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CIE Torino, cade un altro pezzo

chiudere-i-cieVenerdi sera nel corso dell’ennesima rivolta i reclusi del CIE di Torino hanno reso inagibili tutte le stanze dell’area viola. La situazione del centro è quindi di totale emergenza, con tutte le sezioni maschili danneggiate e i detenuti costretti al sovraffollamento nelle poche stanze ancora utilizzabili, quando non a dormire in sala mensa.

Nonostante il disagio aumentato e l’atteggiamento molto ostile delle guardie, i reclusi sono contenti di quanto è accaduto perchè questa situazione è più vicina all’unica soluzione da tutti auspicata: la chiusura del CIE e la libertà per tutti.

Per ascoltare il contributo da radioblackout


Carcere, anche gli occhiali sono un’emergenza

images (7)C’è un problema, fra i tanti, giganteschi drammi che affliggono le carceri in Italia, di cui non si parla mai: gli occhiali. Sembra niente, rispetto alla non-vita di detenuti costretti dove dovrebbe starne la metà, come a Sollicciano (1000 invece di 450). E invece è moltissimo. Anche perché il calo della vista che colpisce gran parte dei detenuti (in gran parte sotto i 45 anni) a pochi mesi dall’ingresso in carcere è un po’ il simbolo di questa istituzione “contro” le persone, la loro dignità e i loro diritti.

N. J., marocchino 24enne, è qui da un anno: «Avevo una vista buonissima» racconta, «dopo sei mesi la tv mi sembrava tutta sfuocata, adesso non sopporto più neanche la luce». A. H., albanese, 21 anni, ha due occhi bellissimi «ma» dice «non riesco a scrivere una cartolina alla mia famiglia». L. M., italiano di 26 anni, dopo appena quattro mesi ha fatto domanda per gli occhiali: «Pensavo di avere un tumore al cervello, prima vedevo lontano dieci chilometri, ora neanche il fondo del cortile».

Succede così, racconta Salvatore Tassinari, presidente dell’associazione Pantagruel, che lavora in carcere con i suoi volontari: «Quando cominci a passare le giornate chiuso in una cella, la prima cosa che si riduce è il campo visivo. Il tuo sguardo spazia al massimo entro i pochi metri che dividi con i tuoi compagni, e a poco a poco perde il senso della profondità. Si abitua a non spingersi oltre, finché, a un tratto, non ci riesce proprio più». E non è solo la percezione della distanza, a svanire dietro le sbarre. Se ne va, piano piano, anche un altro piacere della vita, il senso dei colori: «Qui dentro ci sono solo tonalità di grigio» spiega Tassinari, «e l’occhio, a un certo punto, comincia a leggere come grigio anche quello che c’è fuori ». Tutto, insomma, in questo mondo chiuso, si contrae, e la vista che cala diventa il simbolo stesso della vita in carcere, costretta «a rinunciare a ogni aspettativa». Cioè ad annullarsi. Se poi si aggiunge che «dopo la vista, di solito, si alterano anche l’olfatto e l’udito, e il detenuto vive in un continuo, nevrotizzante, stato di allerta», c’è da stupirsi che la gente si suicidi?

Ma non basta: ancora più grave, se possibile, è che nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti non possano procurarsi gli occhiali: «I medici del carcere glieli prescrivono, ma se non glieli portiamo noi» dice Tassinari, «nessuno di loro ha la possibilità di comprarseli». Troppo cari per chi «a malapena ha i soldi per comprarsi un francobollo o una lametta da barba nello spaccio del carcere». Solo che adesso i soldi mancano anche a Pantagruel, «quelli degli enti pubblici sono mirati solo su progetti specifici, non su un bisogno endemico come questo, che ogni anno ci costa dai 3 ai 4 mila euro».

Non resta allora che organizzare ogni tanto cene di autofinanziamento (info:www.asspantagruel.org), «dove ai tanti che neanche lo immaginano spieghiamo come per i detenuti gli occhiali siano ormai un genere di prima necessità».

