Le carceri italiane stanno scoppiando. Il 40% della popolazione carceraria è costituita da reclusi in carcerazione preventiva. Il Capo dello Stato è stato chiarissimo; occorrono interventi urgenti e risolutivi. Le condizioni di degrado umano in cui vivono i reclusi ci espongono al giudizio severo della comunità internazionale ed hanno già prodotto un ultimatum della Corte di Giustizia europea: porre rimedio entro un anno o saremo sommersi dalle condanne. Dobbiamo agire, ed in fretta, e l’urgenza impone una riflessione.
L’intollerabile affollamento delle carceri non è questione umanitaria o l’effetto di una patologia contingente; è un problema strutturale del sistema di repressione penale italiano e quindi può essere risolto soltanto con provvedimenti legislativi strutturali e chirurgici, che incidano direttamente sul sistema sanzionatorio. Una amnistia sarebbe un rimedio inefficace proprio perché episodico ed indiscriminato.
Ai cittadini non può negarsi, peraltro, il diritto di essere tutelati anche dalla criminalità da strada, dai furti in abitazione, dagli scippi, dai borseggi, dalle aggressioni; reati tutti che colpiscono la gente comune. È vero che la stragrande maggioranza di coloro che commettono reati da strada appartengono, da sempre, alla emarginazione sociale, alle categorie più derelitte, ai meno garantiti; agli ultimi, direbbe un cattolico. Ma il problema non è a quali categorie sociali appartengono i reclusi, bensì per quali reati sono reclusi in carcerazione preventiva.
Vi sono reati, fonte di allarme sociale per la collettività, che non prevedono la carcerazione prima di una sentenza definitiva, e altri che invece la prevedono, pur suscitando scarso, o nessuno, allarme sociale. Consegnare al giudice il potere di decidere caso per caso se applicare la legge per come essa è, oppure adottare decisioni di politica carceraria, è una prospettiva che perpetua la anomalia di questo Paese, comunque inefficace per la sua intrinseca episodicità. Al giudice deve potersi chiedere di applicare la legge secondo coscienza e professionalità, senza eccessi di qualunque segno.
Stabilire per quali reati si possa o debba andare in carcere prima della sentenza definitiva è una decisione politica, tipica assunzione di una responsabilità che è del legislatore, che ne risponde politicamente ai cittadini tutti. Mai del giudice, il quale, perché sia realmente indipendente e terzo, deve rispondere del suo operato soltanto alla legge. In materia non possono essere ammesse scorciatoie o deleghe di responsabilità, che è tutta della politica.
Il nuovo Parlamento può agire tempestivamente, modificando il sistema sanzionatorio dei reati inerenti lo spaccio degli stupefacenti e superando l’anomalia della attuale legge, con la previsione di sanzionare il piccolo spaccio (di solito posto in essere da giovanissimi tossicodipendenti che di tutto hanno bisogno fuorché del carcere) con pena detentiva analoga a quella prevista per il reato di truffa, o di insolvenza fraudolenta, o di lesioni personali; tutti reati gravi, ma che prevedono una pena che non consente la carcerazione preventiva.
Escludere la carcerazione preventiva per il piccolo spaccio di stupefacenti produrrebbe la diminuzione di almeno il 30% della popolazione carceraria, senza pericolo per la collettività e senza mettere in discussione la sanzione penale. È il momento di scelte chiare e responsabili; e forse questa è l’ultima chiamata.
di Alessandro Nencini (Presidente di sezione di Corte d’Appello)
La Repubblica, 16 febbraio 2013