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Proibizionismo: mattanza penale

Puntuale quanto il Governo non riesce a essere, arriva il terzo libro bianco sulla legge Fini-Giovanardi promosso da Antigone, CNCA, Forum droghe e Società della ragione, con l’adesione di Magistratura democratica e Unione camere penali. In attesa che il Dipartimento Antidroga dia i numeri al Parlamento, come da obbligo legislativo, il Libro bianco delle associazioni e dei movimenti per i diritti offre a chi abbia orecchie per intendere il quadro dei problemi della legislazione antidroga e le necessità di intervento.
Continua la mattanza dei consumatori e dei piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti, destinatari della gran parte degli interventi sanzionatori e penali previsti dalla legge. Viaggiano verso i 50mila l’anno i consumatori segnalati al Prefetto dalle forze dell’ordine, tre quarti dei quali sono segnalati per il mero possesso di un solo spinello. Più di 16mila sono i consumatori destinatari di sanzioni amministrative, raddoppiate nel giro di pochi anni. Aumentano le denunce penali per detenzione di droghe, in buona parte (il 41%) per detenzione di derivati della cannabis, e così i sequestri: indirizzati prevalentemente verso hashish e marijuana. In totale, nel 2011, sono state sequestrate più di mezzo milione di piante di canapa.
Inevitabilmente, gli ingressi in carcere per detenzione di droghe fanno la parte del leone nell’ingolfamento delle patrie galere: 22.677 su 68.411 nel 2011, il 33,15% del totale. Tra i presenti in carcere al 17.11.2011, il 42,21% del totale ha tra i capi di imputazione o di esecuzione penale la violazione della legge sulla droga.
Intanto, restano al palo le misure alternative alla detenzione e, in particolare, l’affidamento in prova per tossicodipendenti viene concesso sempre più facilmente dal carcere che dalla libertà, come se l’assaggio di carcere sia necessario alla definizione di un programma terapeutico per i tossicodipendenti.
Se questo è il quadro, non si può che ribadire il fallimento della legislazione italiana sulle droghe e, in particolare, della sua torsione repressivo-autoritaria voluta dalla destra sei anni fa. La presunzione di spaccio oltre un determinato quantitativo di principio attivo detenuto, la parificazione del trattamento sanzionatorio di tutte le droghe illecite e l’innalzamento dei limiti di pena si sono mangiati la carota delle alternative alla detenzione, che secondo Fini e Giovanardi avrebbero dovuto “salvare” i tossicodipendenti “buoni” dal carcere “cattivo”. Non era vero niente: chi prima, chi dopo, i consumatori di strada, quelli non protetti da solide mura domestiche e buone relazioni sociali, prima o poi in galera ci vanno e assai più difficilmente ne escono per una misura alternativa.
Da questa semplice verità discendono due indicazioni politiche urgenti:
1. Non si affronta e non si risolve il problema del carcere in Italia (il sovraffollamento, le condizioni di vita, la tutela della salute, ecc.) se non si riforma la legge sulla droga nel senso di una radicale depenalizzazione del consumo;
2. Non si contrasta il potere delle organizzazioni criminali che dominano il mercato delle droghe illegali se non se ne restringe il campo d’azione attraverso forme progressive di legalizzazione delle sostanze stupefacenti, come hanno recentemente ribadito Roberto Saviano e Umberto Veronesi.

Dal Manifesto 16/07/2012


LICENZIATI, MASSACRATI E ARRESTATI

Lunedì 11 giugno a Basiano, durante un picchetto di protesta per i licenziamenti degli operai della cooperativa Alma impiegata in un’azienda che svolge servizi di logistica per supermercati quali Il Gigante, Esselunga e Carrefour, i lavoratori in lotta venivano caricati e gasati brutalmente dall’arroganza delle forze dell’ordine.

Le cariche sono servite a proteggere i crumiri pagati dal padrone per svolgere a paga inferiore questa mansione al posto loro.

Ciò che differisce dalle solite manifestazioni di protesta è il fatto che i lavoratori hanno reagito alla violenza dello Stato scegliendo di rispondere con la giusta determinazione alla prepotenza delle forze dell’ordine.

Il risultato è stato di 20 feriti tra gli operai e 14 tra gli agenti. La cosa ancor più grave è che tutti i feriti tra gli operai, eccetto uno in gravi condizioni, sono stati prelevati dagli ospedali e sbattuti in prigione.

Trattandosi di operai immigrati questo significa anche la possibilità di finire rinchiusi nei lager di stato: i CIE.

Del resto il legame tra lavoro e sfruttamento in casi come questi sono eclatanti, in quanto la perdita del lavoro si traduce anche in perdita della legittimità a vivere in un paese, trasformando di fatto un individuo in clandestino, in illegale per nascita.

E’ evidente come in questo caso il carcere e la repressione svolgano in maniera organica la loro funzione primaria: quella di avere un ruolo di contenimento del conflitto sociale.

Uno scenario del genere apre nuovi orizzonti alla gestione della crisi da parte del capitale, riportandoci in pieno all’inizio del secolo scorso in cui agli operai che si ribellavano si dava del piombo per sfamarli.

Tutto questo non fa che avallare le tesi che come collettivo anticarcerario abbiamo sempre sostenuto e crediamo sia ormai giunto il momento che ogni soggetto che svolge attività politica si ponga questa riflessione.

Il tempo delle mediazioni è terminato perché non c’è più la volontà da parte dello democrazia di gestire i rapporti sociali in maniera differente da violenza e manette.

