Diffondiamo da Contromaelstorm
ANTICARCERARIA contro tutte le oppressioni
Diffondiamo da Contromaelstorm
La sproporzione delle pene per i delitti contro il patrimonio è una delle cause del disumano affollamento delle nostre carceri. È anche una responsabilità dei magistrati, del cattivo uso del principio di discrezionalità del giudizio.
I casi offerti dalla nostra cronaca giudiziaria sono un campionario infinito di una giustizia ingiusta. L’antidoto potrebbe essere l’obbligo di visita nell’inferno delle celle.
L’ennesima condanna della corte europea per la nostre carceri, accompagnata dal solito sdegno sterile, mi induce a tornare sullo spreco di risorse della giustizia, segnalato tempo fa da un arguto cronista del Corriere della sera, nel processo a uno studente, accusato di furto di un ovetto di cioccolato, del valore di 1 euro. Arguzia a parte, il cronista trascurava che, per questo fatto bagattellare (da baca, bacca, inezia), se qualificato come furto mono aggravato (per esposizione dell’uovo alla pubblica fede), lo studente sarebbe stato colpito da pena detentiva, pur con due attenuanti (per danno lieve e incensuratezza) e con la diminuente del rito alternativo, mai inferiore a 20 giorni di reclusione.
Volgarizzando la triade profitto (del reo) – danno (del proprietario) – sanzione (della giustizia), in un caso simile, il reo paga, per ogni 5 centesimi del valore commerciale del bene sottratto, il prezzo di un giorno di libertà.
Lasciando calcoli astratti e venendo alla corrente cronaca giudiziaria, un furto di capi di abbigliamento – che, pagati alla cassa, sarebbero costati 250 euro – è stato fatto pagare, in termini di libertà, al prezzo di 1 anno e 6 mesi. In senso realisticamente figurativo, la sentenza diventa così titolo di ingresso in carcere, per estinguere, con 547 giorni (del valore di 0,46 euro ciascuno) il debito verso il proprietario e verso la società.
La casistica della giurisprudenza ci mostra lo stato esattore di 6 mesi di libertà per un debito di 30 euro (sottratti da un registratore di cassa) o di 7 mesi di libertà per un debito pari al valore del gasolio sottratto da un camion per la nettezza urbana.
Questa impostazione del problema in termini di debito/credito – che fa riaffiorare il carcere per debiti (ricordate Pickwick?) – introduce il tema delle cause del fenomeno del tutto esaurito, posti in piedi nelle nostre carceri e ne mette in luce le sue radici nel mondo giudiziario e nei criteri sul quantum nelle sentenze di condanna.
Secondo Bettiol, lo stato moderno, nel farsi guidare dal principio della retribuzione (a un male segua un male) deve attenersi al criterio della proporzionalità. L’idea della proporzione segna il passaggio dalla vendetta, che è emozione non controllata dalla ragione, alla pena, che è atto di ragione e quindi reazione proporzionata.
La proporzionalità della pena viene concepita non nei termini meccanicistici della legge del taglione e tanto meno nella funzione intimidatoria a fini di prevenzione generale (quest’ultima concezione, attraverso la teoria del castigo esemplare, conduce inevitabilmente a pene che devono essere il più possibile severe e crudeli). L’esperienza insegna che solo una pena equa ed umana, non terroristica, può assolvere il compito della prevenzione (Mantovani).
Nel pronunciare la sentenza di condanna, il giudice dovrebbe non solo applicare criteri e limiti formalmente fissati dalla norma, ma anche evitare una punizione sproporzionata, che, tornata ad essere espressione di emozionale vendetta – sia pure compiuta in nome del popolo italiano – diventi fonte di un giro vizioso di violenza legittima e violenza illegittima, Questa proporzionalità della punizione, pur nel rispetto delle norme, spesso non è rispettata, e ciò avviene con particolare evidenza, come abbiamo visto, nei delitti contro il patrimonio, in cui al reo riesce immediatamente percepibile la sproporzione tra il suo debito, in termini di disvalore giuridico ed economico, e il prezzo che gli è imposto in termini di libertà.
