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Intorno a torture, carceri… e altre italiche attitudini

Diffondiamo un’interessante articolo preso da contromaelstrom.com

carcereEra il 1948, nel Parlamento una parte delle forze politiche voleva un cambiamento effettivo e sostanziale dal regime fascista, perlomeno sull’aspetto giuridico-repressivo (non su quello economico-politico). Un’altra parte, poi dimostratasi maggioritaria, volle mantenere alla nascente “democrazia” lo stesso carattere giuridico e repressivo.   Il terreno di questo scontro era: il codice penale di pretta marca fascista- il Codice Rocco; il reato di tortura; le carceri.  Strano? Gli stessi punti di oggi (2013)

Quelli che seguono sono estratti delle sedute parlamentari (al Senato) dove avvenne questo scontro.                                                                                                                                    Fate attenzione alle parole di Calamandrei là dove dice che di carcere ne dovrebbero parlare chi l’ha subito («bisogna aver visto, bisogna esserci stati»!); ma anche là dove si domanda se dover vietare la “tortura” significa riconoscere che la tortura «in Europa. nel 1948,c’è dunque ancora bisogno di inserire… questa avvertenza»? (Attenzione, questo è un motivo per cui in Italia difficilmente inseriranno nel codice il reato di tortura, perché significa riconoscere che la tortura si pratica!)

Ecco, questo era ed è  il Bel Paese! Io mi vergogno di appartenerci… almeno finché non lo ribaltiamo sottosopra, e voi?

L’inchiesta sulle carceri e sulla tortura

(Discorsi pronunciati alla Camera dei deputati nelle sedute del 27-28 ottobre 1948)