Questa è sempre stata l’essenza dello stato che, unico e legittimo detentore della violenza, l’ha sempre utilizzata nei momenti in cui la situazione gli sfuggiva di mano e rischiare di compromettere le basi stesse della sua esistenza.

A partire dagli arresti dei NoTav fino alle condanne per gli scontri del 15 ottobre a Roma, dalle condanne in Cassazione ai compagni per i fatti del G8 genovese per giungere agli ultimi arresti di anarchici è ormai evidente come l’intenzione del potere per far fronte al conflitto montante sia quella della criminalizzazione e della repressione.

E’ evidente come questa situazione faccia sempre più paura ad uno stato non più in grado di far fronte ad un conflitto sociale crescente, trovandosi forzato a mostrare il suo vero volto di oppressione e dominio, di cui il carcere costituisce la massima espressione.

                                                                                                                                                                                                                  CordaTesa


Pubblichiamo un’interessante intervista a Salvatore Verde, autore del libro “Il carcere manicomio” uscito per Sensibili Alle Foglie.  Siamo abbastanza d’accordo su quanto espresso dall’autore se non fosse per un punto: non si può abbellire un’istituzio e aberrante come il carcere. L’unica vera alternativa è la sua distruzione. Per quanto ci riguarda continueremo a portare avanti questa linea e a diffonderla il più possibile. In tempi di giustizialismo e di magistrati assurti al rango di eroi riteniamo di estrema importanza diffondere nella gente le idee abolizioniste che stanno alla base del nostro pensiero ed agire politico.

“Il carcere manicomio”, libro scritto da Salvatore Verde, edizioni Sensibili alle foglie (2011), denuncia oggi un problema nel problema: nel testo, infatti, Verde, sociologo e giudice onorario al Tribunale dei minori di Napoli, descrive “un sistema che interna ciò che non riesce a trattare”. “Il carcere manicomio” racconta il rapporto perverso tra malattia mentale e prigione 

…nel libro lei sostiene che negli istituti penitenziari si assiste ad una “sommersione chimica della sofferenza psicologica dei detenuti”, arrivando a parlare di “manicomializzazione del carcere”: cosa significa questa espressione?

 

Oggi 1.500 nostri concittadini sono reclusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, e 350 di loro potrebbero già uscirne. Dopo le sentenze della Corte Costituzionale (del 2003 e 2004) che hanno aperto a molteplici possibilità di trattamenti alternativi all’Opg, perché siamo ancora a questo punto?

Nel mio lavoro parto da dichiarazioni pubbliche rese da dirigenti dell’amministrazione penitenziaria: se il dirigente di un ufficio centrale racconta alla stampa che l’80, 90 % dei detenuti di questo Paese assume qualche forma di farmaco di natura psichiatrica, dai più blandi ai più importanti, mi sento legittimato a dire che il livello di gestione del penitenziario ha assunto a pieno le sembianze di un manicomio, dove regnano l’anestetizzazione del disagio e la sommersione farmacologica della sofferenza. La medicina penitenziaria parla di 22mila persone in questo momento sottoposte a protocolli psichiatrici: se stessimo parlando di un territorio libero, un protocollo psichiatrico prevedrebbe il coinvolgimento della comunità, delle relazioni, del mondo dell’affettività della persona, ma se invece si è chiusi in un carcere il tutto si risolve alla somministrazione di farmaci. E stiamo parlando di 22mila persone su 69mila: non sono piccole cifre. Oggi le carceri sempre più di frequente sono portate a rivolgersi alla psichiatria nel governo del disagio e della sofferenza che gestiscono, e questo processo non può che andare sotto il nome di manicomializzazione della pena.

Non credo che possiamo più permetterci di parlare di “ospedali” psichiatrici giudiziari: bisogna fare un’operazione linguistica di verità. Se parliamo di luoghi con le finestre sbarrate, fatti di celle e sezioni chiuse da cancelli e blindati, che hanno per recinto un muro con un camminamento percorso da uomini armati che impediscono l’uscita, parliamo di una prigione. E entrare in un luogo del genere, che ospita persone con una sofferenza mentale, vuol dire entrare in un manicomio criminale. Eppure la maggior parte degli operatori che lavorano in questi posti definiscono le persone chiuse lì dentro come “pazienti”, facendo un’operazione di nascondimento della verità che non possiamo più permetterci. È bene parlare di manicomi criminali se vogliamo almeno restituire verità agli uomini e alle donne chiuse in quelle strutture. Come lei ricordava oggi ci sono 1500 persone chiuse negli Opg, ma probabilmente sono molte di più le persone con sofferenze psichiche rinchiuse nelle carceri “normali”: da qualche tempo non tutti coloro che hanno una sofferenza mentale arrivano fortunatamente nel circuito degli Opg. Dico questo per ribadire che il rapporto tra sofferenza mentale e carcere non si esaurisce, oggi, nella questione Opg.

Ma allora perché gli Opg continuano ad esistere?

Recentemente ho letto una dichiarazione di Beppe dell’Acqua, responsabile del distretto salute mentale di Trieste, che diceva con orgoglio che negli ultimi tre anni nel territorio del suo dipartimento di salute mentale nemmeno una persona è finita nei sei manicomi criminali italiani. Questo significa che in quel territorio ci sono ottimi servizi di salute mentale e delle buone reti aiuto e di sostegno delle persone che sono in difficoltà: è proprio questo processo sociale e istituzionale che funziona. E che si deve far funzionare, non certo ridurre con tagli e chiusure di servizi. Piuttosto che aspettare che ci siano le condizioni politiche per una trasformazione del codice penale in questo Paese (e oggi non ci sono), io credo che in questo momento dobbiamo lavorare sul fronte dei servizi, delle reti di sostegno e di aiuto.

