Il 21 e il 22 novembre dovevano tenersi due incontri-dibattito sulla situazione in Medio Oriente, una a Monza al F.O.A. Boccaccio l’altra a Padova presso l’Aula di studio Galilei, con la partecipazione del compagno turco-belga Bahar Kimyongur, già attivo nel movimento della Tayad (Associazione familiari dei prigionieri politici turchi), già incarcerato e poi assolto in Belgio con l’accusa di far parte del gruppo comunista turco Dhkc-p e oggi protagonista a livello internazionale nel movimento contro l’aggressione alla Siria e, in particolar modo, contro le ingerenze della Turchia di Erdogan.
Una volta giunto all’aeroporto di Bergamo-Milano, il compagno è stato però prelevato immediatamente dalla Digos di Bergamo, portato in questura e attualmente si trova nel carcere di Bergamo.
Già lo scorso giugno, durante un normale viaggio in Spagna, Bahar era stato arrestato con richiesta di estradizione da parte della Turchia e poi rilasciato su cauzione. Oggi questo scenario pare ripetersi. Ai legali fino ad ora non è stata data nessuna informazione, da notizie sulla stampa apprendiamo che è stato arrestato su mandato di cattura internazionale richiesto dalla Turchia e che ci dovrebbe essere un’udienza per deliberare sulla validità del mandato.
L’assemblea tenutasi a Monza si è trasformata in momento per discutere su come mobilitarsi per richiedere l’immediata libertà di Bahar
Chiamiamo tutti i compagni e le compagne che hanno a cuore la causa della liberazione dei popoli, le forze attive nella lotta contro la guerra imperialista e la repressione, a mobilitarsi per la liberazione di Bahar. Dobbiamo impedire che lo stato italiano ripeta quanto già fatto con Ocalan e cioè consegni ai boia fascisti del regime turco un compagno la cui colpa è stata quella di schierarsi senza mezzi termini contro le barbarie della guerra imperialista, del fascismo turco e del colonialismo occidentale in Medio Oriente!
Lanciamo la proposta a tutti di mobilitarsi immediatamente in ogni città e di continuare le iniziative fino alla partecipazione, il 30 novembre a Torino, alla manifestazione nazionale a sostegno della Resistenza palestinese.
Sabato a Milano Presidio davanti al Consolato turco
ore 15.00 – Via Larga, 19
LIBERTA’ PER BAHAR!
MOBILITIAMOCI CON OGNI MEZZO NECESSARIO PER LA SUA LIBERAZIONE!
CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA E LA REPRESSIONE, ORA E SEMPRE RESISTENZA!
L’assemblea tenutasi il 21/11/2013 a Monza
Per scrivergli lettere, telegrammi cartoline
Casa Circondariale di Bergamo
- Indirizzo:
- Via Gleno, 61
- CAP:
- 24125
- Comune:
- Bergamo (BG)
Liberta’ per Bahar
Oggi Bahar Kimyongur sarebbe dovuto intervenire a Monza presso la FOA Boccaccio 003 per discutere con le compagne e i compagni presenti della repressione poliziesca che ha subito negli anni, della strategia turca in Medioriente, di quanto sta accadendo in Siria e della sua esperienza di esule. Non appena toccato il suolo dell’aereoporto di Orio al Serio (BG) è stato invece prelevato e portato in Questura a Bergamo, da cui poi è stato trasferito al carcere cittadino. Esprimiamo lui tutta la nostra solidarietà e vicinanza, mentre a chi si è mosso per zittire un importante voce del dissenso turco in Europa va il nostro biasimo e la nostra rabbia.
Le conseguenze non tarderanno a venire. In Italia e in Europa già voci di condanna si stanno sollevando, chiedendo una mobilitazione quotidiana fino a che Bahar non torni libero -di viaggiare, di parlare, di abbracciare famiglia e compagni- indirizzata ai mandanti e agli esecutori di questo rapimento: il clerofascista stato turco che ha fatto pressioni politiche, la NATO che ha monitorato e lo stato italiano che ha eseguito l’ordine di cattura.
Proprio verso questi soggetti si chiede di indirizzare le forme della mobilitazione e lo faremo con determinazione già questo sabato a Milano alle 15.00 in via Larga 19, presso il consolato turco, nonché Ente del turismo e sede della Turkish Airlines
Boccaccio, Cordatesa
CONOSCERE IL COMPAGNO BAHAR
Bahar Kimyongür, autore di Syriana, la conquête continue, Ed. Couleur Livres et Investig’action, 2011.
Nato il 28 aprile 1974 a Berchem-Sainte-Agathe, membro di una famiglia proveniente dalla Turchia, è un attivista politico belga, ed ha militato nel Partito del lavoro del Belgio, una formazione politica marxista-leninista.
