La repressione sociale è un tema delicato, attuale e di vitale importanza in un contesto di crisi come lo è quello odierno. Un tema sul quale vigila, in Italia, l’Osservatorio sulla Repressione, fondato nel 2007 da Haidi Giuliani, Francesco Caruso e Italo Di Sabato. Quest’ultimo, già assessore e consigliere regionale, è oggi il Responsabile nazionale.
Di Sabato, quando nasce l’Osservatorio Nazionale sulla Repressione?
«Nel 2007 insieme con Haidi Giuliani (la mamma di Carlo, il giovane ucciso durante il vertice del G8 a Genova, ndr) e Francesco Caruso abbiamo fondato l’osservatorio sulla repressione, promuovendo un sito/blogwww.osservatoriorepressione.org. Dal 2011 l’osservatorio è diventato una associazione di promozione sociale a carattere nazionale».
Cosa fa l’Osservatorio, di cosa si occupa?
«In questi anni abbiamo partecipato e promosso iniziative, dibattiti, seminari sui temi della repressione, in modo particolare si fatti accaduti al G8 di Genova nel luglio 2001m e della legislazione speciale d’emergenza, sulla situazione carceraria e dei migranti, sulla tortura, abbiamo denunciando e seguito casi di mala-polizia. Qualche esempio: dal caso di Federico Aldrovandi, a quelli di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Marcello Lonzi, Riccardo Rasman; Stefano Frapporti, Paolo Scaroni. Inoltre, da oltre due anni abbiamo istituito 5 sportelli carcere a Roma, in grado di fornire assistenza agli ex detenuti e i familiari dei reclusi».
Oltre ad un’assistenza umana riuscite a dare anche un copertura legale ai vostri assistiti?
«Oggi posso dire di sì. Grazie anche alla collaborazione attiva con il legal team Italia che ha aderito all’Osservatorio forniamo anche assistenza legale alle tante vittime di repressione e mala-polizia. Abbiamo promosso la pubblicazione di materiali ed esiti delle proprie ricerche e lavorato in progetti come “Ingaggiami” sul territorio di Nardò e il “Camper dei Diritti” in Basilicata in sostegno dei lavoratori migranti in agricoltura. Un lavoro necessario nel contesto socio-politico attuale dove i governi rispondono alla crisi sociale ed economica con un ipersviluppo delle istituzioni totali con le quali si cerca di rimediare alle carenze della protezione sociale dispiegando, negli strati inferiori della società, una rete poliziesca e penale dalle maglie sempre più fitte»
Cosa intende dire con “ipersviluppo delle istituzioni totali”?
«Oggi siamo di fronte ad uno Stato che ha abdicato al proprio ruolo nel rimuovere le cause che determinano l’ineguaglianza sociale, e che ha sviluppato per contrappeso una suo intervento etico, rispetto alla questione delle libertà e dei diritti civili: ad uno Stato Sociale Minimo si accompagna la tendenza ad uno Stato Penale Massimo, che fa dell’esclusione un dato strutturale»
Mi par di capire che uno dei vostri terreni di battaglia preferiti sono quei luoghi come carceri o centri di identificazione ed espulsione (C.I.E.). Come si svolge il vostro lavoro in questi ambiti?
«Mi permetta una breve premessa».
Prego
«Carceri, C.I.E, istituzioni psichiatriche, caserme e, più in generale, la militarizzazione della società, sono sempre di più gli strumenti con i quali la “fortezza Europa” affronta la crisi economica, ecologica ed etica. Una vera e propria crisi di sistema che si manifesta anche attraverso le svariate politiche di negazione dei diritti e delle libertà e delle tutele individuali e collettive. La risposta che il governo Monti ha dato alla crisi economica e sociale, per esempio, è stata la dichiarazione di guerra al più povero. Se ti opponi per reclamare diritti, reddito, casa c’è il rischio di essere brutalmente picchiati, torturati e arrestati. Chi invece ha prodotto la violenza, ha calpestato i più elementari diritti (come è accaduto a Genova durante il G8 nel luglio 2001) viene assolto, promosso e premiato come un “eroe” dello Stato».
Diamo qualche numero, dato preciso che possa rendere meglio il suo concetto?