A fronte di un sovraffollamento che rende l’Italia un unicum rispetto agli altri paesi d’Europa, anche per il numero dei morti e dei tentativi di suicidio, quale spazio resta per le misure alternative?

Con una criminalizzazione sociale così potente contenuta nei sistemi normativi che colpiscono i consumatori di sostanze e i migranti, non c’è alcuna possibilità di risolvere in fuoriuscita il problema del sovraffollamento del carcere. Mi spiego: se una persona arriva nel penitenziario è perché ha già subito pesanti processi di marginalizzazione ed espulsione sociale, ed è su questo livello che credo dovremmo lavorare. Le misure alternative hanno un presupposto fondamentale: io devo avere la possibilità di rappresentare al magistrato un percorso di vita alternativo fondato su risorse certe quali lavoro, abitazione e famiglia, e se non ho queste condizioni non accedo alle misure. Io penso che il problema con questi criteri non si possa risolvere: se vogliamo veramente risolvere il dramma del sovraffollamento carcerario dobbiamo agire a monte, evitando che una massa enorme di persone arrivi nel contenitore penitenziario. Non possiamo buttarli nel contenitore e poi studiare soluzioni giuridiche che ci consentano di farli uscire: non funziona. In queste Paese le misure alternative ci sono, esistono dalla riforma del 1975, ma al di là delle troppe limitazioni è anche vero che si tratta di un meccanismo estremamente sensibile agli umori della politica e dell’opinione pubblica, tanto da essere bloccato e frenato ogni volta che c’è un’emergenza criminalità. E allora il problema va risolto prima, o la situazione delle carceri diventerà ancor più drammatica di quanto già non lo sia oggi.

 


La verità sulla chiusura degli OPG

Il 25 gennaio, il Senato ha approvato un emendamento, incluso nel cosiddetto “Decreto svuota carceri”, in cui si indicano “disposizioni per il definitivo superamento degli Opg”. In sintesi, l’emendamento prevede che, a decorrere dal 31 marzo 2013, le misure di sicurezza del ricovero in Opg siano eseguite esclusivamente all’interno di strutture sanitarie i cui requisiti – strutturali, tecnologici e organizzativi – saranno stabiliti entro il 31 marzo 2012, da un ulteriore Decreto definito di concerto tra il Ministro della salute, il Ministro della giustizia e la Conferenza permanente Stato-Regioni. Tali strutture, destinate di norma a soggetti provenienti dal territorio regionale in cui sono ubicate, dovranno essere a esclusiva gestione “sanitaria”, prevedendo eventualmente, in rapporto della tipologia degli internati, un’attività “perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna”.
Al di là delle dichiarazioni di “definitivo superamento degli Opg” e “destinazione a strutture puramente sanitarie”, che suonano straordinariamente positive, si rilevano una serie di aporie e nodi che non vengono sciolti. Proviamo a elencarli.
1) La nuova legislazione non tocca minimamente gli articoli dei Codici – penale e di procedura penale – riferiti ai concetti di pericolosità sociale del folle reo, di incapacità e di non imputabilità, che determinano il percorso di invio agli Opg, e quindi, d’ora in poi, l’invio alle nuove “residenze psichiatriche”. Residenze non meglio qualificate, il cui numero verrà stabilito dalle Regioni (sulla base di quali criteri?), le cui caratteristiche saranno decise da un Decreto ancora da elaborare, ma le cui finalità restano integralmente quelle proprie della gestione di una misura di sicurezza detentiva.
 2) È fin troppo facile prevedere la moltiplicazione di queste residenze, ciascuna delle quali doveva essere inizialmente dotata di 20 posti letto: numero poi scomparso, in sede di definitiva approvazione del Decreto in aula. Le deplorevoli condizioni dei manicomi giudiziari, la crisi molto esplicita dei concetti di “non imputabilità” e di “pericolosità sociale” nel dibattito culturale e scientifico, hanno certamente contribuito, negli ultimi anni, a una notevole cautela nell’invio dei pazienti agli Opg da parte di numerosi magistrati. L’allestimento di “nuove residenze psichiatriche”, che si potranno supporre più appropriate sotto il profilo logistico, e più assistite sotto il profilo sanitario, legittimerà le varie istanze sanitarie e giudiziarie ad abbassare la soglia di accesso ai nuovi surrogati degli Opg. E mentre è facile prevedere un notevole aumento del numero degli internamenti, nulla garantisce che l’abnorme sistema di proroghe delle misure di sicurezza, attualmente utilizzato, venga a cessare.
 3) La condizione in cui versa la gran parte dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e cura nel nostro paese, spesso a porte chiuse, con sistemi di videosorveglianza, con l’estesissimo utilizzo di mezzi di contenzione fisica per soggetti che nessun reato hanno commesso, lascia facilmente intravedere quali saranno le reali strutturazioni delle nuove residenze psichiatriche per soggetti che hanno commesso reati, considerati in sentenza “socialmente pericolosi a sé e agli altri”.
 4) Rinnovare con una legge, nel 2012, la legittimità del concetto di “pericolosità sociale” collegato all’infermità mentale (concetto ormai considerato, da giuristi e psichiatri, privo di qualsiasi base scientifica ed empirica), e della nozione di “totale incapacità di intendere e di volere”, pur essa fortemente criticata da più parti negli ultimi decenni, significa assumersi la grave responsabilità di contrasto allo spirito e alla lettera della Legge 180/78, che ha abolito il nesso “malattia mentale – pericolosità sociale”, sostenendo con forza la responsabilità e i diritti di ogni cittadino, tra cui il diritto di ciascuno di essere giudicato e – se reo – condannato.
 5) La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, riconsegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostruendo in concreto il nesso cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode.
 6) Si continua a non stabilire garanzia alcuna per l’internato, a differenza del regime carcerario, in cui quanto meno una serie di garanzie per i detenuti – in primis la certezza di fine pena – esistono in misura molto articolata. In altre parole, si rifondano nel 2012 misure specifiche per i “folli rei”: da un lato si ribadisce un nesso inaccettabile, riproponendo uno stigma di carattere generale; dall’altro ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi.
In definitiva, il nostro giudizio sull’affrettato dispositivo legislativo resta di grande allarme. Al di là delle buone intenzioni del legislatore, l’emendamento votato in Senato configura un attacco formidabile alla Legge 180, con il rischio di una prosecuzione sine die – e in dimensioni non prevedibili – dell’istituto della misura di sicurezza. Istituto introdotto nella nostra legislazione in piena epoca fascista, e della cui persistenza nei nostri Codici non si sente assolutamente il bisogno.
Proponiamo quindi, come ancora più impellente, una modifica legislativa che aggredendo il nocciolo delle questioni (Art. 88 del Codice penale, codice Rocco e tutta la legislazione collegata), abroghi definitivamente e davvero il manicomio giudiziario, abrogando le leggi che ne determinano, sotto qualsiasi nuova veste, la persistenza in vita. Si tratta di smontare i concetti di “pericolosità” e di “non imputabilità”, il doppio binario delle misure di sicurezza, restituendo al generale ordinamento penale le persone con disturbo mentale. Di fronte alla giustizia non deve più esistere il “folle reo”, ma solo un reo che, se infermo di mente, incontrerà misure alternative in sede di esecuzione della pena: misure già ampiamente previste dalla legislazione vigente di fronte a diverse infermità, e forse da ulteriormente precisare nella fattispecie dell’infermità mentale.
Dal Manifesto, 13 febbraio 2012