Suo padre, un Turco della minoranza alawita araba, era arrivato in Belgio per lavorare come minatore nelle miniere di carbone di La Louvière, sua madre era una lavoratrice stagionale nelle piantagioni di cotone.
Bahar Kimyongür si è diplomato in archeologia e storia dell’arte presso l’Università libera di Bruxelles.
Bahar Kimyongür è stato oggetto dell’interesse dei mezzi di comunicazione a seguito di un procedimento giudiziario che lo ha visto protagonista, per essere uno dei primi imputati perseguiti secondo la legislazione anti-terrorismo. In buona sostanza, veniva accusato di terrorismo per avere tradotto dal turco in francese dei comunicati diffusi dal DHKP-C, un’organizzazione rivoluzionaria turca considerata come terrorista dallo Stato turco ed inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche dall’Unione europea in seguito agli avvenimenti dell’11 settembre.
Portato in giudizio sulla base della legislazione anti-terrorismo del Belgio, è stato condannato in primo grado di giudizio nel febbraio 2006 e in appello nel novembre 2006, poi assolto nel 2007 e nel 2009 a seguito delle sentenze di Cassazione che hanno annullato le sentenze precedenti.
È stato fatto oggetto di una richiesta di estradizione da parte della Turchia.
All’affare DHKP-C e al caso Kimyongür è stato dedicato il film “Résister n’est pas un crime – Resistere non è un crimine”, un documentario di Marie-France Collard, F.Bellali e J.Laffont, che ha conseguito il Premio Speciale della Giuria al Festival Internazionale del Film sui Diritti dell’Uomo (FIFDH) 2009 di Parigi.
Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali
di Bahar Kimyongür *
Fin dall’inizio della “primavera” siriana, il governo di Damasco ha affermato di combattere bande di terroristi. La maggior parte dei media occidentali denunciano questa tesi come propaganda di Stato, che serve per giustificare la repressione contro i movimenti di contestazione.
Mentre è evidente che questa tesi è sacrosanta per lo Stato baathista, di reputazione poco accogliente verso i movimenti di opposizione che sfuggono al suo controllo, questa supposizione non è nemmeno sbagliata. Effettivamente, molteplici elementi senza ombra di dubbio accreditano la tesi del governo siriano.
In primo luogo, esiste il fattore della laicità.
La Siria è in questo caso l’ultimo Stato arabo laico.(1) Le minoranze religiose godono dei medesimi diritti della maggioranza musulmana.
Per certe frange religiose sunnite, campioni dell’idea della guerra contro l’ « Altro», chiunque egli sia, la laicità araba e l’uguaglianza inter-religiosa, incompatibili con la sharia (legge islamica), costituiscono una ingiuria contro l’Islam e rendono lo Stato siriano più detestabile di un’Europa « atea» o « cristiana».
Ora, la Siria non ha meno di dieci diverse chiese cristiane, con sunniti che sono Arabi, Curdi, Circassi o Turcomanni, con cristiani non arabi come gli Armeni, gli Assiri o i Levantini, con musulmani sincretisti e quindi non classificabili, come gli Alawiti e i Drusi.
Pertanto, il compito per mantenere in piedi questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo.
Poi, esiste il fattore confessionale.
In ragione dell’origine del presidente Bachar El-Assad, il regime siriano è indebitamente descritto come « alawita». Questa qualifica è totalmente falsa, diffamatoria, settaria, vale a dire razzista. Innanzitutto è falsa, perché lo stato maggiore, la polizia politica, i diversi servizi di informazione, i membri del governo sono nella grande maggioranza sunniti, come pure una parte non trascurabile della borghesia.
I nostri media, per fare sensazione, non mancano di sottolineare l’origine sunnita della signora Asma al-Assad, moglie del presidente, con lo scopo di demonizzarla. Ma evitano deliberatamente di citare la vice-presidente della Repubblica araba di Siria, la signora Najah Al Attar, la prima ed unica donna araba al mondo ad occupare una carica così elevata. La signora Al Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli musulmani, esempio emblematico del paradosso siriano.
In realtà, l’apparato statale baathista è il riflesso quasi perfetto della diversità etnico-religiosa che prevale in Siria. Il mito a proposito della « dittatura alawita» è talmente grottesco, che perfino il Gran Mufti sunnita, lo sceicco Bedreddine Hassoune, ed ancora il comandante della polizia politica Ali Mamlouk, anch’egli di confessione sunnita, sono a volte classificati come alawiti dalla stampa internazionale. (2)
La cosa più strabiliante è che questa stampa medesima porta acqua al mulino di certi mezzi di informazione siriani salafiti (sunniti ultra-ortodossi), che diffondono la menzogna secondo cui il paese sarebbe stato usurpato dagli alawiti, che, secondo loro, sarebbero agenti sciiti.