Fonte


Cie. Il silenzio sugli innocenti

Si scrive Cie, si legge carcere per chi non ha commesso reati. Doveva essere un fermo in attesa dell’espulsione, invece è detenzione. Così la questione immigrazione è diventata caso umanitario

Cancelli, telecamere di sorveglianza, celle con inferriate antievasione, agenti di sicurezza e forze di polizia che vigilano affinché nessuno degli ospiti si muova da lì. Benvenuti in un Cie. L’odissea dei Centri di identificazione ed espulsione – inizialmente chiamati Cpt – comincia nel 1998 con la legge Turco-Napolitano al fine di trattenere gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, nei casi in cui non sia possibile «eseguire con immediatezza l’espulsione». A giustificare il “trattenimento” secondo il legislatore è la necessità di procedere «al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità», come recita l’art. 12. Mai fino ad allora l’ordinamento italiano aveva previsto la detenzione di individui se non a seguito di reati penali e della decisione di un giudice. Le leggi successive – la Bossi Fini del 2002 e il pacchetto sicurezza del 2009 voluto fortemente dall’allora ministro Maroni – hanno intrapreso un cammino legislativo sempre più repressivo. Irrigidendo gli ingressi alla frontiera, rendendo sempre più difficile la permanenza regolare sul territorio italiano e allungando «il tempo strettamente necessario» di permanenza nei Cie, da 2 a 18 mesi. Con la nuova virata repressiva, in Italia può entrare solo chi ha già un lavoro. Chi lo perde ha solo sei mesi (un anno con la riforma del lavoro del 2012) per trovarne un altro, pena la clandestinità. Un quadro normativo schizofrenico che da una parte genera clandestini e dall’altra introduce il reato penale di clandestinità, da scontare nelle carceri ordinarie, da 1 a 4 anni. Questa stretta sull’immigrazione ha ricevuto più di una bocciatura e una dichiarazioni di illegittimità da parte della Ue. Il 28 aprile 2011 la Corte di giustizia europea ha bacchettato l’Italia per il mancato recepimento della direttiva 115 del 2008, che avrebbe dovuto essere accolta entro il 24 dicembre 2010. Perché per il diritto comunitario la clandestinità non è punibile con il carcere. Eppure con l’aumento dei tempi di permanenza è stato compiuto l’ultimo passo per trasformare strutture nate come temporanee in luoghi di detenzione per cittadini stranieri che non hanno commesso alcun reato.

Clandestini uguale delinquenti

Gli stranieri “detenuti” perché privi di regolare permesso di soggiorno sono circa 11mila. Nel corso del 2011 sono ancora in 3mila a scontare la pena all’interno delle carceri ordinarie, il 22 per cento di loro a carico ha solo questo reato. Sono molti i giudici che stanno applicando correttamente la normativa europea, ma anche se liberassero fino all’ultimo dei 3mila detenuti clandestini “ordinari” rimarrebbe irrisolta la questione dei Cie. Sono migliaia, quasi 8mila nel 2011, gli internati in questi centri e scontano una pena detentiva che può durare fino a 18 mesi. Le strutture in funzione sono 15: 12 permanenti e 3 provvisorie, create a seguito degli avvenimenti politici e dei conflitti dell’Africa del Nord che il ministero ha già dichiarato di voler rendere utilizzabili in via definitiva. A queste si aggiungono 3 centri momentaneamente chiusi. Sono edifici costruiti ex novo oppure convertiti per l’uso: ex caserme, fabbriche dismesse, ex centri di accoglienza, ex ospizi. A gestirli sono Croce rossa italiana, confraternita delle Misericordie d’Italia, cooperative del privato sociale. Il business è mediamente di 50 euro al giorno per migrante trattenuto.

