il 41bis non solo è tortura; è anche terreno di caccia per le sporche attività dei servizi segreti. Aboliamo il 41bis!!!

cordatesadiffondiamo da contromaelstrom

da: il Manifesto 11 dicembre 2013

Giustizia: Dossier “Farfalla”, il ministro ammette l’esistenza di un accordo tra Sisde e Dap

di Silvio Messinetti

La farfalla volava basso, si mimetizzava nelle celle di massima sicurezza, volteggiava indisturbata tra i penitenziari di mezza Italia. Si nascondeva nelle barbe finte degli uomini dei servizi a caccia di informazioni nei colloqui riservati con i detenuti sottoposti al regime del 41 bis.

Ma lemme lemme la nebbia fitta comincia a diradarsi e la farfalla a intravedersi.

Il manifesto se ne occupa fin dal 2006 (cfr. Matteo Bartocci, “il carcere delle spie” 31 maggio 2006 – trovi l’articolo di M.Bartocci alla fine di questo articolo). Ma ora è uno dei tanti misteri d’Italia che l’audizione della Commissione parlamentare antimafia, che ha avviato ieri a Reggio Calabria la sua attività d’indagine, sta scoperchiando dal pentolone delle trame occulte e dei segreti irrisolti. È stato il guardasigilli in persona,Annamaria Cancellieri, ad ammettere l’esistenza di questo rapporto.

Nome in codice “Farfalla”, appunto. Racconta di un patto segreto tra i servizi di intelligence e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che in passato, ma chissà forse ancora oggi, ha permesso agli spioni di far visita ai detenuti (‘ndranghetisti e mafiosi) al 41 bis. Per raccogliere informazioni? Ancora non è dato sapere. “Soprattutto ci chiediamo se sia ancora operativo” incalza Claudio Fava (Sel), vicepresidente dell’Antimafia. “È una questione pesante a cui, noi come Commissione e il procuratore capo della DnaRoberti, chiediamo venga data risposta al più presto. Siamo di fronte non al dubbio ma alla certezza che vi sia stato e vi sia un protocollo operativo che all’epoca era stato istituito fra il Sisde e il Dap.

Di questo ha reso testimonianza di fronte all’autorità giudiziaria il numero due del Dap, Sebastiano Ardita, spiegando che di questo protocollo lui sapeva l’esistenza ma non i contenuti. È un protocollo che in sostanza prevede la collaborazione fra la struttura penitenziaria che si occupa dei detenuti al 41 bis e i servizi di sicurezza.

Naturalmente abbiamo la necessità come commissione di sapere cosa contenga questo protocollo, quali fossero le possibilità di accesso alle strutture carcerarie dei nostri servizi di sicurezza. Anche perché supponiamo che il protocollo all’epoca sviluppato dal Sisde sia stato ereditato anche dall’Aisi. Mi è sembrato abbastanza insolito che il ministro della Giustizia non ne fosse a conoscenza. Quanto meno ai tempi in cui il protocollo è stato sviluppato, il Viminale deve essere stato informato e l’informazione deve essere messa a disposizione di chi viene dopo. La ministra ci ha detto che riferirà e noi aspettiamo. Ma la domanda resta.

Quale funzione hanno avuto i servizi in questi anni? Indurre alla collaborazione i detenuti al 41 bis? Intercettare comunicazioni verso l’esterno?”. Domande inquietanti, ma che diventano ancor più urgenti alla luce anche del ruolo “non di totale limpidezza”, sottolinea Fava, che nella storia d’Italia hanno avuto i servizi. “Pensiamo a quello che è accaduto 20 anni fa, ai silenzi che hanno accompagnato la stagione delle stragi e presumibilmente al ruolo anche di una parte degli apparati”, ma soprattutto della possibilità “di una nuova recrudescenza con il rischio di una nuova stagione stragista” come paventato giorni fa dal ministro Alfano.