Questi stessi salafiti accusano gli sciiti di essere negazionisti (Rawafid, Sciiti estremisti eretici, che maledicono i Compagni), perché rifiutano, tra le altre cose, la legittimità del Califfato, vale a dire del governo sunnita delle origini dell’Islam.
Tuttavia, da un lato, vi sono notevoli differenze tra alawiti e sciiti, sia sul piano teologico che nelle pratiche religiose. Nello specifico, la deificazione di Ali (nipote di Maometto), la dottrina trinitaria, la credenza nella metempsicosi, ed inoltre il rifiuto della sharia da parte degli alawiti sono fonti di critiche da parte dei teologi sciiti, che non mancano mai di accusarli di estremismo (ghulat).
D’altro canto, se esiste una religione di stato in Siria, questa è l’Islam sunnita di rito hanafita, rappresentato fra gli altri dallo sceicco Muhammad Saïd Ramadan Al Bouti e dal Gran Mufti della Repubblica, lo sceicco Badreddine Hassoune, i cui saggi discorsi contrastano con gli appelli all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhabiti.
[l’Islam sunnita di rito hanafita fa riferimento alla scuola giuridica che è considerata essere la più “aperta” e meno dogmatica fra le quattro scuole canoniche (madhab) sunnite (le altre tre sono: la shafiita, la malikita e la hanbalita)]
Ma tutto questo non importa, per spiegare l’alleanza contro gli Stati Uniti e contro il sionismo formata dall’asse Damasco – Teheran – Hezbollah, la stampa e i mezzi di informazione agli ordini dei sunniti ultra-conservatori ripetono in coro che la Siria è sotto il dominio degli alawiti, che costituirebbero una « setta sciita».
Visto che la Siria riceve l’appoggio della Cina, della Russia, del Venezuela, di Cuba, del Nicaragua e finanche della Bolivia, logicamente bisognerebbe concludere che Hu Jintao, Putin, Chavez, Castro, Ortega e Morales sono essi stessi degli alawiti, o almeno dei cripto-sciiti!
Per terzo, esiste il fattore nazionalista.
Conviene ricordare che per i salafiti la Siria proprio non esiste.
Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilad al Rafidaïn (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilad al-Cham (la terra di Cam).
Colui che adotta l’ideologia nazionalista, e si consacra alla liberazione del suo paese, commette un peccato di associazione (shirk, politeismo, l’associare all’unico vero Dio una pletora più o meno vasta di altre divinità, ad esempio l’idea di nazione, costituisce uno dei più gravi peccati). Egli viola il principio del tawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte.
Per questi fanatici, la sola lotta approvata da Allah è la jihad, la guerra definita « santa», scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam.
In quanto corollario del nazionalismo arabo, il pan-arabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di «Umma», la madre patria musulmana.
Come ha ricordato di recente il presidente Bachar El-Assad in un’intervista accordata al giornale Sunday Telegraph, la lotta che si sta scatenando attualmente sul suolo siriano vede opposte due correnti inconciliabili fra loro : il pan-arabismo e il pan-islamismo (3).
Questo conflitto originale introduce un fattore storico, su cui si fonda la minaccia terroristica in Siria. Dal 1963, la Siria baathista conduce in realtà una vera e propria guerra contro i movimenti jihadisti. L’esercito governativo e i Fratelli musulmani si sono affrontati in numerosi scontri, che si sono tutti risolti con la vittoria del potere siriano.
Queste vittorie sono state strappate al prezzo di molte vittime, l’esercito non ha esitato a seminare il terrore per raggiungere i suoi scopi. Nel 1982, l’esercito di Hafiz al-Assad ha martellato interi quartieri della città di Hama per superare la resistenza jihadista, massacrando senza distinzione militanti e civili innocenti. Ci sono stati almeno 10 mila morti causati dai bombardamenti e negli scontri per le strade. Si sono susseguite delle vere e proprie cacce all’uomo lanciate contro i Fratelli musulmani siriani attraverso tutto il paese, costringendoli all’esilio. Comunque, la repressione non è ancora riuscita a sradicare la tradizione guerriera e nemmeno lo spirito di vendetta degli jihadisti siriani.
Ora, analizziamo paese per paese quali sono i movimenti terroristici che le truppe siriane stanno attualmente affrontando.
Il fronte libanese
Nell’aprile 2005, l’Occidente si è rallegrato nel vedere le truppe siriane abbandonare il Libano, dopo 30 anni di presenza ininterrotta.