Di emergenza in emergenza 

Cercando su internet la parola “Cie” si trova una lunga serie di denunce, reportage, notizie feroci su quanto accade all’interno di queste strutture. Da Trapani a Torino, da Lampedusa a Roma, si susseguono quotidianamente rivolte, incendi, tentativi di fuga. Le ragioni per cui molte organizzazioni umanitarie chiedono l’immediata chiusura di questi centri detentivi sono di natura economica, legislativa, di inefficacia del sistema, di ordine pubblico. Vale la pena soffermarsi sulla violazione dei diritti umani. È ormai evidente che l’emergenza immigrazione, che l’ordinamento intendeva superare introducendo queste strutture, si è di fatto trasformata in emergenza umanitaria. Giornalisti e Ong hanno stilato per ognuno di questi centri fiumi di denunce e inchieste che documentano le condizioni disumane a cui sono costretti gli internati. Qui non si rispettano neppure i parametri vigenti per gli istituti penitenziari. Nessun contatto con l’esterno, bagni senza porte, camerate anguste e sovraffollate. E le conseguenze sui trattenuti si fanno sempre più morbose: abuso di psicofarmaci, alto tasso di fenomeni di autolesionismo, tentativi disperati di fuga. Una situazione così grave che per i Cie bisognerebbe «introdurre il reato di tortura», ha detto il presidente della Caritas Roberto Davanzo: «Diciotto mesi vissuti lì dentro sono alienanti, annichiliscono le persone e fanno perdere la percezione della propria identità». Finora, in Italia, nessuna sentenza ha riconosciuto che queste strutture sono divenute, di fatto, carceri extra ordinem. Il 20 gennaio 2011 gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci dell’associazione Class action procedimentale hanno presentato al tribunale di Bari un ricorso d’urgenza per l’immediata chiusura del Cie di quella città. Il giudice ha trattenuto in decisione l’istanza: la sentenza è ormai vicina. E se il ricorso dovesse essere accolto potrebbe avere un effetto domino sugli altri centri d’Italia, diventando il precedente che mette in discussione l’intero sistema Cie.

Fortezza Europa

Centri come questi non hanno il marchio esclusivo del made in Italy. I campi di detenzione per migranti in Europa e nei Paesi mediterranei sono passati dai 324 del 2000 ai 421 del 2011, per un totale di circa 40mila internati. Muri dentro i muri, che si accompagnano a politiche migratorie sempre più repressive col solo scopo di espellere e rimpatriare. Mentre aumentano i tempi di permanenza, quindi di detenzione, e continua a diminuire la visibilità di ciò che accade dentro quei recinti. È la vecchia Europa che chiude porte e finestre ai flussi migratori. Sono passati secoli da quando gli schiavi venivano portati via dall’Africa in catene, oggi si fa di tutto per rispedirceli. Ma le catene restano.

di Tiziana Barillà – Left


Sovraffollamento e personale all’osso, l’anno terribile del carcere leccese

Nemmeno di fronte ad alcune sentenze definite epocali, con l’amministrazione penitenziaria obbligata a risarcire alcuni detenuti, è cambiato nulla. E si sprecano gli appelli, anche dei sindacati di polizia penitenziaria nazionali

LECCE – L’anno appena trascorso ha evidenziato, ancora una volta, la situazione di degrado e profondo malessere che attraversa gli istituti penitenziari pugliesi e in particolare quello di Lecce, dove, a fronte di una capienza di 660 posti disponibili, si registra una presenza costante di oltre mille 300 detenuti.

Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, mancanza di supporto psicologico e la cronica insufficienza di personale, sono solo alcuni tra i mali che affliggono il penitenziario salentino. Quella dell’emergenza sanitaria e delle carenze legate all’assistenza medica dei detenuti, sono solo alcuni dei tanti mali con cui da tempo convive il carcere di Borgo San Nicola.

L’ultima inchiesta della magistratura, in ordine di tempo, riguarda il lavoro svolto dai medici dell’Asl in servizio presso l’istituto penitenziario. Degli oltre 800 i ricoveri presi in considerazione, tra il gennaio 2010 e il febbraio 2011, solo il 13 per cento di quelli definiti di estrema urgenza, in ospedale sarebbero stati riconosciuti come tali. In tutti gli altri casi, il trasferimento risulterebbe superfluo. Uno spreco di denaro pubblico che potrebbe essere utilizzato in altro modo.

Il grido d’allarme è giunto, ancora una volta, dal vicesegretario nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che ha evidenziato come in dodici mesi siano stati oltre mille 350 gli eventi negativi accaduti nel carcere di Lecce. Una situazione esplosiva che solo il grande lavoro della polizia penitenziaria, costretta a svolgere le proprie mansioni in situazioni difficili, ha evitato che portasse a conseguenze gravi. La sede di Lecce, infatti, necessita di almeno 150 agenti uomini e venti donne. La polizia penitenziaria, già in forte carenza, si è vista ulteriormente ridurre l’organico a seguito dei tanti pensionamenti di uomini e donne.

