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Carcere italia, due Detenuti su tre ha malattie infettive!

cordatesaE’ allarme malattie infettive tra i detenuti nelle carceri italiane, ad essere colpiti sono circa due persone su tre. Un dato frutto della somma delle percentuali di alcune patologie infettive di cui sono vittime i detenuti: la positivita’ al test dell’epatite Ce’, infatti, del 28%, per l’epatite B del 7%, ed il 3,5% per l’Hiv. Inoltre il 20% ha una tubercolosi latente, ed il 4% ha presentato risultati positivi per la sifilide.

A stabilirlo e’ uno studio, realizzato su 20 istituti di pena, dedicato alle malattie infettive nei penitenziari promosso dalla Societa’ Italiana Malattie Infettive e Tropicali (Simit) e da Nps, presentata a Torino al V Congresso nazionale Icar(Italian Conference on Aids and Continue reading


Preservativi nelle carceri: un diritto umano

detail-Hiv giornataI tassi di Hiv nelle carceri italiane sono venti volte più alti che nella comunità al di fuori del carcere e i tassi di epatite C sono ancora più elevati: sin dai primi tempi dell’epidemia di Hiv, è stata riconosciuta l’importanza di introdurre anche in carcere un insieme di interventi sull’Hiv e sull’epatite C, fra cui la fornitura gratuita di preservativi, rispettando le linee guida emanate dall’OMS, le quali sottolineano che “tutti i detenuti hanno il diritto di ricevere le cure per la salute, incluse misure preventive equivalenti a quelle disponibili nella comunità territoriale, senza discriminazione”.

In Italia ben poco si è fatto in questo senso, anche se la situazione “disumana e degradante” della vita in carcere è ormai un fatto noto ed è stata anche citata nel discorso di insediamento della neo eletta Presidente della Camera, Laura Boldrini. Certo, l’introduzione dei preservativi in carcere non rappresenterebbe una rivoluzione copernicana del sistema penitenziario, ma sicuramente sarebbe un segnale importante, per il rispetto della dignità della persona e del diritto umano a proteggersi dalle malattie.

Questo problema tuttavia non è solo italiano, ma è diffuso in molti Paesi del mondo, anche se gli studi condotti sull’argomento dimostrano che ciò che previene dal fornire i preservativi ai carcerati, sono soprattutto dei pregiudizi.

Sul British Medical Journal è stato pubblicato, all’inizio dell’anno, un nuovo studio australiano sull’argomento, condotto dal Professor Tony Butler, della University of New South Wales. Lo studioso da anni si dedica a ricerche sulla vita sessuale in carcere e già in precedenti studi aveva dimostrato che l’introduzione dei preservativi in prigione non provoca, nei fatti, grandi sconvolgimenti negativi.

I contrari all’introduzione dei preservativi in carcere (ve ne sono anche fra i detenuti) temono infatti che il preservativo possa: (a) incoraggiare i detenuti ad avere rapporti sessuali, (b) aumentare gli stupri in carcere, fornendo ai molestatori sessuali una protezione contro le infezioni o la possibilità di non lasciare sulla vittima tracce di DNA, (c) essere usato come arma contro il personale di custodia, (d) dare la sensazione che la maggior parte dei prigionieri siano omosessuali, e (e) portare a ritenere che le prigioni siano luoghi dove promiscuità e omosessualità sono particolarmente diffuse.

Tony Butler ha messo a confronto la vita sessuale di alcuni detenuti, residenti in due diversi carceri australiani: quello del Nuovo Galles del Sud (NSW), nel quale dal 1996 vengono distribuiti 30.000 preservativi al mese, gratuitamente (in seguito ad una class action condotta dagli stessi carcerati) e un altro carcere, quello di Queensland, dove invece non c’è ancora questa disposizione.

