Morì dopo l’arresto, l’ora del “corvo”

cordatesaSanremo – Una morte sospetta, una foto agghiacciante e un “corvo” in caserma. Tutto nasce lo scorso 5 giugno, a Riva Ligure. Il caso è quello di Kaies Bohli, 36 anni, pregiudicato tunisino, deceduto all’ospedale di Sanremo subito dopo l’arresto. Sono le 19.05, una telefonata anonima al 112 segnala uno spacciatore all’opera, i carabinieri si precipitano nel piazzale del supermercato Lidl di Riva Ligure, Bohli – vecchia conoscenza delle forze dell’ordine – si dà alla fuga mentre fa scivolare a terra i cento grammi di eroina che ha in tasca. Poi il guard-rail che non riesce a saltare, la caduta, il tentativo di sottrarsi all’arresto che sfocia in una colluttazione. I militari lo bloccano e lo caricano sull’auto di servizio.

La caserma è ad appena cinquecento metri, ma durante il breve tragitto Kaies accusa un malore e perde conoscenza. Un’ora e mezza più tardi, il tunisino muore al pronto soccorso. L’autopsia scarta una lunga serie di ipotesi, ma non stabilisce le cause del decesso. Due settimane più tardi all’ufficio smistamento delle Poste di Genova viene intercettata una busta con tre proiettili e un biglietto: «Questi sono per chi ha ucciso Kaies, la pagherà».

La storia è questa ed è una brutta rogna. Ma a distanza di poco più di un mese, si aggiunge un nuovo, inquietante elemento che ha indotto la Procura di Sanremo ad aprire un altro fronte investigativo. Quello dedicato al “corvo”. Ovvero il carabiniere, ancora in via di identificazione, che in quella drammatica serata del 5 giugno, nell’atrio della caserma, mentre i colleghi chiedevano l’intervento di un’ambulanza, ha scattato almeno una foto con un cellulare. L’immagine cui stanno ora lavorando gli inquirenti, è cruda: come può esserlo la scena di un giovane vittima di una grave insufficienza respiratoria. Sotto la testa una giacca ripiegata che gli fa da cuscino. Sullo zigomo destro un’ecchimosi, diverse escoriazioni su entrambi gli avambracci. «Segni compatibili con la dinamica dell’arresto», scriverà due ore dopo nel suo rapporto il medico legale. Una foto per documentare le condizioni del tunisino? Un’immagine da allegare alla relazione di servizio in attesa, nel caso, di trasmetterla alla polizia scientifica? No. Quello scatto resta senza un autore. Ma l’autore ha fatto di peggio: servendosi di un anonimo account di posta elettronica, ha inviato l’immagine a una serie di indirizzi (l’elenco è coperto dal segreto istruttorio) corredata da un commento: «Ecco come ha massacrato il tunisino», chiamando in causa uno dei due militari che avevano operato l’arresto. A quel punto, la vicenda dei proiettili e quella della foto, hanno indotto i vertici dell’Arma a procedere all’immediato trasferimento del carabiniere: ragioni di sicurezza, è scritto nella motivazione.

Il procuratore Roberto Cavallone, già alle prese con una inchiesta tanto delicata quanto spinosa (anche se non vi è conferma della presunta iscrizione dei due militari nel registro degli indagati), adotta la linea del silenzio: «Nel merito, non ho nulla da dire». Imbarazzo e tensione, invece, nell’Arma. Chi sapeva della foto? E quanto tempo è trascorso prima che ne venisse informata la Procura?

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