Questo evento era stato attivato dall’attentato che aveva preso di mira l’ex primo ministro libanese-saudita Rafiq Hariri noto per la sua ostilità verso la Siria, attentato immediatamente imputato dall’Europa e dagli Stati Uniti al regime di Damasco, senza la minima prova e prima dell’inizio di una qualsiasi inchiesta.
Una « rivoluzione dei Cedri», sostenuta dai laboratori « per i diritti dell’uomo» della CIA, aveva costretto le truppe siriane a lasciare il Libano.
Appena i carri armati siriani si erano ritirati, i gruppi salafiti sono riemersi, sguainando le loro spade e la loro predicazione settaria.
Questi movimenti si sono insediati nel nord del Libano, dalle parti di Tripoli di maggioranza sunnita, e poi, via via, nei campi palestinesi del Libano, profittando delle divisioni politiche e della debolezza militare delle organizzazioni palestinesi, così come della politica di non-intervento dell’esercito libanese in questi campi.
Tra il 2005 e il 2010, i gruppi jihadisti hanno condotto la guerra contro tutti i sostenitori veri o presunti del regime di Bashar al-Assad, come le popolazioni sciite, alawite o i militanti diHezbollah. Alcuni di questi movimenti sono arrivati a varcare il confine siro-libanese per bersagliare le truppe del potere baathista sul loro stesso territorio.
L’attivismo anti-siriano dei gruppi salafiti libanesi armati ha conosciuto una recrudescenza con l’inizio della crisi siriana del 2011.
Comunque, queste formazioni sono state soppiantate da movimenti salafiti non combattenti. Il 4 marzo 2012, circa duemila salafiti guidati da Ahmad Al Assir, un predicatore della città di Saïda (Sidone) divenuto la stella in auge del sunnismo libanese, sfilavano a Beirut per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. Dietro un imponente cordone di sicurezza composto da poliziotti e militari, alcune centinaia di contro-manifestanti del partito Baath libanese protestavano contro la parata.
Da Aarida a Naqoura, tutto il Libano ha trattenuto il respiro. E il suo cuore si stringe ogni volta che spari risuonano dai quartieri di Tripoli di Bab Tebbaneh e Jebel Mohsen.
Dal momento che in questo paese la linea di frattura politica è prevalentemente confessionale, con una maggioranza sunnita anti-Assad e una maggioranza sciita pro-Assad, ed inoltre con i cristiani divisi che si ritrovano nei due campi, l’assillo della guerra civile è onnipresente. Ma il governo di unità nazionale cerca di calmare le acque e di garantire la neutralità rispetto al conflitto siriano.
Per questo, certi gruppi salafiti non perdono nemmeno un’occasione per seminare il caos in questi due paesi geograficamente inter-dipendenti e complementari.
Ecco una breve descrizione di alcuni di questi movimenti settari attivi in Libano, che minacciano la Siria da molti anni.
Gruppo di Sir El-Dinniyeh
Questo movimento sunnita, diretto fra il 1995 e il 1999 da Bassam Ahmad Kanj, un veterano delle guerre in Afghanistan e in Bosnia, è apparso in seguito alle lotte fra differenti correnti islamiche tendenti a controllare le moschee di Tripoli.
Nel gennaio 2000, il gruppo di Dinniyeh ha tentato di creare un mini-Stato islamico nel Nord del Libano. I miliziani hanno assunto il controllo dei villaggi del distretto di Dinniyeh, ad est di Tripoli. 13.000 soldati libanesi sono stati inviati per domare questa ribellione jihadista. I sopravvissuti all’attacco si sono trincerati nel campo palestinese di Ayn el Hilwe, nel Libano meridionale.
Dopo il ritiro delle truppe siriane, nell’aprile 2005, i combattenti del gruppo di Dinniyeh sono tornati a Tripoli, dove esistevano ancora delle cellule clandestine.
Lo stesso anno, il Ministro degli Interni libanese ad interim, Ahmed Fatfat, che è appunto originario di Sir El-Dinniyeh e che, per altro, ha la cittadinanza belga, si è battuto per la liberazione dei prigionieri del gruppo di Dinniyeh, e questo con lo scopo di ottenere l’appoggio politico dei gruppi sunniti e salafiti del Nord del Libano.
Fatah al Islam
Movimento sunnita radicale del Nord del Libano. Fatah al Islam ha letteralmente occupato la città di Tripoli con la complicità di Saad Hariri e del suo partito, la Corrente del Futuro.
Hariri voleva servirsi di questi sunniti radicali per contrastare gli Hezbollah sciiti libanesi e il governo siriano.