Quello del sovraffollamento delle carceri pugliesi è da tempo un dato di fatto, riconosciuto anche da alcune sentenze. I detenuti sono rinchiusi in tre dentro celle da circa 10 metri quadrati; dormono in letti a castello (il materasso più in alto è a 50 centimetri dal soffitto); in cella c’è una sola finestra ed un bagno cieco senza acqua calda; il riscaldamento funziona d’inverno un’ora al giorno; le grate sono chiuse per 18 ore al giorno; carta igienica, shampoo, bagno schiuma, detersivi solo per chi può comprarli nello spaccio interno.

Nei mesi scorsi il Tribunale di sorveglianza, con alcune sentenze definite epocali, aveva condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire alcuni detenuti, assistititi dall’avvocato Alessandro Stomeo. Nel 2012 è stata la stessa Asl di Lecce a certificare le carenze strutturali e igienico-sanitarie dell’istituto di pena alla periferia del capoluogo salentino. Nella relazione, a firma del direttore Alberto Fedele, è stato evidenziato come il gruppo docce “presenti carenze funzionali”. “In relazione al numero dei detenuti occupanti la cella”, è stato certificato ancora nella relazione indirizzata al magistrato di sorveglianza, “dovrebbe essere necessari 42 metri quadri, a fronte dei 9 disponibili”.

Un referto (nato come richiesta istruttoria presentata dall’avvocato Stomeo), che sottolinea ancora una volta la situazione di invivibilità all’interno del carcere. Tutto ciò in violazione della normativa italiana che regola il sistema penitenziario, della Costituzione (secondo la quale la limitazione della libertà dovrebbe avere come obiettivo la riabilitazione dell’uomo e il suo reinserimento in società) e gli orientamenti giuridici comunitari.

Per non dimenticare che, a poca distanza dalle nostre vite, ce ne sono altre racchiuse in un mondo parallelo, fatto di regole e ritmi assai diversi. Vite che, al di là del perché, scontano pene in maniera spesso disumana e degradante. Una lunga cinta muraria e un pesante cancello separano il mondo di fuori da quello di “dentro”, i sogni dalla realtà.

Fonte: lecceprima.it

 


Firenze, al carcere di Sollicciano piove nelle celle

L’avevano annunciato alla vigilia che la mattina di Natale avrebbero visitato il carcere fiorentino di Sollicciano. E infatti una delegazione dei radicali si è presentata ai cancelli per controllare lo stato di questa struttura: “Una struttura fatiscente con infiltrazioni di acqua”, “in diverse celle piove anche sui letti dei detenuti” ha spiegato Matteo Mecacci, parlamentare radicale eletto nelle file del Pd, che stamani, insieme a una delegazione composta anche da Maurizio Buzzegoli e Rosa Marca, ha compiuto una visita ispettiva all’interno del penitenziario.
“La situazione è molto critica ormai da anni, ma le diffuse infiltrazioni di acqua – ha spiegato Mecacci al termine della visita, durata alcune ore – rendono invivibili non solo le celle ma anche i locali per la polizia penitenziaria. La mia impressione è che quel carcere deve essere abbattuto e ricostruito interamente”.

Mecacci, che è stato accompagnato nella visita anche dal cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, ha riferito che attualmente il carcere fiorentino ospita 935 detenuti a fronte di una capienza di 450 persone. Tra i reclusi anche 88 donne e due bambini, uno di 3 e l’altro di 5 anni. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 480 ma la pianta organica – ha spiegato il parlamentare – ne prevede 620.