Per recuperare razionalità punitiva, si è tentato di riavvicinare i giudici alla finalità educativa, intesa come recupero sociale, come riacquisizione, per il cittadino condannato, della capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale (Vassalli). La Corte costituzionale, con E. Gallo, ha chiarito il collegamento tra proporzione e rieducazione della pena: la sentenza 2 luglio 1990, n. 313, ha affermato il principio secondo cui la finalità rieducativa della pena (co.3 art.27Cost.) informa tutto il sistema penale e non soltanto la fase esecutiva: questo principio deve condizionare il potere discrezionale del giudice che quantifica la punizione, cioè il prezzo che il reo deve pagare in termini di libertà.
La Corte ha prospettato la seguente connessione: la finalità educativa postula che l’autore del reato avverta un trattamento punitivo non ingiusto e non eccessivo, ma adeguatamente proporzionato al disvalore del fatto commesso; altrimenti si rischia che nel reo prevalga un atteggiamento di ostilità nei confronti dell’ordinamento.
Le critiche rituali dei procuratori generali nelle inaugurazioni, le doglianze delle discrete onlus assistenziali, le denunce giornalistiche, rivolte al potere legislativo ed amministrativo, con l’invito al riformismo carcerario, per costruire carceri più accoglienti e per assumere nuovo personale, trascurano un dato: il titolo, il biglietto di ingresso nelle carceri lo scrivono i giudici.
All’origine della sovrabbondante presenza nelle carceri italiane non vi è solo la ristrettezza dei locali, ma anche una scarsa attenzione per il principio della proporzionalità della pena e per l’insegnamento che viene dalla interpretazione, costituzionalmente guidata, della disciplina della sofferenza carceraria.
Nella prospettiva di umanizzazione la pena, per salvaguardare la sua funzione educativa, si può guardare con interesse a iniziative del tipo di quella realizzata dai gip di un tribunale: un esame dei luoghi in cui vivono gli esseri umani per effetto delle loro decisioni: “fare, tappa per tappa” il percorso dei nuovi detenuti, toccare con mano i problemi e le difficoltà di chi vive e lavora dentro carcere, “vedere le camere di sicurezza dove a volte i nuovi giunti dormono uno sull’altro magari in attesa dell’udienza di convalida, eco.
Può essere utile, sul piano nazionale, prospettare un programma, per i giudici di primo e secondo grado, di visite guidate nei luoghi di detenzione, mirate a renderli direttamente consapevoli degli effetti delle loro decisioni, dei loro calcoli, delle loro commisurazioni, nonché a instaurare un parziale collegamento tra aula, dove si decide, e carcere, dove si soffre. Rimane il problema dello scarso impegno – anche di tutti i giudici – nella quotidiana lotta per l’indipendenza dalla cultura dell’emergenza, dai tribuni dell’allarme sociale e dei bisogni collettivi di sicurezza, amplificati e strumentalizzati a fini elettorali (il fenomeno dei pubblici ministeri in politica, grigi o ululanti, è davvero inquietante).
In attesa di un’autoriforma del giudice, accontentiamoci delle visite dantesche nei luoghi di sofferenza, coinvolgendo quei cittadini la cui aspirazione massima è riempire le carceri per ottenere ordine e sicurezza, salvo poi diventare crociati della libertà, se intravedono aprirsi i cancelli ai debitori per violazioni di beni giuridici meritevoli di garanzia non inferiore a quella dei beni lesi dai ladri di bicicletta.
Fonte: ilmanifesto
di Ilaria Cucchi
Finisce l’anno con Pannella che digiuna fin quasi a morire. E con l’affermazione dei periti nominati dalla corte: Stefano Cucchi sarebbe morto di fame dopo l’arresto il 15 ottobre 2009. Morte e carcere: parole ormai sempre più pensate, dette e scritte insieme. A indignarsi è solo chi non ha a che fare con la giustizia. Dentro le aule dei tribunali lo si dà per scontato che nei confronti di coloro che sono nelle mani dello Stato possano essere compiuti atti di violenza psicologica e fisica. Terribile.
Quando ci si rivolge direttamente ai giudici tutti i segni, imbarazzanti e agghiaccianti. Di tali violenze diventano equivoci, dubbi, quando addirittura non scompaiono. I consulenti diventano incerti, possibilisti, balbettanti. Salvo poi recuperare sicurezza e determinazione quando devono escludere, negare, difendere. Da tre anni giro per i tribunali di tutta Italia e le scene si ripetono uguali. Un esempio piccolo: Yaya Samura, teste fondamentale per l’accusa, ha riferito in aula del pestaggio subito da mio fratello.
