-trenta posti) e ha stanziato anche risorse significative per le regioni, per la gestione ( trentotto milioni nel 2012, cinquantacinque milioni nel 2013) e per la costruzione (centosettantatre milioni di euro per il 2012 e il 2013). Dove sorgono i problemi allora?
Il primo problema nasce dal fatto che questi soldi sono stati ripartiti solo a dicembre e che, pertanto, tecnicamente, non saranno mai disponibili per le regioni prima di qualche mese. Il ritardo delle regioni nella definizione e individuazione di queste nuove strutture, le cui caratteristiche sono state definite solo nel mese di novembre, è uno degli elementi che spinge in molti a ritenere che sia necessaria una proroga. Proroga della quale Ignazio Marino non vuole sentir parlare. Ha piuttosto proposto al presidente uscente Mario Monti, a nome della commissione di inchiesta, di nominare “una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione”. Ma al momento nessuna risposta. Ecco il perché del sequestro, segnale forte e deciso da parte della Commissione. Ma sono in molti a segnalare problemi ancora più gravi dei ritardi. Il Comitato stopOpg (Antigone, Forum Salute Mentale, Psichiatria Democratica, CGIL) segnala il rischio forte che queste strutture regionali possa trasformarsi in mini-OPG. Secondo i portavoce del comitato, “le persone internate negli OPG non sono dei ‘pacchi’ da trasferire da un ‘contenitore’ ad un altro. Sono persone che hanno diritto di essere riportate nella regione di appartenenza per ricevere un’assistenza individuale: con progetti terapeutico riabilitativi, differenziati a seconda del bisogno assistenziale, a cura del Dipartimento di salute mentale di residenza”. E del resto, considerato che queste strutture sanitarie saranno affidate a soggetti privati e senza che sia stato modificato il sistema delle misure di sicurezza, il rischio di nuove forme di internamento è davvero molto alto.
Un altro rischio è evidenziato da Rita Bernardini che, polemicamente, ha commentato “mi auguro che il senatore Ignazio Marino si sia posto il problema dei duecentodieci pazienti che dovranno essere ‘trasferiti’ entro trenta giorni. Dove verranno trasferiti? In altri OPG a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia, lontani dai loro familiari? Nei repartini che si stanno predisponendo inopinatamente negli istituti penitenziari per incarcerarli?” Rischio più che concreto se consideriamo che, solo per fare un elenco parziale e certo incompleto a campione in tre regioni (Abruzzo, Campania, Lazio), l’amministrazione penitenziaria sta predisponendo reparti detentivi per sofferenti psichici nelle carceri di Rebibbia, Regina Coeli, Civitavecchia, Velletri, Vasto, Teramo, L’Aquila, Sulmona, Lanciano, Pescara, Santa Maria Capua Vetere, Pozzuoli e Salerno. C’è dunque la concreta possibilità che una parte degli internati che non verrà dimessa e che non andrà a finire nelle nuove strutture sanitarie, finirà dispersa nel circuito penitenziario dove si stima siano già presenti circa ventiduemila detenuti con un disagio psichico.
Sarebbe davvero una sconfitta per tutti quelli che desiderano il reale superamento dei dispositivi di internamento manicomiali. La mancata modifica del codice penale rende certo più fragili le speranze di un cambiamento che rimane necessario. “Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura e tutela medicina e giustizia dovrebbero esistere”. Questo scriveva Franco Basaglia, nel 1973 a proposito di quelli che oggi si chiamano ospedali psichiatrici giudiziari. Allora sembrava impossibile che si potessero davvero chiudere i manicomi. Oggi appare incredibile che siano ancora aperti.
di dario stefano dell’aquila
Fonte: il manifesto