Trent’anni fa la rivolta nel carcere dell’ Elba

C’è una rivolta all’interno del carcere di Porto Azzurro: è la segnalazione che arriva alla compagnia carabinieri di Portoferraio alle 10.30 del 25 agosto 1987. A trent’anni dal fatto ripercorriamo con alcuni protagonisti dell’epoca la vicenda che tenne tutta l’Italia con il fiato sospeso e le telecamere puntate su forte San Giacomo fino al 1 settembre, quando i rivoltosi si arresero. Tutto inizia quella mattina quando il pericoloso terrorista nero Mario Tuti insieme a Mario Ubaldo Rossi, Mario Marrocu, Gaetano Manca , Mario Cappai e Mario Tolu tentano un evasione lampo utilizzando un’auto blindata che viene richiesta all’allora direttore Cosimo Giordano. Il comandante degli agenti di custodia, il maresciallo Munno, si offre volontario per andare a prendere l’auto ma invece di tornare fa scattare l’allarme. Quel 25 agosto del 1987 i cittadini e il sindaco Maurizio Papi furono avvisati che stava accadendo qualcosa dalle sirene del carcere.

I sei detenuti si rendono conto che l’auto non arriverà e spostano la loro manovra nella zona dell’infermeria del carcere che diventa il nuovo luogo di azione. Qui terranno in ostaggio 5 civili, 17 guardie carcerarie e 11 detenuti per otto giorni. Sono passati 30 anni, ma nella mente dei protagonisti ogni attimo di quegli otto giorni è scolpito in modo indelebile. L’Italia intera segue col fiato sospeso le sorti dei sequestrati tra cui il direttore del penitenziario Cosimo Giordano. Quando Papi si trovò a dover affrontare questa grave situazione era al suo primo mandato da sindaco.
Le tv e i quotidiani nazionali raccontano ora dopo ora la vicenda, e le linee seguite per risolvere l’impasse. L’azione di forza, la trattativa, ma anche e soprattutto il partito dell’elicottero – cioè la linea che sostenne fin dall’inizio Maurizio Papi: trattare per salvare le vite degli ostaggi, questa doveva essere la priorità.  La rivolta finì il primo settembre, quando gli ergastolani si arresero consegnando tutti gli ostaggi sani e salvi. Ma negli otto giorni di segregazione la situazione, era drammatica. Soprattutto nei primi momenti. Quando i detenuti tentano l’evasione Tuti ordina a Munno di tornare con l’auto entro cinque minuti, altrimenti avrebbe ucciso il brigadiere Antonio Matta. “Quelli che seguirono – ci racconta Matta – sono stati i 20 minuti più concitati e anche i più pericolosi, in cui poteva succedere di tutto”. Subito dopo però furono catturati altri ostaggi compreso il direttore e Tuti decise si asserragliarsi in infermeria. Antonio Matta era brigadiere responsabile dell’ufficio matricole e non doveva essere vicino ai rivoltosi. “Ho sentito l’allarme – racconta ancora – sono corso a vedere perché dicevano che dentro c’era “baraonda”. Pensavamo alla solita resa dei conti tra clan rivali di mafia leccese e camorra. Al momento che ho aperto la portineria la sentinella sembrava tranquilla e quindi sono andato all’altra portineria”. Una volta dentro però si è trovato la pistola di Tuti puntata addosso. Nell’altra mano il terrorista tiene una scatoletta di sardine che i presenti pensano contenga plastico “Non ti muovere che ti faccio saltare in aria” sono state le sue parole al brigadiere e da lì è cominciata l’avventura”. Anche Matta come le altre guardie carcerarie viene legato alle finestre dove, tutto sommato, preferiva stare “per vedere quello che succedeva fuori e per tenere la situazione sotto controllo”. Li legavano per paura dei tiratori scelti e per impedire un assalto dall’esterno. “Penso che i primi giorni fossero pronti a tutto” ricorda, poi la situazione ha cominciato a stemperarsi. Il brigadiere Matta era benvoluto, agevolava i detenuti con le loro richieste e il rispetto era reciproco “però – considera – mi sono trovato lì”.
Le notizie dal carcere arrivano dagli ostaggi stessi che avevano il permesso di telefonare a colleghi o familiari. La prima voce dall’infermeria è quella del medico del carcere, Sergio Carlotti che dice “Pronto, parlo dall’inferno” . “La paura era tanta – ricorda Matta – sapevamo che lo Stato non avrebbe ceduto. Erano otto anni che non fumavo e il giorno prima di uscire da lì ho ripreso a fumare. Avevamo paura di non farcela e che sarebbe successo di sicuro qualcosa. La speranza però, non mi ha mai abbandonato”. Matta nota qualche calcinaccio caduto ma non dice niente. “Segno secondo me – ricorda oggi – che le teste di cuoio avevano fatto un sopraluogo per vedere come intervenire. Fortunatamente la procura – racconta – ha trattato fino alla fine e il risultato è arrivato”. Il 1 settembre Tuti consegna le armi proprio ad Antonio Matta. “Si sentiva un soldato e quindi ha consegnato le armi al soldato”. Dopo 11 giorni dalla fine della vicenda Matta è tornato al lavoro e il primo impatto non è stato facile. “I detenuti mi chiedevano scusa per quello che era successo”, dice ma i ricordi di quell’esperienza restano. Un’esperienza che nessuno si sarebbe mai spettato di vivere in un carcere come quello di porto Azzurro che negli anni ’80 era una casa di reclusione esemplare aperta con concerti e manifestazioni in cui i civili si trovavano fianco a fianco con i detenuti.

Per vedere il video servizio sulla rivolta di 30 anni fa con le interviste ad alcuni dei protagonisti clicca qui 

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