Lettera di un carcerato

Pubblichiamo questo estratto da un romanzo. E’ una lettera dal carcere. E’ frutto di fantasia ma differisce in poco da quelle vere e sopratutto pone parecchi spunti di riflessione. Buona lettura.

 

Cara mamma,

il tempo sembra che passi, anche se poi non passa mai. Sta sempre fermo lì. Siamo noi che ci avviciniamo e questo movimento lo intitoliamo a lui. Che sta lì. Fermo. Sardonico. A non dire e a non fare niente.

Qui da noi, poi, il tempo non solo non ci passa mai. Ma nemmeno ci butta lo sguardo qualche volta. Nemmeno per sbaglio. Nisba.

Noi siamo le cazzimme eternaute dell’infinito.

L’irrilevante della realtà.

Non esiste tempo giusto della pena rispetto alla colpa. Per noi sarebbe meglio pagar tutto e subito. Ci si toglie il dente e non ci si pensa più. Così sembra che ci facciate pagare gli interessi… Gli interessi sulla quota d’innocenza che avete anticipato per noi, non accoppandoci immantinente. Ultima novità in fatto di schiavismo. Inchiavardati qui dentro, a sbobba e puzza. Interessi di tempo e di vita, strozzinaggio d’esistenza rinchiusa, incravattata da una punizione interminabile, che continua anche quando è ormai finita. Per aver spacciato banconote di vita falsa, non legalmente riconosciute dalla grande banca dei vostri valori, della vostra riserva aurea di bontà e giustizia.

Tutti qui, nell’immondezzaio dei pezzi spuri, sfrido inutile da dimenticare, da rottamare, per acquistare qualcosa di nuovo, di pi utile e divertente di un prossimo nostro rompicoglioni e un po’ imbarazzante…

Chi ha detto che il gatto a nove code è un metodo incivile? E l’usura, allora, l’usura sul tempo e sulla libertà?

Ficcatevi al culo il vostro personale, rassicurante Dei delitti e delle pene… Di qua occorre venir fuori… in qualsiasi modo… poco da dire…

Ma così, per tornare a divagare, direi che, se il tempo passasse, porterebbe consiglio… (è come la notte, il tempo) chiarirebbe i dubbi… Il tempo è quello che medica le ferite… fa dimenticare disgusti e tradimenti… il tempo… è quello che uccide gli amori falsi… fa risplendere, eroici, quelli veri…

Dite che ci private dello spazio e invece è il tempo quello che ci fregate, per illudervi di averlo tutto voi, per baloccarvi con l’idea che voi siete liberi, che avete spazio e tempo per vivere e che ve li meritate. Convinti come siete che per voi il tempo passi, che siate liberi di spaziare nello spazio spazioso del mondo. E invece siete inchiodate lì anche voi. Crocifissi nell’istante stesso in cui avete crocifisso noi.  Senza Cristo, né Buona Novella, né Regno dei Cieli. Esattamente come noi.

Tutte fole le vostre… come quelle sul pentimento, sulla rieducazione… Palle, bugione nere a pois scuri, da pinocchi arti il naso in un istante… Nessuno si pente dei propri delitti. Al massimo, se proprio dentro di sé ci si fa schifo, si  prova a dimenticare. Si fa finta di niente. Lo gnorri con la propria coscienza.

In realtà nessuna pena rimedia al danno, al delitto. Chi rompe paga e i cocci e tutti i cazzi conseguenti sono suoi. Ma di qui a ricomporre il vaso ce ne passa…

La galera è la galera e basta. Vendetta allo stato puro. Uguale all’occhioperocchio, al dente perdente. Solo un po’ più sofisticata. Col look rifatto. Democratica. Fai il biccolo sghiavo negro… stronzetto… che così impari a rompere le palle in giro…

E poi qui, dentro all’appendici pilorica dell’universo, tutti noi riuniti, i fracassa tori di palle altrui, come possiamo, tra noi, trovare qualcosa che non siamo noi stessi, le nostre puzze, i nostri sudori, le nostre seghe en plein air, le pisciate e le cagate condominializzate? Ci volete pure creativi, oltre che reclusi?

