Se sotto il regime di Hosni Mubarak la violazione dei diritti dei detenuti era prassi quotidiana, anche dopo il 25 gennaio 2011 le cose non sembrano cambiate. Viaggio nelle carceri egiziane, tra torture e abusi.
Il caso di Mustafa Abd al-Baset Mohamed è solo l’ultimo denunciato della Egyptian Initiative for Personal Rights, organizzazione che si occupa di garantire la tutela dei diritti dei detenuti.
Abd al-Baset è entrato in carcere già paraplegico dopo aver ricevuto un colpo di pistola che gli ha frantumato la spina dorsale. La sua è una storia di abusi, di diritti negati.
Dopo essere stato detenuto per un mese nella stazione di polizia di Zaqaziq, necessiterebbe di un ricovero ospedaliero con esami approfonditi che ne accertino l’effettivo stato di salute.
Il rischio è che faccia la fine di Hassan Shaaban, detenuto malato di diabete, che è morto la settimana scorsa a causa delle insufficienti cure mediche ricevute durante il suo periodo di detenzione.
Sarebbe bastata – sostengono gli avvocati dell’organizzazione – una iniezione di insulina. Che però non è mai arrivata.
Cambiano i nomi, ma le storie restano drammaticamente simili.
Secondo l’avvocato di Sa’ad Said, il suo assistito sarebbe stato torturato nella stazione di polizia di Giza dal maggiore Hisham Abdel Gawwad, subendo traumi non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici. Sarebbero stati proprio questi ultimi, sostiene l’avvocato, a contribuire in maniera decisiva alla sua morte.
Le loro, purtroppo, non sono realtà isolate.
Secondo un recente report di alcune Ong egiziane (l’Egyptian centre for economic and social rights,l’Hisham Mubarak law centre, l’Al-Nadeem centre for the rehabilitation of victims of violence and torture, e la stessa Egyptian initiative for personal rights), nel carcere di Hadra, ad Alessandria d’Egitto, la tortura sarebbe ormai una prassi consolidata.
Hadra e Bourg al-Arab (la prigione dove è morto Hassan Shaaban) sono non a caso fra gli istituti penitenziari più duri di tutto il paese.
Sotto Morsi nulla sembra essere cambiato. Lo ricordava già l’anno scorso Aida Seif al-Dawla, del Nadeem Center, sottolineando come durante i primi 100 giorni di presidenza fossero stati registrati 150 casi di tortura: più di uno al giorno.
Ma le critiche delle Ong e le pur palesi violazioni degli organismi di sicurezza egiziani sono solo uno degli aspetti da prendere in considerazione.
Le prigioni egiziane stanno divenendo sempre più il simbolo dell’oppressione, dell’ingiustizia ai danni di un popolo che subisce la dura repressione delle forze dell’ordine.
Basti pensare a quello che è successo a Port Said, dove proprio la prigione locale è stata l’epicentro degliscontri fra manifestanti e poliziotti.
Come dimenticare inoltre che (molta) parte di quella baltaghiyya che fece irruzione in piazza Tahrir per fermare le proteste nella cosiddetta ‘battaglia dei cammelli’, proprio da quelle prigioni fuoriusciva.
L’8 marzo 2011, Amnesty International riportava come dal 28 gennaio 2011 in avanti almeno 21.600 prigionieri fossero scappati in circostanze poco chiare dalle carceri locali.
I malumori, gli scontri, le violenze di oggi nascono dall’indignazione di una società che considera la giustizia locale come fautrice di un giudizio del tutto arbitrario.
E’ il caso delle denunce degli abitanti di Port Said, o ancora più recentemente di Hassan Mustafa, attivista la cui “ingiusta sentenza” è stata portata all’attenzione dei media dall’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI).
Ci sono dunque detenuti che, pur sottoposti alle dure condizioni carcerarie, hanno un sostegno esterno, possono contare su campagne di protesta e di sensibilizzazione.
Poi ci sono gli ultimi, i più poveri, i bambini di strada, gli stranieri immigrati, raccolti magari al confine con il Sudan o negli anni passati con la Libia, e arrestati.
E ci sono i casi in cui i detenuti sono vittime di giochi politici.
Lo scorso febbraio gli uffici di Abu Dhabi hanno rifiutato la richiesta della diplomazia egiziana di scarcerare undici uomini di nazionalità egiziana apparentemente legati alla Fratellanza.
Secondo Mukhtar Ashri, uno fra i responsabili per gli affari legali del partito Libertà e Giustizia, il processo intentato dagli Emirati Arabi Uniti altro non è che una farsa, dal momento che i suoi 11 connazionali non avrebbero libero accesso alla difesa.