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In carcere senza motivo, cronaca di quotidiani soprusi israeliani

Cinque giorni di carcere, senza poter bere per quasi 48 ore, senza la possibilità di contattare le autorità competenti o i familiari e in condizioni igieniche pessime.
È stato questo in sintesi il viaggio in Israele di Francesco, un ragazzo 30 anni, che il 28 gennaio scorso era partito alla volta di Tel Aviv per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza di una decina di giorni in Terra Santa e che si è invece tramutata in una detenzione forzata, per la quale ancora oggi non sono state fornite motivazioni ufficiali.
“Già da Roma i controlli sono stati eccessivi – racconta a Rinascita Francesco, partito dal terminal 5 dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino – un piccolo interrogatorio viene fatto già alla partenza da agenti israeliani, che successivamente separano i propri concittadini dai semplici viaggiatori ebrei e dalle altre persone in partenza, attribuendo loro un diverso livello di sicurezza”.
Urlo_Mod_by_ClaMzeroSi tratta di un valore che va da 0 a 6, in base al rischio che ogni passeggero potrebbe rappresentare per la sicurezza del Paese e che viene segnalato applicando una targhetta adesiva scritta in ebraico su ogni passaporto. Dopo questa prima fase il turista italiano passa per la perquisizione e il controllo dei bagagli a mano, che gli saranno restituiti dopo oltre due ore di attesa. Francesco viene quindi accompagnato all’interno dell’area duty free dello scalo romano ed è qui che scopre che gli agenti hanno deciso di separare lui, una ragazza e due giovani palestinesi dal resto dei viaggiatori, e che a loro è stata affibbiata una scorta che li seguirà perfino in bagno fino al momento dell’imbarco.
“Hanno fatto prima riempire l’aereo e poi hanno fatto salire noi per non farci avere contatti con gli altri passeggeri”, prosegue il ragazzo, precisando però che durante il volo il trattamento riservato loro è stato assolutamente normale.
Giunti a Tel Aviv i quattro vengono nuovamente separati dagli altri, poiché le procedure di controllo dei viaggiatori ai quali è stato assegnato un punteggio superiore a 3 sono ben diverse da quelle degli altri. Francesco viene quindi privato nuovamente dei suoi bagagli a mano, fatto spogliare e i suoi vestiti passati ai raggi x.
“E fin qui rientra tutto nella normalità – spiega il giovane turista – circa il 25 per cento delle persone che si recano in Israele subiscono questa trafila. Un gruppo di 40 persone provenienti dalla Turchia per un giro religioso, è stato obbligato a restare un paio d’ore in sala d’attesa per approfondire i controlli”. Attesa che per Francesco è durata più di otto ore, nel corso delle quali è stato interrogato a più riprese dagli agenti della sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion.
“Il colloquio verte inizialmente sulle generalità, sul tipo di lavoro che si fa e cose simili. Poi si entra invece nel merito del viaggio, mi hanno chiesto il perché fossi lì, se avessi prenotato alberghi, se avessi con me appunti, computer, videocamera o macchina fotografica e se conoscessi qualche palestinese”, racconta ancora il ragazzo, precisando che l’agente ha insistito molto su quest’ultimo punto. Sebbene a farlo innervosire sia stato il non aver né un posto prenotato per il pernotto, né annotazioni sulle aree da visitare, né il computer e neppure una scheda di memoria per la macchina digitale. Ma Francesco è abituato a viaggiare senza prefissare date precise per i suoi spostamenti, facendosi consigliare di volta in volta dove alloggiare e sa inoltre bene che le autorità aeroportuali israeliane sono solite copiare i dati contenuti nei dispositivi elettronici, motivo per quale aveva scelto di acquistare direttamente sul posto una nuova memory card. È a questo punto che il militare inizia a fargli domande sui suoi recenti viaggi nei Paesi arabi e in particolare in Libano, dove si è recato per lavoro, chiedendogli dove avesse alloggiato. Francesco risponde senza problemi, ma l’impossibilità per l’agente doganale di verificare la veridicità delle sue risposte, visto anche che il giovane per scelta non possiede uno smartphone con il quale tracciare i suoi ultimi spostamenti, lo fa innervosire.