Se il tempo passasse, capisco… si potrebbe dirci: state lì, fottetevi per un po’ po’ danni, piccole merdette, ciucciatevi il dito e smenatevi ml fardellinno fratellino. Buoni lì, che poi passa, e tutto sarà diverso, vi ritroverete altrove. Tutti rinnovati. Ricollaudati e rigarantiti, un prodotto nuovo e migliorato, tutti pronti a lavare più bianco del bianco… a mordere la strada… schermo ultrapiatto, puliti al limone verde, disinfettati all’odore di Pino Vidàl…

Ma il tempo non passa e quando, con un calcio al culo, ci deporteranno fuori di qui, saremo nello stesso medesimo luogo da dove siamo partiti. Perché non sarà accaduto nulla. Perché il tempo non passa. Il tempo arriva e si accumula tutto lì, nello stesso luogo. Nel nostro luogo di noi. Lì, sula nostra cucurbita e preme e sciaccia e ci crepa e ci affonda. Lì. Proprio lì dove, se ti concentri, lo senti anche tu mamma cara, quel dolore sordo, come emicrania, ascesso dentario, gengivite della fantasia e della volontà.

Provare per credere… Test clinici effettuati garantiscono l’efficacia del nostro metodo.

[…]

In realtà siete prigionieri come me.

Vi spostate velocissimi da un punto all’altro del globo e non vi rendete conto che ormai siete come farfalle impazzite che sbattono contro le pareti del bicchiere sotto cui qualcuno le ha rinchiuse.

La stasi, la stipsi da eccesso di dinamica, movimento, evacuazione. Se non ve ne accorgete è solo perché siete stati tanto furbi da mettere il ralenti al filmato. Vivete in moviola. La  vostra è una libertà a rallentatore. Ma, in realtà, restate eternamente e fulmineamente sempre nello stesso luogo, sempre nello stesso attimo. Immobile e infinito.

Le galere le avete costruite per questo. Per illudervi del fato che voi siete fuori, liberi. E invece siete dentro una galera anche voi. Certo più grande, certo senza sbarre. Ma sempre galera. Avete annullato lo spazio, avete condannato a morte la geografia e poi, stupidi che siete, avete anche festeggiato l’avvenimento.

Tutto è ormai così veloce da divenire immobile. Come la ruota dell’automobile che, ferma, vortica ei fotogrammi del film durante l’inseguimento da guardie & ladri. Mentre corre a velocità folle. Statica per overdose dromologica. Come voi.

E la vostra è una galera dalla quale non si può evadere.

 

Testo estratto da Cucarachas di Lello Voce (ed. Derive e Approdi, 2002)


Un altro decesso nel carcere di Monza

A pochi giorni di distanza dall’approvazione del decreto legge sul carcere, in cui si cerca di porre un rimedio ad una situazione sempre più critica, un ennesimo suicidio giunge a rimarcare l’emergenza sempre più pressante che questo tema rappresenta.Suicidio che questa volta è capitato nel carcere di Monza, carcere di cui già erano note le pessime condizioni di esistenza che vigono all’interno.Questo è il terzo decesso del 2011 ma, mentre negli altri due casi le cause erano “da accertare”, in quest’ultimo caso la verità è schiacciante e racchiusa nel gesto disperato che un individuo compie dietro le sbarre.Il decesso è avvenuto a causa dell’inalazione eccessiva di gas dalla bombola del fornello che i ristretti tengono in cella. Questa è la causa più diffusa di morte in cella, spesso anche utilizzata in maniera ludica come modo per sballarsi.

Subito il Sappe ha puntato il dito contro la possibilità, garantita dall’ordinamento penitenziario, di cucinare in cella dicendo che è una cosa da togliere, anche perché il cibo viene fornito già dall’amministrazione penitenziaria.Peccato che il più delle volte questo cibo sia insufficiente rispetto all’elevato numero di detenuti che sono e questo fatto costringe molti reclusi a saltare i pasti!

Tutte le carceri della penisola hanno un elevato indice di sovraffollamento, segno che si rinchiude sempre più spesso e per pene sempre più insulse.E mentre il governo cerca di correre ai ripari con decreti tesi a rendere la detenzione “migliore”, come se potesse esserci una prigionia piacevole, le carceri di tutta Italia sono scosse da rivolte: materassi dati alle fiamme, aggressioni alle guardie, scioperi della fame; per citare soltanto alcuni tra i modi più diffusi per protestare dietro le sbarre.

Soltanto nel carcere di Monza, durante il 2011, ci sono stati 11 tentativi di suicidio, 87 episodi di autolesionismo, 2 aggressioni subite dagli agenti della polizia penitenziaria, 84 scioperi della fame e, aggiungiamo noi, due morti da accertare a cui si va ad aggiungere il suicidio del 18 dicembre.Come si vede non è proprio una situazione tranquilla nonostante il silenzio della stampa locale più preoccupata a far credere che Monza sia ormai preda del crimine e di una delinquenza dilagante. Fatto che turba i sonni del monzese medio, solitamente dotato di un’ottima posizione economica e sociale per cui il carcere rappresenta o un luogo di vergogna, da ignorare e nascondere, o una presenza rassicurante.Questa morte come tutte le altre del resto, sono tutte da imputare al carcere così come tutte le malattie che causa.