Tra gli alleati di Hariri, il gruppo chiamato « Fatah el Islam», dissidente del movimento nazionale palestinese, ha assunto il controllo del campo di Nahr El Bared. Questo movimento terrorista ha assassinato 137 soldati libanesi in maniera brutale, soprattutto durante riti satanici che si concludevano con decapitazioni.
Il 13 febbraio 2007, Fatah el Islam ha fatto saltare in aria due autobus nel quartiere cristiano di Alaq-Bikfaya.
Dal maggio al settembre 2007, l’esercito libanese poneva l’assedio al campo palestinese di
Nahr el Bared, dove i combattenti jihadisti si erano rintanati, e solo dopo intensi combattimenti degni dell’operazione siriana di Baba Amro riusciva a neutralizzarli.
[Contro il quartiere ribelle Baba Amro della cittadina di Homs, l’1 marzo 2012 Damasco avrebbe schierato la quarta divisione armata, formazione di 7 mila uomini di élite guidata dal fratello di Bashar Al Assad, nel tentativo di infliggere un attacco decisivo a penetrare la roccaforte dei rivoltosi.]
Non meno di 30.000 Palestinesi sono fuggiti dai combattimenti. Per quanto riguarda il campo di Nahr el Bared, venne ridotto in macerie.
Pochi mesi dopo, Fatah al Islam veniva coinvolto in un attentato mortale che scuoteva Damasco.
Infatti, il 27 settembre 2008, il santuario sciita di Sayda Zainab a Damasco diventava l’obiettivo di un attacco suicida che uccideva 17 pellegrini.
Fatah Al Islam è spesso citato quando scoppiano combattimenti a Tripoli tra il quartiere sunnita di Bab Tabbaneh e il quartiere alawita di Djébel Mohsen.
Jounoud Al Cham (I soldati del Levante)
Movimento radicale sunnita nel sud del Libano, dalle origini diverse.
Alcuni dei suoi membri sarebbero arrivati dal gruppo di Dinniyeh, mentre altri sarebbero veterani dell’Afghanistan, avendo combattuto sotto il comando di Abou Moussab Al Zarqawi.
La maggior parte dei suoi combattenti sarebbero Palestinesi « takfiri», vale a dire in conflitto contro le altre religioni e i non credenti.
Jounoud Al Cham sarebbe responsabile di un attentato nel 2004 a Beirut, che ha ucciso un dirigente di Hezbollah.
Per diversi anni, il gruppo ha cercato di assumere il controllo del campo palestinese di Ain el Hilwe situato vicino alla città di Sidone.
Nel 2005, il gruppo fa parlare di sé per le sue scaramucce quotidiane con l’esercito siriano. Jounoud al-Sham si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche pubblicata dalla Russia. Tuttavia, non si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti(4).
Ousbat Al Ansar (la Lega dei partigiani)
Presente sulla lista delle organizzazioni terroristiche, Ousbat al-Ansar si batte per « istituire in Libano uno Stato sunnita radicale».
Noto per le sue spedizioni punitive contro tutti i musulmani « devianti», Ousbat al-Ansar ha fatto assassinare personalità sunnite come lo sceicco Nizar Halabi. Per lo stesso motivo, ha fatto saltare in aria strutture pubbliche giudicate empie: teatri, ristoranti, discoteche…
Nel gennaio 2000, ha attaccato a colpi di razzi l’ambasciata russa a Beirut.
Erede del gruppo di Dinniyeh, questa formazione si infiltra nel campo palestinese di Ain el Hilwe nel Libano meridionale.
Quando, nel settembre 2002, ho visitato i campi palestinesi del Libano, l’inquietudine dei resistenti palestinesi era palpabile. Molti di loro erano stati uccisi durante i tentativi di assunzione del controllo dei campi da parte di questo gruppo, considerato essere vicino ad Al Qaeda.
Nel 2003, quasi 200 membri di Ousbat Al Ansar hanno attaccato le sedi di Fatah, il movimento palestinese di Yasser Arafat, causando la morte di otto persone, di cui sei membri di Fatah.
Il mito dell’Esercito Siriano Libero (ASL)
Bisogna riconoscerlo: i cacciatori di dittatori che popolano le redazioni delle grandi testate giornalistiche sono diventati abilissimi nell’arte del camuffamento, quando si tratta di presentare i « resistenti» che servono gli interessi del loro campo.
Nei panni di veri chirurghi estetici, trasformano l’Esercito Siriano Libero (ASL) in un movimento di resistenza democratica di bravi e simpatici militanti, composto da disertori umanitari disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare siriano.
Non c’è dubbio alcuno che l’esercito del regime baathista non va tanto per il sottile, e commette imperdonabili abusi contro i civili, che costoro siano terroristi, manifestanti pacifisti o semplici cittadini presi fra due fuochi.