Ha parlato dei calci, del tonfo del trascinamento del suo corpo a terra, del suo successivo colloquio con lui, dove Stefano si lamentava di essere stato picchiato mostrandogli le ferite e il sangue che ne usciva. Quel sangue è stato ritrovato su quei pantaloni sequestrati dal PM. Il consulente nominato dalla procura ha scritto che è sangue fresco e di mio fratello. E’ la prova che non si è procurato quelle lesioni in una caduta accidentale, ma per un pestaggio. Questo però non esiste per i periti che non ne fanno cenno.
Perché? Perché semplicemente quelle ferite come quelle sulle mani e sul corpo risalgono prima del suo arresto. Certo. Ma per tutto questo è realmente accaduto. Perché è “normale”. Tutto normale. Per la nostra Costituzione non lo è. Ma è vecchia e inadeguata ai tempi, come afferma qualcuno. Forse ha ragione.
“La rottura nei confronti delle autorità giudiziarie”
Notizie da Mike, condannato a causa dell’esplosione di Chambéry del 1 maggio 2009.
Nota per il lettore di lingua italiana.
Verso la mezzanotte del 1 maggio 2009, una bomba esplode in una fabbrica abbandonata vicino a Chambéry. Zoé vi perde la vita, Mike rimane gravemente ferito. La polizia dirà che i due stavano preparando un ordigno esplosivo ed in seguito Mike ammetterà di aver confezionato la bomba insieme a Zoé, sempre negando una qualunque intenzione sovversiva quanto al suo utilizzo. Visto che i due sono schedati come “anarchici” è l’antiterrorismo che viene incaricato delle indagini. Altre quattro persone vengono messe sotto inchiesta con l’accusa di aver “ripulito”, dopo l’incidente, il furgone di Mike ed il domicilio di Zoé da materiale “scottante” (in realtà, per lo più libri e scritti anarchici). La condotta di queste persone al momento dell’arresto varia molto: si va da un comportamento degno, al fare dichiarazioni su sé stesso ed altri (fornendo indicazioni su una persona ricercata, come fa J.), fino al limite di William, che inventa particolari su obiettivi immaginari della bomba ed altrettanto immaginarie scorte di clorato di sodio.
Alla fine il “caso” viene derubricato dall’antiterrorismo al diritto ordinario. Nel maggio 2012, Mike e tre suoi coimputati vanno a processo (il quarto non è giudicabile, grazie ad un cavillo tecnico). Anche in questa occasione, diversi sono gli atteggiamenti nel rapporto alla giustizia: c’è chi sottolinea il suo “reinserimento”, chi minimizza il proprio operato (a scapito di altri) e chi assume a pieno le proprie idee e scelte.
Chi volesse approfondire può leggere, in francese, il resoconto del processo, che contiene anche una ricostruzione dell’incidente:
http://cettesemaine.free.fr/spip/article.php3?id_article=5076
Il 16 ottobre 2012 sono stato convocato dalla JAP [Juge d’Application des Peines – ha funzioni simili a quelle del Magistrato di sorveglianza dell’ordinamento italiano, NdT], per discutere delle forme che prenderà la condanna ad un anno di carcere, di cui sei mesi passati in condizionale, pronunciata contro di me nel processo del 25 maggio 2012, in relazione all’esplosione del 1 maggio 2009 a Cognin (Savoia).
Dopo lunghe e numerose riflessioni, sono alla fine rimasto su una linea politica vicina alla rottura nei confronti delle autorità giudiziarie, situando questa rottura all’interno di un profondo conflitto con lo stesso concetto di autorità e le derive carcerali e statali che ne derivano.
Allo stesso tempo, ho rifiutato di entrare nelle categorie della sedentarizzazione e del lavoro salariato, confermando così la mia determinazione a non integrarmi nella loro miseria sociale.