A lanciare l’allarme, rivela Fava, sono stati i magistrati di Palermo che hanno ventilato l’ipotesi che “la mano e l’intenzione non sia riferibile soltanto a Cosa nostra”. Ma nasconda altri interessi non ancora definiti, ma che potrebbero non escludere – secondo Fava – un coinvolgimento della ‘ndrangheta e non solo. “La procura di Reggio questa preoccupazione l’ha esposta nitidamente. Vi è un punto di interesse condiviso sicuramente per quanto riguarda interessi passati e vecchi progetti stragisti. Questa collaborazione c’è stata in passato e c’è ragione di temere che si ripeta in futuro.

Questo è anche un contesto inquinato e vischioso in cui è facile che si possa realizzare un progetto che chiama in causa soggetti diversi da quelli delle stesse organizzazioni criminali”. Il pericolo, avverte il vicepresidente dell’Antimafia, non è solo legato alla criminalità calabrese. “Si è parlato molto anche di massoneria, come camera di compensazione all’interno della quale si possono incontrare interessi non solo riconducibili alle ‘ndrine, ma anche a borghesia d’affari e professioni. Al riparo da sguardi indiscreti possono costruire alleanze e progetti solidi”. In questa situazione di confusione sociale e di crisi economica, c’è il rischio che la palude collosa di interessi eversivi si allarghi. Coinvolgendo pezzi deviati dello Stato e criminalità organizzata. Dalla città dei “boia chi molla” di quarant’anni fa, e nel pieno delle giornate dei forconi inclusi proclami para golpisti, il messaggio che arriva è inquietante.

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da: il Manifesto del 31 maggio 2006

