Sotto il sole del pomeriggio i primi passi da uomo libero, uomo non più isolato dal mondo, li ha fatti abbracciato al fratello. I giornalisti davanti alla prigione della Louisiana chiamata Angola gli hanno chiesto se avesse piani per il futuro: «Andare a trovare mia madre al cimitero».
La cella
Un futuro a corto raggio, come il recinto del suo passato: per quasi 44 anni Albert Woodfox ha vissuto in una cella di due metri per tre, senza incontrare nessuno a parte il secondino di turno, unica finestra un piccolo televisore. Quando entrò nel «buco», com’è chiamata in gergo la cella del «solitary confinement» («una soluzione abitativa» che tocca a decine di migliaia di detenuti in America), era l’epoca in cui il presidente Nixon andava a Pechino e nei cinema usciva «Il Padrino». Woodfox aveva 26 anni ed era dentro per rapina. Era in quel carcere, ex piantagione di schiavi provenienti dall’attuale Angola, quando con altri due detenuti fu condannato per l’uccisione dell’agente Brent Miller, trovato morto in un dormitorio un giorno di aprile del 1972. Ad accusare i tre — appartenenti al gruppo delle Pantere Nere che preferivano l’autodifesa alla nonviolenza — solo testimonianze di altri prigionieri: raccontarono che Albert teneva la guardia per le spalle, mentre gli altri lo uccidevano.
Isolamento
Ogni 90 giorni, Woodfox ha visto rinnovato l’ordine di isolamento. Un’ora d’aria al giorno, con mani e piedi incatenati. Sono passati i decenni. I testimoni oculari sono morti. Il Procuratore Generale della Louisiana James Caldwell, secondo il quale Woodfox «era l’uomo più pericoloso della Terra», lo scorso autunno ha perso le elezioni e il suo pulpito. Giudici federali, in epoche diverse, avevano già riscritto la storia degli «Angola Three». Cancellando le vecchie sentenze, riconoscendo che Woodfox aveva vissuto nel «buco» per un delitto che probabilmente non aveva commesso. In un groviglio di ricorsi altri giudici, e in particolare le autorità della Louisiana, ne hanno impedito la scarcerazione, a lungo invocata anche da Amnesty International. Fino a questa settimana. Dei «Tre dell’Angola», Albert era l’unico dentro. Un uomo e la sua vita a corto raggio. A 69 anni c’è chi, come Donald Trump, si candida a presidente. E chi esce dal carcere portando nelle ossa il suo record di resistenza.
Compleanno
Nessuno ha mai vissuto così tanto in isolamento. Non è facile, uscire. Ci sono ex detenuti che una volta liberi hanno vissuto mesi in un bagno, perché la casa era così grande da fare paura. Woodfox è uscito il giorno del suo compleanno. A passi corti ha lasciato l’Angola con un sorriso, senza voltarsi, alzando timidamente il pugno della mano destra. Una pantera ingrigita, fiaccata dall’epatite e dall’ipertensione, seduta sul sedile anteriore di una berlina azzurra, con il fratello Michael al volante. Lui che si è sempre proclamato innocente, si preparava a sostenere un terzo processo. Ma alla fine ha accettato un compromesso, un patteggiamento (su imputazioni minori) che permette all’accusa di gridare vittoria e a Woodfox di insistere sulla propria innocenza.
In pubblico
Venerdì sera la prima apparizione pubblica, con il Black Panther Party a New Orleans. Un sopravvissuto sorridente, stranito, silenzioso, vestito di nero. Accanto a Robert King, un altro degli Angola Three, che ha visto annullare la sentenza nel 2001. Era anche lui al cancello, ad aspettare Albert. Il terzo, Herman Wallace, no. È morto nel 2013. Quando il cancro stava per portarselo via, un giudice l’ha fatto uscire di prigione. Poche ore dopo il rilascio, lo Stato della Louisiana ha chiesto un nuovo arresto. Ma lui li ha fregati il giorno dopo, morendo da uomo libero, non più solo.