Le conseguenze della mia posizione e la mia volontà di non entrare in qualche forma di dialogo e di pacificazione del conflitto che ci oppone hanno fatto sì che l’argomento delle pene alternative alla detenzione non sia stato nemmeno affrontato dall’AP (amministrazione penitenziaria) e che io sia convocato per il 7 gennaio 2013 alla Casa Circondariale di Chambéry, per espiarvi quello che mi resta della pena (4 mesi di prigione, 2 e mezzo tenendo conto degli ipotetici sconti di pena).
Al contrario di ciò che pretenderebbe la giustizia, che in vano ha cercato di farmelo controfirmare, non si tratta di una detenzione volontaria. Si tratta della messa a nudo di un rapporto di forza nel quale le armi sono ineguali ed il loro potere di nuocere alla mia vita è tale che io ho deciso (mantenendo la possibilità di cambiare idea) di recarmi in prigione. Malgrado tale rapporto di forze, il mio desiderio di un mondo senza dominazione non è che rinforzato e la mia determinazione a lottare contro tutte le forme di autorità non può che essere sempre più grande.
Ne approfitto, allo stesso tempo, per ringraziare i diversi gruppi ed individui che hanno condiviso le discussioni e le riflessioni che mi hanno aiutato ad arrivare alle mie attuali prese di posizione.
Al momento della mia incarcerazione, il mio indirizzo ed il mio numero di matricola verranno resi pubblici e le lettere saranno le benvenute.
Poiché, qui ed altrove, le nostre esistenze ed i nostri spazi di vita non sono gestibili, distruggiamo ciò che ci distrugge e facciamola finita con il concetto di autorità e di dominazione.
Che crepi questo mondo di merda!
Mike
Germogli di Libertà.
Riflessioni sulle misure alternative alla carcerazione.
In seguito alla sentenza ed alle diverse forme di reclusione che possono esserne le conseguenze, mi sembra importante cercare di mettere giù alcune delle mie riflessioni.
Considerando i due mesi di preventiva già fatti, mi restano da scontare quattro mesi di carcere, più sei mesi di condizionale (che restano in sospeso per i prossimi cinque anni). Spontaneamente, il mio primo riflesso è stato la voglia di fuggire questa situazione, ma sono stato rapidamente scoraggiato dall’isolamento, l’energia ed i mezzi tecnici che richiederebbe una latitanza come si deve e dalla paura di vedere il mio quotidiano, i miei progetti ed i miei legami sociali ritmati una volta di più dalla psicosi della reclusione. Nonostante la mia volontà politica di non sottomissione all’AP (amministrazione penitenziaria) ed il desiderio di rendere loro il lavoro il più duro possibile, ho comunque rapidamente concluso che la fuga causerebbe più disastri alla mia vita e a quella delle persone che mi circondano che i pochi mesi di prigione a cui sono stato condannato.
Ho quindi cercato di immaginarmi le diverse forme che la mia reclusione potrebbe prendere, per anticipare le conseguenze che questa condanna avrà sul mio quotidiano e su quello delle persone a me vicine.
Di fronte alle diverse forme detentive messe in atto dall’AP per le pene brevi o i fine pena (semi-libertà, braccialetto elettronico), numerose questioni a proposito di queste misure alternative alla prigione sono comparse e si sono affinate lungo le riflessioni individuali e collettive.
Il seguito di questo testo si snoderà quindi lungo la dualità fra la “scelta” di pene alternative e quella della prigione.
Visto che la scelta di una pena alternativa al carcere classico, intesa come miglioramento del quotidiano, è valida solo all’interno di una logica carceraria, è primordiale per me pormi delle vere domande sulle forme che può prendere la reclusione durante questo periodo, affinché la mia “decisione” non sia condizionata dall’AP, ma sia il frutto di riflessioni collettive ed individuali che mirino a limitare le conseguenze delle restrizioni che ne derivano, sempre mantenendo una coerenza politica.
In una situazione in cui le pene alternative al carcere permettono di aumentare massicciamente il numero di persone sotto restrizioni carcerali, allo stesso tempo riducendo considerevolmente i costi di queste restrizioni, esse introducono quotidianamente queste restrizioni nel seno stesso delle sfere pubblica e privata della popolazione e garantiscono una manodopera docile e sfruttabile a basso prezzo, grazie a mezzi di ricatto e restrizione ancora più forti che in una situazione salariale classica; mi è quindi impossibile non essere scettico di fronte a pratiche giudiziarie che mirano ad estendere la reclusione al di fuori delle mura delle prigioni.
