Giustizia: morire di “morte incerta” nelle mani dello Stato

Hieronymus-Bosch-Un terzo per suicidio, un terzo per cause naturali e un terzo per ragioni da accertare. Sono 2.358 i prigionieri deceduti in Italia dal 2000 a oggi. Non solo in carcere, ma anche per strada, in caserma o in ospedale. Come insegnano i casi Aldrovandi e Cucchi. Morire di carcere  (ma non solo). Sebbene l’Italia nel giugno scorso sia stata parzialmente graziata dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul trattamento inumano e degradante nelle carceri, nel segreto della cattività si continua a morire. E non solo per suicidio. I conti, certosini, li ha fatti il giornale Ristretti Orizzonti di Padova, diventato un centro studi nazionale per ciò che avviene dietro le sbarre. Nel dossier Morire in carcere sono stati esaminati diversi casi dei 2.358 prigionieri deceduti dal 2000 a oggi (alcuni dei quali morti fuori dalle prigioni: nelle camere di sicurezza delle stazioni dei carabinieri o in ospedale, dopo l’arresto).

In media nelle galere muoiono ogni anno più di 150 persone: un terzo per suicidio, un terzo per cause naturali e un terzo per “episodi da accertare”.

Si tratta di morti sospette, che spesso non coincidono con le versioni ufficiali. Emerse grazie alle denunce di familiari, perizie mediche, fotografie, segnalazioni di testate locali, indagini giudiziarie, non sempre si trasformano, come nel caso di Stefano Cucchi, in battaglie per la ricerca della verità.

L’ultimo episodio in ordine cronologico riguarda un detenuto napoletano, Luigi Bartolomeo, a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari. Al momento in cui pagina99 è andato in stampa, Bartolomeo si trovava in coma all’ospedale Loreto Male di Napoli. Secondo i familiari sarebbe stato picchiato dalle forze dell’ordine.

La notizia è trapelata perché il procuratore aggiunto Luigi Frunzio e il sostituto procuratore Mario Canale hanno avviato un’indagine e sequestrato la sua cartella clinica per accertamenti. Evaso dalla detenzione domiciliare, il 21 ottobre, Luigi Bartolomeo è stato riportato nella sua abitazione dai carabinieri. Al secondo tentativo di evasione poche ore dopo, è stato arrestato nuovamente e, passata una notte in una camera di sicurezza, è stato condotto in tribunale, dove è stato condannato con rito direttissimo a un anno e mezzo di detenzione. Per poi finire all’ospedale a causa delle ferite provocate da lesioni e percosse.

Ancora non si sa, non si capisce cosa sia successo. I familiari accusano le forze dell’ordine, ma la versione ufficiale è che sia stato picchiato da due conoscenti nella sua abitazione. Di storie come queste – avvenute in circostanze poco chiare, però mai approdate nelle aule di tribunale – ce ne sono tante. Troppe per un Paese che si considera civile.

E, come spieghiamo nell’articolo pubblicato a fianco, servirà a poco introdurre il reato di tortura, se prima non si ha la possibilità di creare un varco nella cultura dell’omertà, nella pratica del rimpallo fra esponenti delle istituzioni, nella mancata trasparenza delle informazioni, in un maggior sforzo investigativo degli inquirenti.

Non sempre chi muore per maltrattamenti per mano dei rappresentati dello Stato lascia tracce che servano a ricostruire la dinamica dei fatti. Molti se ne vanno senza far rumore. Anche se ora le associazioni nate in difesa dei diritti dei cittadini più fragili, più esposti alle violenze, cominciano a essere numerose e cercano di ricostruire, anche a ritroso, cosa può accadere nelle camere di sicurezza o in una cella.

Il primo caso documentato di “morte incerta” dal dossier di Ristretti Orizzonti risale al dicembre del 2002. Un altro detenuto napoletano, Raffaele Montella, 40 anni, anche lui evaso dalla detenzione domiciliare, era stato portato nel carcere considerato fra i più violenti d’Italia, Poggioreale. Ai suoi familiari aveva detto: “Se torno in cella mi ammazzano”.

Due giorni dopo è stato ritrovato impiccato. Due mesi dopo, a Roma, a Rebibbia, Stefano Guidotti, 32 anni, si impicca alle sbarre del bagno. Tre compagni di cella danno l’allarme, ma la sezione scientifica dei carabinieri di Roma avvia un’indagine. Troppe lesioni sul volto, macchie di sangue sul pavimento della cella, e un cappio, ricavato da una cintura del pigiama, non abbastanza robusto per sostenere il peso del corpo.

E una sua lettera trovata fra gli effetti personali in cui Guidotti aveva descritto le speranze per un futuro migliore. Parole da cui non si deduceva alcuna voglia di alzare bandiera bianca, di arrendersi, di togliersi la vita. L’inchiesta giudiziaria è giunta solo al punto di chiedere accertamenti di rito per il suicidio.

Vittime ignote, anche se si conoscono i nomi. Indagini che non portano a nulla, spesso archiviate. E i sussurri degli agenti penitenziari, che qualche volta parlano dei corpi martoriati, soprattutto se stranieri e tossicodipendenti, che arrivano in carcere già segnati dalle percosse. Anche se poi le famose celle lisce di cui si parla da decenni si trovano ancora in molti istituti di pena.

Altro esempio: Mauro Fedele, 33 anni, muore per infarto nell’istituto di massima sicurezza di Cuneo, nel maggio del 2002. Il padre accusa gli agenti perché gli hanno riconsegnato un corpo pieno di segni scuri: sul collo, fra le cosce, sul petto, la testa fasciata. Sfogliando il dossier, nonostante le diverse condanne europee, i cambi avvenuti ai vertici dell’amministrazione penitenziaria – e direttori di carceri di una nuova generazione che affollano i convegni per parlare di rieducazione e reinserimento, le morti “incerte” non sono mai cessate.

