In un reportage uscito sull’ultimo numero dell’Internazionale Alessandro Leogrande ci racconta una storia che pensavamo seppellita nel passato della lotta di classe. In realtà i padroni, che la guerra per l’asservimento dei lavoratori la combattono e la vincono da trent’anni, nonostante l’aura di modernità con cui ama ammantarsi il capitalismo, certi attrezzi, ferocemente desueti, non li hanno mai messi in soffitta.
Il reparto confino è il luogo dove vengono “relegati i dipendenti ritenuti ‘facinorosi’, ‘ingovernabili’, ‘ingestibili’. Hanno la forma di palazzine non ristrutturate, o di spogli magazzini, o di uffici fino ad allora disadorni e che tali rimangono.
Ai lavoratori “confinati” non è chiesto di produrre, ma di passare le giornate senza fare niente, guardando il soffitto o girandosi i pollici, fino a quando quel lento, prolungato stato di inazione non diventa una forma estrema di violenza contro la propria mente e il proprio corpo. Il confinato vive in una condizione di perenne sospensione in cui la fabbrica finisce per apparirgli come un mondo a parte, che può essere osservato solo attraverso uno spioncino. In breve, il confinato diventa monito per tutti gli altri, per tutti quelli cioè che continuano a lavorare alla catena. Se non ti comporti bene, ecco cosa ti aspetta… Allo stesso tempo, chi è spedito in un reparto confino è costantemente esposto al ricatto di passare dal confinamento al licenziamento, di cadere dalla padella nella brace.”
I reparti confino sono una specialità Fiat. Negli anni cinquanta c’era a Torino l’OSR – Officina Sussidiaria Ricambi di corso Peschiera, soprannominata “Officina stella rossa. Qui finivano gli operai più combattivi. Più di recente, all’inizio degli anni Ottanta, dopo la sconfitta della lotta dei 35 giorni, alcuni operai prima del licenziamento subirono il confino.
Oggi è il turno di Pomigliano. In questo stabilimento Fiat la resistenza all’imposizione del modello Marchionne, il manager svizzero, proiettato a New York, ma con lo stesso piglio del vecchio Valletta, è stata molto forte. Il prezzo della sconfitta molto duro. Sono 316 gli operai che ogni giorno salgono sul pullman diretto al reparto confino di Nola.
Il reparto confino distrugge la dignità del lavoratore, lo isola dai suoi compagni di fabbrica, ne fiacca la resistenza. E’ come il carcere: devi andare, far passare il tempo che non passa sotto gli occhi dei sorveglianti. A differenza del carcere ruba solo otto ore della tua giornata. Come in carcere sono tanti queolli che non reggono e decidono di farla finita.
Maria Baratta, operaia di 47 anni lo scorso 21 maggio si è ammazzata colpendosi ripetutamente all’addome con un coltello. Era in cassaintegrazione da sei anni, 800 euro al mese di stipendio, una del reparto confino di Nola.
In un’intervista per il documentario “la fabbrica incerta” diceva: “a 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci”. (…)
“Dopo la sua morte, sono stati licenziati cinque operai che hanno protestato contro la dirigenza aziendale a Pomigliano. Si erano finti cadaveri, imbrattandosi di sangue e stendendosi sull’asfalto, dopo aver appeso a un palo della luce un manichino con la faccia di Marchionne.”
Vari altri operai e operaie della Fiat di Pomigliano, non hanno retto, qualcuno si è ammazzato, qualcuno ha anche sterminato la famiglia, secondo il sanguinoso rituale prevalentemente maschile che sta insanguinando l’Italia.
Nel suo articolo Leogrande ricorda il laminatoio LAF, il reparto confino istituito dalla famiglia Riva, quando prese possesso dell’ILVA. Nota inoltre che le vicende tragiche degli operai morti, piegati, malati costretti nei reparti di isolamento ci raccontano dell’Italia delle fabbriche, di quella dove ancora ci sono margini di resistenza, che la grande macina della precarietà e del caporalato non offrono.
Scrive ancora Leogrande “Al terrore dei “facinorosi” di ieri, si è sostituito il mito attuale della “governabilità” della fabbrica. Tutto ciò che è governabile può essere mantenuto in Italia. Tutto ciò che è “ingovernabile” dovrà necessariamente far posto ad altri stabilimenti, magari aperti in altri lidi e paesi. Nell’attesa, si creano delle falle: la lotta sotterranea tra governabilità e ingovernabilità passa attraverso l’antica tradizione dei reparti confino.
L’info di Blackout ne ha parlato con Marco Revelli, docente universitario e sociologo, che a lungo si è occupato della FIAT, dei reparti confino da Valletta ai giorni nostri.