È ciononostante vero che una pena alternativa al carcere può permettere di avere più legami sociali con i propri prossimi, visto che le possibilità di incontro e di comunicazione non sono sottomesse al formalismo ed all’arbitrio dei colloqui [in carcere, NdT], che senza l’intermediario e i limiti della spesina e con la possibilità di poter cucinare, procurarsi i propri alimenti, fare la doccia quando lo si vuole, mantenere una parte della propria vita sociale, affettiva e sessuale… si conserva una maggiore autonomia in quel che resta del quotidiano, in confronto a quello vissuto fra le mura di una prigione.
Ma tutto ciò è davvero rappresentativo della realtà di una pena alternativa al cercere?
Nella mia situazione personale di rifiuto della sedentarizzazione e del lavoro salariato, gestire questa pena significherebbe inevitabilmente partecipare all’elaborazione delle forme che prenderebbe la sanzione e di conseguenza entrare in una forma di partnership con l’AP.
Durante gli anni vissuti in libertà vigilata, ho avuto il tempo e le occasioni per affinare qualche riflessione sulle restrizioni carcerali al di fuori delle mura, ho potuto constatare che quando si è “rinchiusi fuori” le nostre attese si volgono automaticamente verso le persone che ci circondano e, quali che siano gli strumenti messi in atto, compaiono delle delusioni. Fare la scelta di una pena alternativa significherebbe quindi avere delle frustrazioni nei confronti delle persone a me vicine, invece che dirigerle contro lo Stato, che è alla base delle mie oppressioni.
Vivere una realtà carceraria all’esterno mi metterebbe in una condizione d’isolamento, poiché mi ritroverei ad essere il solo a vivere questa oppressione, in mezzo a persone avvantaggiate quanto alla propria libertà di movimento. Vivere una tale situazione d’isolamento causerebbe obbligatoriamente delle gerarchie nella ripartizione dei compiti e delle attese affettive nel seno delle mie relazioni sociali e, anche con una reale volontà e mettendoci un’attenzione particolare, mi sembra impossibile che le conseguenze non si incrostino nei miei legami sociali e nei confronti dei miei prossimi.
Essere rinchiuso in una cella la cui porta resta aperta mi obbligherebbe a rifare la scelta della reclusione ogni volta che sarei tentato di oltrepassarla; ciò significherebbe autodisciplinarmi di continuo, in modo da vietarmi ogni pulsione che miri alla mia emancipazione sociale, politica ed affettiva. In un modo di vita collettivo, ciò significherebbe condividere i ruoli del secondino e condurrebbe inevitabilmente a relazioni sociali in cui la repressione si mescolerebbe agli altri parametri che richiedono una gestione quotidiana.
Nel periodo della libertà vigilata, ho gestito il mio equilibrio sociale creando delle fessure nelle restrizioni impostemi ed accettare un braccialetto elettronico significherebbe sopprimere questi spazi di libertà, in assenza dei quali il mio equilibrio sociale non può che essere pesantemente danneggiato.
Ciononostante, la realtà carceraria attuale non permette di conoscere la data della propria scarcerazione, poiché ad ogni momento un’infrazione commessa durante la detenzione può portare ad una nuova condanna e significare quindi un prolungamento della durata della carcerazione.
Avendo delle rivendicazioni e cercando di avere delle pratiche antiautoritarie nel mio quotidiano, mi è difficile immaginare una realtà carceraria senza conflitti con l’AP e ciò significa proiettarmi in un periodo in cui sarei costantemente tentato di soffocare la mia coscienza ed i miei istinti di rivolta, nella prospettiva di non prendere delle pene supplementari durante la detenzione.
Fare la scelta di essere incarcerato significherebbe perdere il controllo sulle forme che prenderebbe questa condanna e lascerebbe la possibilità all’AP di organizzare il mio quotidiano durante il periodo della reclusione, scegliere il luogo di detenzione, poter vedere i miei legami sociali all’esterno attraverso i colloqui, le lettere etc. Questa scelta significherebbe ugualmente che le mie amicizie sarebbero colpite da una separazione fisica e si manterrebbero unicamente sulla fiducia esistente e quella che potrebbe essere creata ed intrattenuta attraverso la solidarietà, fatta di azioni, lettere o colloqui e la mia cerchia di relazioni fisiche sarà molto ristretta e limitata alle poche persone che avranno diritto ai colloqui. Senza fare particolare attenzione alle sensazioni di ogni persona a me vicina, mi sembra probabile che venga accentuata una certa gerarchizzazione fra le mie relazioni e che ciò possa essere fonte di conflitto, per persone già abbastanza colpite dalla situazione.