Per comprendere l’effetto, nella vita sessuale in carcere, dei preservativi distribuiti gratuitamente, sono stati intervistati complessivamente 2.018 detenuti attraverso il servizio offerto da una società di ricerche di mercato, la quale ha condotto le sue interviste telefoniche via Internet, della durata di 30 minuti. I detenuti, durante l’intervista, erano fisicamente nella sala per le visite, o in una stanza, nella clinica del carcere. A tutti i detenuti è stato garantito che le loro dichiarazioni non sarebbero state in alcun modo registrate. Ogni partecipante ha ricevuto 10 dollari australiani a titolo di risarcimento, come lavoro retribuito in carcere.

La prima cosa da mettere in rilievo, nei risultati ottenuti, è che il preservativo non aumenta l’attività sessuale in carcere, anzi il contrario (tasso di attività sessuale nella prigione di Queensland 8,8%, rispetto a quello della prigione del NSW, che è 5,8%). La stragrande maggioranza del’attività sessuale riportata in entrambi i carceri è stata consensuale e consistente principalmente in pratiche manuali, o nel sesso orale. La percentuale di detenuti che segnalano sesso anale in carcere è bassa, sia nel NSW (3,3%) che nel Queensland (3,6%), ma nel carcere del NSW il 56,8% contro il 3,1% del carcere di Queensland ha riferito che avrebbe usato un preservativo se avesse fatto sesso anale in carcere. In entrambi i penitenziari, la coercizione sessuale è apparsa inoltre abbastanza rara.

Altro dato interessante da capire è quali siano gli “usi impropri” che vengono fatti del preservativo nel carcere del NSW. Ai prigionieri infatti viene fornito il preservativo, insieme ad un lubrificante e ad un foglio per le istruzioni per l’uso, tutto all’interno di un sacchettino di plastica. Ebbene, gli “usi impropri” hanno riguardato sia il preservativo (utilizzato come contenitore per il tabacco o come laccio per capelli), sia il lubrificante (usato come schiuma da barba, come gel per capelli o anche, quando era aromatizzato, come crema da spalmare sul pane, o come aroma per il latte frullato). Usi sicuramente impropri, ma che non comportano rischi gravi per la salute.

I limiti di questo studio sono diversi, come ammettono gli stessi ricercatori: a partire dal fatto che i dati raccolti sono auto-riferiti e quindi possono essere non del tutto veritieri, soprattutto riguardo all’argomento del sesso consensuale o coercitivo. Non sono inoltre state prese in esame altre variabili, come la numerosità dei detenuti nelle celle, o i livelli di controllo carcerario. Futuri studi miglioreranno dunque queste ricerche, ma per il momento esse attestano con chiarezza che la fornitura di preservativi ai carcerati non è assolutamente associata ad un aumento, consensuale o non consensuale, dell’attività sessuale in carcere, o anche a minacce di violenza sessuale. Non sorprendentemente inoltre, i preservativi hanno maggiori possibilità di essere utilizzati per il sesso anale, se essi sono resi disponibili. La probabilità di sesso anale non aumenta comunque a causa di questa disponibilità.

Ormai nella società diversi sono gli Enti statali e le Associazioni che raccomandano l’uso del preservativo per proteggersi dalle malattie sessualmente trasmesse ma, stranamente, sembra che questo consiglio di sana profilassi valga per tutti, tranne che per la popolazione carceraria. Sarebbe dunque necessario e urgente procedere, come sostengono ad esempio l’OMS, le Nazioni Unite, l’American Public Health Association e l’Associazione della Salute Pubblica australiana, ad introdurre al più presto il preservativo gratuito in carcere: perché la società ha il dovere di cura nei confronti dei suoi carcerati e perché essi hanno il diritto di difendersi dalle malattie.

In Italia, la Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids) da tempo sostiene questa battaglia civile e, prima delle elezioni, ha fatto pervenire agli aspiranti premier Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani, Oscar Giannino, Beppe Grillo, Antonio Ingroia e Mario Monti, fra le altre, questa specifica domanda:

Nelle carceri italiane la presenza di una percentuale rilevante di persone detenute per reati legati alla droga e il sovraffollamento pongono questioni di tutela della salute. Nessun Paese al mondo riesce a evitare consumo di droga e attività sessuale consenziente o non consenziente nelle proprie carceri. Perciò diversi Paesi europei e non solo hanno politiche di prevenzione dell’Hiv e di riduzione del danno anche in carcere, con preservativi e siringhe sterili, così come chiesto dalla Commissione Europea, dall’OMS e dalle agenzie ONU che si occupano di Aids e droga. Il vostro governo sarebbe favorevole all’introduzione di tali programmi nei nostri Istituti di pena?