A questo riguardo, gli importanti mezzi di comunicazione ci colmano fino alla nausea dei crimini imputabili alle truppe siriane, qualche volta a ragione, ma sovente a torto. Perché, in termini di crudeltà, l’ASL non si comporta veramente meglio.
Solo qualche raro giornalista, come l’olandese Jan Eikelboom, osa mostrare il rovescio della medaglia, quello di un ASL sadico e ignominioso.
Anche la corrispondente a Beirut di Spiegel, Ulrike Putz, scalfisce la reputazione dell’ASL. In un’intervista pubblicata sul sito web del settimanale tedesco, Ulrike Putz ha evidenziato l’esistenza di una « brigata di becchini» incaricati dell’esecuzione dei nemici della loro sinistra rivoluzione a Baba Amr, il quartiere di Homs, insorto e poi ripreso dall’esercito siriano. (5)
Un massacratore intervistato da Der Spiegel attribuisce alla sua brigata di beccamorti da 200 a 250 esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo delle vittime della guerra civile siriana dello scorso anno.
Per quanto riguarda le agenzie umanitarie, è stato necessario attendere la data fatidica del 20 marzo 2012 perché un’eminente Organizzazione Non Governativa, vale a dire Human Rights Watch, la cui denominazione tradotta significa esattamente « Sentinella dei Diritti Umani», finalmente riconoscesse le torture, le esecuzioni e le mutilazioni commesse dai gruppi armati che si oppongono al regime siriano. Dopo 11 mesi di terrorismo degli insorti … Alla buon’ora dell’infallibile « sentinella» ! « Sah Al Naum», come si dice in arabo a qualcuno che si risveglia.
Passiamo ad altre informazioni, che vanno ad intaccare ancor di più la reputazione di questo Esercito siriano libero e dei suoi sostenitori atlantisti.
Secondo fonti militari e diplomatiche, l’ASL, questo esercito di cosiddetti « disertori», sarebbe carente di effettivi militari. Per ovviare a questa carenza di combattenti, l’ASL arruolerebbe dei salafiti, senza andare tanto per il sottile. Questo è il caso del battaglione dell’ASL « Al Farouq», che si è reso celebre per i suoi rapimenti di ingegneri civili e di pellegrini iraniani, per i suoi metodi di tortura e per le sue esecuzioni sommarie.
La difficoltà di reclutare soldati di leva provenienti dall’esercito regolare è dopo tutto abbastanza logica, dato che un disertore è per definizione un uomo che abbandona il combattimento. Disertare significa abbandonare la guerra. Nel caso siriano, numerosi disertori abbandonano il paese e si costituiscono come rifugiati.
La propaganda di guerra occidentale afferma che se costoro abbandonano l’esercito o non rispondono alla chiamata alle armi, questo avviene perché si rifiutano di uccidere manifestanti pacifici. In realtà, queste giovani reclute temono tanto di ammazzare quanto di venire ammazzate.
Essi devono affrontare un nemico invisibile, rotto alle tecniche della guerriglia, che spara alla cieca indifferentemente contro i favorevoli o i contrari al regime, e che non esita a liquidare i suoi prigionieri secondo un sordido rituale di decapitazioni e smembramenti.
Il terrore che ispirano questi gruppi armati dissuade legittimamente numerosi giovani dal rischiare la loro vita circolando in uniforme. Ecco che allora fanno la scelta di abbandonare l’esercito regolare e il paese.
Per esempio, i disertori Curdi siriani si rifugiano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Soprattutto a Erbil, in un quartiere popolato da Curdi siriani, che per questo è stato soprannominato « la piccola Qamishli». [Qamishli è una città della Siria, a maggioranza curda e assira.]
Altri raggiungono i campi di rifugiati in Iraq, Libano, Turchia o Giordania.
Il termine « disertore», che serve a designare i militari che hanno fatto diserzione per raggiungere il campo avverso e sparare contro i loro vecchi camerati, risulta dunque inappropriato in questo caso. Sarebbe più corretto definire « transfughi» questi rifugiati.
Ecco un’analisi di Maghreb Intelligence, un’agenzia che non può essere sospettata di collusione con il regime di Damasco, e che sostiene la tesi della smobilitazione dei giovani di leva, della debolezza dell’ASL e della presenza di salafiti armati presenti negli scontri :
«Secondo un rapporto proveniente da una ambasciata europea a Damasco e corroborato da inchieste condotte da centri ricerca francesi alla frontiera turca, l’Armata Libera Siriana – ASL – nel suo complesso non conterebbe più di 3000 combattenti. Costoro sono per la maggior parte armati di fucili da caccia, di Kalachnikov e di mortai di fabbricazione cinese provenienti dall’Iraq e dal Libano. Secondo questo documento, l’ALS non è stata in grado di arruolare la maggioranza dei ventimila militari che avrebbero disertato dall’esercito di Bachar Al Assad. D’altro canto, l’ALS è particolarmente presente nei campi di rifugiati insediatisi sul territorio della Turchia.
