Pubblichiamo un’interessante intervista a Salvatore Verde, autore del libro “Il carcere manicomio” uscito per Sensibili Alle Foglie. Siamo abbastanza d’accordo su quanto espresso dall’autore se non fosse per un punto: non si può abbellire un’istituzio e aberrante come il carcere. L’unica vera alternativa è la sua distruzione. Per quanto ci riguarda continueremo a portare avanti questa linea e a diffonderla il più possibile. In tempi di giustizialismo e di magistrati assurti al rango di eroi riteniamo di estrema importanza diffondere nella gente le idee abolizioniste che stanno alla base del nostro pensiero ed agire politico.
“Il carcere manicomio”, libro scritto da Salvatore Verde, edizioni Sensibili alle foglie (2011), denuncia oggi un problema nel problema: nel testo, infatti, Verde, sociologo e giudice onorario al Tribunale dei minori di Napoli, descrive “un sistema che interna ciò che non riesce a trattare”. “Il carcere manicomio” racconta il rapporto perverso tra malattia mentale e prigione
…nel libro lei sostiene che negli istituti penitenziari si assiste ad una “sommersione chimica della sofferenza psicologica dei detenuti”, arrivando a parlare di “manicomializzazione del carcere”: cosa significa questa espressione?
Oggi 1.500 nostri concittadini sono reclusi negli ospedali psichiatrici giudiziari, e 350 di loro potrebbero già uscirne. Dopo le sentenze della Corte Costituzionale (del 2003 e 2004) che hanno aperto a molteplici possibilità di trattamenti alternativi all’Opg, perché siamo ancora a questo punto?
Nel mio lavoro parto da dichiarazioni pubbliche rese da dirigenti dell’amministrazione penitenziaria: se il dirigente di un ufficio centrale racconta alla stampa che l’80, 90 % dei detenuti di questo Paese assume qualche forma di farmaco di natura psichiatrica, dai più blandi ai più importanti, mi sento legittimato a dire che il livello di gestione del penitenziario ha assunto a pieno le sembianze di un manicomio, dove regnano l’anestetizzazione del disagio e la sommersione farmacologica della sofferenza. La medicina penitenziaria parla di 22mila persone in questo momento sottoposte a protocolli psichiatrici: se stessimo parlando di un territorio libero, un protocollo psichiatrico prevedrebbe il coinvolgimento della comunità, delle relazioni, del mondo dell’affettività della persona, ma se invece si è chiusi in un carcere il tutto si risolve alla somministrazione di farmaci. E stiamo parlando di 22mila persone su 69mila: non sono piccole cifre. Oggi le carceri sempre più di frequente sono portate a rivolgersi alla psichiatria nel governo del disagio e della sofferenza che gestiscono, e questo processo non può che andare sotto il nome di manicomializzazione della pena.
Non credo che possiamo più permetterci di parlare di “ospedali” psichiatrici giudiziari: bisogna fare un’operazione linguistica di verità. Se parliamo di luoghi con le finestre sbarrate, fatti di celle e sezioni chiuse da cancelli e blindati, che hanno per recinto un muro con un camminamento percorso da uomini armati che impediscono l’uscita, parliamo di una prigione. E entrare in un luogo del genere, che ospita persone con una sofferenza mentale, vuol dire entrare in un manicomio criminale. Eppure la maggior parte degli operatori che lavorano in questi posti definiscono le persone chiuse lì dentro come “pazienti”, facendo un’operazione di nascondimento della verità che non possiamo più permetterci. È bene parlare di manicomi criminali se vogliamo almeno restituire verità agli uomini e alle donne chiuse in quelle strutture. Come lei ricordava oggi ci sono 1500 persone chiuse negli Opg, ma probabilmente sono molte di più le persone con sofferenze psichiche rinchiuse nelle carceri “normali”: da qualche tempo non tutti coloro che hanno una sofferenza mentale arrivano fortunatamente nel circuito degli Opg. Dico questo per ribadire che il rapporto tra sofferenza mentale e carcere non si esaurisce, oggi, nella questione Opg.
Ma allora perché gli Opg continuano ad esistere?
Recentemente ho letto una dichiarazione di Beppe dell’Acqua, responsabile del distretto salute mentale di Trieste, che diceva con orgoglio che negli ultimi tre anni nel territorio del suo dipartimento di salute mentale nemmeno una persona è finita nei sei manicomi criminali italiani. Questo significa che in quel territorio ci sono ottimi servizi di salute mentale e delle buone reti aiuto e di sostegno delle persone che sono in difficoltà: è proprio questo processo sociale e istituzionale che funziona. E che si deve far funzionare, non certo ridurre con tagli e chiusure di servizi. Piuttosto che aspettare che ci siano le condizioni politiche per una trasformazione del codice penale in questo Paese (e oggi non ci sono), io credo che in questo momento dobbiamo lavorare sul fronte dei servizi, delle reti di sostegno e di aiuto.
A fronte di un sovraffollamento che rende l’Italia un unicum rispetto agli altri paesi d’Europa, anche per il numero dei morti e dei tentativi di suicidio, quale spazio resta per le misure alternative?
Con una criminalizzazione sociale così potente contenuta nei sistemi normativi che colpiscono i consumatori di sostanze e i migranti, non c’è alcuna possibilità di risolvere in fuoriuscita il problema del sovraffollamento del carcere. Mi spiego: se una persona arriva nel penitenziario è perché ha già subito pesanti processi di marginalizzazione ed espulsione sociale, ed è su questo livello che credo dovremmo lavorare. Le misure alternative hanno un presupposto fondamentale: io devo avere la possibilità di rappresentare al magistrato un percorso di vita alternativo fondato su risorse certe quali lavoro, abitazione e famiglia, e se non ho queste condizioni non accedo alle misure. Io penso che il problema con questi criteri non si possa risolvere: se vogliamo veramente risolvere il dramma del sovraffollamento carcerario dobbiamo agire a monte, evitando che una massa enorme di persone arrivi nel contenitore penitenziario. Non possiamo buttarli nel contenitore e poi studiare soluzioni giuridiche che ci consentano di farli uscire: non funziona. In queste Paese le misure alternative ci sono, esistono dalla riforma del 1975, ma al di là delle troppe limitazioni è anche vero che si tratta di un meccanismo estremamente sensibile agli umori della politica e dell’opinione pubblica, tanto da essere bloccato e frenato ogni volta che c’è un’emergenza criminalità. E allora il problema va risolto prima, o la situazione delle carceri diventerà ancor più drammatica di quanto già non lo sia oggi.