Nell’ottobre del 2003 Marcello Lonzi, 29 anni, muore anche lui per collasso cardiaco, nel carcere di Livorno, dopo aver battuto la testa, cadendo. Ma le immagini della perizia medica destano sospetti inequivocabili: corpo e volto pieno di ferite.

La madre chiede aiuto, invano, al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Stava scontando una pena per tentato furto, in attesa di uscire grazie all’indultino. Così non si muore solo in carcere. Nel dossier curato da Ristretti Orizzonti, si raccontano 30 casi sospetti in sette anni, dal 2002 al 2009.

Il 27 ottobre del 2005 per esempio Maurizio Calabrese spira, dopo essere stato arrestato dai carabinieri di Salerno. Su di lui esiste solo una nota, del comando provinciale dei carabinieri, che registra la sua morte “per cause naturali”. Doveva essere processato per furto il giorno seguente. Gli anni passano, ma le pratiche non cambiano. Il 25 luglio del 2008, una madre disperata rende pubblica la lettera ricevuta dal carcere di Marassi dal figlio, Manuel Eliantonio, che aveva solo 22 anni, in cui aveva scritto: “Qui mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, sto male”.

Ufficialmente morto per un incidente, dovuto all’inalazione del gas da una bomboletta, la madre non hai mai creduto alla versione ufficiale per via dei lividi su una gamba e la ferita in fronte. La ricerca di Ristretti Orizzonti si ferma al 22 ottobre del 2009, con la morte di Stefano Cucchi, ma il centro di documentazione continua a raccogliere informazioni, grazie anche al contributo di Antigone, dei Radicali, di testate locali, avvocati, periti, parenti.

Fino al mese di novembre del 2014, i suicidi in carcere sono stati 38: dieci in meno rispetto al 2013. Quest’anno finora ci sono stati complessivamente 119 decessi. Un numero minore rispetto al 2013: 159. Il caso del detenuto napoletano, ora in coma all’ospedale, non è però isolato. Nelle statistiche penitenziarie dei morti nelle carceri nell’ultimo biennio, si trovano 23 casi da accertare nel 2013, 10 nel 2014.

Giugno 2013: il programma Radio Carcere di Radio Radicale comunica la notizia della morte di Walter Pichini, che arriva all’ospedale Sandro Pertini in coma, ma nessuno ne conosce il motivo. Il 10 settembre del 2013 muore nel carcere di Siena Resad Spuzic. Ufficialmente per infarto, cause naturali, ma in seguito è stata avviata un’indagine. Il 2013 si chiude con la lettera di Elisabetta Vargas su un quotidiano trentino in cui chiede chiarimenti sull’improvviso infarto del figlio, morto nel carcere di Trento, sepolto senza prima svolgere l’autopsia.

E nel 2014 si ricomincia. Infarti, cause naturali, malattie: decessi su cui si aprono indagini che poi si chiudono. Non tutti riconducono a una mano violenta, ma le cause sono ancora da verificare. Roberto Poropat, per esempio, 42 anni, morto l’11 agosto del 2014 nel carcere di Trieste. Il pubblico ministero Massimo De Bortoli ha disposto l’autopsia.

Lo scopo è quello di individuare le cause della morte. E capire se possano essere state riconducibili a eventi “non naturali”. “L’ho visto sabato scorso quando sono andata a fargli visita. Stava bene anche se era ingrassato”, ha raccontato, attonita, la madre. “Qualcuno potrebbe avergli fatto del male”.

A Civitavecchia, venerdì 4 aprile 2014, Fabio Giannotta, di 37 anni, muore intorno alle 10 e 30 nella sua cella. Denutrito, soffriva di disturbi mentali, assumeva degli psicofarmaci, era tossicodipendente e attendeva di essere trasferito in una comunità terapeutica. È stata disposta un’autopsia, ma la storia per ora è finita lì. Pochi giorni dopo Vito Bonanno, di 37 anni, detenuto in attesa di giudizio, muore nel carcere Pagliarelli di Palermo. Laconico il certificato della morte: arresto cardiocircolatorio.

Qualche volta, raramente, si arriva a un processo; spesso, quasi sempre, i procedimenti si concludono senza responsabili, tranne per qualche eccezione. Per il suicidio di Luigi Acquaviva, morto nel novembre del 2000 a Nuoro, otto agenti penitenziari sono stati processati per maltrattamenti, mentre per Giuliano Costantini, detenuto ad Ascoli e morto in ospedale nello stesso anno, il sostituto procuratore Umberto Monti aveva ipotizzato un decesso dovuto a un pestaggio, individuando anche l’agente responsabile.

Nel 2002 però la vicenda giudiziaria si è chiusa con la perizia dell’autopsia che individuava la causa della morte in un’infezione mal curata. Certo, sui morti ammazzati da pubblici ufficiali ci sono alcune eccezioni: per Federico Aldrovandi, ucciso all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara da agenti della polizia, la verità è emersa grazie alla tenace battaglia della madre.

Così è stato anche per Giuseppe Uva, massacrato in una stazione dei carabinieri, e per Riccardo Rasman, legato e incaprettato dopo un’irruzione nella sua casa da parte della polizia, solo per citare alcuni dei casi più nefasti.

L’ultimo è quello dell’ex calciatore fiorentino Riccardo Magherini, per il quale rischiano di andare a processo anche tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In carcere, dentro le celle, ci sono le morti incerte. Destinate, in maggioranza, a rimanere tali.

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