Il carcere delle spie

Matteo Bartocci

Tra un governo e l’altro, nei giorni di interregno post- elezioni, il capo dell’amministrazione penitenziaria dà il via a inquietanti disposizioni Una rete di agenti con vasti mezzi tecnici e compiti di controllo su detenuti e personale carcerario che risponde solo al capo dell’ufficio ispettivo del Dap
Una rete di intelligence interna alle carceri per controllare e monitorare in modo «continuativo e centralizzato» non solo tutte le attività dietro le sbarre ma anche i collegamenti dei detenuti con il mondo esterno, le attività del personale e degli agenti di polizia. Se ne parla da anni ma forse oggi questa sorta di «super servizio segreto carcerario» è diventato realtà attraverso una serie di inquietanti ordini di servizio riservati che prefigurano una rete segreta che al di là di ogni gerarchia interna opera senza un atto pubblico che ne regoli finalità, modus operandi, organismi di controllo e quantità di forze assegnate. Si tratterebbe di circa 250 poliziotti, suddivisi a livello regionale e per singolo carcere, distratti dai propri compiti istituzionali e scelti personalmente dal capo dell’ufficio ispettivo Salvatore Leopardi, al quale risponderebbero in via assoluta ed esclusiva.
E’ questa la lettura che emerge a margine di un’interrogazione parlamentare presentata la settimana scorsa al ministro della Giustizia Clemente Mastella da Graziella Mascia del Prc. «Risulta – chiedeMascia al guardasigilli – che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) abbia istituito in tutti i provveditorati regionali articolazioni operative della polizia penitenziaria espressione diretta dell’ufficio ispettivo preposte a non meglio indicate attività informative». Articolazioni per di più «sottratte alla catena gerarchica» e operanti «nell’assoluta riservatezza degli atti compiuti».
L’ordine di servizio che avvia la rete di intelligence è il numero 2 del 2006 firmato il 9 maggio dallo stesso Leopardi, quando governo e presidente della Repubblica non si erano ancora insediati. Depurandolo del suo linguaggio burocratico si evince che le strutture periferiche possono operare solo dietro «espressa richiesta» del capo, bypassando la catena di comando. Al di là del coinvolgimento formale, infatti, i provveditori non hanno alcun controllo sulle nuove strutture.
In parole povere si tratta di uffici paralleli che, a riprova, non comunicano mai tra loro ma operano in un rapporto esclusivo verticale con l’ufficio di Leopardi, cui trasmettono «prontamente e tempestivamente», anche «per le vie brevi», «ogni dato o notizia anche parziale ritenuta significativa». «Le varie articolazioni provvederanno allo svolgimento delle sole attività delle quali saranno investite secondo le direttive impartite», ordina Leopardi senza aggiungere altro per iscritto. A garantire ulteriormente la riservatezza delle operazioni un altro ordine di servizio, sempre firmato da Leopardima senza data (numero 35/2006), che prescrive standard di protocollo per la comunicazione molto rigidi («identici a quelli per le Sezioni III e IV dell’Ufficio»).
Ciò che queste note non dicono esplicitamente si ricostruisce da quanto trapela sugli incontri avuti da Leopardi al Dap con alcuni provveditori regionali nei mesi scorsi. Le attività, a quanto risulta, non si limiterebbero alle indagini sui detenuti in 41bis (come affermato il 26 maggio in forma anonima e difensiva dal Dap dopo l’interrogazione di Mascia) ma si allargherebbero ai detenuti ordinari e perfino, come parrebbe dalla circolare preparatoria firmata dal capo del Dap Giovanni Tinebra, a chiunque operi nelle carceri.
Il 7 febbraio 2006, a camere quasi sciolte, Tinebra getta le basi per l’opera di Leopardi comunicando a tutti i provveditori regionali che «l’ufficio per l’attività ispettiva e di controllo, con la collaborazione di articolazioni periferiche di prossima istituzione sul territorio», avrebbe provveduto sia ad una attività centralizzata di gestione e controllo di dati già acquisiti (come richiesto dalla Direzione Nazionale Antimafia nel 2005), sia ad attività di intelligence e investigazione vere e proprie. Scrive testualmente Tinebra che le future articolazioni si occuperanno di: «1) acquisizione, analisi e monitoraggio, continuativi e centralizzati, di elementi documentali e dei dati informativi di natura fiduciaria riguardanti ciascuna delle persone sottoposte al 41bis; 2) esame comparato, sempre continuativo e centralizzato, di tutti gli elementi e dei dati acquisiti; 3) acquisizione, analisi e monitoraggio, continuativi e centralizzati, di tutti i possibili canali di collegamento, intramurario ed extramurario (corsivo nostro, ndr); 4) approfondimento informativo degli eventuali canali di collegamento, anche extramurario; 5) eventuali sviluppi di indagini preliminari all’esito dell’approfondimento informativo qualora questo evidenzi ipotesi di reato» (come richiesto dallaDna). L’ordine per Leopardi è di avviare «tempestivamente» i «contatti preliminari».
Coadiuvato da pochi uomini fidati tra cui il direttore del carcere di Sulmona Giacinto Siciliano, a marzo Leopardi inizia a costruire la sua rete, convocando a Roma i vari provveditori, in incontri separati e a piccoli gruppi, per compartimentare ancor meglio l’operazione. E’ in queste occasioni che avrebbe esplicitato, sempre a voce, le sue direttive, specificando che i nuovi uffici avrebbero svolto «attività preinvestigative» articolate su quattro temi di contrasto: criminalità organizzata, terrorismo internazionale, terrorismo interno e, perfino, «attività anarco-insurrezionaliste». Maglie tanto larghe, per esempio, da riguardare anche un direttore non allineato, un capo della polizia troppo morbido, debolezze di agenti, oltre a far supporre l’esistenza dei meccanismi tecnologici necessari per vaste intercettazioni ambientali, telefoniche e della corrispondenza.  Se non è un servizio segreto vero e proprio poco ci manca. In ogni caso la nuova struttura conferisce a Leopardi un potere sul dipartimento del tutto sproporzionato rispetto al suo ruolo ufficiale. Senza contare che se le indagini si limitano ai detenuti in 41bis non si capisce perché se ne occupi l’ufficio ispettivo e non quello detenuti di Sebastiano Ardita. Né si capisce perché l’Antimafia richieda al Dapl’avvio di una struttura perentoriamente «centralizzata». Salvatore Leopardi, fin dai tempi di Caltanissetta, è il vero braccio destro di Tinebra. Il suo mandato scade tra un anno e se le voci sono vere per lui sarebbe già assicurato un nuovo incarico presso la procura nazionale antimafia.


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