Visiti un carcere e misuri il grado di civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l’Italia, “a parole”, ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2. Quando la situazione si fa calda, si rimedia velocemente con indulti e decreti svuotacarceri. Il risultato è che il 70% dei condannati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Se la funzione del carcere è quella di restituire alla società un individuo riabilitato, è evidente che qualcosa non va. Eppure, già nel 1975, siamo stati fra i primi ad introdurre le misure alternative al carcere con l’affidamento in prova al servizio sociale. Oggi gli affidati sono circa 12.000, ma è difficile sapere se chi ha evitato il carcere, poi mantenga un comportamento corretto (non spacciare droga, fare il lavoro che gli è stato assegnato…). Questo perché l’assistente sociale, che dovrebbe incontrare l’affidato una volta la settimana, sia a casa che al lavoro, lo vede se va bene 1 volta ogni 2 mesi. Del resto, a Padova, sono in 8 a seguire più di 1000 casi; a Roma in 36 con 3000 casi.
In tutta Europa e negli Stati Uniti, attorno alle misure alternative sono stati organizzati progetti controllati e coordinati. Per esempio a Portland (Usa), i detenuti tengono in vita uno dei parchi urbani più prestigiosi al mondo, quello delle rose, con 600.000 visitatori l’anno. I dati Usa dicono che chi passa da questa “misura” torna a delinquere nel 10% dei casi, rispetto al 25% di chi va in carcere. Poi c’è l’aspetto economico: un detenuto in cella costa 170$ al giorno, ai servizi sociali ne costa 1,43. In Olanda ormai le pene alternative hanno superato quelle detentive, sono in media 40.000 l’anno: vengono mandati a lavorare negli ospedali e nei centri anziani.
Ovunque però il grosso della partita si gioca dentro alle carceri. La nostra legge prevede di occupare i detenuti non pericolosi con i lavori di pubblica utilità su base volontaria a titolo gratuito, ma buona parte dei sindaci nemmeno sa che può farne richiesta per ridipingere i muri dai graffiti o pulire gli argini dei fiumi. È previsto anche l’obbligo per l’amministrazione carceraria di dare un’occupazione al condannato in via definitiva, poiché il lavoro è lo strumento principale per il reinserimento nella società. Il problema è che il detenuto se lavora, per legge, va pagato. Giusto. Solo che i soldi per pagare i 54.000 detenuti non ci sono. Quindi alla fine lavorano in pochi, e a rotazione, e solo l’1% si occupa di manutenzione ordinaria. Intanto 4000 posti nelle carceri sono diventati inagibili e sono in corso appalti per decine di milioni di euro. Se fossero i carcerati a intonacare o riparare i rubinetti, invece di spendere 500 milioni di euro per il piano carceri, spenderemmo meno e lavorerebbero tutti. È sempre una questione di soldi: il sistema penitenziario costa complessivamente 2 miliardi e 800 milioni euro l’anno, che vuol dire circa 4000 euro al mese a detenuto. Si può uscire da questa spirale di inefficienza colpevole guardando anche come fanno gli altri?
Nelle carceri irlandesi praticamente tutti i detenuti fanno qualcosa. Quelli che lavorano a tempo pieno in cucina, in lavanderia e nella manutenzione arrivano a 18 euro la settimana e hanno diritto alla cella singola con doccia in camera e a volte anche col computer. Si chiamano superior deluxe rooms. Ce ne sono 140.
In Austria per ogni ora di lavoro riconoscono dai 7 ai 10 euro, ma il 75% rimane all’amministrazione per le spese di mantenimento. In carcere il detenuto impara a fare il falegname o il panettiere, e spesso succede che, quando ha finito di scontare la pena, viene assunto. Nel carcere americano di Portland lavora il 60% dei detenuti. Lo stipendio viene calcolato, ma l’amministrazione se lo tiene a compensazione del costi di mantenimento e dà al detenuto circa 50 dollari al mese per le piccole spese. Non è obbligatorio lavorare, ma se lo fai, anche qui c’è uno sconto di pena e dei benefits.
Noi, al contrario, tratteniamo dallo stipendio 50 euro per le spese di mantenimento. Così a lavorare sono in pochi, perché i soldi non ci sono. E quei pochi lavorano pure in condizione di disparità. Chi si occupa della mensa per conto dell’amministrazione penitenziaria per esempio prende uno stipendio di 400 euro al mese, se invece lavora per le cooperative prende fino a 1200 euro. Proprio domani scade la convenzione con un decina di cooperative che gestiscono le mense dentro le carceri. Era una sperimentazione, sicuramente conveniente per le coop: la cucina e le derrate le compra il ministero, mentre la coop deve provvedere a pagare lo stipendio a quei 6 0 7 che preparano i pasti. Come vengono scelti quei pochi “fortunati?”. Chi lo sa. Certo è che alle cooperative abbiamo delegato molto in cambio di sgravi fiscali: 16 milioni di euro solo l’anno scorso. Molte fanno attività nobilissime, ma se parliamo di “lavoro”, a parte l’eccellenza di Bollate (che impegna quasi il 50% dei detenuti ), è quasi il nulla. Al femminile di Rebibbia lavorano in 10. Al Regina Coeli invece c’è solo una lavanderia, lavorano in 2, tra i fondatori della coop l’ex brigatista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. A Secondigliano su 1300 detenuti solo una ventina lavorano, fra cui alcuni ergastolani con storie da 41 bis (condannati per mafia, omicidi, traffico di droga). Loro coltivano le zucchine pagati dalla cooperativa di turno, mentre gli altri, quelli che scontano pene meno gravi e certamente usciranno, guardano il soffitto.