Visitare le galere per scoprire che a 88 anni si impara ancora

cordatesaQuando si è più vicini agli ottantanove che agli ottantotto anni, e sono anni vissuti intensamente senza sprecare un’ora, attenti nel lavoro, attenti agli affetti, impegnati in ogni piccola cosa come se fosse la più importante… a un certo punto si pensa di aver vissuto e conosciuto tutto.

Così, dopo aver detto di essere pronta -ed anche onorata d’esser chiamata- ad una visita ai due istituti penitenziari di Roma nel primo giorno dell’anno, ti ritrovi a levarti dal letto alle sei e mezza del mattino, a prepararti con la paziente lentezza del disabile e del vecchio, e a farti trovar pronta quando arrivano un paio di compagne con l’auto, a rilevare te e la tua carrozzina, due ore dopo.

E da lì in poi cominci a scoprire che non sai tutto, che molte cose le sai ma non prevedevi che ti avrebbero commossa e coinvolta a quel punto… insomma, fai un mucchio di scoperte su di te e sugli altri, e ti avvedi di non essere quella vecchia corteccia rotta ad ogni prevedibile emozione che credevi, e ritrovi il tuo cuore fanciullo nutrito di speranza e meravigliato dell’altrui sorriso.
E’ successo il giorno di Capodanno 2014, a Roma.

Con Marco, Rita, Mina, Paola, Giulia, Isio, eravamo alla Lungara, davanti a Regina Coeli, alle nove del mattino. Ci fu un certo ritardo nel farci entrare, per l’inevitabile “disguido” di stampo burocratico (qualcuno era stato incaricato di trasmettere un fax dal DAP alla direzione del carcere e si era dimenticato di farlo); la cosa non ci meravigliò più di tanto, siamo gente di mondo, viviamo in Italia: che Italia sarebbe, senza un disguido di prima mattina?

Io ero sulla carrozzina, e mi spingeva Rita. Davanti alla prima scala -larga e di pochi gradini- ci rallegrammo: c’era, di lato, una pedana elevatrice. Peccato che il comando per attivare la pedana mancasse delle pile interne, che si erano esaurite; ma via, che problema c’è, sono solo sette gradini… Ho contato quei sette, e poi i successivi dodici, ma poi ho smesso di contare: a Regina Coeli ci sono due ascensori, uno vecchissimo che ha smesso di funzionare molti anni fa, l’altro regalato dalla Regione Lazio in tempi più recenti, che però non è mai stato in funzione. La delegazione in visita non poteva dividersi, doveva restare unita, sicché mi sono inerpicata con le stampelle, un gradino alla volta, senza più contare; così, a occhio, direi che alla fine della giornata avrò collezionato una novantina di gradini (e “gradoni”) in salita, ed altrettanti poi in discesa al ritorno dai vari reparti.

Il carcere di Regina Coeli è una struttura molto vecchia, che sarebbe eufemistico definire “fatiscente”, in cui convivono mura antiche e sovrastrutture di cartongesso e pressato di paglia: ci fa freddo, un freddo senza pietà, ci sono due reparti che vengono chiamati Siberia uno e due.

Sentivo montare dentro di me qualcosa che non conoscevo: era rabbia, era senso di ingiustizia, era protesta, era vergogna: vergogna per la mia non voluta corresponsabilità, come cittadina, nell’ignominia di ciò cui stavo assistendo.

In ogni reparto, un presepe ed un albero di Natale, fabbricati da mani pazienti artigiane, con materiali di risulta, ma pieni di poesia. Su molte pesanti porte di ferro chiuse, simbolo crudele di doppia punizione -la privazione della libertà e in più la sofferenza di un vivere disumano nella promiscuità di piccoli spazi- c’erano ghirlande di plastica colorata, di quelle che si usano per ornare l’abete della tradizione. E questa vecchia roccia, che credeva d’essere adusa a tutto, davanti a quegli ingenui ornamenti ha avuto una stretta al cuore e si è commossa, con una gran voglia di poter piangere liberamente, a singhiozzi, come quando si è bambini e il pianto è una liberazione; ma vergognandosi, al pensiero di non aver diritto al pianto, in quel luogo in cui la gente forse non aveva più lacrime e neppure più rabbia.

Io me li ricordo, anni fa, i tempi in cui nelle galere i detenuti si ribellavano, aggredivano le guardie, incendiavano i materassi, salivano sui tetti; e siamo stati proprio noi Radicali, è stato proprio Marco Pannella, ad insegnar loro la nonviolenza. Loro, i colpevoli –ed anche quelli soltanto sospettati di esserlo- loro hanno imparato la lezione: là dentro, con la loro vita grama, li ho visti sorridere. Ho visto sguardi che cercavano i nostri occhi, mani tese per una stretta fraterna, gratitudine per quel nostro essere là dentro con loro, in un giorno che fuori è di festa per tutti.