Seduta del 27 ottobre 1948

Calamandrei.  Onorevoli colleghi, al Senato è stato parlato lungamente delle carceri. È un argomento sul quale, credo che quello che dirò non potrà suscitare opposizione o interruzioni da nessuna parte. Si è parlato lungamente delle carceri e ne hanno parlato soprattutto coloro che più avevano il diritto di parlarne, cioè quelli che vi sono stati lungamente, che vi hanno sofferto e che hanno sperimentato quel che vuol dire esser recluso per dieci o venti anni. Signor Ministro, alle raccomandazioni fatte al Senato sulla necessità di una riforma fondamentale dei metodi carcerari e degli stabilimenti di pena, ella ha risposto dando generiche assicurazioni. Ora, io vorrei che non ci si contentasse di assicurazioni non impegnative, come tutti i Ministri – anche quando sono seri e coscienziosi come ella è – sono disposti a dare, nel rispondere alle osservazioni che si fanno sui loro bilanci. Io vorrei che da questa esperienza di dolore che colleghi di questa Camera e del Senato hanno sofferto, nascesse per l’avvenire un effetto di bene. Questo mistero inesplicabile della vita umana che è il dolore, si può forse avvicinarsi a spiegarlo, soltanto quando si pensi che il dolore di un uomo possa servire a risparmiare il dolore ad altri uomini; e allora si sente che anche il dolore può avere la sua ragione. Ora, questa esperienza di dolore che i nostri colleghi hanno fatto non deve andare perduta. In Italia il pubblico non sa abbastanza – e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di esperimentare la prigionia, non sanno -che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe esser pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima  esperimentato quella realtà sulla quale deve sorvegliare. Vederequesto è il punto essenziale. Per questo, signor Ministro, ho presentato un ordine del giorno con cui si chiede al Governo di nominare una Commissione d’inchiesta parlamentare fatta di deputati e senatori, fra i quali siano inclusi in gran numero coloro che hanno sperimentato la vita dei reclusori; in modo che gli esperti possano servir di guida agli altri in queste ispezioni che dovrebbero compiersi non con visite solenni e preannunciate, come è accaduto di recente nel carcere di Poggioreale, ma con improvvise sorprese e con i più ampi poteri di interrogare agenti carcerari e reclusi, ad uno ad uno, a tu per tu, da uomo a uomo, senza controlli e senza sorveglianza. Solo così si potrà sapere come veramente si vive nelle carceri italiane. […] questo bisogna confessar chiaramente: che oggi in tutto il mondo civile, nella mite ed umana Europa, a occidente o a oriente e anche in Italia (ma forse in Italia meno che in altri Paesi d’Europa) non solo esistono ancora prigioni crudeli come ai tempi di Beccaria, ma esiste ancora, forse peggiore che ai tempi di Beccaria, la tortura! Questi sono argomenti sui quali di solito si ama di non insistere; si preferisce scivolare e cambiar discorso. Eppure bisogna avere il coraggio di fermarcisi. Ai primi di settembre, al congresso dell’Unione parlamentare europea ad Interlaken, al quale intervennero numerosi colleghi che vedo presenti in quest’aula, ci accadde, nel discutere un disegno preliminare di costituzione federale europea, di imbatterci in un articolo, che nella sua semplicità era più terribile di qualsiasi invettiva: “È vietata la tortura”. Nel leggerlo, abbiamo provato un’impressione di terrore: in Europa. nel 1948, c’è dunque ancora bisogno di inserire nel progetto di una costituzione federale, da cui potranno essere retti domani gli Stati uniti d’Europa, questa avvertenza? Le costituzioni, come voi sapete, hanno quasi sempre, nelle loro norme, un carattere polemico: le leggi nascono dal bisogno di evitare ciò che purtroppo si pratica. Ora il fatto che si senta il bisogno di vietare nella civile Europa la tortura vuol dire che nella civile Europa la tortura è tornata in pratica. E quando io parlo della tortura, non intendo riferirmi a quelle crudeltà che, talvolta, per malvagità individuale o per follia (come pare sia accaduto nell’episodio di Poggjoreale) secondini o agenti, per fortuna costituenti rare eccezioni, possono esercitare sui reclusi per punirli; quando io parlo della tortura, intendo riferirmi a quel metodo di indagine inquisitoria che esisteva come procedimento legale fino a metà del secolo XVIII nei giudizi penali, prima che fosse abolito, per merito soprattutto del Beccaria. È noto che nella procedura penale, fino alla metà del secolo XVIII, la tortura era un mezzo probatorio, disciplinato dalle leggi e studiato dai trattatisti, mirante a costringere l’imputato a confessare. Si riteneva che l’imputato avesse il dovere di confessare e di dire là verità anche contro se stesso; e quindi, per costringere l’imputato inquisito a eseguir questo suo dovere, si adoperava su di lui la coercizione corporale, modo legale per provocare la confessione. Orbene, onorevoli colleghi, la tortura come mezzo per ricercare la verità rientra anche oggi, non di rado, tra i metodi della polizia investigativa: in tutto il mondo, in tutti i paesi civili, ed anche in Italia. ][…]Ho parlato di questo anche con qualche magistrato, anche con giudici istruttori. Uno di essi mi ha detto: “Mi sono trovato talvolta di fronte a casi inesplicabili. Ho visto, per esempio, studiando i verbali raccolti dalla polizia, un imputato che in dieci verbali si è mantenuto negativo; all’undicesimo, improvvisamente, ha fatto una confessione piena e particolareggiata; ma al dodicesimo verbale si è ritrattato e in seguito si è mantenuto ostinatamente negativo. Allora ho interrogato l’imputato per chiedergli il perché di questi mutamenti e quello mi ha risposto: “quando fui libero di rispondere secondo verità dissi di no: ma una volta, quella volta, non potei reggere al dolore: e dissi di sì”.  Ma i metodi per far dire di sì agli imputati, dei quali ho raccolto notizie nella mia inchiesta, non voglio descriverveli. […]

Seduta del 28 ottobre (risposta del Ministro)

Grassi, Ministro di grazia e giustizia.  Ella, onorevole Calamandrei, mi ha invitato a fare una passeggiata insieme nelle carceri; ci verrò volentieri, ma un’inchiesta mi pare francamente esagerata. Questo per quanto riguarda le carceri; circa poi gli interrogatori, la competenza a provvedere non è del Ministero della giustizia. […]

Tambroni (Dc).  Una brevissima dichiarazione di voto anche a nome di altri colleghi del mio Gruppo. Prego intanto l’onorevole Presidente di mettere in votazione l’ordine del giorno Calamandrei per divisione. Dichiaro di essere contrario e di votare contro la prima parte, quella che riflette la nomina d’una Commissione d’inchiesta relativa ad accertare le pressioni della polizia per ottenere la confessione dei  prevenuti….E il nostro Codice prevede gravi’sanzioni nei confronti degli agenti di polizia.

note: in carica c’era il V governo De Gasperi (23.05.1948 – 14.01.1950);                                                               Giuseppe Grassi, del Partito Liberale fu ministro della Giustizia nel IV e V Gov De Gasperi,
[da: Il Ponte, marzo 1949]