A Hama, Deraa e Idlib, sono soprattutto gruppi armati salafiti che si contrappongono all’esercito siriano. Questi salafiti, particolarmente violenti e determinati, provengono per la maggior parte dai movimenti sunniti radicali attivi in Libano» (6).
Oltre ad essere spietato, infiltrato da gruppi settari e in carenza di effettivi, l’Esercito Siriano Libero è disorganizzato. Non presenta una direzione centrale ed unificata. (7)
Numerose indicazioni, tra cui importanti sequestri di armi condotti presso diversi posti di frontiera del paese, dimostrano che l’ASL riceve armi dall’estero e questo, sin dall’inizio della rivolta, veniva smentito dall’ASL, prima di arrivare a chiedere apertamente un intervento militare straniero sotto forma di bombardamenti, di supporto logistico, o la creazione di zone cuscinetto.
Allo scoppio dell’insurrezione, il gruppo dissidente armato, ovviamente, non voleva fornire l’immagine di una quinta colonna che agisce per conto di forze straniere, nemmeno compromettere i suoi generosi mecenati, che comunque si possono indovinare. Ci si dovrà ricordare che nel documentario di propaganda anti-Bashar realizzato da Sofia Amara, dal titolo «Siria: Permesso di uccidere», e diffuso dalla catena televisiva franco-tedesca Arte nell’ottobre 2011, un soldato dell’ASL stava per rivelare i suoi rifornitori stranieri, quando un suo superiore gli intimava di tacere.
Il fronte giordano
La fedeltà della monarchia hashemita a Washington e a Tel Aviv è ormai un luogo comune.
Per soddisfare i suoi alleati, la Giordania è stata anche il primo regime arabo ad invitare Bashar el-Assad ad abbandonare il potere.
Il 22 febbraio 2012, il corrispondente de Le Figaro, Georges Malbrunot, rivelava che la Giordania aveva acquistato dalla Germania quattro batterie anti-missili Patriot usamericani « per proteggere Israele contro possibili attacchi aerei condotti dalla Siria.» (8) Questi missili sarebbero stati installati ad Irbid, non lontano dal confine siriano.
Già nel 1981, questa Monarchia, sicura alleata degli Stati Uniti, aveva consentito all’aviazione da guerra di Israele di violare il suo spazio aereo per andare a bombardare il reattore nucleare iracheno di Osirak.
In politica interna, la Giordania non mostra un atteggiamento più progressista. Anzi, per decenni, Amman ha incoraggiato i Fratelli musulmani secondo un calcolo politico motivato dal desiderio di sradicare il nemico principale, vale a dire l’opposizione laica di sinistra (comunista, baathista e nasseriana).
Secondo M. Abdel Latif Arabiyat, ex ministro ed ex portavoce del Parlamento giordano :
« I Fratelli musulmani non rappresentano un’organizzazione rivoluzionaria, ma esaltano la stabilità.
Con l’ascesa al potere dei partiti nazionalisti e di sinistra, noi abbiamo stipulato un’alleanza informale con le autorità» (9).
Nel 1970, i Fratelli musulmani si sono schierati con la Monarchia quando il re Hussein ordinava l’annientamento dei Fédayins palestinesi. La Fratellanza musulmana non ha detto una parola di fronte al massacro del « Settembre Nero», in cui furono massacrati circa 20 mila Palestinesi.
Da questa strategia di manipolazione dei Fratelli musulmani in Giordania, in ultima analisi, sono costoro a risultare i vincitori, visto che attualmente costituiscono il principale movimento di opposizione nel paese.
Per il Regno hashemita, i Fratelli musulmani rappresentavano un male minore rispetto sia alla sinistra, ma anche in relazione ai movimenti jihadisti. Questo matrimonio di interesse non è durato per tanto tempo. E alla fine, la Monarchia si è vista costretta a reprimere un movimento diventato troppo potente. Nel frattempo, la Giordania ha subito diversi attentati terroristici.
Nel 2005, sono alcuni alberghi della capitale Amman ad essere presi di mira da gruppi salafiti.
Abou Moussab Al Zarqawi, l’ex capo di Al Qaïda in Iraq, lui stesso è originario di Zarqa, una città giordana situata a nord-est di Amman.