 

Di Regina Coeli ricordo soprattutto il freddo mordente, le mani di persone ammucchiate contro le sbarre, e la cura nello stringerle tutte, spesso sporgendomi verso di loro per arrivare alle mani di quello che stava dietro, in terza fila. Ricordo Marco fermo davanti a ciascuna cella, soffermandosi a scherzare e riuscendo a farli ridere; e uno dei suoi tratti di generosità delicata e piena d’amore, quando disse al nostro accompagnatore che voleva andare in tutti i reparti, voleva vedere tutti, perché se non andava da alcuni, questi si sarebbero sentiti ingiustamente esclusi.

Ricordo Luigi, un ragazzo forse di trent’anni che viene da una infanzia disperata, che ha conosciuto il carcere minorile, la tossicodipendenza, che è in lista d’attesa per il trapianto di fegato: una coppia di zii lo vorrebbero con sé, per curarlo, ma il magistrato di sorveglianza non gli consente di lasciare la cella. Lo ricordo perché ha un viso bellissimo, con occhi luminosi, ed ha una tale fame di calore e di amore che gli è bastato sentirmi dire il suo nome (Rita mi aveva parlato di lui) per illuminarsi di felicità, e cercare l’abbraccio. E me lo son sentito vicino: figlio, fratello, corpo ed anima dolente, bisognoso di un calore così poco conosciuto durante la vita; e avrei voluto essere plenipotenziario di una divinità, per regalargli il miracolo di andare a casa dagli zii ad aspettare il trapianto. Per me, il ricordo di Regina Coeli è Marco chiamato a gran voce dalle celle, gli applausi dei detenuti ammucchiati contro la rete dei piani superiori; e poi la mia voglia di piangere, il sorriso e lo sguardo di Luigi, e quell’orrendo freddo polare.

Rebibbia è una struttura molto più moderna, nata nell’intento di dare ai reclusi più spazio, aria, verde: intento lodevole, fallito completamente. Tutto è all’insegna dello spazio, con enormi corridoi, rotonde, slarghi, e all’esterno vasti cortili ed alberi: ma le celle sono anguste, e ci vivono in due o tre nello spazio che a malapena basterebbe ad una persona. Solo un decimo dei detenuti ha un lavoro all’interno del carcere: gli altri stanno immobili, inattivi, annoiati. Aspettano l’amnistia, aspettano la fine della loro pena, aspettano di essere trasferiti, “avvicinati alla famiglia” come la legge prevede: aspettano, e intanto guardano la TV. Nelle celle hanno un televisore, qualcuno ha anche una radiolina ed ascolta Radio Radicale, ma non tutti: quelli che sanno, mi hanno chiesto se i ricorsi alla CEDU procedono.

Chiamavano Marco a gran voce, in coro, scandendo: Pannella, Pannella, Pannella. Lo ringraziavano, ringraziavano tutti noi: a Marco dicevano “grazie di non mollare”, e lui rispondeva che non saprebbe come, che lui non è proprio capace di mollare, sicché non è gran merito, tener duro…

Ma in quegli sguardi, in quei gesti del tender la mano e stringerla,in quei sorrisi (chi avrebbe mai pensato che potessero sorridere !)si leggeva davvero la speranza. Lì, in una cella affollata, uno di loro mi ha detto: «Ricordatevi anche di parlare degli agenti di custodia: sono meravigliosi, sono generosissimi e soffrono anche più di noi, perché noi abbiamo sbagliato e dobbiamo scontare, ma loro no». Gli ho assicurato che lo facciamo, che Marco lo fa sempre, e tuttavia lui continuava a raccomandarsi. In effetti a Rebibbia il personale penitenziario è stato molto più paziente, ed attento nell’accompagnarci ed assisterci, rispetto a quello di Regna Coeli più burbero e portato a protestare per la nostra scelta di andar là “proprio a Capodanno, quando loro hanno turni più pesanti”. A quello della Lungara ho spiegato che l’azione politica ha valore solo se è conosciuta, e che per noi l’unica speranza di avere un minimo di notorietà risiede nel fare “cose strane” a Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto; a quelli di Rebibbia ho detto quanto sono loro grata dell’aiuto anche materiale che mi hanno prestato, mentre andavo su e giù per le scale, dove non c’era ascensore.

Qualcuno, che può farlo, sia cortese: faccia leggere queste mie righe a Renzi, a Salvini, a tutti quegli altri che non vogliono l’amnistia e sono convinti che “chi è in galera deve pagare”. Chissà mai capiscano, finalmente.

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