Dal 22 ottobre del 2009, data in cui è morto Stefano Cucchi, sono state 631 le persone detenute che hanno perso la vita nelle galere italiane. Centinaia e centinaia di cadaveri ignorati dalla giustizia e dai mass media. E forse non è solo una coincidenza.
631 decessi tra suicidi (spesso indotti) e malattie (spesso non curate). 631 persone detenute morte a causa di una pena degradante e disumana.
Tra loro, pochissimi sono i decessi inevitabili o imprevedibili. Se si analizzano le singole vicende, si scopre infatti che tante, troppe di quelle morti sono state causate dall’abbandono, dall’incuria, dalla negligenza e da un sistema carcerario capace solo di produrre maltrattamenti.
631 decessi, molti dei quali ben potrebbero integrare diverse ipotesi di reato. Omicidio colposo, omissione di soccorso o abbandono di persona incapace. Ipotesi di reato di cui però la cosiddetta giustizia non si è occupata e che sono rimaste impunite nell’indifferenza più assoluta.
Un’indifferenza che riguarda anche i cosiddetti organi di informazione. Muore un detenuto che chiedeva da mesi e mesi di essere curato? Si uccide un ragazzo di 20 anni sbattuto in una cella di isolamento? Risultato: un trafiletto su un giornale locale.
Morale. 631 persone detenute morte e una sola condanna. Quella che ha riguardato il caso del povero Cucchi. Tutt’altro che un caso isolato, che però viene trattato come tale. Ed è questa la vera vergogna di cui pochi si accorgono.
Ora sia chiaro. La morte di Cucchi deve ricevere un’adeguata risposta di giustizia. Ed è sacrosanto pretenderla. Ma il punto adesso è un altro. Il caso Cucchi è la prova della stortura italiana: l’apparenza. Diventa importante un singolo caso se è mediaticamente rilevante. E tutti quei 631 detenuti che sono morti in circostanze analoghe? Pazienza. La giustizia, l’informazione, e la conseguente indignazione dei cittadini, è dedicata a uno solo. Uno su 631.