Giustizia: caso Lonzi “Mio figlio morto per cause naturali? Lo Stato mente”

DecessoManifestazione davanti alla camera per ricordare il caso di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere “Le Sughere”: come Stefano Cucchi. “Quando un figlio sano viene affidato allo Stato e ti viene restituito con otto costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e ti dicono che è morto per cause naturali, non è possibile accettare e farsene una ragione”. Queste le parole di Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere “Le Sughere” di Livorno. Un sit-in a piazza di Montecitorio organizzato dalla madre di Lonzi e  appoggiata dal sostegno di cittadini e politici (l’Associazione Il Detenuto Ignoto, Rita Bernardini Segretaria dei Radicali, Stefano Pedica del Pd e Sel Comune di Roma) per chiedere conto allo Stato sulle responsabilità legate alla morte del figlio e che il caso venga riaperto così come è stato per il caso di Stefano Cucchi. Maria Ciuffi espone pubblicamente le foto del corpo martoriato di Marcello e chiede attenzione da parte dei presidenti di Camera e Senato sulla vicenda che ad oggi, resta un altro giallo irrisolto.

Marcello Lonzi fu arrestato per un tentativo di furto e aveva quasi scontato gran parte della sua pena, ma quattro mesi dopo il suo arresto non è arrivato vivo nemmeno all’appuntamento con la libertà, perché l’11 luglio del 2003 è deceduto all’interno del carcere. La madre del ragazzo è stata avvertita solo il giorno dopo del decesso e nel referto è stata subito dichiarata la “morte per cause naturali dovute a infarto”.

Negli anni poi, due diverse procure hanno archiviato il caso Lonzi, a seguito delle dichiarazioni del Gip della Procura di Livorno, Rinaldo Meroni: “Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della Polizia Penitenziaria né di terzi”. Oggi, come già qualche anno fa, Maria si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per render nota la storia della morte di Marcello e portare la sua testimonianza all’attenzione dell’opinione pubblica.

Nel gennaio di quest’anno intanto, sulla vicenda è spuntato un testimone che ha depositato al Pm la sua versione dei fatti, ed ha consentito di riaprire il caso del trentenne morto a “Le Sughere”. Il testimone avrebbe infatti svelato l’esistenza di “celle bianche dove i carcerati vengono massacrati di botte”, e ricorda che accanto a lui c’era un detenuto che chiedeva aiuto e cercava un medico. La risposta ricevuta del poliziotto è images11stata: “vuoi che ti curiamo noi, come si è fatto al Lonzi?”.

Intanto dopo undici anni, il Giudice per le indagini preliminari Beatrice Dani, ha respinto la richiesta di un’ulteriore archiviazione del caso e ha disposto al Pm Antonio Di Bugno (titolare dell’ultima indagine) nuovi accertamenti per dare risposte alle ipotesi mosse dall’avvocato della madre di Lonzi, Erminia Donnarumma e dal consulente, il professor Alberto Bellucco. Nelle archiviazioni delle precedenti indagini infatti, era stata stabilita la morte per cause naturali dovuta a “sindrome della morte improvvisa con maggiori probabilità di aritmia maligna in soggetto portatore di ipertrofia ventricolare”.

I segni sul corpo di Marcello Lonzi sono stati chiari sin da subito, come raccontano i rilievi fotografici effettuati sul cadavere. Due buchi in testa, la mandibola fratturata e otto costole rotte, tutto lasciano pensare tranne che un semplice infarto. Così il professor Bellucco dichiara invece che si è trattato di: “morte asfittica da sommersione interna da vomito alimentare per conseguenze di politraumatismo e stress cardiocircolatorio”, e neanche sull’orario del decesso si è mai fatta chiarezza, perché la versione del carcere segna le 19.50 dell’11 luglio 2003, orario contestato da Bellucco secondo il quale Lonzi sarebbe morto intorno le 17:10.

Maria chiede giustizia per Marcello e non si arrende, come si legge anche dal suo profilo facebook in cui scrive ogni giorno: “Buongiorno amore mio, mi manchi”, lo scrive a quel figlio che non c’è più e di cui nessuno conosce, ancora oggi, le cause della sua morte.

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