Il lavoro in carcere “vaccino contro la recidiva”… ma solo il 21% dei detenuti è occupato

cordatesaSu una popolazione carceraria di oltre 66 mila detenuti solo il 21,2 per cento lavora (13.208 persone). Di questi sono uno sparuto numero, circa duemila, quelli che riescono ad ottenere un’occupazione al di fuori delle mura degli istituiti penitenziari. In percentuale sono però le donne quelle più attive, pur essendo il 4,5 per cento del totale dei detenuti, (circa tremila).
Eppure il lavoro in carcere è una “vaccinazione” contro il rischio di recidiva: se sono circa il 60 per cento i detenuti che tornano a delinquere, per quelli occupati mentre stavano scontando la pena, il rischio si dimezza (recidiva di circa il 30 per cento).
Lo sottolinea a Redattore Sociale il capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Giovanni Tamburino, a margine della presentazione oggi a Roma del progetto Sigillo (vedi lancio successivo). “Il lavoro in carcere è un vaccino perché il rischio di tornare nel circuito penitenziario si azzeri, garantisce infatti l’abbattimento della recidiva – sottolinea Tamburino . È un modo infatti di recuperare il condannato già durante la detenzione”.
Ma secondo il capo del Dap va incentivato in particolare il lavoro dei detenuti fuori dal carcere. A breve, grazie a un provvedimento del governo Monti che prevede finanziamenti e detrazioni fiscali alle imprese che portano lavoro negli istituti penitenziari, il numero dei carcerati impiegati all’esterno potrebbe raddoppiare passando da duemila a quattromila.
“La finalità è l’accesso delle imprese nel mondo penitenziario – continua – ed è un corrispettivo delle difficoltà che le imprese incontrano nel portare lavoro in carcere. Il secondo passaggio – aggiunge Tamburino – è la costruzione di un circuito penitenziario a custodia attenuata per i detenuti che devono scontare una pena breve o a basso rischio di pericolosità. In questi istituti il regime dei controlli e della chiusura dei cancelli sarebbe ridotto e agevolerebbe molto le imprese”. Un modello di questo tipo è già stato attivato in Sardegna nelle tre colonie penali sarde: Isili, Is Arenas e Mamone.
“Il punto di svolta dovrebbe essere quello di attività economiche arrivino ad ottenere un pareggio di bilancio. Per farlo si potrebbe partire dal riconsiderare la remunerazione del detenuto, che oggi è molto più alta rispetto ad altri paesi – aggiunge Tamburino – e riduce l’appetibilità delle imprese”. Infine il capo del Dipartimento torna a sottolineare l’importanza delle pene alternative: “Vanno rafforzate perché in un sistema che usa eccessivamente il carcere ed è pieno di effetti collaterali sono un’ottima medicina”.

Nasce “Sigillo” per qualità prodotti donne detenute

“Sigillo” è il marchio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), con cui si certificheranno la qualità e l’eticità dei prodotti realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni dei più affollati penitenziari italiani. A gestirlo sarà una vera e propria agenzia dedicata, che ne curerà le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato in una logica di brand: una novità assoluta per progetti d’intervento sociale da parte di un dicastero.
“Abbiamo voluto sostenere il progetto “Sigillo” – dichiara Luigi Pagano, vice capo del Dap del ministero della Giustizia – in quanto riteniamo che rappresenti la risposta alla volontà delle detenute, già da tempo impegnate nella realizzazione di attività lavorative all’interno dei diversi istituti, di aderire ad una vera e propria rete imprenditoriale che rappresenti un ponte in grado di proiettarle verso il mercato esterno”.
“Se davvero vogliamo creare occupazione, quindi anche “riabilitazione”, per le donne detenute, dobbiamo fornire nuovi strumenti professionali alle imprese sociali – ha aggiunto Luisa Della Morte, direttore dell’agenzia ‘Sigillò- affinché siano in grado di consolidarsi e crescere sul mercato. Per fare questo, però, bisogna abbandonare le logiche assistenzialistiche ed essere innovativi nelle proposte, individuando forme di dialogo tra profit e non profit”.
Ci sono voluti più di tre anni e mezzo di ricerche e di profonda conoscenza dell’effettivo stato dell’arte degli istituti penitenziari e delle sezioni femminili per portare a termine questo complesso progetto. A oggi, le donne detenute nel nostro Paese sono 2.847 (dati al 31 marzo 2013). Più della metà di loro sa cucire e solo il 5% può contare su vere e proprie opportunità lavorative offerte da aziende e imprese sociali. Numero che illustra, in maniera evidente, il disagio ancora oggi vissuto dalle donne all’interno di un’istituzione, quella carceraria, creta dagli uomini per gli uomini. Da qui la nascita di un marchio di genere.
“Il nostro primo obiettivo rimane l’incremento dell’offerta occupazionale per le donne detenute negli istituti penitenziari italiani, così che possano avviare quei percorsi di ‘riabilitazionè attraverso il lavoro che, lo dicono i dati, sono in grado di limitare al 10% il rischio di recidiva- evidenzia il direttore del progetto ‘Sigillò.
Purtroppo, però, le logiche di mercato e la rinnovata cultura sociale richiedono uno sforzo aggiuntivo. Occorre sperimentare nuove forme di armonizzazione e coordinamento delle esperienze presenti ed essere capaci di farle diventare azioni di un piano strategico d’intervento comune. Bisogna, poi, conclude, promuovere un modo di porsi, un linguaggio imprenditoriale, un modello di impresa sociale”.
Cinque le cooperative sociali che hanno firmato questo progetto e che si sono distinte per capacità imprenditoriali nel corso degli ultimi anni: – la coop. soc. Alice, capofila, attiva nelle carceri di S. Vittore e Bollate affiancata dalla coop. soc. Camelot; – la coop. soc. Uno di Due, titolare del brand Papili Factory, operante nell’ex carcere di Vallette, ora Lorusso Cotugno di Torino; – la coop. soc. Officina Creativa e 2nd Chance, artefici del successo del marchio “Made in Carcere” e operanti negli istituti penitenziari pugliesi di Lecce e Trani. Accanto a loro si colloca anche l’esperienza manageriale del Consorzio Sir di Milano e il supporto di due partner di eccezione: Banca Prossima e l’università Bocconi di Milano.

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