Quarant’anni dopo il colpo di stato che distrusse i sogni di molti cileni, alcuni ex prigionieri della dittatura Pinochet, raccontano come venisse usata la musica per torturare i detenuti, per indebolirli e sfinirli psicologicamente.
Tra le preferite la colonna sonora di Arancia meccanica, celebre film di Kubrick in cui il protagonista in prigione è costretto ad ascoltare innumerevoli volte la Nona di Beethoven. Ma le guardie di Pinochet avevano anche gusti di genere ben diverso. Tra le hit più ricorrenti c’erano le canzoni di Julio Iglesias e My Sweet Lord di George Harrison che venivano messe ad altissimo volume per giorni.
La dottoressa Katia Chornik, ricercatrice della University of Manchester, ha studiato il fenomeno dell’uso della musica durante la dittatura in Cile nelle camere di tortura, nelle prigioni e nei campi di contramento. “Mettere musica, anche quella popolare, a tutto volume per giorni – spiega Chornik – era un modo che il regime usava per danneggiare psicologicamente e fisicamente i detenuti”.
E nella playlist della tortura c’era anche la canzone italiana Gigi l’amoroso di Dalida che, come racconta una ex prigioniera, veniva cantata dai suoi carcerieri mentre la portavano nella stanza degli interrogatori, dove poi veniva riprodotta continuamente da un giradischi.
Ma la musica era anche un modo per consolarsi. Alcuni detenuti hanno raccontato che ascoltando con una radio tascabile Without You di Harry Nilsson, Alone Again di Gilbert
O ‘Sullivan e Morning Has Broken di Cat Stevens si facevano coraggio prima della tortura.
La musica: veleno e medicina dei detenuti. La dottoressa Chornik afferma che molti prigionieri cantavano e che, nelle prigioni meno severe, potevano suonare ed esibirsi in piccoli show. Nella prigione di Tres Alamos, uno dei più grandi campi per detenuti politici del Cile, fu formato un coro. Quest’iniziativa, forse, servì per migliorare l’immagine della dittatura agli occhi del mondo o, com’è probabile, fu una trovata a uso e consumo della Commissione americana sui diritti umani che in quel periodo doveva visitare il campo di detenzione.
“La musica – sottolinea la ricercatrice – univa le persone, perché cantare e suonare era un modo per dialogare con le proprie sofferenze. Inoltre, serviva anche da testimonianza. Molti prigionieri infatti non esistevano ufficialmente e molti erano fatti sparire senza lasciare traccia. Le canzoni servivano per ricordare a quei prigionieri chi erano e in cosa credevano”.