Chi si dà fuoco, e non per scherzo, chi si impicca, chi ingoia pane sangue e bresaola, chi allaga la cella e brandisce cavi elettrici. Chi mena incendia nasconde lamette. Ma non è Alcatraz anni Venti, è il Beccaria 2014. In una cronaca degli ultimi dieci giorni d’inferno.
«Mi do fuoco, se mi condannano, mi do fuoco». Parole di rabbia disperata che affida, mentre aspetta la sentenza, alle guardie carcerarie. Non saranno solo parole: il verdetto, la condanna per un paio di furti e spaccio di sostanze stupefacenti, il rientro dentro il carcere minorile. Diciassette anni e un accendino, in cella: nessuno lo ferma o riesce a fermare. La promessa è mantenuta. J.A., tunisino, la mente attraversata da fantasmi e allucinazioni, trasforma sé e i suoi stracci in una torcia. Perde i sensi, finisce al Grandi Ustionati di Niguarda, le condizioni sono disperate. Giorni senza conoscenza. Il corpo ricoperto per il 70-80 per cento di ustioni di secondo e terzo grado. La sua sofferenza non giustifica più un piantonamento in ospedale, che dopo un paio di giorni viene revocato. E Jiulite è là: il suo corpo bendato fa da segnale luminoso alla discesa in quella piccola bolgia che l’istituto di pena per minori Cesare Beccaria non vorrebbe essere, ma combatte, per non esserlo, una battaglia troppe volte persa.
Storie e voci di dentro. Fresche, dal 20 novembre in poi, che, per motivi chiusi dentro la coscienza-incoscienza di quei 41 ragazzi al momento ospiti, segna un giorno spartiacque, una nuova alba di ostilità, aggressioni, episodi autolesivi, tentativi di suicidi. Il 20 novembre, e dopo un paio di settimane di minacce di suicidio, è J.A ad avvicinare il tentativo a un progetto riuscito. Poi, tre o quattro giorni dopo, ecco un giovane italiano (sigle del nome non pervenute). Ha diciassette anni e mezzo, è dentro per spaccio. Si impicca,senza dire un perché. Gambe e piedi danzano per qualche secondo nel vuoto, i compagni si accorgono, urlano, chiamano aiuto, ma intanto lo tengono su, riescono a staccare, persino prima dell’intervento della guardie, il laccio improvvisato stretto al collo. Il ragazzo finisce in un reparto di neuropsichiatria per tre o quattro giorni, lo si rimette in sesto. Poi torna al Beccaria. Gli agenti di custodia devono vigilare – ora il giovane è mal visto da tutta la sezione – che non siano altri a fargli del male. «Gliel’hanno giurata – dice una voce di dentro -, lo vogliono ammazzare di botte».
Sequenza inarrestabile. Su quarantuno ragazzi attualmente presenti (e dopo il trasferimento in massa di quattordici avvenuto proprio per allentare la tensione nei giorni scorsi), dodici di loro hanno problemi di tipo psichiatrico. Ma un centro clinico dedicato non c’è, uno psichiatra, in pianta stabile, non c’è. Ci sono una psicologa, un aiutante, e gli agenti: chiamati a supplire, sedare, improvvisare, evitare il peggio. In mensa,solo una settimana fa: un giovanissimo schizofrenico apre il suo panino con la bresaola, poi si taglia col coltello i polpastrelli, fa sgorgare il sangue, ci condisce il salume, richiude il panino, lo addenta. Davanti ai compagni. Quel ragazzo era stato inviato per tre volte al pronto soccorso, i suoi gesti di autolesionismo incontrollabili, «con la speranza – mette nero su bianco il Coordinatore regionale Sappe Lombardia per i minori, Iolanda Tortù – di un ricovero per Tso (che l’ospedale San Carlo si è rifiutato di fare)». Un calmante, invece gli avevano dato, poi via, si torna in carcere, fino alla bresaola insanguinata.
Di notte, al Beccaria, non va molto meglio: c’è chi si sveglia in preda a incubi mefistofelici. «Diceva che vedeva il diavolo e che voleva ammazzarsi», racconteranno i compagni di cella. Il ragazzo tira colpi cadenzati con il capo contro il muro. Gli agenti lo immobilizzano fino all’arrivo di un medico, da fuori, perché non si uccida a testate. Calci e pugni alle guardie, forse, sono eventi ordinari che scorrono nella quotidianità del Beccaria, ma chissà cosa passava per la testa di quel giovanotto, che – non avendo potuto suonarle a un altro – sputa e dà calci agli agenti e il giorno dopo si vendica freddamente: scardina le prese di corrente, estrae con perizia i fili, li prolunga, allaga la cella e si fa trovare con i cavi in mano, cercando improbabili trattative come in un telefilm di serie b. «O mi fate uscire o metto i fili elettrici in acqua». Con quale conseguenza, per lui? Probabilmente mortale. Per il carcere al collasso, il collasso dell’intero impianto elettrico.