Milano: il carcere di San Vittore scoppia, 1.600 detenuti per 780 posti

Il carcere di San Vittore a Milano scoppia: troppi detenuti, 1.600, in spazi che potrebbero contenerne 780 (questa la capienza massima prevista sulla carta per l’istituto di pena). Anche nella casa circondariale della metropoli lombarda è dunque emergenza sovraffollamento, problema comune a molte strutture italiane, con tutti i rischi igienico-sanitari che le celle strapiene comportano. A segnalare le criticità Lamberto Bertolè e Mirko Mazzali, rispettivamente presidente e vice presidente della sottocommissione Carceri del Comune di Milano.

san vittoreAl termine di una visita a San Vittore, i due consiglieri fanno il punto: “Segnaliamo le condizioni molto critiche del sesto raggio di cui abbiamo visitato il primo e il secondo piano. Altri reparti come il terzo raggio, dove i numeri lo consentono, versano in condizioni decisamente più consone”.

Tutto questo, continuano, “rafforza la convinzione che sia urgente e necessario provvedere alla ristrutturazione dei raggi chiusi, a cominciare dal quarto, scelta che potrebbe alleggerire le condizioni complessive del carcere. Tramontata l’ipotesi del trasferimento e riaffermata l’importanza che il carcere rimanga nella città, ci sembra una questione non più rinviabile”.

Bertolè e Mazzali concentrano l’attenzione anche sulla caserma degli agenti penitenziari che “versa in condizioni pessime, a cominciare dal degrado complessivo e, in particolare, delle docce e dei servizi igienici, insufficienti anche per numero”.

Tra le priorità, continuano, “segnaliamo anche l’importanza di garantire il kit d’ingresso a tutti i detenuti e l’insufficienza del numero degli agenti penitenziari che, in alcuni momenti della giornata, non possono garantire condizioni di sicurezza e la gestione delle emergenze”.

I due consiglieri riservano invece parole positive invece al reparto di cura La Nave per detenuti con problemi di tossicodipendenza, gestito dalla Asl di Milano in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria: “Riesce a garantire progettualità, proposte stimolanti e momenti di socializzazione, consentendo ai detenuti di non trascorrere in cella 21 ore su 24. Si tratta di un progetto innovativo che andrebbe esportato anche in altre realtà”, spiegano. Il report si conclude con un ringraziamento alla direzione del carcere “per il lavoro svolto. Insieme agli operatori e ai volontari ci sembra che, in una situazione molto difficile, i loro sforzi contribuiscano a rendere le condizioni dei detenuti meno lontane dai dettami costituzionali”.

 

Cappato (Radicali): carcere San Vittore è in situazione illegale

 

Dichiarazione di Marco Cappato, Presidente del Gruppo Radicale Federalista Europeo: “Stamane con una delegazione del Consiglio comunale abbiamo visitato il carcere di San Vittore a Milano. La condizione di assoluta illegalità nella quale sono costretti sia i detenuti che gli agenti è confermata e aggrevata: la capienza è di 500 detenuti, la capienza “tollerata” è di 785, ma i detenuti sono 1.600. Sono ormai passati quasi 7 mesi da quando, il 22 Dicembre 2011, il Consiglio comunale – su iniziativa del Radicale Lucio Bertè- aveva approvato una mozione che impegna il Sindaco Pisapia “a deliberare la formazione di una Commissione tecnica ad hoc con competenze medico sanitarie, di igiene edilizia e sicurezza degli impianti, per rilevare le condizioni di vita nelle carceri milanesi”.

L’Assessore Majorino si era poi impegnato a formare la Commissione, ma tale impegno è finora rimasto lettera morta. Chiedo al Sindaco e all’Assessore di attivarsi affinché finalmente la Commissione tecnica sia costituita e operativa, al fine di tenere sotto stretto monitoraggio la violazione dei diritti umani fondamentali di detenuti e agenti.

Per quanto riguarda l’iniziativa dei “Quattro Giorni di nonviolenza, sciopero della fame e silenzio” per la Giustizia e l’Amnistia, che inizierà domani 18 luglio, ho potuto riscontrare un buon livello di conoscenza e partecipazione da parte dei detenuti, in un clima di attesa e di speranza per un provvedimento di clemenza. Per fare un esempio, tra i 104 detenuti del Centro clinico, sono 64 quelli che hanno inviato ieri una lettera a Radio radicale annunciando l’adesione allo sciopero della fame”.

Adnkronos, 17 luglio 2012