Ma questa scelta significherebbe ugualmente costruire dei nuovi legami sociali nel mio quotidiano, senza disequilibri, poiché li condividerei con persone che vivono la stessa realtà carceraria e ciò mi spingerebbe a dirigere le mie frustrazioni verso le cause della mia oppressione e non contro le persone a me vicine.
Nel periodo di carcerazione preventiva, ricordo, fantasmavo sul mondo esterno, sulla forza delle mie relazioni affettive, e avevo voglia di mordere la vita a pieni denti, appena fuori. Di fronte ai ricordi di depressione e di frustrazioni sociali provati all’inizio della libertà vigilata e delle difficoltà a ritrovare un pieno sviluppo sociale ed affettivo, mi sembra più facile progettarmi in una realtà carceraria, in modo da preservarmi dalle frustrazioni sociali, piuttosto che progettarmi in una situazione in cui numerosi eventi mi farebbero ricordare un periodo della mia vita particolarmente difficile. Ho anche coscienza che la morte di Zoé mi ha gettato in una realtà in cui tutto il mi equilibrio sociale ed affettivo è stato modificato. I pochi mesi di preventiva [già fatta, NdT] mi hanno permesso di vivere tutto ciò isolato in una specie di bolla e non ho avuto veramente percezione del vuoto causato dalla sua morte e dalle conseguenze che questa ha avuto sulla mia vita, che una volta uscito di prigione.
Dato che la mia detenzione preventiva si è aggiunta ad una situazione di ricostruzione fisica e psichica, ho vissuto quel periodo in un modo “di sopravvivenza”, non lasciando che poco spazio ai miei sentimenti e frustrazioni, e questi non hanno potuto emergere che una volta in libertà vigilata.
Scrivendo queste poche righe, mi rendo conto che è difficile per me essere razionale riguardo a quello che sento di fronte alla dicotomia braccialetto elettronico / prigione, poiché tutto ciò mi rimanda a periodi difficili della mia vita, dai quali non ho ancora preso abbastanza distanza per poter capire ed affrontare i ruoli della repressione, del lutto, delle ripercussioni fisiche dell’incidente, le numerose altre conseguenze affettive ed i loro legami con la mia situazione attuale.
Perché, alla fine, questa scelta non è la mia e mai farei spontaneamente la scelta fra essere rinchiuso in una prigione oppure essere sotto sorveglianza elettronica; la mia scelta si limiterebbe ad evitare le pene alternative o la detenzione.
Da un punto di vista personale, non riesco ancora a prevedere la posizione che terrò di fronte al JAP, se cercherò o meno di avere una pena alternativa al carcere, e trovo primordiale il fatto di avere la libertà di cambiare opinione tante volte quante sarà necessario. Ciononostante, la mia coscienza politica e le mie pratiche di lotta antiautoritaria fanno sì che, se cerco una coerenza, non posso che essere contrario alle pene alternative e che l’opzione che renderà il lavoro il più difficile ed il più costoso possibile all’AP è quella della detenzione in carcere. Ma allo stesso tempo mi sembra indispensabile essere attento al mio equilibrio affettivo e sociale nel momento in cui vi sarò confrontato, affinché non sia un dogma politico il solo parametro ad influenzare la mia posizione. La cosa più importante ai miei occhi non è quindi la decisione finale che sarà il frutto di questa situazione, ma gli strumenti che permettono di costruire e di affinare delle riflessioni attorno a questa questione, e fare in modo che essi possano alimentare delle discussioni e delle pratiche, collettive così come individuali, all’interno delle lotte anti-carcerarie e antiautoritarie di questa società.
Forza e coraggio a quelli/e che lottano contro tutte le forme di detenzione.
Mike
[ottobre 2012]
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Fonte:non-fides