«Dal G8 di Genova del luglio 2001 a oggi sono numerosi i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte sociali in azioni puramente delinquenziali. Si parla di circa 17.000 persone sotto processo, interessano tutti i gangli attraverso i quali il movimento tentò di esprimersi nel luglio 2001: contrapposizione alle politiche liberiste, lotte sociali riguardanti il tema della precarietà (e con esso il diritto alla casa, ai servizi, al reddito), le lotte dei migranti. Le mosse delle varie procure sembrano inserirsi nel solco ideologico delle nuove tecniche repressive: disconoscere il primato politico delle varie forme di opposizione per sancirne la resa giudiziaria delinquenziale e tramutare ogni lotta politica in ordine pubblico. La dimensione del fenomeno e la qualità delle imputazioni mosse indica la volontà di taluni apparati dello Stato e della stessa Magistratura di procedere ad una vera e propria criminalizzazione di istanze che dovrebbero trovare ben altre sedi e modalità di risposta».
La risposta operativa dell’Osservatorio a queste tecniche repressive?
«Nei prossimi mesi lanceremo una campagna nazionale per l’amnistia e la depenalizzazione di una serie di reati, spesso ereditati dal vecchio Codice Rocco, che sanzionano stili di vita, comportamenti sociali diffusi o persino le libere opinioni. Una campagna per il riconoscimento della legittimità di alcune forme di lotta, entrati nella prassi dei movimenti e dei comitati territoriali. Una campagna che va ad aggiungersi alla raccolta firme per le tre leggi di iniziativa popolare per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri e droga».
Ci illustra brevemente, nei loro passaggi fondamentali, le tre leggi?
«La prima proposta si limita a dare una definizione e una sanzione per il delitto di tortura. La seconda cestina la legge Fini-Giovanardi sulle droghe depenalizzando il più possibile, riducendo le pene, prevedendo un trattamento differenziato per chi spaccia droghe pesanti e leggere, legalizzando il consumo a fini terapeutici. La terza proposta di legge intende ripristinare la legalità costituzionale nelle carceri italiane, deflazionando il sistema e assicurando diritti, oggi spesso negati, per chi è dentro».
Come avvenuto ad esempio con Stefano Cucchi?
«Ha colto nel segno. Infatti, chi sostiene la tesi che Stefano Cucchi sia scivolato in carcere, oppure in caserma o in tribunale, oppure che i “reclusi” alla caserma Bolzaneto a Genova o alla Ranieri a Napoli si siano fatti mali da soli giocano con l’intelligenza delle persone e si rendono complici di tesi precostituite di impunità».
Lei avrà visitato diversi centri di detenzione. Centri che spesso sono sulle prime pagine dei quotidiani allorquando avviene un decesso oppure i detenuti si ribellano alle condizioni ambientali in cui sono costretti a vivere. Cos’è oggi un carcere? È ancora il luogo deputato alla riabilitazione oppure ha perso totalmente la sua funzione sociale?
«Il carcere oggi è una “discarica sociale”, un “non-luogo”. I dati sulla situazione carceraria sono drammatici. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. I semiliberi sono appena 877. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi i detenuti che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea».
A questo desolante quadro va aggiunto il numero di suicidi …
«Negli ultimi 10 anni registriamo più di 700 suicidi nelle carceri. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7 per cento i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio.
In sostanza una crisi nella crisi.
«Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente con una mancanza di educatori e psicologi; agenti della Penitenziaria massacrati di turni di lavoro con straordinari non pagati; dignità e diritti calpestati per tutti».
E ora il Molise. È necessario un Osservatorio sulla repressione in regione?
«Credo proprio di sì. Anche in Molise ci sono carceri, detenuti, immigrati e storie di repressione sociale. Penso ad esempio alla triste storia di Radu Gheorge morto nelle campagne di Nuova Cliternia nel 2009 mentre era intento alla raccolta dei pomodori ma anche ai tanti migranti che ogni anno raggiungono le nostre terre per lavorarle e lavorare come schiavi».
Quindi nei prossimi mesi sentiremo parlare dell’Osservatorio?
«Certamente. Ci stiamo già attivando per reperire fondi che possano avviare progetti che possano favorire il reinserimento e la tutela sociale oltre che legale di detenuti, migranti e di chiunque fosse vittima di un’ingiustizia, di una repressione».
08/05/2013