Carcere che significa sofferenze e soprusi anche per i familiari del detenuto, umiliati da una burocrazia arrogante che li tratta come se anche loro dovessero pagare per la colpa di avere un familiare in prigione.Come già detto per l’amnistia, non ci aspettiamo certo che sia lo stato a trovare la soluzione. Stato che è anche quello che rinchiude e che usa il codice penale come unico metodo per mediare il conflitto sociale.Lo stesso stato che promulga leggi repressive (un esempio per tutti la Fini-Giovanardi o ancora peggio la Bossi-Fini, che sono tra le prime cause del sovraffollamento tra le mura) e che poi pensa di pulirsi la cattiva coscienza dimostrando, attraverso l’amnistia o il nuovo decreto, che in realtà si interessa ai detenuti e alle loro condizioni, ma rivelando solamente il suo disinteresse nei confronti dei problemi ma soprattutto nei confronti delle cause che li originano.Molti, ad eccezione dei soliti forcaioli della Lega e del PDL, hanno salutato la riforma del ministro Severino come un atto dovuto, un primo passo concreto verso una carcerazione dal volto umano.Tutti ottimi propositi ma che non affrontano il vero problema: il carcere.

Nella realtà attuale con un diminuire esponenziale di crimini commessi, si ha una crescita ormai costante e inarrestabile del numero dei detenuti. Nel 2011 siamo arrivati al numero record di 68.000 presenze in tutta Italia.Il carcere come baluardo di una società che si sta disgregando è la pratica sempre più diffusa a livello nazionale, anzi addirittura a livello planetario. (pensiamo che il maggior numero di detenuti a livello mondiale si ha negli Stati Uniti con un milione di persone rinchiuse).Il carcere in quanto tale, racchiude in sé la propria disumanità. Il pensare di liberare il carcere dai suoi mali, appare quindi un’impresa impossibile che contrasta con il motivo per cui esiste.

CordaTesa Dicembre 2011


Basta illusioni, basta chiedere, vogliamo libertà!

Il senato si è riunito in via straordinaria il 21/9 per discutere in merito all’emergenza carceri. Purtroppo la straordinarietà dell’assemblea (convocata non su richiesta del presidente o dei capigruppo ma dalla raccolta di 144 firme parlamenti promossa dai radicali) rischia di venir offuscata dall’apertura del governo in merito alla questione e dal semplicistico modo di affrontarla del parlamento ridotto a tre schieramenti : chi non ha interessi sul carcere, chi lo teme per paura di finirci e chi vorrebbe mettervi dentro quest’ultimi.

Unica voce accorata e sincera ad invocare l’amnistia sembrerebbe essere quella dei radicali, eppure, a guardar meglio, essi non fanno altro che cavalcare una delle poche fratture sociali ancora politicizzabili per un chiaro scopo elettorale,

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Critica del carcere

1
In questa società la Legge svolge molteplici funzioni: regola e indirizza il rapporto di sfruttamento su cui si basa garantendone il mantenimento; ordina le relazioni sociali e assegna a ciascuno un ruolo in funzione dei propri interessi; costituisce la principale mediazione tra tutti gli individui isolandoli gli uni dagli altri nel mentre li riunisce in rapporti giuridici.
La Legge si esercita per il tramite della violenza, senza la quale è lettera morta. La reclusione è una parte importante di questa violenza.
Il carcere nasce con la Rivoluzione Industriale per formare dei lavoratori disciplinati e addomesticarli alle rigide esigenze spazio-temporali della macchina. Oggi è una delle tante strutture del controllo sociale e assolve diversi scopi: punire chi delinque per isolarlo dalla società; riabilitare, almeno formalmente, alcuni elementi e restituirli ad una regolata vita sociale; agitare lo spettro dell’esclusione per gli onesti cittadini, lavoratori e consumatori.
Il Diritto è fondato su un criterio di utilità economica e sociale, prodotto del dominio e strumento della sua difesa. La pena è, infatti, commisurata all’entità del danno economico e al grado di rifiuto dell’ordinamento sociale. Continue reading

SUL DDL “SVUOTACARCERI”

In Italia, tra i detenuti che stanno scontando una condanna definitiva, il 32,4% ha un residuo pena inferiore ad un anno,addirittura il 64,9% inferiore a tre anni, soglia che rappresenta il limite di pena per l’accesso alle misure alternative della semilibertà dell’affidamento in prova al servizio sociale.

prisonSi tratta di numeri impressionanti che dimostrano inequivocabilmente come nel nostro Paese il sistema delle misure alternative si sia sostanzialmente inceppato; il che continua ad accadere nonostante le statistiche abbiano dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che il detenuto che sconta la pena in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto basso (circa il 28%), mentre chi la sconta in carcere torna a delinquere con una percentuale addirittura del 68%.

Il ministro della Giustizia ha presentato un disegno di legge rubricato “Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”.
L’iniziativa del ministro appare subito coraggiosa e senza precedenti, in quanto per la prima volta viene previsto che la detenzione domiciliare possa essere applicata anche ai recidivi, il tutto attraverso una procedura di concessione praticamente automatica, e quindi sottratta alle valutazioni discrezionali della magistratura di sorveglianza.L’obiettivo dichiarato è quello di compiere un primo importante passo verso il lento e graduale deflazionamento dell’attuale popolazione carceraria.

Appena approdato in Commissione Giustizia della Camera, il disegno di legge è stato sottoposto ad un fuoco incrociato di critiche da parte della Lega,dell’Italia dei Valori e del Partito democratico, i quali si sono subito opposti con forza alla richiesta del Governo di trasferire l’esame del provvedimento alla sede legislativa.