Nessuno ha risposto.

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Carcere. Situazione esplosiva nel reparto per malati HIV a Rebibbia

malati-di-aisdROMA – Uno dei quattro reparti  in Italia,dedicato ai detenuti affetti da HIV, e quindi reparto di interesse nazionale, G 14 di Rebibbia N.C., era il fiore all’occhiello del carcere. Pensato per ovviare all’isolamento sanitario dei malati di HIV ha un’infermeria, una cucina, un laboratorio informatico, una cappella e una biblioteca.

Le celle sono sempre aperte e i detenuti partecipano a progetti che facilitano la socializzazione e il lavoro, parte integrante del trattamento come la terapia clinica.

Da qualche tempo, però, la situazione è peggiorata al punto da spingere il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni a denunciare «un clima potenzialmente esplosivo che, fino ad oggi, non è deflagrato per il lavoro svolto dal nostro ufficio,  dai volontari, dai sanitari e dagli agenti di polizia penitenziaria».

Attualmente nel G 14 ci sono 22 persone, tutte malate di HIV. L’età media è fra  i 45 e i 50 anni. Oltre all’HIV, i presenti hanno patologie psichiatriche, l’epatite, cardiopatie e dermatiti.  Buona parte dei detenuti è di difficile gestione – negli ultimi 10 giorni si sono registrati tre casi di autolesionismo – sei sono casi psichiatrici conclamati. In tre sono in sciopero della fame e rifiutano i farmaci per motivi di giustizia (attesa liberazione anticipata, permessi premio, ricoveri in ospedale).

«Molti – ha detto il Garante – sono, per le loro condizioni, incompatibili con il carcere. Il fisico di ognuno è segnato dalle malattie e dalle dipendenze. Ma a costringerli in una cella sono le posizioni giuridiche, le misure alternative revocate, i cumuli di pena, i nuovi reati o, più semplicemente, il fatto di non avere una dimora. Il vissuto determina l’assenza delle famiglie e i problemi economici, con molti detenuti che dipendono dai nostri operatori, dai volontari anche per le più piccole necessità».

Su questa situazione si è abbattuto il taglio indiscriminato della spesa.  Per la prima volta, nel 2013 non saranno finanziate le attività per i tossicodipendenti, rimaste senza copertura economica. Il carcere non  ha più fondi né per la mediazione culturale, né per i progetti del G14, né per quelli delle comunità terapeutiche che operano in carcere. A ciò si aggiunga che la storica direttrice del reparto è stata trasferita al Prap ed è stata sostituita da un’altra persone che, in contemporanea, deve occuparsi anche della struttura protetta dell’ospedale Pertini e del nucleo traduzioni.

«La somma di queste criticità – ha concluso il Garante – ha fatto salire la tensione alle stelle e creato una situazione di emergenza. Di fatto la gestione del reparto è affidata alla polizia penitenziaria, agli infermieri ed agli operatori del trattamento. Ciò che si percepisce è un clima di esasperazione dove è sempre più netta la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni, con concreti rischi di recrudescenza e di inasprimento delle condizioni di detenzione. Per evitare l’irreparabile occorre che ciascuna componenti torni a fare il proprio lavoro: gli educatori ed il personale sanitario e di sicurezza devono essere messi in condizione di poter lavorare; la magistratura deve tornare a scegliere ciò che è meglio per ciascun detenuto; occorre che vengano riattivati, anche con l’aiuto delle politiche regionali, percorsi alternativi al carcere; occorre che il territorio e la società civile tornino ad aprirsi. Occorre in sostanza, lavorare tutti insieme per far tornare il reparto il fiore all’occhiello che era»

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