“A quel punto mi ha chiesto l’indirizzo e il telefono di casa mia e di quella dei miei genitori e ha iniziato a ripetermi più volte domande fatte in precedenza, per farmi cadere in contraddizione, ma senza riuscirci”, aggiunge Francesco, che rivela di essere stato costretto nuovamente a spogliarsi e a subire altri controlli. Il tutto senza la possibilità di bere o di poter contattare qualcuno, dalla famiglia, all’ambasciata italiana a Tel Aviv.
“A mezzanotte e mezza vengo infine informato che il mio visto è stato rifiutato e vengo quindi portato in un altro ufficio per essere schedato – ci dice ancora – mi vengono prese le impronte e fatta una foto. Una procedura standard che subiscono tutti i rifiutati, ai quali non sarà permesso di tornare in Israele per 10 anni successivi al rifiuto”.
Francesco viene quindi accompagnato in un edificio esterno all’aeroporto che gli agenti chiamano Asility, una struttura di accoglienza momentanea in attesa del rimpatrio, che lui non esita a definire “una prigione, al pari di quelle del Burkina Faso e Burundi”.
“Una volta sequestratomi il bagaglio a mano e il cellulare mi portano al primo piano dove ci sono le celle e mi mettono dentro. Chiudono la porta blindata che ha solo un piccolo vetro che permette di vedere fuori, e mi ritrovo in una stanza di 5 metri per 6 che conteneva: tre letti a castello e un bagno, con solo il water e un lavabo dal quale usciva acqua non potabile”, rivela Francesco, che parla di condizioni igieniche pessime.
“All’interno – prosegue trentenne italiano – c’erano un ragazzo sudafricano in evidente stato di depressione e un sessantenne svedese che si lisciava la barba e parlava da solo fissando il muro. Ogni tanto quest’ultimo bussava alla porta e chiedeva acqua, le guardie dicevano sempre di sì ma non portavano nulla”. Solo dopo 48 ore di prigionia i militari si sono degnati di portare una brocca d’acqua, neppure la necessità di predere alcuni medicinali da parte di Francesco riesce a smuovere i carcerieri, sebbene almeno i pasti venissero serviti con regolarità. Alla fine del secondo giorno arriva però la telefonata della speranza del console italiano, avvisato dai familiari e dagli amici di Francesco preoccupati per il suo inspiegabile silenzio. Il diplomatico si mostra sorpreso e infuriato dall’atteggiamento delle autorità aeroportuali e si premura che Francesco abbia tutto il necessario, nonostante non possa aiutarlo a ripartire prima del volo fissato dagli agenti israeliani per il primo febbraio. “Quando sei in un posto così anche una telefonata di dieci minuti con una persona che ti parla in un certo modo e si mette a tua disposizione, ti rincuora – spiega il giovane turista – Per di più la chiamata del console in persona ha stupito le guardie della struttura essendo una procedura anomala”.
“In cinque giorni non ho preso nemmeno 10 minuti d’aria e ho perso la cognizione del tempo a causa dei fari fissati sul soffitto della cella che rimanevano sempre accesi, giorno e notte. Non mi son potuto lavare o cambiare, per bere ho detto che dovevo prendere medicine ma se ne fregavano”, rivela ancora Francesco, che sottolinea come nei suoi confronti e in quelli degli altri detenuti non sia stata fatta non violenza fisica, ma una terribile violenza psicologica, facendolo sentire “trattato come un terrorista”.
La cosa più triste di tutta questa vicenda, però, è la scelta forzata di Francesco di non presentare nessuna protesta formale al suo rientro in Italia, conscio del fatto che tanto non servirebbe a nulla, poiché, afferma: “Tutte le autorità del mondo sanno di queste procedure eppure nessuno fa niente, se ne fregano”. Quello riservato al trentenne italiano è infatti un destino che molti subiscono in silenzio ogni giorno e che rappresenta una violazione della dignità umana, poiché si viene sbattuti in carcere per aver, di fatto, solo osato chiedere il visto d’ingresso in Israele.
E, infine, come se tutto questo non bastasse, Francesco ha scoperto solo al suo ritorno in Italia che il bagaglio imbarcato era partito ben 24 ore dopo di lui per Tel Aviv a causa dei controlli. Bagaglio che ha ricevuto, poi, solo dopo due settimane dal suo rientro in Italia, con tutti i disagi del caso.

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