In pratica, l’impostazione originaria del disegno di legge è stata stravolta laddove viene stabilito che la detenzione presso il domicilio non si possa applicare “quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistano specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti”. La nuova disposizione abroga ogni sorta di automatismo nell’applicazione della detenzione domiciliare e ai fini della concessione del beneficio – richiede la verifica di un requisito soggettivo del condannato di delicata interpretazione: è necessario,infatti, che il magistrato di sorveglianza esprima un giudizio prognostico positivo sulla idoneità della misura alternativa ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. Il legislatore però non si è soffermato sui criteri che dovranno regolare questa valutazione dell’organo giudicante, lasciando così alla magistratura di sorveglianza l’arduo compito di provvedere in merito.
Stando così le cose, è facile prevedere che la prognosi circa l’idoneità della detenzione domiciliare ad evitare il pericolo di consumazione di altri reati verrà basata, nel caso di concessione della misura prima dell’inizio della esecuzione della pena,sul comportamento tenuto dal condannato successivamente e antecedentemente al reato, con la conseguenza che se il soggetto è persona recidiva, con significativi precedenti penali e carichi pendenti sulle spalle, difficilmente potrà usufruire di questo beneficio.
E quindi, pur essendo vero che in teoria questa nuova forma di detenzione domiciliare potrà essere concessa anche ai recidivi, di fatto, il numero dei condannati con precedenti penali che riuscirà a scontare la pena nel proprio domicilio senza transitare per il carcere sarà davvero modesto.
Se invece il condannato si trova già in carcere, il pericolo di ricaduta nel reato da parte del detenuto andrà valutato sulla base della relazione di sintesi delle attività di osservazione scientifica della personalità. Il problema è che questo tipo di relazione non viene quasi mai prodotta secondo i tempi prescritti dalla normativa, e questo a causa della forte carenza degli educatori penitenziari.

In conclusione, le nuove disposizioni sulla detenzione domiciliare lasceranno la situazione carceraria sostanzialmente invariata, il che renderà sempre più drammatica la condizione dei quasi 68mila detenuti ristretti all’interno dei 205 istituti di pena italiani. Di tutto questo la Lega, l’Italia dei valori e il Partito democratico saranno presto chiamati ad assumersi le proprie responsabilità di fronte all’intera comunità penitenziaria.


CARCERI POLVERIERE

 

Sempre più esplosiva la situazione nelle carceri italiane.

pronti ad esplodereL’aggressione di un detenuto ad un appartenente al Corpo di Polizia
penitenziaria, avvenuta ieri  sera (11 maggio) nel carcere di Benevento e di un sovrintendente di polizia penitenziaria in quello di Como da parte di una detenuta sono gli ennesimi segnali della tensione che si registra nelle sovraffollate
carceri italiane e che rischia di acuirsi ulteriormente con
l’approssimarsi del periodo estivo.

Lo scorso anno il bilancio di poliziotti penitenziari feriti da detenuti
è stato di circa 380. E ci riferiamo solo a diagnosi superiori ai
cinque giorni. Con il poliziotto penitenziario ferito ieri a Como nel
2010 siamo già a 72 , a cui debbono aggiungersi anche due medici e
cinque infermieri feriti durante le loro prestazioni in ambito
penitenziario.
È evidente che questo delle violenze e delle
aggressioni è un problema che non si ripercuote solo sull’ordine interno
ma anche sulla funzionalità dei servizi, generando assenze per
convalescenze. L’altro giorno ad Opera un detenuto ha simulato un
suicidio per poi aggredire, spezzandogli un braccio, l’agente che si era
prodigato per salvarlo.

E nel frattempo viene resa pubblica la relazione del Comitato europeo per la
prevenzione della tortura relativa alle condizioni degli Ospedali
psichiatrici giudiziari in Italia. Dal rapporto emergono fatti
sconcertanti: violenze, abusi, uso indiscriminato della contenzione
(legare il paziente al letto, serrando polsi e caviglie, 24 ore su 24, a
volte per giorni e giorni).

Anche lì come
nelle caserme, nelle prigioni, nei centri di identificazione e di
espulsione per stranieri, le violenze, i soprusi, le umiliazioni sono
all’ordine del giorno. E a volte qualcuno lì trova la morte. E non
accade di rado.

 


CORDA TESA

 

 

Corda Tesa si occupa di indagare le cosidette istituzioni totali: carceri, ospedali psichiatrici ma anche C.I.E., vera e propria aberrazione della reclusione, in cui ciò avviene solamente in base alla propria nazionalità. E’ in questi luoghi che si manifesta in maniera completa la perdita dell’autonomia dell’individuo, che vede la propria esistenza regolata da leggi, le quali scandiscono i suoi ritmi, rendendo anche evidente quanto l’ordine sociale sia basato su codici e regole che non possono tollerare alcun tipo di devianza, per la propria realizzazione.

Il nostro obiettivo è
quello, non soltanto di rendere note informazioni spesso nascoste o
ignorate, ma anche di riuscire in qualche modo ad interagire con queste
realtà tramite il contatto con individui che vivono quotidianamente
dentro questi sistemi altri della società.

Ovviamente il nostro
sguardo nei confronti di queste realtà non può che essere critico e
vicino ad idee tendenti alla propria abolizione, consci che in questi
luoghi il potere rinchiude chi è più indifeso e maggiormente esposto
alle ripercussioni della legge perché non in grado di difendersi.