La rivolta contro il regime siriano è scoppiata a Deraa, una città del sud della Siria vicina al confine con la Giordania, ed ha risvegliato gli appetiti di conquista delle fazioni jihadiste di base in Giordania, che si erano ben moderate in seguito alle numerose perdite subite all’interno dei ranghi di Al Qaïda. Fra le altre, troviamo la Brigata Tawhid, una piccola formazione armata jihadista formata da parecchie decine di combattenti, in precedenza attivi all’interno di Fatah Al-Islam, che si inflitrano in Siria per attaccare l’esercito governativo. (10)
Il portale giordano di informazioni liberal Al Bawaba rivela che la città di confine di Ramtha accoglie mercenari libici pagati dall’Arabia Saudita e dal Qatar.
D’altronde, essendo situato tra la Siria e l’Arabia Saudita, il Regno hashemita costituisce un passaggio obbligato per tutti gli jihadisti, gli istruttori e i convogli militari inviati da Riyad.
Il fronte saudita
Sull’esempio del Regno hashemita, la lealtà della dinastia Saud allo Zio Sam non è un segreto per nessuno, e questo dal momento del Patto di Quincy firmato sull’incrociatore americano (il Quincy, da cui il nome del Patto) tra Roosevelt e Saud Bin Abdulaziz nel febbraio del 1945.
Questo accordo avrebbe permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvigionamento energetico senza ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in modo particolare il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati sotto l’influenza sovietica.
Allo scoppio della crisi siriana, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita stavano festeggiando le loro « nozze di gelsomino» per i loro 66 anni di vita insieme, sigillando il più grande contratto di armamenti nella storia : 90 miliardi di dollari, che prevedono la modernizzazione della marina e dell’aviazione da guerra saudite.
Come si può immaginare, lo Stato wahhabita non poteva restava immobile di fronte agli eventi che stanno scuotendo la Siria, un paese faro del nazionalismo arabo ed inoltre amico dell’Iran, nemico giurato dei Sauditi.
Riyad alimenta il terrorismo anti-siriano attraverso diverse modalità: diplomatiche, economiche, religiose, logistiche e, ben s’intende, militari.
La Casa di Saud ha sponsorizzato gli jihadisti attivi in Siria, incoraggiandoli attraverso i suoi strumenti di propaganda, e accreditandoli a mettere il paese a ferro e fuoco.
Ad esempio, dopo aver autorizzato la jihad in Libia, e aver invocato l’eliminazione di Mouammar Gheddhafi, lo sceicco Saleh Al Luhaydan, una delle più prestigiose autorità giuridiche e fatalmente religiose del paese, si è dichiarato favorevole allo sterminio di un terzo dei Siriani per salvarne gli altri due terzi.
Sulla emittente televisiva saudita Al-Arabiya TV, il predicatore Aidh Al-Qarni ha dichiarato che «Ammazzare Bashar è più importante dell’ ammazzare Israeliani!» (11)
È sempre da Riyadh, e attraverso la catena relevisiva Wessal TV, che Adnan Al Arour ha lanciato un appello per fare a pezzi gli Alawiti e dare la loro carne ai cani.
Le recenti dichiarazioni cristianofobe dello sceicco Abdul Aziz bin Abdullah, riportate da Arabian Business, sicuramente non giungono a rassicurare i Cristiani di Siria : sulla base di un hadith (narrazione secondo la tradizione orale) che riporta la dichiarazione del profeta Maometto sul letto di morte, «non dovranno esserci due religioni nella penisola arabica», lo sceicco saudita Abdullah, la massima autorità wahhabita al mondo, ne deduce che è necessario distruggere «tutte le chiese presenti nella regione». I Cristiani di Siria, prede dell’odio religioso, trovano in questa affermazione un motivo in più per sostenere Bashar al-Assad.
Molti sono i cittadini siriani ostili al regime di Bashar Assad, che tuttavia si preoccupano del padrinato del loro movimento democratico da parte di una teocrazia, che ancora decapita le donne accusate di stregoneria, che tortura i suoi oppositori politici nelle prigioni, e che non riconosce né un Parlamento né elezioni.
Sotto il sole di Riyadh esiste anche Bandar, che non ha bisogno di presentazioni.
Il suo ruolo torbido negli attentati di Londra, nel finanziamento di gruppi armati salafiti rivendicato dall’interessato, le sue collusioni con il Mossad, il suo odio verso Hezbollah, verso la Siria e l’Iran fanno del principe saudita Bandar bin Sultan, segretario generale del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, un elemento fondamentale del piano per distruggere la Siria laica, multiconfessionale, sovrana e non sottomessa.
Non vi è quindi alcun motivo reale per essere sorpresi quando la dittatura saudita si è impegnata ad aiutare il suo vicino e rivale Qatar nel pagare gli stipendi ai mercenari anti-Siriani, in occasione della riunione degli “Amici della Siria” ad Istanbul.