Ma anche perché crediamo
che, soprattutto in questo preciso periodo storico, sia importante
tornare ad occuparsi di questi luoghi che sempre più tornano a far
sentire la loro presenza, diventando lo specchio attraverso cui leggere
lo sviluppo della società.

Questi luoghi occultati,
rimossi e resi estranei al comune sentire delle persone rappresentano i
laboratori in cui sperimentare quello che poi verrà attuato sul corpo
dell’intero ordinamento sociale.

L’esclusione che operano
tende ad isolare, emarginandole e rendendole inoffensive, quelle
persone che rappresentano gli scarti della concezione sociale del tardo
capitalismo.

Il carcerato, il malato
rappresentano il lato oscuro e nascosto della vittoria della merce.

Componente fondamentale
nel nostro ragionamento è anche la consapevolezza che queste figure sono
fondamentali per l’ordine del capitale, il quale trova nella loro
esistenza ragione per esistere e per continuare.

Per questo motivo il
carcere produce criminali, la medicina produce malati. Il paradosso di
tutto ciò è legato al fatto che tutte queste figure producono anche
ricchezza, nel senso che una società ha bisogno di carceri, di ospedali,
di C.I.E., per far lavorare, per creare figure professionali che non
avrebbero modo di esistere senza queste realtà emarginate. Ma la più
idonea ipotesi dell’esistenza di queste istituzioni totali risiede nel
concetto che queste permettono alla società, al potere di infierire
timore nella popolazione, punendo quei comportamenti e quegl’
atteggiamenti che risultano essere scomodi da una parte, ma sfruttabili
come modelli scorretti di comportamento sociale.

Tutto questo è anche
aiutato dalla fitta campagna dei media che danno ampio risalto ai fatti
compiuti da individui appena usciti dal carcere o da malati
psichiatrici, al piccolo reato compiuto dall’immigrato o, più in
generale, dalla povera gente,creando nella struttura sociale il concetto
che esista una categoria criminale e l’idea che quest’ultima sia il
vero pericolo per la convivenza civile.

Quando poi dei detenuti
vengono liberati prima della fine pena o godono di attenuanti,
subito viene creata ad arte l’impressione che in carcere si entra e si
esca con facilità estrema, facendo credere, all’opinione pubblica
nazionale, che in Italia non esista né pena né giustizia e che si possa
godere di un’ impunità garantita e data per scontata.

L’idea che trasmettono i
media fa parte di una campagna di terrore tesa in principio a creare
paura ma di fatto a creare consenso per la vittoria della legalità
(triste parola dietro cui si nasconde l’accettazione delle regole che ci
controllano e ci rendono mansueti, il rifiuto della devianza e la
socializzazione forzata che ci troviamo costretti a vivere).

Tutti questi elementi
fanno parte della campagna di mistificazione del reale che ormai investe
la nostra quotidianità e che trasforma nel pericolo più temibile, più
pericoloso e da punire senza alcuna pietà, il ladruncolo, il consumatore
di sostanze stupefacenti, l’attivista politico, il malato psichiatrico o
più in generale il deviato.

Tutte persone che la
società dell’apparire, del vacuo e del benessere vuole togliere di
mezzo, rinchiudendoli e affidandoli a specialisti.

Gli agenti e i creatori
dello sfruttamento, coloro che delinquono nel nome della merce, nascono
come criminali sociali (soltanto perché inseriti all’interno dell’ordine
dominante e agenti per conto del capitale) ma diventano in seguito
vittime.

Le case farmaceutiche
uccidono, le banche rubano, la legge non è uguale per tutti.

Queste parole
qualunquiste fanno parte del sentire comune di chiunque ma non riescono a
creare indignazione, volontà di ribellarsi, alle continue ingiustizie
che vengono perpetrate verso gli innocenti, o verso i piccoli
criminali(deviati per necessità, il più delle volte), anziché a coloro
che commettono crimini inimmaginabili ed impensabili, a volto scoperto.

La tolleranza zero
diventa così l’unico modo, l’unico cavallo di battaglia di una società
de-ideologizzata, satura di disvalori, che crea continuamente nuove
paure e nuovi nemici.

Del resto, il popolo
terrorizzato è più disposto a rinunciare alla propria libertà nel nome
della propria sicurezza e per mantenere i propri privilegi.

In questo è bravo anche
il dominio che fa sì che venga resa impossibile sia una vicinanza e una
consapevolezza dei rinchiusi (impedendo così che essi possano
trasformarsi in un possibile motore di rivolta ed instabilità), sia una
nascita, in quei luoghi, di pratiche di resistenza alla realtà. Ciò che
traspare dai quei luoghi ultimi, emarginati è che questi siano luoghi di
disperazione e punizione, dove scompaiono le regole della dignità
umana.

Abbiamo scelto il nome
CordaTesa perché si presta a svariati interpretazioni e significati:

Corda tesa come una corda lanciata
verso l’abbandono e la solitudine che abitano e animano questi luoghi,
spezzando l’isolamento verso quell’umanità che viene dimenticata quando
delle sbarre gli si richiudono alle spalle.

Corda tesa come la corda
penzolante, troppo spesso con un corpo appeso, che rappresenta il solo
modo di dimenticare questa solitudine, sola via di fuga da un reale che
non si vuole, da un mondo che rifiuta ed emargina.

Corda tesa come una corda di uno
strumento musicale che ad ogni giro della chiavetta si tende sempre più
fino a giungere ad un punto di rottura e a spezzarsi, perché la tensione
è arrivata al massimo del tollerabile.120606180270_equilibrista_result2


Corda tesa come la corda su cui tutti noi,
inconsci acrobati, ci troviamo a camminare sperando di non precipitare o
che non ci si spezzi sotto i piedi.